"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

La festa della più-vita

Su una poesia di Dylan Thomas

Enrico Palma

English abstract

J.M.W. Turner, Norham Castle: Sunrise, 1845 ca., olio su tela (90,8x121,9 cm), Londra, Tate Britain.

I compleanni sono da sempre delle ricorrenze ambigue. Ma non si tratta di avvenimenti meramente estrinseci, come i meccanismi rotativi di un orologio che allo scoccare del mezzogiorno fanno intonare un suono celebrante il completamento del giro delle lancette. C’è intorno a essi un’aura particolare, quasi sacrale: il giorno dell’anno in cui si fa memoria del dì natale, che assume il doppio significato del ricordo e del completamento. È un giorno di festa in relazione al primo giorno in assoluto della nostra vita, quello, alla lettera, della prima luce; e lo è, in aggiunta, poiché rispetto allo stesso giorno, ma dell’anno precedente, si è completato un altro anno di vita, augurandosi che un altro anno ancora possa ultimarsi e poi riprendere da capo. Festa quindi di memoria della prima luce, festa di completamento del moto di rivoluzione della vita intorno al sole di quel primo giorno originario.

E tuttavia, ciò assodato, nel giorno della massima festa, il giorno in cui il mondo, con una formula lévinasiana, sembra essere il mondo-per-noi (Lévinas [1961] 2021, 138), afferra un senso di ineluttabile tristezza. La luce di ogni festa produce sempre un’ombra di malinconia sulle cose, le quali proprio grazie alla malinconia sperano di essere ricondotte nuovamente alla luce: per la caducità della vita, che scopre di sé di essere un niente nel giorno in cui non può tendere a nulla di più alto e che medita quindi sulla sua stessa vitalità, sulla sua stessa essenza; per la resistenza inestirpabile dell’ombra che ogni luminosità porta con sé; ma soprattutto per l’approssimarsi della morte, laddove ogni compleanno in più come completamento dell’anno precedente significa l’inesorabile vecchiaia e la diminutio di tutti i compleanni possibili.

Per addentrarci nell’essenza di questa festa così particolare e allo stesso tempo così comune, scelgo di dare la parola, provando a commentarla, a un grande poeta, che a mio avviso ha individuato benissimo il punto di frattura di questa contraddizione. Ci rivolgiamo quindi a Dylan Thomas e al suo Poem on his birthday (Thomas 2016, 222-229), un canto assai anomalo ma eccezionale per suggestione e contenuto, che il poeta gallese nella grandezza del suo estro dedica a se stesso, alla luce e all’ombra di un giorno che dovrebbe essere di puro gaudio. Proveremo quindi con una breve lettura in chiave ermeneutica a raccogliere la voce di questo testo e ad approfondire la festa di cui ci siamo posti la spiegazione.

La poesia di Thomas è spesso difficile da leggere e respingente per via della varietà dei simboli, che all’interno della sua opera creano sottili rimandi. In ogni caso, sono la profonda allusività e la grande forza evocativa che i testi possiedono a consentire al lettore di tracciare in ogni sua poesia un percorso personale di interpretazione (per quello che probabilmente è da considerarsi come il migliore studio biocritico su Thomas rimando a Ferris [1977] 2008). Le metafore, le metonimie e le sinestesie sono di una brillantezza unica, accompagnano il lettore in ogni verso creando un ambiente mentale assolutamente inedito, che oscilla tra l’estrema calma e la più vigorosa delle energie cosmiche. Sono un piccolo e un grande cosmo, infatti, che il poeta restituisce in questo componimento, assai lungo per numero di versi ma filosoficamente intensificato nei punti che cercherò di individuare.

La poesia è divisa in 12 strofe da 9 versi ciascuna, in cui l’allitterazione e la musicalità toccano vertici di cui la lingua inglese fatica a trovare eguali. È direttamente la voce del poet a prendere la parola, che presenta il luogo in cui si trova e descrive se stesso e la circostanza del suo essere. Siamo in pieno giorno, nell’ora quindi della massima luce (In the mustardseed sun), in cui la vita è nella massima velocità del suo flusso, come fiume, e ripiega su di sé nella riflessione, come mare (By full tilt river and switchback sea). Il poeta è nella sua casa, una casa-vita che è sospesa a una certa altezza dalla superficie della terra, volendo significare con ciò che già molti anni di vita sono passati. E questo giorno, il giorno in cui il poeta ci introduce, della luce, della gran vita e dell’altezza da terra, è un sandgrain day in the bent bay’s grave, un giorno tra i tanti nell’immensa spiaggia fatta di innumerevoli altri granelli-giorni e che rappresenta l’arco ritorto dell’esistenza che inizia con la nascita e termina con la morte. È infatti una spiaggia curva, indiscutibile metafora della parabola esistenziale che tocca in sorte a ciascuno di vivere e che culmina nella tomba. Il cosmo è come la spiaggia in cui Thomas ambienta il suo compleanno, la sua riflessione sulla vita e sul suo destino: un luogo che accoglie la vita ma che, alla fine, attirerà tutti a sé quando la morte sarà sopraggiunta. Su questo sfondo, egli celebra e sprezza (He celebrates and spurns) gli anni che in questo preciso giorno giungono al numero di trentacinque (His driftwood thirtyfifth wind turned age), come se fosse un bilancio esistenziale, il festeggiamento di un traguardo di vita e allo stesso tempo un suo deciso rigetto. Iniziamo quindi a cogliere quell’ambivalenza di cui dicevamo, l’oscillazione del metronomo dell’esistenza che accetta la vita nel suo durare e al contempo la repelle, l’essere arrivati a quell’età fatidica ma tremendamente insoddisfatti per il modo in cui vi si è giunti.

Quando un poeta parla dei suoi trentacinque anni, l’interpretazione complessiva del suo componimento non può che volgersi verso una direzione ben precisa. Come sarà chiaro successivamente, infatti, la poesia è facilmente interpretabile sotto un’ovvia luce dantesca, che fa propendere certamente le scelte sui sensi da assegnare al testo in un modo fortemente connotato. Altrettanto facilmente, un altro percorso ermeneutico avrebbe potuto strutturarsi come una possibile riscrittura del celeberrimo primo canto della Commedia. È tuttavia la condizione del poeta a interessarci, del rhymer, che è chiuso nella sua long tongued room, a rintoccare le campane dei suoi anni e a rintuzzare i dolori delle ferite che questo rintoccare comporta. Siamo allora nel côté della memoria, quello in cui, in occasione della ricorrenza specifica, ci si ricorda dei compleanni passati, e forse degli anni che a loro fanno capo, dei dolori che il presente della festa, oltre che rievocare, potrebbe invece sanare. Possiamo benissimo immaginare il poeta in questa biblioteca mobile, ma non nel senso del cambiamento spaziale, ma come luogo parlante in cui si è raccolto il sapere di una vita, laddove la bocca si fa stanza in cui abitare e che parla da sé, come se fosse il mestiere di poeta preso nella sua totalità a comunicarsi e a esprimersi nel giorno del suo trentacinquesimo compleanno, dalla profondità di tutta la sua vita vissuta fin lì.

Il poeta è investito dall’azione complessa e variegata degli aironi, che altro non sono che una metafora per gli anni, suggerita in modo abbastanza chiaro dalla facile assonanza tra herons e years. Gli anni, come gli aironi, alti e aguzzi trafiggono il poeta (spire and spear), lo benedicono (bless) e gli ricordano la morte, il passato in cui essi giacciono e camminano nel ricordo avvolti da sudari (Herons walk in their shroud). Ciò sta a dimostrare la volubilità della vita, i cambiamenti che vi occorrono, la sinusoide vertiginosa tra pienezza e pena che costituisce l’esistenza nel suo indice segreto.

È allora all’attacco della terza strofa che si incontra la facies melanconica del giorno del compleanno, e forse anche della vita. Con un’immagine di estrema fragilità, quella dei pappi dei cardi in caduta scossi dal vento, lo stesso vento turbinoso in cui gli anni sono adesso rimestati dall’energia della festa, il poeta, con un verso bellissimo, canta verso l’angoscia, attraverso di essa e per essa (He sings towards anguish). Si tratta di una dinamica molto interessante. Cantare verso l’angoscia, poetare verso di essa, può voler dire dirigersi verso la sua stessa essenza, cioè verso l’angosciante come motivo generativo dell’angoscia. Un ragionamento simile tocca molto da vicino la celebre concettualizzazione dell’angoscia fatta da Heidegger in Sein und Zeit (Heidegger [1927] 2012, 264-273; [1929] 1987, 67), e prima di lui da Kierkegaard. L’angoscia è il misurarsi con il niente dell’esistenza, con la possibilità del suo nulla e con il suo essere-alla-fine nella morte. Nella percezione del suo svanire effigiata dai pappi dispersi dal vento, il poeta sente la sua morte, e canta allora, nel giorno in cui la vita festeggia se stessa nella gioia del suo essere-presente ed essere-qui, il sentimento della sua fine e la circostanza cronologica e temporale in cui si perviene a un punto decisivo, potremmo dire a un giro di boa, dantescamente il mezzo della nostra vita che almeno in questa poesia viene rifigurato come una zona di mezzo tra il ricordo e l’oblio, la gioia e il dolore, la vita e la morte, o più segnatamente, come vedremo, tra la tenebra e la luce. La metafora dantesca prelude in realtà, com’è ampiamente noto, a una rappresentazione della vita peccaminosa che anticipa una decisione, un cambio di passo, uno smarrimento esistenziale a cui il viaggio delle tre cantiche nei regni dell’aldilà fungerà da rischiaramento e da percorso di purificazione.

La strofa successiva descrive un paesaggio creaturale difficilmente decifrabile, fatto di esseri alati e marini tra i più vari, in cui il poeta, che come ci ricorda Benjamin è “il più differenziato tra gli esseri viventi” (Benjamin [1928] 1973, 3), si fa strada verso il quid assolutamente univoco che può dissolvere la sua angoscia, svelargli il senso del suo essere-qui, nel giorno in cui le domande sull’essere rintoccano come quelle dei suoi anni trascorsi. In un ossimorico silenzio d’onda, battono i rintocchi di un white angelus, figura di un sé intermedio tra la terra e l’altrove, di un sé trasfigurato o di un ideale di purificazione in cui il poeta in questo giorno è nelle condizioni di poter sperare. I rintocchi degli anni cantano ora su una particolare manifestazione della vita, quella amorosa, in cui proprio gli amori crollati – o naufragati, dato il tema acquoso sollevato dai versi precedenti – risuonano sulle ferite risanate (On skull and scar where his loves lie wrecked). E il loro cammino è guidato ancora da oggetti in caduta, le falling stars che in questo caso divengono segni patenti di felicità distrutte. Questo angelus piange se stesso e il futuro, in attesa che arrivi il momento in cui ogni legame si spezza e potrà librarsi libero da ogni costrizione in the unknown, famous light di Dio, of great and fabulous, dear God.

È esattamente nella strofa di mezzo che giungiamo al crocevia del poem. Se la lettura dan-tesca poteva essere premiante e pregnante da un punto di vista ermeneutico, quella cioè del viaggio di purificazione o anche soltanto di un percorso rivolto alla purezza in quanto tale, i versi successivi fanno propendere decisamente verso questa opzione. Canta Thomas:

Dark is a way and light is a place,
Heaven that never was
Nor will be ever is always true,
And, in that brambled void,
Plenty as blackberries in the woods
The dead grow for His joy.

La tenebra, le cui catene il pesante martello di fiamma (quasi a richiamare le armi angeliche del racconto biblico) avrebbe dovuto spezzare e che l’amore avrebbe dovuto diradare nella luce, fa il suo ingresso proprio in quanto via, viaggio, percorso, strada. La tenebra è la via, nella cui metà, ricordandoci ancora di Dante, il poeta si trova nel giorno in cui l’età che vi corrisponde viene raggiunta, il giorno del suo trentacinquesimo compleanno. La tenebra, intensificandone il significato, è quindi la vita stessa. La via e la vita sono l’oscurità: sono anche e soprattutto il dolore dei rintocchi degli anni nelle suture delle ossa spezzate e nelle cicatrici delle carni dilacerate dalle sofferenze degli orizzonti di senso, d’amicizia e d’amore crollati rovinosamente come stelle cadenti, il cui ultimo orgoglio essi ripongono nel loro estremo sfavillare prima della fine. La tenebra è la vita e noi siamo immersi in essa come in un movimento inconsapevole verso una meta.

Se la tenebra, insistendo, è la vita, deve esserci qualcosa che possa sconfiggerla, qualcosa grazie a cui il nostro furore è sensato: la luce. La luce non è la vita, né il ricordo: essa brilla nell’attimo di festa nel compleanno in cui con la voce del poeta ci si rende consapevoli di tutto questo, come un’anticipazione in cui il verso in esame poteva mostrarsi e fondarsi in tutto il suo significato smagliante. La luce è un luogo, ed è il luogo a cui la vita tende: sapere questo libera dall’angoscia e, soprattutto, dalla tenebra. Colgo in questo verso un potentissimo anelito al Principio come Fine del Tutto, un anelito che è anche gnostico come aspirazione totale alla luce e a ciò che può trasformarci. Il mondo è questa tenebra che ogni tanto, per il bene che vi accade e che si riverbera nei nostri riguardi, diciamo, come Thomas aveva scritto nel verso conclusivo della seconda strofa, essere benedetta. Ma la vita è questa tenebra radicale, che, stavolta in un’ottica cristiana, è necessario percorrere per giungere finalmente alla luce. Il luogo della luce è questo Cielo senza tempo e fuori dal tempo, più esattamente una dimensione totalmente estranea al divenire, che qui è uno dei nomi della tenebra. È always true, eternamente vero poiché eternamente essente e in cui l’essenza stessa ha dimora come origine: la regione in cui, con una tautologia tutt’altro che ridondante, la luce è luce.

E nel vuoto roveto della vita disseccato dalla morte, i dead, in attesa del Giudizio, crescono per la gioia finale di Dio, della luce. Nella vita che medita sulla sua stessa morte, nel giorno in cui invece la vita dovrebbe soltanto magnificare se stessa e ignorare la morte, il poeta fonda la parola per un contatto con la luce, per una vera visione, che con Plotino, e prima di lui Platone, è il congiungersi della luce interiore con quella esteriore. È la luce di Dio e che è Dio in Paradiso XXXIII: “Oh abbondate grazia ond’io presunsi / ficcar lo viso per la luce etterna, / tanto che la veduta vi consunsi! / Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna” (vv. 81-87).

Il poeta trasformato, assaporata quella luce dopo la via della tenebra che è la vita, può passeggiare nudo (There he might wander bare) in mezzo ai morti della baia curva, che rappresentano sia i giorni del passato adesso redenti nella luce sia gli amori crollati sulla spiaggia delle stelle cadenti. Lì il poeta può passeggiare anche con Dio, con il Suo Spirito e con ogni anima salvata nella chiarità. Sembrerebbe proprio l’immagine più distinta della salvezza, del percorso che l’anima deve attraversare, soprattutto di chi non si accontenta e canta il suo stare doloroso al mondo e il desiderio del luogo della luce da raggiungere alla fine. Questa è la visione, questo è ciò che dobbiamo percorrere, questo è il luogo a cui arriveremo. Come parafrasa Hadot, ciò può riassumersi nella concezione plotiniana della luce appena citata, per la quale “la visione è luce e la luce è visione” (Hadot [1997] 1999, 92).

Eppure il poeta, dantescamente, è a metà della sua vita: deve affrontare ancora tanto vagare e tanto patire prima che il luogo che la luce è possa ospitarlo e lui essere con il divino nel divino. Difatti Thomas afferma, con un but in cui risiede tutta l’essenza contrastiva della vita nei confronti della dimensione ulteriore della luce, che dark is a long way. La tenebra, ovvero la vita, è un lungo percorso. Fatica e sgomento attendono chi si fa carico di questo sapere circa l’esistenza e l’essere, e si assume tutto il peso dell’oscurità in cammino verso il principio della luce. Il poeta prega con tutti i viventi (With all the living, prays), ma il suo pregare è di tutt’altro genere: è proprio il canto che Thomas ci consegna, consapevole che verrà un giorno in cui i morti, la terra e il mondo verranno ricapitolati, e lo fa con immagini superbe (le ossa delle colline espulse dal vento, le pietre falciate che sanguineranno, le acque della vita di fiumi e mari che solleveranno i viventi nuovamente alle stelle).

Ma al poeta, seguendo in questo la concezione metafisica del mondo di Benjamin su lutto, tristezza e malinconia (Benjamin [1916] 1962), deve potersi lamentare, levare alta la sua parola alla Ragione del Tutto a partire dalla sua stessa esistenza, nel giorno in cui la festa della sua metà vita si sta compiendo (Oh, let me midlife mourn). Lasciate quindi che egli elevi il suo canto e interceda per la natura così bizzarra e vitale che Thomas compone nella musica dei suoi versi, raccogliendo gli aironi dei suoi anni dal reliquiario del suo passato. Lasciate che egli si lamenti per la vita che ancora gli resta, per la tenebra che gli tocca ancora attraversare (The voyage to ruin I must run).

Ma in tutto questo, nella benedizione che la vita è e concede, riporta a gran voce le sue grazie (Count my blessings aloud). In un verso strepitoso, Thomas riassume cos’è la sua vita, e insieme alla sua in generale anche la vita umana. La sua benedizione è essere Four elements and five / Senses, and a man a spirit in love / Tangling thorugh this spun slime / To his nimbus bell cool kingdom come. In altri termini, l’essere dell’uomo è spiegato da Thomas nei termini della fisicità che lo costituisce e della percezione con cui egli è in grado di coglierla; in più è un uomo di spirito amoroso, uno spirito che riconosce se stesso nell’amore, per ciò che può provare verso i suoi simili nei vari gradi dell’affetto in cui il sentimento amoroso a sua volta si diversifica, ma costretto nella forma che gli appartiene e nella materia del mondo, assimilata a melma, dalla quale il percorso di distacco è comunque in corso verso il regno a venire della luce.

La liberazione gnostica si evince da this last blessing most, dall’ultima benedizione la più gradita di tutte, ultima in ordine sia cronologico che di importanza: la grazia della morte. Infatti più il poeta si avvicina alla morte, e qui sta il nostro punto, più il mondo va in festa. Voglio dire che è come se il cosmo si rendesse più brillante, danzante, esultante, gaudente al sapere che la voce che lo sta cantando con parola che comprende, nel giorno del raggiungimento della metà della vita, capisca che quella vita che in versi sta a lui inneggiando presto sarà riassorbita.

Quella descritta da Thomas è la festa della materia come “festa del cosmo” (Biuso 2020, 153), la festa che non ha tempo poiché il suo durare si misura nell’eternità indistruttibile:

I hear the bouncing hills
Grow larked and greener at berry brown
Fall and the dew larks sing
Taller this thunderclap spring, and low
More spanned with angels ride
The man souled fiery islands! Oh,
Holier then their eyes,
And my shining men no more alone
As I sail out to die.

Nella festa del mezzo di nostra vita, il viaggio verso la luce è un viaggio verso la morte in direzione contraria alle tenebre, la festa più splendente: capire la luce verso dove andiamo e rendere questa vita presente una festa vindice dell’angoscia e gioiosa della morte, quando la nostra forma si spezzerà e regnerà solo la luce. Il compleanno è il giorno della più-vita come esistenza che trascende sé stessa nel gaudio dell’universo.

Riferimenti bibliografici
  • Benjamin [1916] 1962
    W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo [Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in Medienästhetisce Schriften, Frankfurt a. M. 2002] trad. it. di R. Solmi, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino 1962.
  • Benjamin [1928] 1973
    W. Benjamin, Conversazione con André Gide [Gespräch mit André Gide, in Schriften II, Frankfurt a. M. 1955], in Avanguardia e rivoluzione, tr. it. di A. Marietti, Torino 1973.
  • Biuso 2020
    A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Firenze 2020.
  • Ferris [1977] 2008
    P. Ferris, Dylan Thomas. Essere un poeta e vivere di astuzia e birra [Dylan Thomas. The biography, London 1977], tr. it. di M. Pratesi, Parma 2008.
  • Hadot [1997] 1999
    P. Hadot, Plotino o la semplicità dello sguardo [Plotin ou la simplicité du regard, Paris 1997], tr. it. di M. Guerra, Torino 1999.
  • Heidegger [1927] 2012
    M. Heidegger, Essere e tempo [Sein und Zeit, Halle 1927], tr. it. di A. Marini, Milano 2012.
  • Heidegger [1929] 1987
    M. Heidegger, Che cos’è metafisica [Was ist Metaphysisk, Frankfurt a. M. 1967], in Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano 1987.
  • Lévinas [1961] 2021
    E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità [Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 1961], tr. it. di A. Dell’Asta, Milano 2021.
  • Thomas 2016
    D. Thomas, Poesie, tr. it. di A. Marianni, Torino 2016.
English abstract

This essay tries to analyze the Poem on his birthday of the welsh poet and writer Dylan Thomas, from a hermeneutic and philosophical point of view. The proposal is that in this poem Thomas traces a sort of path, at the end of which it is possible to obtain redemption and salvation. In his birthday, the thiryfifth (a clear reference to Dante), the poet, between darkness, anguish and sadness of life, gives words to a particular sentiment and way of existence, that culminates in a trascendence of human condition returned to the universe.

keywords | Dylan Thomas; Birthday; Light; Metaphysics; Salvation, Universe.

Per citare questo articolo / To cite this article: E.Palma, La festa della più-vita, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 133-140 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0000