Aquile e tartarughe, dall’aneddoto sulla morte di Eschilo agli Adagia di Erasmo
Concetta Cataldo
English abstract
Celebre è l’aneddoto sulla morte di Eschilo: la storiella narra di come un’aquila, afferrata una tartaruga, l’avesse poi lasciata cadere in volo sulla testa del malcapitato tragediografo che si godeva il sole siciliano sulla spiaggia di Gela, scambiando la sua lucida calvizie come una roccia su cui sfracellare e aprire la corazza del rettile per mangiarne le carni. La fabula ha una genesi del tutto singolare e, secondo una ricognizione sulle fonti che ho condotto di recente e che è in corso di pubblicazione, potrebbe avere significato assolutamente diverso da quanto riferisce la tradizione (Cataldo 2023).
Ma al di là delle diverse, possibili, letture dell’aneddoto – tra il topos della fine grottesca del sapiente e i significati allegorici e simbolici degli animali protagonisti della storia – in questo contributo mi riprometto di interrogare la verosimiglianza oggettiva del racconto, sulla base di una indagine che intreccia la filologia, l’etologia, la paleornitologia.
La tradizione della fabula
Il racconto della tartaruga e dell’aquila in associazione alla morte di Eschilo è riportato in letteratura per la prima volta da Valerio Massimo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. nella sua raccolta di notizie memorabili Factorum et dictorum rerum memorabilium libri novem:
Aeschyli vero poetae excessus quem ad modum non voluntarius, sic propter novitatem casus referendus. In Sicilia moenibus urbis, in qua morabatur, egressus aprico in loco resedit. Super quem aquila testudinem ferens elusa splendore capitis – erat enim capillis vacuum – perinde atque lapidi eam inlisit, ut fractae carne vesceretur, eoque ictu origo et principium fortioris tragoediae exstinctum est (Val. Max. IX, 12, ext. 2; Kempf 1888, 461; Radt 1985, 65, Test. 96).
Va detto che la morte di Eschilo poeta non fu volontaria, allo stesso modo va raccontata per l’eccezionalità del caso. Mentre era in Sicilia egli uscì dalle mura della città dove abitava e si sedette in un luogo soleggiato. Un’aquila sopra questo portando tra gli artigli una tartaruga, ingannata dal riflesso della testa – infatti era privo di capelli – la sbattè allo stesso modo come se fosse una pietra, per potersi cibare delle carni (della tartaruga) sfracellata: con questo colpo venne ucciso l’origine e il principio della tragedia più vigorosa.
L’aneddoto è ripreso da varie altre fonti successive, in relazione alla biografia del tragediografo. Versioni parziali della fabula ridotte a mere stringhe informative sono anche due voci del lessico Suda αι 357 (II 185 Adler) e χ 191 (IV 797 Adler). Anche l’anonima Vita Aeschyli ai paragrafi 10 e 17 riprende l’episodio.
Ma la notizia di questo comportamento delle aquile è presente anche nella trattatistica di scienze naturali e zoologia. Così si crea un cortocircuito e la storiella entra a far parte delle narrazioni sull’etologia degli uccelli rapaci, arricchendo le considerazioni scientifiche con la preziosità del riferimento erudito. In altre parole, l’assurda storia della morte di Eschilo ‘fa testo’ nell’ambito dell’etologia antica. Plinio, nella classificazione degli uccelli, così riporta l’episodio, identificando con un tipo particolare di uccello l’aquila assassina del poeta e invocando l’autorità delle mitiche sacerdotesse di Delfi Fenomoe e Boeto, entrambe figlie di Apollo e ritenute autrici di varie opere sugli uccelli e su miti di metamorfosi uomo/uccello (Giannarelli 1983, 417):
Tertii morphnos, quam Homerus et percnum vocat, aliqui et plangum et anatariam, secunda magnitudine et vi; huic vita circa lacus. Phemonoe, Apollinis dicta filia, dentes esse ei prodidit, mutae alias carentique lingua, eandem aquilarum nigerrimam, prominentiore cauda; consensit et Boeus. Huius ingenium est et testudines raptas frangere e sublimi iaciendo, quae fors interemit poetam Aeschylum, praedictam fatis, ut ferunt, eius diei ruinam secura caeli fide cauentem (Plin. nat. X, 3; Radt 1985, 65, Test. 97).
La terza specie è costituita dal morfno, che Omero chiama anche percno ed alcuni autori anche plango e anataria, ed è la seconda per grandezza e per forza; vive nelle vicinanze dei laghi. Fenomoe, considerata figlia di Apollo, scrive che ha i denti, è muta e le manca la lingua, è la più nera delle aquile, con la coda molto prominente; era d’accordo con lei anche Boeto. È comportamento istintivo di questo uccello rapire le tartarughe e frantumarle gettandole dall’alto, ed è questo incidente che uccise il poeta Eschilo, il quale cercava di evitare, standosene sicuro all’aria aperta, come si suole narrare, il crollo rovinoso predettogli dai fati per quel giorno (trad. it. di E. Giannarelli).
Nel II secolo d.C., Claudio Eliano, nella sua opera Sulla natura degli animali, così riporta l’episodio nel quadro di varie informazioni sulla tassonomia e il comportamento degli uccelli nel quale prova a individuare sentimenti simili a quelli degli uomini:
Τὰς χερσαίας χελώνας οἱ ἀετοὶ συλλαβόντες εἶτα ἄνωθεν προσήραξαν ταῖς πέτραις, καὶ τὸ χελώνιον συντρίψαντες οὕτως ἐξαιροῦσι τὴν σάρκα καὶ ἐσθίουσι. ταύτῃ τοι καὶ Αἰσχύλον τὸν Ἐλευσίνιον τὸν τῆς τραγῳδίας ποιητὴν τὸν βίον ἀκούω καταστρέψαι. ὁ μὲν Αἰσχύλος ἐπί τινος πέτρας καθῆστο, τὰ εἰθισμένα δήπου φιλοσοφῶν καὶ γράφων· ἄθριξ δὲ ἦν τὴν κεφαλὴν καὶ ψιλός. οἰηθεὶς οὖν ἀετὸς πέτραν εἶναι τὴν κεφαλὴν εἶτα μέντοι κατ’ αὐτῆς ἀφῆκεν ἣν κατεῖχε χελώνην, καὶ ἔτυχε τοῦ προειρημένου τὸ βέλος, καὶ ἀπέκτεινε τὸν ἄνδρα (Ael. NA VII, 16; Radt 1985, 65, Test. 98; García Valdés, Llera Fueyo, Rodríguez-Noriega Guillén 2009, 172).
Le aquile, quindi, afferrando le tartarughe di terra le gettano sulle rocce e dopo averne fracassato il guscio, ne estraggono la parte molle e la mangiano. Così io ho sentito dire che Eschilo di Eleusi autore tragico terminò la sua vita. Eschilo stava seduto su una roccia, come era abituato a fare quando filosofeggiava e scriveva, il suo capo era calvo e glabro. Un’aquila dunque pensando che la sua testa fosse una roccia, lasciò andare su quella la testuggine che aveva preso, il dardo colpì il predetto, e uccise l’uomo.
Aquile e tartarughe negli Adagia di Erasmo da Rotterdam
La fabula valeriana ha una notevole fortuna che attraversa i secoli e arriva fino agli Adagia di Erasmo da Rotterdam. Aquile con comportamenti particolari compaiono in tre degli Adagia – 818, 1877 e 2601 – in cui l’umanista contamina diverse fonti antiche.
Più in generale, nei suoi scritti eruditi e soprattutto nel prezioso elenco dei Proverbi tratti dagli autori dell’antichità, Erasmo offre la possibilità di avere una sintesi di quale fosse il grado di conoscenza degli antichi riguardo l’ethos della “regina degli uccelli” (Ael. NA IX, 2: Τὸν αἰετὸν τὸν τῶν ὀρνίθων βασιλέα; García Valdés, Llera Fueyo, Rodríguez-Noriega Guillén 2009, 208). Ma, come vedremo, le stesse note di Erasmo sui caratteri e le abitudini delle aquile corroborano l’ipotesi che il maestoso uccello sia da escludere dai possibili protagonisti della fabula sulla morte di Eschilo, secondo la versione riportata per primo da Valerio Massimo.
Erasmo, Adagio 818: l’occhio dell’aquila
Per comporre l’Adagio 818 (Lelli 2013, 785) Erasmo utilizza due fonti diverse, una proveniente dalla letteratura latina una dalla letteratura greca:
Aquilam noctuae comparas. Ἀετὸν γλαυκὶ συγκρίνεις, id est “Aquilam noctuae comparas”. Martialis in Scazonte: “Aquilasque similes facere noctuis quaeris”. Aquila visus acerrimi, adeo ut ἀσκαρδαμυκτῶς, id est “non connivens”, adversus solem intueatur. Et sunt qui tradant hanc avem hoc experimento probare degeresne sint pulli an genuini. Contra noctua solis lumen modis omnibus refugit. Pindarus quodam loco graculos cum aquila confert.
Paragoni l’aquila alla nottola. Marziale in uno scazonte: “E cerchi di rendere simili le aquile alle nottole”. L’aquila ha una vista tanto acuta che “senza chiudere gli occhi” guarda fisso contro il sole. E vi sono quelli che tramandano che quest’uccello, con questo esperimento, provi se i suoi pulcini siano degeneri o di stirpe pura. Di contro la nottola rifugge la luce del sole in tutti i modi. Pindaro, in un passo, confronta le cornacchie con l’aquila (trad. it. di E. Lelli).
Il riferimento è al X libro degli Epigrammi in cui Marziale (Mart. epigr. X, 100), per sbeffeggiare un suo poeta rivale a cui era destinata l’invettiva, aveva accostato in un paragone improbabile un’aquila a una nottola – una civetta – e un leone a una volpe, il piede di Lada (un celebre corridore olimpionico: Norcio 2013, 670) a una protesi lignea.
Quid, stulte, nostris versibus tuos misces?
Cum litigante quid tibi, miser, libro?
Quid congregare cum leonibus volpes
aquilisque similes facere noctuas quaeris? Habeas licebit alterum pedem Ladae,
inepte, frustra crure ligneo curres.
Perché, povero pazzo, mescoli i tuoi versi con i miei?
Che cosa hai da fare, o sciagurato, con un libro tanto diverso da te?
Perché cerchi di mettere insieme volpi e leoni
e rendere le civette simili alle aquile?
Tu puoi avere, sì, un piede di Lada;
però non riuscirai a correre, o sciocco, con una gamba di legno. (trad. it. di G. Norcio)
Erasmo utilizza il termine ἀσκαρδαμυκτῶς, un avverbio derivato da un aggettivo che significa letteralmente “che non batte le palpebre, che non strizza gli occhi” (not blinking or winking, LSJ 1996, 257) per sottolineare la vista straordinaria delle aquile, anche se in letteratura il termine, per quanto il suo impiego sia sempre relativo alla sfera semantica della percezione visiva, compare associato piuttosto ad alcuni atteggiamenti umani, tra cui l’essere sfrontati. Aristofane, nei Cavalieri, impiega l’aggettivo nel dialogo tra il salsicciaio Agoracrito e lo schiavo Paflagone con cui quest’ultimo invita l’altro a guardarlo attentamente, senza perdere l’attenzione (Ar. Eq. 292: βλέψον εἴς μ’ ἀσκαρδάμυκτον; “Guardami senza battere ciglio”; Wilson 2007, 81). L’anonimo scoliasta ai Cavalieri ritiene di grande interesse questo aggettivo, e aggiunge diverse spiegazioni al suo significato (Scholia in Aristophanis Equites 292a-292c): “strizzare gli occhi”, “sbattere le palpebre”, ma anche “alzare lo sguardo”. In Eutecnio, un autore che tra il III e il V secolo parafrasa i Cinegetica di Oppiano, il termine ἀσκαρδαμυκτῶς è utilizzato per descrivere un momento della caccia al leone (Garzya 1957, 156-160). In Eustazio di Tessalonica (XII secolo), un vescovo bizantino autore dei Commentari di Omero, al commento del v. 373 del libro IX dell’Iliade, il lemma ἀσκαρδαμυκτῶς è associato all’idea della sfrontatezza, così come al v. 145 del libro XIV dell’Odissea (Eust. Commentarii ad Homeri Iliadem, ΡΑΨΩΙΔΙΑ Ι, vs. 370-378; van der Valk 1976, 732, vol. 2, lin. 17, 756 Rom.; Eust. Commentarii ad Homeri Odysseam, ΡΑΨΩΙΔΙΑ Ξ, vs. 141-153; Stallbaum 1976, 66, vol. 2, lin. 10, 536 Rom.). Riferito ancora al “guardare intensamente” questo aggettivo è riportato nella Vita di San Nicola di Bari composta tra il VII e l’XI secolo (Vitae et miracula Nicolai Myrensis. Miracula tria, XV, 9).
Il lemma ἀσκαρδαμυκτῶς nel vocabolario antico non è quasi mai utilizzato, quindi, per descrivere la vista infallibile delle aquile e in genere dei rapaci.
La scelta di Erasmo di utilizzare il passo di Marziale corrisponde quindi all’intenzione di corroborare la teoria sulla straordinaria abilità visiva delle aquile contrapponendole ai gufi – le nottole – che preferiscono cacciare di notte. Ma a una lettura attenta notiamo che Marziale nel suo epigramma non stabilisce alcun confronto tra la vista dell’aquila e quella della nottola, ma piuttosto misura il difetto di maestosità della seconda rispetto alla prima. La fonte greca richiamata nello stesso Adagio è Pindaro, di cui si ricorda il passo in cui l’aquila è contrapposta alle cornacchie:
ἔστι δ’αἰετὸς ὠκὺς ἐν ποτανοῖς,
ὃς ἔλαβεν αἶψα, τηλόθε μεταμαιόμενος,
δαφοινὸν ἄγραν ποσίν·
κραγέται δὲ κολοιοὶ ταπεινὰ νέμονται (Pi. N. 3, 80-83; Bowra 1935, 124).
Ma l’aquila è veloce tra gli alati,
e quella afferra subito da lontano, colei che sta inseguendo,
la rossa preda con gli artigli:
le cornacchie che abitano in basso invece gridano.
Elemento di grande interesse in questa pericope pindarica è la descrizione delle fasi di caccia delle aquile: dotate di artigli possenti si lanciano in picchiata, afferrando le prede a elevata velocità. L’avverbio τηλόθε sottolinea la grande capacità visiva del volatile, che punta sulla sua preda avendola già avvistata “da lontano”.
Nello stesso Adagio 818 che stiamo esaminando l’espressione erasmiana “aquila visus acerrimi” potrebbe dipendere in qualche modo dal passo aristotelico della Historia animalium in cui si narra dell’occhio portentoso dell’aquila (Arist. HA IX, 34, 620a; Lanza, Vegetti 2018, 816):
Ἡ δὲ φήνη ἐπάργεμός τ’ ἐστὶ καὶ πεπήρωται τοὺς ὀφθαλμούς· ὁ δ’ἁλιάετος ὀξυωπέστατος μέν ἐστι, καὶ τὰ τέκνα ἀναγκάζει ἔτι ψιλὰ ὄντα πρὸς τὸν ἥλιον βλέπειν, καὶ τὸν μὴ βουλόμενον κόπτει καὶ στρέφει, καὶ ὁποτέρου ἂν ἔμπροσθεν οἱ ὀφθαλμοὶ δακρύσωσιν, τοῦτον ἀποκτείνει, τὸν δ’ ἕτερον ἐκτρέφει.
La fene [tipo di rapace, come si vedrà oltre. NdA] è affetta da albugine, e ha una menomazione agli occhi; l’aquila invece ha una vista molto acuta: costringe i figli, quando ancora sono implumi, a fissare il sole, becca e gira quello che si rifiuta; quindi, uccide quello che per primo ha le lacrime agli occhi, e alleva l’altro (trad. it. di D. Lanza).
La relazione pare confermata dal fatto che sia il passo aristotelico che quello di Erasmo fanno riferimento all’educazione dei pulcini, costretti dalla madre aquila a una sorta di ordalia – per Erasmo una “prova di purezza della stirpe” – per conquistarsi il diritto alla vita. L’informazione sull’abilità visiva dell’aquila è anche in Plinio sebbene in una ulteriore variante (Plin. nat. X, 3: “clarissima oculorum acie”) riferimento specifico per la specie di aquila detta haliaetos, “aquila di mare” e ancora nello stesso libro, Plinio utilizza l’aquila come termine di paragone per i cinque sensi umani, i quali con giusta osservazione, sono superati di gran lunga da quelli animali (Plin. nat. X, 88: “Aquilae clarius cernunt”):
Haliaetus tantum inplumes etiamnum pullos suos percutiens subinde cogit aduersos intueri solis radios et, si coniuentem umectantemque animaduertit, praecipitat e nido uelut adulterinum atque degenerem; illum cuius acies firma contra stetit, educat (Plin. nat. X, 3).
Solo l’aliaeto, quando i suoi piccoli sono ancora implumi, battendoli spesso, li costringe a fissare i raggi del sole e, se si accorge che uno di essi tiene gli occhi chiusi o li ha bagnati di lacrime, lo getta giù dal nido come bastardo degenere. Alleva invece quello la cui vista è rimasta salda (trad. it. di E. Giannarelli 1983, 418-419).
Aristotele potrebbe essere in parte la fonte comune anche di Claudio Eliano che nel IX libro del De natura animalium così riporta:
[...] καὶ οἱ ἀετοὶ βασανίζοντες καὶ ἐκεῖνοι τὰ γνήσια τῇ ἀκτῖνι τοῦ ἡλίου κρίσει φιλεῖν τὰ ἔκγονα καὶ οὐ πάθει.
[...] (E sembra che) le aquile mettano alla prova la legittimità di quelli esponendoli ai raggi del sole e li amano secondo il risultato dell’esperienza e non dal sentimento (Ael. NA IX, 3; García Valdés, Llera Fueyo, Rodríguez-Noriega Guillén 2009, 209).
Adagio 2601: l’aquila, il serpente; lo stile predatorio e l’intelligenza dell’aquila
L’Adagio 2601 Scarabeus aquilam quaerit è sicuramente tra i brani più lunghi della raccolta: attraverso un discorso metaforico incentrato sulle figure dell’aquila e dello scarabeo, Erasmo descrive i mali della monarchia e della tirannide. Nello sviluppo del testo, del quale si riportano soltanto le parti che qui interessano, l’umanista olandese fornisce dettagli eccezionali riguardanti il mondo delle aquile, alcuni con picchi di vivace fantasia e altri per cui è difficile rintracciare le fonti letterarie da cui attinge:
[...] Quaedam aves natura placidae sunt ac mites, tum quae ferae sunt, tamen arte cutuque cicurantur ac mansuescunt. Sola aquila nec est habilis ad ullam disciplinam ne cullo studio potest mansuescere. Tantum impetu naturae praeceps fertur, et quicquid valde libuit, idem postulat sibi licere. Libetne spectare pullum animo vere aquilino? Graphice depinxit Horatius: “Qualem ministrum fulminis alitem / olim iuventas et patrius vigor / nido laborum propulit inscium / vernique iam nimbis remotis / insolitos docuere nisus / venti paventem, mox in ovilia / demisit hostem vividus impetus, / nunc in reluctantes dracones / egit amor dapis atque pugnae” [...] (Lelli 2013, 1950-1987).
[...] Certi uccelli sono placidi e miti di natura, e quelli che sono selvatici vengono addomesticati e diventano mansueti con gli artifici e l’esercizio. Solamente l’aquila è inadatta a qualsiasi disciplina e non può in alcun modo diventare mansueta: a tal punto è trascinata dall’impeto naturale; e ogni volta che qualcosa davvero le piace, pretende che le sia consentito. Vogliamo osservare un pulcino dall’animo veramente aquilino? Orazio lo ha efficacemente descritto: “Come il ministro alato del fulmine / la giovinezza e il vigore congenito / un tempo, quand’era ignaro di fatiche, spinsero fuor del nido, / e i venti primaverili – allontanatesi le nubi – / insegnarono insoliti sforzi a lui timoroso, / e sugli ovili il vivido impeto lo fece scendere nemico, / e poi contro gli ostili serpenti / lo spinse il desiderio di cibo e di battaglia” [...] (trad. it. E. Lelli).
Per descrivere l’animo fiero e selvaggio delle aquile e la tipologia di caccia che esse sono solite attuare, Erasmo si affida a una citazione oraziana (Hor. carm. IV, 4, 1-2; 5-12; Shackleton Bailey 208, 115) dalla quale espunge i due versi riferiti al ratto di Ganimede ad opera dell’aquila ipostasi animale di Zeus. Orazio descrive due delle prede principali della dieta delle aquile, i serpenti e le pecore. Il serpente è sicuramente tra le preferite dalle aquile e in particolar modo della specie Biancone (Circaëtus gallicus) detto “aquila dei Serpenti”, un rapace appartenente alla famiglia degli Accipitridi, specializzato nella caccia di rettili lunghi anche due metri. Che gli antichi siano stati affascinati da questa speciale tipologia di aquila è facilmente comprensibile per la particolare tecnica predatoria dell’uccello dal becco e dagli artigli blu ardesia: una danza con la quale ipnotizza e immobilizza il serpente – danza che continua con grande destrezza anche in volo, per non lasciare modo al serpente di liberarsi dalla presa degli artigli (Brazil 2009, 126; Jobling 2010, 108).
La lotta tra l’aquila e il serpente è un vero e proprio topos letterario e ne troviamo traccia in diversi autori antichi (Giannarelli 1983, 423) e che è presente già nel mito accadico di Etana (circa 2350-2150 a. C.; Buccellati 2020, 37-49). Omero nell’Iliade così racconta:
ὄρνις γάρ σφιν ἐπῆλθε περησέμεναι μεμαῶσιν
αἰετὸς ὑψιπέτης ἐπ’ ἀριστερὰ λαὸν ἐέργων
φοινήεντα δράκοντα φέρων ὀνύχεσσι πέλωρον
ζωὸν ἔτ’ ἀσπαίροντα, καὶ οὔ πω λήθετο χάρμης,
κόψε γὰρ αὐτὸν ἔχοντα κατὰ στῆθος παρὰ δειρὴν
ἰδνωθεὶς ὀπίσω· ὃ δ’ ἀπὸ ἕθεν ἧκε χαμᾶζε
ἀλγήσας ὀδύνῃσι, μέσῳ δ’ ἐνὶ κάββαλ’ ὁμίλῳ,
αὐτὸς δὲ κλάγξας πέτετο πνοιῇς ἀνέμοιο (Hom. Il. XII, 200-207).
Mentre erano impazienti di passare ebbero un auspicio:
un’aquila alta in volo tagliava a sinistra l’esercito
portando tra gli artigli un mostruoso serpente rosso,
ancora vivo e guizzante, che non mollava la lotta;
piegandosi indietro, colpì l’uccello che lo teneva,
sul petto vicino al collo, e l’aquila lo scagliò via,
straziata dalle sofferenze, lo gettò tra la folla
e volò gridando tra i soffi del vento (trad. it. di G. Paduano 2007, 373).
E, poco oltre, a proposito della consuetudine dell’aquila di nutrire i propri pulcini dopo aver predato un serpente:
[...] αἰετὸς ὑψιπέτης ἐπ’ ἀριστερὰ λαὸν ἐέργων
φοινήεντα δράκοντα φέρων ὀνύχεσσι πέλωρον
ζωόν· ἄφαρ δ’ ἀφέηκε πάρος φίλα οἰκί’ ἱκέσθαι,
οὐδ’ ἐτέλεσσε φέρων δόμεναι τεκέεσσιν ἑοῖσιν (Hom. Il. XII, 219-222).
[...] l’aquila alta in volo che tagliava a sinistra l’esercito,
portando tra gli artigli un enorme serpente rosso,
vivo, ma l’ha lasciato prima di giungere al nido,
non è riuscita a portarlo e darlo ai suoi figli (trad. it. di G. Paduano 2007, 373).
L’immagine della battaglia tra aquila e serpente è presente anche in Virgilio, dove il rapace però è probabilmente un’aquila reale (Aquila chrysaetos) il cui piumaggio è di un caratteristico colore fulvo, come attesta lo stesso nome scientifico (chrysaetos, “aquila dorata”):
Utque volans alte raptum cum fulva draconem
fert aquila implicuitque pedes atque unguibus haesit,
saucius at serpens sinuosa volumina versat
arrectisque horret squamis et sibilat ore
arduus insurgens, illa haud minus urget obunco
luctantem rostro, simul aethera verberat alis [...] (Verg. Aen. XI, 751-756).
Come un’aquila fulva volando in cielo stringe negli artigli un serpente
che snoda le sue spire sinuose e si difende
alzando il capo, ergendo le squame, sibilando
(ma ogni sforzo fallisce, poiché il rapace strazia
col becco adunco il rettile che si dimena invano
e intanto batte l’aria con le ali maestose [...] (trad. it. di C. Vivaldi 2012, 603).
Anche Cicerone utilizza lo stesso topos in occasione del racconto di un infausto presagio relativo a Mario:
Hic Iovis altisoni subito pinnata satelles
arboris e trunco, serpentis saucia morsu,
subrigit ipsa, feris transfigens unguibus anguem
semianimum et varia graviter cervice micantem.
Quem se intorquentem lanians rostroque cruentans
iam satiata animos, iam duros ulta dolores
abicit ecflantem et laceratum adfligit in unda
seque obitu a solis nitidos convertit ad ortus (Cic. div. I, 106, vv. 1-11; Giomini 1975, 61).
Allora repentinamente l’alata servitrice di Giove altitonante lo solleva a sua volta dal tronco dell’albero, ferita dal morso del serpente, trapassando con i fieri artigli la serpe morente e scintillante con il collo dai vari colori. E lo sbrana e lo fa a pezzi col becco mentre si attorciglia; ormai saziati gli animi, ormai vendicati gli aspri dolori (lo) getta via ancora in vita e lo sbatte fra le onde ridotto a brandelli mentre si ritira dal lato in cui i bagliori del sole muoiono al lato dove nasce.
L’aquila in volo con serpente è anche un motivo iconografico molto utilizzato su diverse classi di materiali antichi, dalla ceramica alle monete, all’arte musiva fino alla decorazione architettonica: di probabile derivazione mesopotamica con valore psicopompo (Buccellati 2020, 43) nel mondo greco-romano acquista un fortissimo valore simbolico in quanto entrambi gli animali sono associati alla forza e al potere di Zeus (Ferrari 2018, 65 e 637); in epoca cristiana, invece, la lotta fra l’aquila e il serpente assume il noto significato della lotta del bene contro il male.
Ritornando all’Adagio 2601 (Lelli 2013, 1950-1987) Erasmo prosegue:
[...] Deinde cum sex opinor aquilarum genera commemorentur, tamen illud inter omnes convenit, quod rostro sunt vehementer adunco nec minus aduncis unguibus, ut vel ex ipso corporis habitu possis intelligere carnivoram esse avem, quietis ac pacis inimicam, pugnis, rapinis ac praedationibus natam. Et quasi parum sit carnivoras esse, sunt et quae ossifragae dicantur et sint [...].
[...] Quindi, sebbene vengano ricordati – credo – sei generi di aquile, tuttavia hanno in comune il fatto di avere il becco fortemente adunco e le unghie non meno adunche, dimodoché fin dall’aspetto fisico si possa capire che è un uccello carnivoro, nemico della quiete e della pace, nato per combattere, rapinare e depredare. E, quasi fosse poco essere carnivore, alcune sono anche dette “rompitrici di ossa” – ed effettivamente lo sono [...] (trad. it. di E. Lelli).
La classificazione delle aquile in sei specie secondo le diverse caratteristiche fisiche, di piumaggio e comportamentali e di cui si serve Erasmo sono di derivazione aristotelica (Arist. HA IX, 32, 618b-619a). Plinio riprende in toto la classificazione da Aristotele cambiando però l’ordine di presentazione e facendo confusione nella descrizione di alcune delle specie. Ciò ha fatto propendere alcuni studiosi per l’ipotesi che la fonte pliniana non sia direttamente Aristotele ma che vada ricercato un testo mediatore (Capponi 1979, 81). Le sei aquile pliniane sono il melanaetos/μελανάετος o aquila delle lepri, il pygargus, il morphnos (anche detta percnus/περκνός o anataria/νηττοφόνος), percnopterus/περκνόπτερος o oriperlagus/ὀρειπέλαργος, gnesios/γνήσιος e haliaetus/ἁλιάετος (Plin. nat. X, 3-9). Molte delle descrizioni attribuite da Aristotele e Plinio risultano del tutto inverosimili e non corrispondono alle specie di aquile che conosciamo, per quanto per alcune di esse siano state proposte identificazioni con le specie esistenti. Filippo Capponi ha tentato alcuni di questi riconoscimenti: così il melanaetos corrisponderebbe all’Aquila pomarina (Capponi 1979, 321); il pygargus è identificato con il maschio giovane di Aquila chrysaetus (Aquila reale) o di Aquila nobilis (Capponi 1979, 436); il morphnos potrebbe corrispondere all’Aquila clanga Pallas ma è anche possibile che caratteristiche di altri aquilidi siano stati sommati in un unico volatile o, viceversa, che un solo nome sia stato dato a più tipi di aquile (Capponi 1979, 343). Il morphnos che Aristotele dice πλάγγος è sinonimo della voce omerica μόρφνος (Hom. Il. XXIV, 314). Il percnopterus e l’oriperlagus hanno le caratteristiche tassonomiche del Neophron percnopterus, la cicogna di montagna e sono ritenuti sinonimi (Capponi 1979, 368 e 395); anche lo gnesios è probabilmente l’Aquila reale (Capponi 1979, 274), mentre l’haliaetus è identificato con il Pandion haliaetus, il falco pescatore (Capponi 1979, 289).
Ma proseguiamo con quanto Erasmo dice dell’aquila nell’Adagio 2601:
[...] Neque quemvis impetit, sed eum dumtaxat, quo se credat viribus esse superiorem. Neque se repente praecipitem dat in terram more ceterarum, cum praedam appetit, sed sensim demittit, ne impetu illisa offendatur. Ne leporem quidem, nam hunc maxime petit, aggreditur, nisi viderit in plana descendisse. Neque quovis grassatur tempore, ne quis opprimat fatigatam; sed “a prandio ad meridianum” ad praedandum provolat, reliquis horis otiosa sedet, “donec hominum conventu fora compleantur”. Tum quod occiderit, non inibi statim devorat, ne quis subitus hostium incursus incautam deprehendat in praeda, sed exploratis prius ac subinde refectis viribus praedam in nidum velut in castra devehit. Nam quibus artibus cervum se praestantiorem capiat, mox dicetur (Lelli 2013, 1950-1987).
[...] E non attacca chiunque, ma solo chi crede meno forte di lei. Né, quando desidera una preda, si lancia a terra a capofitto, come fanno gli altri uccelli, ma scende a poco a poco, perché l’impatto non le faccia male. Non assale neppure la lepre (a questa infatti dà la caccia, di preferenza) se non ha visto che è scesa in pianura. Né aggredisce in qualsiasi momento, per evitare che qualcuno abbia la meglio su di lei, approfittando della sua stanchezza; ma spicca il volo per predare dall’ora di colazione fino al meriggio, e rimane in ozio per il resto del tempo, finché i mercati non si riempiono di gente. E poi non divora immediatamente e sul posto chi ha ucciso, perché non la sorprenda un’improvvisa incursione dei nemici mentre è incautamente sulla preda; ma – sperimentate prima le forze e subito ristabilite – trasporta la preda al proprio nido come ad un accampamento. Certo, tra poco si dirà con quali arti essa catturi il cervo, che le è superiore (trad. it. di E. Lelli).
In questa pericope Erasmo si concentra nel descrivere alcune caratteristiche delle aquile che a una prima lettura possono sembrare frutto di fantasia ma che invece rivelano una spiccata capacità di osservazione degli antichi. Sull’abitudine predatoria dell’aquila che caccia la sua preda non lanciandosi a capofitto su di essa come fanno altri rapaci, Erasmo riferisce di questo accostamento alla vittima che avviene da lontano, “a poco a poco” e a bassa velocità. Questa affermazione di Erasmo è in contraddizione con la testimonianza pindarica richiamata nell’Adagio 818 che nella terza Nemea fotografa poeticamente il rapace che, fulmineo, si getta sulla preda (Pi. N. 3, 80-83). Ma la scienza ornitologica conferma le osservazioni erasmiane; è stato infatti osservato che:
La capacità di volo degli uccelli viene meno oltre i 20 kg di peso corporeo, e i grandi uccelli sarebbero fortemente impediti dalla formazione di depositi di grasso esorbitanti. Così alcune specie, quali le cicogne, i pellicani, le aquile, sono praticamente obbligate al volo planato, che assorbe solo il 15-30% dell’energia richiesta dal volo remato (Berthold 2015, 303).
Altri studi scientifici descrivono il preciso momento in cui l’aquila, per afferrare la sua preda, diversamente dagli astori e dagli sparvieri, non piomba verticalmente su di essa, ma, diminuendo progressivamente la velocità del volo già da distanza notevole, non appena si trova in prossimità della vittima, in posizione perpendicolare al suolo, la ghermisce a grande velocità abbassando le zampe con uno scatto. La preda è uccisa di colpo con l’unghia del dito posteriore e poi sollevata in aria per essere divorata in un altro luogo rispetto a quello dell’uccisione (Arrigoni degli Oddi 1929, 403-404; Martorelli 1960, 429; Capponi 1979, 80).
Erasmo riferisce anche di una particolare propensione delle aquile a cacciare in un momento specifico della giornata “dall’ora di colazione fino al meriggio”. La notizia si ritrova già in Aristotele:
Ὥρα δὲ τοῦ ἐργάζεσθαι ἀετῷ καὶ πέτεσθαι ἀπ’ ἀρίστου μέχρι δείλης· τὸ γὰρ ἕωθεν κάθηται μέχρι ἀγορᾶς πληθυούσης (Arist. HA IX, 34, 610a; Lanza, Vegetti 2018, 812).
Il momento in cui l’aquila si mette all’opera è tra l’ora di pranzo e il pomeriggio avanzato, poiché riposa dall’alba fino a quando la piazza si riempie (trad. it. di D. Lanza).
E in Plinio:
A meridiano autem tempore operantur et volant; prioribus horis diei, donec impleantur hominum conventu fora, ignavae sedent. (Plin. nat. X, 5).
Solo da mezzogiorno in poi sono attive e volano; nelle prime ore della giornata, finché i mercati non si riempiono di gente, stanno pigramente appollaiate (trad. it. di E. Giannarelli 1983, 421).
L’osservazione sul comportamento del volatile è confermata anche dagli studi di ornitologia contemporanea. Così Capponi:
Secondo le nostre esperienze su individui delle Alpi occidentali italiane (Cuneo), l’Aquila caccia di mattino sino a mezzogiorno; se la preda è stata abbondante, il Rapace sosta in riposo per digerire; quindi va ad abbeverarsi e a pulirsi. Nelle ore pomeridiane, spazia negli ampi e liberi cieli alla ricerca di nuove vittime; verso il crepuscolo, si ritira in luoghi sicuri per il riposo notturno (Capponi 1979, 79).
Erasmo cita quasi testualmente il testo pliniano invertendo l’ordine delle parole e utilizzando il verbo impleri piuttosto che compleri. Resta comunque stravagante l’indicazione di entrambi gli autori antichi che associano il momento in cui l’aquila entra in attività con l’ora in cui i mercati sono più affollati.
Nella parte centrale dell’Adagio 2601 (Lelli 2013, 1950-1987) Erasmo racconta l’aneddoto della morte di Eschilo con un’accezione allegorica del tutto particolare, che mira a provare la perversa intelligenza delle aquile:
Illud in primis memorandum ingenii documentum: testudinem raptam ex alto speculata locum idoneum in saxum aliquod demittit, ut ad eum modum rupta testa carne vesci possit. Quamquam in Aeschylo parum aquilinis fuit oculis, cum in huius albicantem calvariam, saxum esse rata, demissa testudine miserum occideret, ut vel ob hanc unam causam optimo iure poetis omnibus conveniat invisam esse. Atque id quidem nunc assidue veluti suo iure facit. Ceterum primitus testudinem dolis ad id pellexit, dum persuade tilli futurum, uti sua opera volandi artem perdisceret. Atque hac spe sublatam in altum deiecit in saxum, ut illius calamitatem tyrannico more verteret in suas delicias.
Ma in primo luogo va ricordata quella celebre prova di ingegno: avendo osservato dall’alto un luogo idoneo, lascia cadere su di una roccia la tartaruga che ha ghermito, al fine di potersi cibare della carne dopo aver rotto il guscio in questo modo. Eppure con Eschilo ebbe una vista poco aquilina, poiché uccise il poveretto avendo lasciato cadere la tartaruga sulla sua biancheggiante testa pelata, pensando che fosse una roccia, sicché a buon diritto, per quest’unico motivo, è giusto che essa sia invisa a tutti i poeti. E adesso lo fa sempre, come fosse un suo diritto; tuttavia, la prima volta attirò la tartaruga con le lusinghe, convincendola che avrebbe imparato l’arte del volo grazie a lei; ma, avendola portata in alto con questa speranza, la gettò su di una roccia, al fine di trarre piacere dalla rovina di quella, come usano fare i tiranni (trad. it. di E. Lelli).
Erasmo riassume la storiella – non senza una nota di lieve ironia nei confronti dell’aquila “dalla vista poco aquilina” e del tragediografo “poveretto” – creando un parallelismo tra il comportamento del rapace e quello del tiranno. Entrambi sono presi dal desiderio irrefrenabile di predare ciò che vogliono per saziare la propria voracità e non si fermano di fronte a nulla (perdono anche la “vista aquilina”) pur di procacciarsi quanto bramato.
A margine sarà il caso di stigmatizzare che l’associazione aquila/tiranno motivata dalla brama inconsulta di saziare un desiderio irrefrenabile, per quanto riguarda il carattere e il comportamento delle aquile, è etologicamente del tutto infondata: per quanto possano sembrare animali estremamente voraci, le aquile cacciano solo ed esclusivamente per necessità (Capponi 1979, 80). Gli studiosi riferiscono di come in situazioni di bisogno l’aquila non disdegni le carogne, ma che sia invece molto raro registrare attività di accumulo di più prede in previsione di momenti di penuria di cibo, comportamento osservato invece in altre specie animali, dal ragno, all’orso, allo scoiattolo.
Tornando al racconto della morte eschilea, rispetto alle fonti da cui probabilmente ha tratto la versione della fabula, Erasmo introduce alcuni elementi nuovi che ribaltano completamente il senso dell’aneddoto: il primo è un richiamo all’odio che tutti i poeti avrebbero nei confronti delle aquile a causa della morte di Eschilo; il secondo è l’introduzione dell’idea della ‘prima volta’ in cui l’aquila blandì, e poi ghermì, la tartaruga; il terzo è l’inserimento della lettura allegorica e politica.
Il tema dell’aquila “invisam omnibus poetibus” è probabilmente un autoschediasmo di invenzione erasmiana. È possibile che Erasmo abbia interpretato e sviluppato le ultime parole della stessa fabula di Valerio Massimo, che chiude il suo racconto con una sorta di sentenza “eoque ictu origo et principium fortioris tragoediae exstinctum est“. A causa del comportamento dell’aquila è morto il poeta che aveva dato origine al genere tragico e che lo aveva portato al più alto livello di eccellenza: sulla scorta di questa sentenza l’umanista evince l’avversione di tutti poeti contro le aquile in quanto assassine del miglior poeta tragico. Da rimarcare che la condanna erasmiana che bandirebbe le aquile dal bestiario poetico antico è del tutto inventata: già nel 1895 D’Arcy W. Thompson, professore di storia naturale presso l’Università di Saint Andrews in Scozia, nel volume A Glossary of Greek birds, riportava ben 17 varianti al consueto termine ἀετός con cui i poeti greci hanno descritto il volatile (Thompson 1895, 1-10) – e nella stragrande maggioranza dei casi, la presenza dell’aquila nel repertorio lessicale e simbolico della poesia antica non ha certo una valenza negativa.
Proseguendo nella lettura dell’Adagio 2601, Erasmo aggiunge una nota eziologica – ironica quanto la precedente sulla vista “non aquilina” dell’aquila – a proposito della consuetudine di questi rapaci di lanciare tartarughe per romperne il duro carapace. Secondo Erasmo, alle origini di questo comportamento sarebbe stato proprio l’incidente occorso a Eschilo: soltanto da quel momento in poi l’aquila avrebbe rivendicato il suo costume come un diritto consuetudinario (veluti suo iure).
Da notare inoltre che, all’interno dell’episodio della micidiale caduta della tartaruga sulla testa di Eschilo, Erasmo riprende un tema esopico: introducendo un elemento assolutamente nuovo rispetto alle sue possibili fonti – Aristotele, Plinio e Claudio Eliano.
Nell’Adagio 2601, infatti, Erasmo opera una commistione tra le due varianti conosciute dalla fabula 259 di Esopo:
χελώνη θεασαμένη ἀετὸν πετόμενον ἐπεθύμησε καὶ αὐτὴ πέτεσθαι. προσελθοῦσα δὲ τοῦτον παρεκάλει ἐφ’ ᾧ βούλεται μισθῷ διδάξαι αὐτήν. τοῦ δὲ λέγοντος ἀδύνατον εἶναι καὶ ἔτι αὐτῆς ἐπικειμένης καὶ ἀξιούσης, ἄρας αὐτὴν καὶ μετέωρος ἀρθεὶς ἀφῆκεν ἐπί τινος πέτρας, ὅθεν κατενεχθεῖσα διερράγη [καὶ ἀπέθανεν]. ὅτι πολλοὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν φιλονεικίαις τῶν φρονιμωτέρων παρακούσαντες ἑαυτοὺς καταβλάπτουσιν (Aesop. fab. 259; Hausrath, Hunger 1959, 78-80).
Una tartaruga vedendo un’aquila volare desiderò volare pure lei. Essendosi avvicinata la invitava a insegnarglielo dandole la ricompensa che voleva. Dal momento che quella (l’aquila) le diceva che era impossibile e poiché quell’altra (la tartaruga) insisteva e si riteneva degna, (l’aquila) dopo averla afferrata e sollevata in alto la scagliò su una pietra, donde (la tartaruga) caduta si sfracellò e morì. (Il racconto dimostra) che molti degli uomini nelle contese non dando retta ai più saggi danneggiano loro stessi.
Nella favola di Esopo era la tartaruga che chiedeva all’aquila di alzarsi in volo con lei per imparare a volare, mentre l’aquila saggia cercava in un primo momento di dissuaderla dall’impresa impossibile; solo a seguito delle insensate insistenze della tartaruga l’aquila decide di assecondare il suo desiderio, ma poi la lascia andare, sfracellandola a terra per insegnarle insieme a rispettare i limiti della propria natura e a seguire i consigli dei più saggi. Erasmo invece nel cucire la storia esopica con l’aneddoto eschileo, sposta l’iniziativa sul rapace che avrebbe attirato l’attenzione della testuggine con la falsa promessa del volo per poi scaraventarla sulla roccia. L’operato malvagio dell’aquila è accentuato nel testo dell’Adagio mediante il ricorso alla assimilazione del volatile con il tiranno che trarrebbero entrambi piacere dalla rovina dei propri nemici.
Adagio 1877: Eschilo, l’aquila e la tartaruga
L’aneddoto dell’aquila, la tartaruga e la morte di Eschilo ricompare anche nell’Adagio 1877 (Lelli 2013, 1536-1537), nel quale Erasmo opera una sintesi delle fonti appena discusse:
Nunc contingat servari! Νῦν γένοιτο σωθῆναι, id est “Nunc contingat servari”. Cum significamus nos satis cauturos in posterum, si modo liceat praesens periculum effugere. Hoc modo Davus in Andria: “Posthac incolumen sat scio fore me, nunc si devito hoc malum”. Natum aiunt ex apologo quopiam. Aquila testudinem unguibus rapuerat; eam parabat e sublimi deiicere, quo testa rupta carnibus vesci posset. In hoc itaque discrimine testudo optabat, ut in praesens incolumis esse posset, de reliquo sibi curae futurum, ne quando in simile periculum incideret. Νῦν γένοιτο σωθῆναι, τοῦ δέ λοιποῦ αὑτῇ μελήσει, id est “Nunc liceat incolumem esse, de reliquo mihi ipsi curae fuerit”. Quidam apologum narrant ad hunc modum: Testudini quondam incessisse volandi desiderium, aquilam orasse, ut se doceret. Cumque illa negasset fieri posse, quod natura refragaretur, illa nihilominus instabat. Itaque paruit aquila ac testudinem in sublime vectam demisit, ut volatum experiretur. Ea cum timeret infelicem eventum, optavit, ut id temporis contingeret incolumem esse: Νῦν σωθείην. Ita Diogenianus. Suidas hoc modo refert: Νῦν σωθείην, ἵν’ ᾖ μοι δίδαγμα τοῦτο τοῦ λοιτοῦ χρόνου, id est “Utinam nunc incolumis evadam, ut hoc mihi documentum sit in reliquum tempus”. Plinius facit tertium quoddam aquilae genus, quam alii “morphnon”, nonnulli “plancum et anatariam, Homerus percnon vocavit; lingua caret” eoque “muta”, sed dentibus armata, “nigerrima, prominentiore cauda”. Huic “ingenium est testudines raptas frangere e sublimi iaciendo”. Atque hac sorte ait Aeschylum poetam interiisse, cum praedictum esset eum ruina periturum isque, quo caveret, eum diem sub dio perseverasset. Nam “aquila” decepta “splendore capitis” calvicio renidentis ad solem, dum saxum esse putat, “testudinem illisit, ut fractae carnibus vesceretur”. Autor Valerius Maximus, libro nono, capite duodecimo.
Che io mi salvi ora! Diciamo così quando vogliamo sostenere che prenderemo per il futuro le dovute precauzioni solamente se riusciamo a scampare ora il pericolo presente. In questo modo si esprime Davo nella Ragazza di Andro: “So bene che in futuro dovrò mantenermi vivo, se riesco a salvarmi da questo male”. Dicono che l’adagio derivi da una qualche favola. Un’aquila aveva catturato una tartaruga con gli artigli e si preparava a gettarla da una grande altezza cosicché, rotto il guscio, potesse cibarsi della carne. Così la tartaruga in quel momento critico pregava di uscire incolume dal male presente promettendo che per il futuro si sarebbe preoccupata di non imbattersi in un simile pericolo: “che io mi salvi ora, per l’avvenire farò più attenzione”. Altri raccontano la favola in questo modo: un tempo una tartaruga ebbe desiderio di volare e chiese ad un’aquila di insegnarglielo. Pur avendo l’uccello rifiutato poiché ciò andava contro le leggi della natura, la tartaruga insisteva. E così l’aquila l’accontentò e portò l’animale in quota cosicché provasse a volare. La tartaruga quindi, paventando un tragico epilogo, pregò di aver salva la vita in quel momento. Questo riporta Diogeniano. Nella Suida si legge così: “che io abbia salva la vita cosicché questo mi serva da lezione per il futuro”. Plinio parla di un terzo genere di aquile che alcuni chiamano morphnos, altri plancus e anataria mentre Omero lo definisce perno. Questo genere è privo della lingua e quindi “muto” ma è dotato di denti, “più nero delle altre aquile e con una coda molto grande. Hanno la capacità di rompere le testuggini catturate gettandole dall’alto”. In questo modo si dice che fosse morto il poeta Eschilo. Dal momento che un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto a causa di qualcosa che cadeva dall’alto, passava tutta la giornata all’aria aperta per evitare che ciò accadesse. Allora un’aquila, ingannata “dalla lucentezza della sua testa” calva che brillava al sole, credendola una roccia, “vi fece cadere una testuggine per romperne il guscio e cibarsene”. Lo riporta Valerio Massimo nel capitolo dodicesimo del nono libro (trad. it. di E. Lelli).
Alle notizie tratte da Valerio Massimo e Plinio, Erasmo aggiunge la tradizione paremiografica di Diogeniano e lessicografica della Suda (Suda ν 610 Adler) dalla quale probabilmente ricava anche la notizia riguardo la preghiera della tartaruga (sul punto rimando a Cataldo 2023). I commentatori di Erasmo ritengono che l’umanista attingesse le notizie e la tradizione proverbiale dalle fonti originali ma soltanto per tradizione indiretta (Lelli 2013, XXVI).
Alla caccia della “vera” aquila ossifraga
Valerio Massimo, Plinio e Claudio Eliano (e poi Erasmo), che accreditano e rilanciano la storiella della morte di Eschilo commettono una ‘svista’ ornitologica. L’uccello che sfracella le tartarughe per mangiarne la carne, infatti, non è l’aquila ma il gipeto.
Il Gypaetus barbatus grandis, denominato anticamente φήνη, fene, è un avvoltoio necrofago che si nutre principalmente di carcasse e ossa che frantuma gettandole dall’alto su rocce affioranti per estrarne il midollo (Jobling 2010, 67). Filippo Capponi ha studiato l’effettiva difficoltà degli antichi nel distinguere le diverse tipologie degli Aquilidi, secondo cui il Gypaetus era considerato un’aquila vera e propria (Capponi 1979, 85). Se dunque fosse ammissibile la storia secondo la quale un rapace avesse lasciato cadere una tartaruga sulla testa di Eschilo sarebbe stato un Lammergeier (Avvoltoio degli agnelli, altro nome del Gypaetus barbatus grandis). Questa ipotesi, estremamente plausibile, era già stata avanzata da Thompson in uno dei primi studi che affrontano seriamente il lessico ornitologico presso i Greci (Thompson 1895, 3).
Tuttavia, l’idea che, sostituendo l’aquila con il gipeto, la storia della morte di Eschilo possa avere una qualche verosimiglianza è, comunque, insostenibile data l’ambientazione del mortifero evento sulla spiaggia di Gela. Così scrive Capponi:
L’ambiente zoogeografico descritto da Aristotele e da Plinio ci impedisce di accettare l’identificazione proposta dal Thompson: il Gypaetus barbatus grandis abita le alte montagne e non i luoghi vicini alle acque (Capponi 1979, 85).
Nota per altro già lo stesso Capponi che Aristotele non fa cenno alla storia della morte di Eschilo e che in Plinio l’aneddoto sulla morte del drammaturgo è compreso nella sezione relativa alla descrizione morphnos (Plin. nat. X, 3, che Aristotele chiama πλάγγος: Arist. HA., 618b 23-25).
Plinio, dunque, indica l’aquila morphnos come la responsabile della caduta accidentale della tartaruga sulla testa di Eschilo (Plin. nat. X, 3): sarebbe quello il rapace che ha l’istinto e l’abitudine di ghermire le tartarughe per poi gettarle dall’alto. Ma come abbiamo visto il dato riferito da Plinio avrebbe più senso se fosse riferito a un gipeto piuttosto che a un’aquila (Minà Palumbo, 1853, 9; Iapichino, Massa 1989, 49). Tanto più che lo stesso Plinio in un altro passo fa riferimento all’ “aquila barbata”, ovvero al gipeto, che i Tusci chiamano “ossifraga”:
Quidam adiciunt genus aquilae quam barbatam vocant, Tusci vero ossifragam (Plin. nat. X, 3).
La denominazione di “barbata” deriva dal caratteristico piumaggio che circonda la testa del volatile, che lo fa apparire come dotato di barba.
Da notare altresì che in generale gli antichi conoscevano il Gypaetus come una specie a sé stante rispetto all’aquila, di cui raccontavano in modo più o meno fantasioso le abitudini, non solo “ossifraghe”: diverse fonti riportano la particolare cura dell’uccello verso i suoi pulcini, un estremo senso materno che lo induceva ad allevare anche i piccoli delle aquile cacciati via dal nido. La notizia si ritrova in diversi autori, tra cui lo stesso Plinio (nat. X, 13), che accostano la fene ad esempi di amore filiale (Telemaco in Hom. Od. III, 372 e XVI, 217; Arist. HA 592b 5 e 619b 23).
In natura si conoscono altri rapaci che sono soliti predare animali, pesci o piccoli rettili, in zone marine, paludose o lacustri tra cui l’Haliaetus pliniano (Plin. na. X, 9), l’aquila di mare (Capponi 1979, 89) e che avrebbero potuto scagliare le proprie prede sugli scogli ma non corrispondono alla descrizione dell’aquila dell’aneddoto, che – ripetiamo una volta di più – Plinio sottolinea essere il morphnos (anche detta percnus/περκνός o anataria/νηττοφόνος) e che Aristotele in modo corretto aveva riferito al ‘suo’ Haliaetus.
Le aquile non mangiano carne di tartaruga
Sulla possibilità che le aquile si nutrano di tartarughe Claudio Eliano riferisce un aneddoto tanto curioso quanto inverosimile, a proposito dei rituali di accoppiamento delle tartarughe:
καὶ ὁ μὲν ἐξέπλησε τὴν ἐπιθυμίαν κᾆτα ἀπηλλάγη, ἣ δὲ ἑαυτὴν ἐπιστρέψαι ἡκίστη ἐστὶ τῷ τε ὄγκῳ τοῦ χελωνίου καὶ ἐρεισθεῖσα εἰς τὴν γῆν. δεῖπνον οὖν ἕτοιμον ὑπὸ τοῦ γαμέτου καταλέλειπται τοῖς τε ἄλλοις ζῴοις καὶ οὖν καὶ τοῖς ἀετοῖς (Ael. NA XV, 19).
E quando lui ha soddisfatto il suo desiderio se ne va, lei non riesce a voltarsi a causa del peso del suo guscio e del fatto che è schiacciata al suolo. Allora il suo consorte la abbandona perché diventi un banchetto preparato per gli altri animali e, soprattutto, per le aquile.
La descrizione di Claudio Eliano della tartaruga maschio egoista e spietata che abbandona la partner dopo l’accoppiamento in preda ad altri animali si configura come una notazione biologicamente, prima che etologicamente, irrazionale e insensata. Ma sull’immagine della tartaruga ribaltata sottosopra che può diventare facile preda per un altro animale, “soprattutto per le aquile”, pesa certamente la forza icastica dell’aneddoto sulla morte di Eschilo: la fortunata storiella provoca un cortocircuito e fa da innesco a una (falsa) osservazione scientifica. Infatti, l’inserimento delle tartarughe nella comune dieta delle aquile nel tempo è diventata quasi una asserzione comprovata da rilevazioni scientifiche, cosa alquanto non vera o almeno infrequente: anzi, alcuni studi riferibili al consumo umano di carne di tartaruga, svolti in occasione della morte di circa novanta persone, ha dimostrato la presenza di una tossina letale nelle testuggini (la chelonitossina), la quale è risultata mortale anche per gli animali (Silas, Fernando 1984, 62-75; si rimanda sull’argomento anche a Cataldo 2023).
Né un’aquila né una tartaruga
In conclusione: l’aneddoto della morte favolosa di Eschilo già nella sua prima versione valeriana mostrava una patina esopica per l’utilizzo degli stessi animali della celebre fabula 259, da cui in qualche modo e in parte deriva, ma è Erasmo, che ampliando la narrazione, inserisce elementi tratti dalla favolistica e dalla tradizione paremiografica inframmezzati da notizie derivanti da Aristotele, Plinio e Claudio Eliano. Inoltre, Erasmo riprende e amplifica la profezia di qualcosa che cade dall’alto e che avrebbe ucciso il tragico: la notizia non è riportata da Valerio Massimo, che pure è il primo testimone dell’aneddoto. Probabilmente Plinio, Claudio Eliano e l’anonimo compilatore della Vita Aeschyli (10) seguivano altre fonti oltre a queste e da cui ha attinto anche Erasmo: per tutte l’inserimento della chiusa sull’oracolo è un elemento fondamentale per dare un senso e una spiegazione all’avvenimento tanto inconsueto quanto straordinario. Ma se si esclude la possibilità che sia stata un’aquila a lasciare cadere una testuggine, preda di cui peraltro non è solita cibarsi, è lecito domandarsi cosa sia potuto effettivamente accadere per dare compimento alla profezia su cui insistono ben tre fonti su quattro (sull’argomento v. Cataldo 2023).
Eschilo scriveva tragedie e ben sapeva che le profezie, purtroppo, si avverano tutte e si avverano sempre – anche se quasi tutte, quasi sempre, si avverano in modo inaspettato. Con tutta probabilità Eschilo è veramente morto per qualcosa che gli è caduto in testa dall’alto: ma lo ἀετος aveva alzato in alto la χελώνη presumibilmente non era un’aquila; e la χελώνη che si sarebbe sfracellata sul suo cranio non era una tartaruga.
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English abstract
The death of Aeschylus according to the version by Valerius Maximus occurred because of a tortoise smashed to the ground by an eagle, mistaking the poet’s head for a rock. The story has a quite unique genesis and a long tradition, received by Erasmus of Rotterdam, who contaminates it with elements traceable to various ancient authors. Erasmus’ Adagia lead to trace the humanists’ knowledge of even the most erudite ancient sources, focusing on certain ethological characteristics of eagles well known since ancient times, such as exceptional eyesight and predatory ability. In the text by Valerius Maximus these skills seem almost to have been forgotten in favour of a story with impressive features, but they re-emerge in trace in the Adagia by Erasmus.
keywords | Eagle; Tortoise; Aeschylus; Erasmus’ Adagia.
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Cataldo, Aquile e tartarughe, dall’aneddoto sulla morte di Eschilo agli Adagia di Erasmo, “La Rivista di Engramma” n. 197, dicembre 2022, pp. 105-132 | PDF