"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Quando l’artista si fa la festa da solo

Sul Doppio ritratto di Marcel Duchamp e altri autoritratti da morto, con la testa tagliata

Silvia De Laude

English abstract

A Salvatore Settis

Giochi di epigrafi (con una premessa, sulla curiosità)

La curiosità è sia un dono che una maledizione, perché poi ci governa.
(Paolo Zanotti, KH)

La prima epigrafe che ho scelto viene dall’ultimo libro incompiuto di uno scrittore scomparso prematuramente nel 2012 (Zanotti 2017, 148), che Salvatore Settis deve aver conosciuto, perché abbiamo frequentato la Scuola Normale di Pisa negli stessi anni. Le parole di Paolo Zanotti mi sono tornate in mente leggendo l’esergo al primo capitolo di Incursioni (Settis 2020, 3), che ha lo stesso titolo del libro e se ne può considerare un’introduzione:

“Dove stai andando?”
“Non lo so. Solo via-di-qua, solo via-di-qua. Sempre e solo via-di-qua, solo così posso raggiungere la mia meta.”
“Allora conosci la tua meta?”
“Sì, te l’ho già detto: via-di-qua è la mia meta.”
Franz Kafka, Nur weg-von-hier

Il dialogo è tratto dal micro-racconto postumo di Kafka, Partenza (1922). Questo, almeno il titolo scelto nel ’36 da Max Brod. Settis opta per il più incisivo Nur weg-von-hier (“Solo via-di-qui”). Vale la pena di riportare in brevissimo il testo per intero, perché il passo scelto per aprire il libro evoca allusivamente, credo, anche il resto del racconto, con la sua chiusa paradossale:

Ordinai di andare a prendere il mio cavallo dalla stalla. Il servo non mi capì. Andai io stesso nella stalla, sellai il mio cavallo e vi montai. In lontananza sentii suonare una tromba, chiesi al servo che cosa volesse dire. Egli non lo sapeva e non aveva sentito niente. Presso il portone mi trattenne e domandò: “Signore, dove stai andando?”. “Non lo so, solo via-di-qua, solo-via-di qua. Sempre via-di-qua, solo così posso raggiungere la mia meta”. “Allora conosci la tua meta?” “Sì, te l’ho già detto: via-di-qua è la mia meta”. “Non hai viveri con te”. “Io non ne ho bisogno, il viaggio è così lungo, che dovrò morire di fame, se non ricevo nulla sulla via. Nessuna provvista mi può salvare. Per fortuna è un viaggio veramente immenso” (Kafka, Nur weg-von-hier, 1922).

Il richiamo è così lontano che “il servo”, nel racconto, non lo percepisce. Il viaggio è “immenso” (ungeheure), “per fortuna”, anche se la sua immensità è tale che non basta portare provviste, e il viaggiatore sa di potersi salvare solo se troverà qualcosa lungo la strada: fuor di metafora, nuove idee, accostamenti imprevedibili, trouvailles che sono a volte un dono del caso (lo stesso Settis, a un certo punto, parla di serendipity). La fine dello scritto introduttivo precisa la natura del particolarissimo Reisebuch che il lettore sta per affrontare – il resoconto di altrettante “incursioni”, sempre da un “avamposto” all’altro e sempre mosse dalla curiosità:

Le incursioni dovrebbero farsi partendo da un luogo familiare e sicuro, e tornandovi di tanto in tanto. Per me dovrebbe essere la cultura classica, l’arme absolue per intendere la storia culturale europea (è una frase di Lord Milo Parmoor), ma dopo tanti viaggi di andata e ritorno non sono più sicuro che sia così. Rivedendole in sinossi, quelle allineate in questo libro sono, piuttosto, “incursioni” da un avamposto all’altro. Non so quale merito o vantaggio potranno averne i lettori o gli studi. So però quale è stato il mio vantaggio: di sentirmi straniero in ogni luogo, con tante insicurezze ma anche, in ogni luogo, con tante insicurezze ma anche, ogni volta, con molta curiosità.

Scontato citare, per la curiositas, sant’Agostino. Ma all’epigrafe kafkiana di Incursioni (non sono riuscita a partecipare al numero di “Engramma” dove le sue “incursioni” hanno chiamato “altre incursioni”) vorrei rispondere con quella scelta da Paolo Zanotti per il suo non finito KH (iniziali di Kaspar Hauser – e forse titolo privato, di lavoro):

Conosci la casa? Su colonne riposa il suo tetto,
risplende la sala, rifulge la stanza
e statue di marmo mi stanno a guardare:
“Povero bimbo, che ti hanno fatto?”
Lo conosci bene? Laggiù!
Laggiù!
Laggiù vorrei con te,
mio protettore andare.

Lasciamo per ora il bambino (“Mi volevano addomesticare. La bestia più mite che ci sia stata”, Zanotti 2017, 149), e le statue di marmo che “stanno a guardare”, oltre all’idea di un “protettore” per l’esplorazione esplorare un “laggiù” (o un “via-da-qui”), che è il libro Incursioni. Di ‘incursione’ ne tento io a mia volta una minima, a partire dal capitolo 1, proprio quello che è riproposto con alcune correzioni e una nuova Appendice dopo essere apparso la prima volta, con un altro titolo, L’artista si taglia la testa (Settis 2020) in una raccolta di scritti offerti a Giuseppe Pucci, che purtroppo non c’è più, ma con Monica Centanni ha generosamente ideato questo omaggio a Incursioni e al suo autore.

Strategie di avvicinamento

Nelle pagine introduttive del libro, il capitolo 1 (Marcel Duchamp si taglia la testa) è presentato così:

La vocazione pittorica e narrativa della fotografia la ritroviamo, in questo libro, dove forse ce la aspetteremmo un po’ meno, nell’ironico tableau vivant di Marcel Duchamp (cap. 1) che si taglia la testa facendo il verso a pittori del tempo che fu (compreso Caravaggio) e ci si offre come un improbabile San Giovanni (o Golia) decollato. Ma intanto semina il suo teatrino di strani indizi dionisiaci (un kantharos da simposio, foglie d’edera…), e con triplo salto mortale balza all’indietro, dagli estenuati esteti di primo Novecento come Montesquiou-Fézensac a Orfeo decapitato dalle menadi in riti arcaicissimi (Settis 2020, 48-49).

1 | Marcel Duchamp, Doppio ritratto (particolare), 1937, stampa alla gelatina d’argento. Chicago, The Art Institute.

Riconoscere, nella fotografia, il “fare il verso a pittori del tempo che fu”; interpretare gli indizi dionisiaci degli avantesti che l’hanno preceduta; chiamare in causa per un “gioco di società” un po’ macabro “riti arcaicissimi”: è chiaro che il viaggiatore-Settis, a differenza di quello di Kafka, il suo bagaglio di viveri (l’arme absolue della cultura classica) se lo porta con sé, anche se è dispostissimo a ricevere altro “sulla via”. Cercherò di ripercorrere brevemente il suo itinerario, per capire come funziona, intanto, la “curiosità” che guida il viandante nella “esplorazione iconografica” di una foto-tableau vivant certo ideata da Marcel Duchamp, che anche attraverso la citazione di suoi lavori precedenti esibisce nello scatto materialmente realizzato da un altro fotografo la propria prepotente autorialità. Cosa vediamo, allora, nella foto? Una donna drappeggiata all’antica che guarda fuori campo, con gli occhi rivolti al cielo, come distratta da un’apparizione improvvisa, e tiene in mano, sul tavolo in primo piano, un mètre à ruban avvolto in spire:

Cosa vorrà misurare? Forse la circonferenza del collo dell’uomo di cui si scorge solo la testa, di profilo e a occhi chiusi, misteriosamente emergente dal nulla, anzi (parrebbe) appoggiata sul tavolo come fosse di legno o di cera? O sarà forse invece di carne, la testa mozza di una decapitazione solo all’apparenza incruenta? (Settis 2020, 60-61).

Alcuni dati esterni aiutano a interpretare questo apparente “gioco gratuito” e la sua mise en scène. Conosciamo la data dello scatto (il 1937), il luogo (Londra), il nome di chi ha scattato la fotografia e soprattutto l’identità dei personaggi-attori. Lui, il decollato (ma diciamo pure ‘il morto’), è lo stesso Marcel Duchamp, che ha “immaginato, costruito, articolato la messa in posa, anzi la messa in scena, a cui stiamo assistendo”, e lei la sua compagna di allora Mary Reynolds:

Lo dicono il piano inclinato del tavolo, minuscolo palcoscenico di questo esperimento di fotografia concettuale; il contrasto fra i due volti, quello di tre quarti della donna con lo sguardo estaticamente volto in alto e quello dell’uomo, ritagliato in nettissimo profilo da medaglia e con gli occhi chiusi; il divario fra una scena da sartoria e l’attitudine teatrale della donna, che non può essere una camiciaia non solo per come è vestita, ma anche perché non guarda il collo che forse dovrebbe misurare. Tutto congiura a un montaggio sapientemente enigmatico, come a suggerire una dimensione narrativa che sfida, o estromette, l’osservatore. Anche perché l’impressione (o il sospetto) di una decapitazione appartiene a quelle percezioni sensoriali a fior di coscienza che Duchamp classificava in una categoria da lui inventata, l’inframince (“infra-sottile”): minime varianti nelle modalità rappresentative, quasi impercettibili eppure tali da determinare il coefficiente artistico che chiamiamo “autorialità” (Settis 2020, 62).

La mise en scène di Duchamp nel Doppio ritratto

Altri indizi sono ricavabili dai materiali preparatori della foto che portano in primo piano un altro racconto, quello della messa in posa e dei suoi aggiustamenti successivi:

Duchamp che mette a punto la sua composizione squisitamente pittorica, a cui forse anche Mary Reynolds e il fotografo possono aver contribuito. Vuole Mary a mezza figura, e le getta sulle spalle un qualche manto, drappo, lenzuolo, con qualche foglia d’edera vera o finta nello scollo; e lì davanti un tavolo che poi figuri inclinato a precipizio verso l’osservatore, come in un quadro di Cézanne. Ed è su quel tavolo che la testa di Duchamp deve apparire, appoggiata come un soprammobile: immaginiamolo, dunque, il regista di questa posa, che s’inginocchia dietro (e quasi sotto) il tavolo, per modo che la testa, e solo quella, spicchi sull’indistinto biancore. E che sia quasi bidimensionale, ritagliata come una sagoma, un profilo da bassorilievo o da moneta; che anche quello alla base del collo abbia l’aspetto di un taglio, collage da un’altra foto o macabro trofeo di un’esecuzione sul patibolo (per una coincidenza certo casuale, Invito a una decapitazione di Vladimir Nabokov è di tre anni prima) (Settis 2020, 63-64).

A proposito di Nabokov, chissà che Duchamp non abbia letto il suo Invito a una decapitazione. Ma, per un’altra coincidenza, una frase di Nabokov citata (in epigrafe, ancora) dal grande critico Mario Lavagetto, in La macchina dell’errore, fa singolarmente al caso nostro:

[…] la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo aspetto, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie informazioni come un vendicativo fantasma che porta la sua testa sotto il braccio (Lavagetto 1996, 102).

3 | Domenico di Niccolò “dei Cori”, San Regolo, 1430-35, legno intagliato e dipinto, Pienza, Palazzo Borgia, Collezione diocesana.

Mi ha fatto vedere l’amica Francesca Papafava, mentre chiudevo questo contributo, un San Regolo di Domenico di Niccolò “dei Cori” (1430-35), ora al Museo Diocesano di Pienza, proveniente dalla chiesa di San Regolo a Palazzo Massaini: lì, il santo decollato (l’arcivescovo africano che, decapitato per ordine di Totila, re degli Ostrogoti, aveva percorso duecento metri a piedi tenendosi in mano la testa tagliata) si regge la testa fra le mani, ma non è detto che il volto in legno dipinto riproduca le fattezze dello scultore. Altri tipi di decapitazione, dunque, e avantesti di una fotografia straordinaria che come il manoscritto di testo letterario dato alle stampe ostentano le proprie informazioni “come un vendicativo fantasma che porta la sua testa sotto il braccio”.

Iconografia di una foto che è un tableau vivant, escogitato fin nei minimi particolari

A questo risultato, chiunque fosse il fotografo, Duchamp giunse certo dopo varie prove, di cui resta memoria in alcuni scatti assai meno famosi, che messi in fila compongono una sorta di backstage in cui ancora si andava cercando la posa giusta e l’ethos dei personaggi. Nel più noto fra essi, il tavolo-palcoscenico, così efficacemente pittorico, quasi non si vede; Mary Reynolds sorride imbarazzata, come in una foto da scampagnata, e intanto sfiora appena il metro, la cui estremità finisce nella bocca di Duchamp in posizione frontale, che ci guarda a occhi semiaperti con finta severità, e quasi sorride. Il tavolo, che nella posa finale dà la chiave di lettura pittorica dell’insieme, è tanto irriconoscibile che i due paiono quasi a letto, lei semiseduta e appoggiata alla parete, lui con il lenzuolo rimboccato fin sul collo, con il metro che pare uscirgli dalla bocca, come un ectoplasma. E se no compare un (non meno dionisiaco) tralcio d’edera. Lo scatto successivo è quasi identico al Doppio ritratto finale, con la sola differenza che lo sguardo di Mary Reynolds volto al cielo pare ancora più ispirato (forse un po’ troppo). Infine la composizione finale, la più riuscita e la più “pittorica”: il Doppio ritratto da cui siamo partiti. (Settis 2020, 59)

Questa la ricostruzione del backstage. Vari tentativi di trovare la posa giusta, e diverse pose fotografiche per l’immagine in cui l’ideatore-personaggio si vuole rappresentare in effige, da morto. Sempre da Settis, apprendiamo le due direttive principali seguite fin qui nella ricchissima letteratura su Duchamp per leggere Doppio ritratto. Intanto, l’attenzione alla ‘cornice’ (secondo alcuni, “una sorta di séance surrealista, o un altro dei suoi esperimenti e masquerades in cui la fotografia era il medium prescelto, e più in generale l’uso che egli fece della fotografia”). Poi la collocazione del Doppio ritratto “entro il percorso di Duchamp (sempre trattato come il suo vero autore)”, e “collegato alle sue opere più celebri, specialmente 3 stoppages étalon e La Mariée mise à nu par ses célibataires, même” (Settis 2020, 79). Entrambe le piste, forse viziate dall’icona di Duchamp come creatore ex nihilo di un nuovo percorso dell’arte, sembrano averne scoraggiato altre, come appunto quella di una genealogia iconografica della composizione. Una donna in posa ieratica, indifferente alla testa mozzata di un uomo, che fa venire in mente tre serie canonizzate nella tradizione pittorica: 1) Giuditta con la testa di Oloferne; 2) Salomè con la testa di Giovanni Battista; 3) Davide ragazzino che, in una variante al maschile, brandisce la testa di Golia.

La seconda della serie (Giuditta e Oloferne) è richiamata per il Doppio ritratto da Sheldon Nodelman, che ha riconosciuto in una Salomè con la testa del Battista il subtext della messa in scena di Duchamp, moltiplicando i riferimenti letterari e figurativi, a riprova della fortuna otto e novecentesca dell’eroina biblica (da Flaubert a Huysmans e D’Annunzio, da Odilon Redon a Munch e al giovane Picasso, per non parlare della Salomè di Oscar Wilde illustrata da Aubrey Beardsley e posta in musica da Richard Strauss (Nodelman 2006, 111); aggiungerei Stéphane Mallarmé, che a una Hérodiade lavorò per trentacinque anni, senza mai portarla a termine, dal 1864 fino alla sua morte, il 9 settembre 1899): “Duchamp avrebbe dunque inteso identificarsi ironicamente con il Battista, proponendo se stesso come un improbabile Saint Marcel decollato, e la foto sarebbe una rappresentazione allegorica dei suoi rapporti con Mary Reynolds” (Settis 2020, 71-72).

Genealogia di un topos iconografico

Quest’ultima ipotesi è possibile, ma semplicistica, perché schiaccia la fotografia in una riduttiva chiave biografica (un amore complicato, e fantasie di castrazione o sottomissione del maschio, che risulterebbero dall’“articolazione delle figure e dei linguaggi dell’immagine”, Settis 2020, ibidem), trascurando uno schema iconografico più circoscritto e più pertinente: “tutta una tradizione pittorica in cui la testa tagliata rappresenta un pittore, e non uno qualsiasi ma l’attore di quel dipinto” (Settis 2020, 72-73). È il caso, fra gli altri, della tela di Cristofano Allori Giuditta e Oloferne (1612 ca., in cui l’artista, già secondo Filippo Baldinucci, volle rappresentare il proprio tormento amoroso raffigurandosi come defunto, morto ad opera della amata e infedele donna chiamata ‘la Mazzafirra’ (Schearman 1979) – quadro famoso, oggetto di una lirica del Marino nella Galeria, ed esempio bellissimo, fra l’altro di come “la storia biblica di Giuditta si fosse prestata a una sorta di rimaneggiamento biografico”: “interpolare nell’intreccio di un’atroce storia biblica i volti del pittore stesso e della sua donna trasforma la tela in una potente metafora non solo dell’eros, ma della pittura stessa” (Settis 2020, 76). Il pittore, quindi (Allori ma anche gli altri che hanno fatto con ogni probabilità lo stesso, come ha riconosciuto già Shearman 1979, che ricorda Palma il Vecchio, il Veronese e Tiziano, con la sua Salomè con la testa di Giovanni Battista), rappresenta nel tagliarsi la testa il proprio strazio amoroso, ma esalta anche il potere della rappresentazione, e perciò il riscatto del proprio dolore. Nel tagliarsi in effigie la testa, insomma, il pittore riconosce alla donna due armi decisive (lo sguardo e la spada), e parla anche della pittura.

Sarebbe facile insistere su queste interpretazioni strettamente biografiche, inseguendone la conferma in episodi, aneddoti, dicerie, indizi. Più attraente ricostruire le vicende del tema iconografico prescelto, che è nei casi più sicuri e meglio documentati quello di Giuditta e Oloferne. Proviamo dunque a immaginare che nel Doppio ritratto non vi sia nessun Saint Marcel, nessuna auto-santificazione di Duchamp, ma, semmai, Mary Reynolds in luogo di una Giuditta, con la testa del compagno in luogo di quella di Oloferne. Fra i possibili precedenti, il più noto è la Giuditta di Allori (1612 ca.), un quadro celebre e imitato per tutto il Seicento, dove Giuditta tiene nella sinistra la testa di Oloferne e con la destra brandisce la spada con cui lo ha appena decapitato. La fortuna del quadro è dovuta certo alla sua indiscutibilità qualità, ma in parte anche al suo aspetto aneddotico: secondo Filippo Baldinucci, il pittore volle qui riflettere il proprio tormento amoroso, dato che la bellissima donna di cui era innamorato (detta “La Mazzafirra”) gli era infedele. Perciò “ritrasse egli al vivo nella faccia di lei [Giuditta] l’effigie della Mazzafirra, e tiene questa con la destra una spada sguainata […], e dipinse se stesso in quel quadro per Oloferne”.

Il dipinto di Cristofano Allori non è l’unico in cui un pittore abbia dato a una testa mozza i tratti del proprio volto, facendosi insomma, in effigie, la festa da solo. Alle spalle, Allori aveva una ricca tradizione pittorica, nata con ogni probabilità a Venezia. Una Giuditta e Oloferne è di Palma il Vecchio (1530 ca.), un’altra del Veronese (1580 ca.), e in entrambi i casi il pittore, nel ritrarre Oloferne, avrebbe ritratto se stesso. Shearman aggiunge la Salomè con la testa del Battista di Tiziano (1515 ca.), ma per nessuno di questi quadri c’è la minima testimonianza contemporanea di una tale identificazione (proposta per Tiziano solo nel 1930 da Hourticq, e dallo stesso Shearman negli altri due casi). Prima di citare il caso sicuro di un altro pittore che prende il posto di Oloferne, va ricordata l’occorrenza suprema del topos nella pittura italiana, nel mirabile Davide e Golia di Caravaggio, alla Galleria Borghese di Roma, dipinto nel suo ultimo anno di vita (1610). Lì, l’identificazione del pittore nella testa mozza di Golia è certa, e il quadro presuppone la conoscenza indiretta del Davide e Golia di Giorgione, di cent’anni prima.

I dipinti in cui la testa tagliata-autoritratto del pittore è presentata come il trofeo di una donna bella e crudele hanno una valenza epigrammatica ed erotica evidenziata al meglio dalle parole che il Marino, nella Galleria, ha posto in bocca alla Giuditta di Allori, ma la miglior prova del gioco di intenzioni e di allusioni a monte del topos figurativo del ‘pittore che ha perso la testa’ è una sorta di falso autoritratto di Raffaello, inserito da Jacopo Ligozzi in una sua Giuditta e Oloferne (1602) replicata due volte, per il granduca di Toscana e per il duca di Mantova. Volutamente arcaizzante nella sua composizione, il quadro preleva il volto di Raffaello da Allori. Ma si potrebbe continuare. Nei prodigiosi collages delle tavole Mnemosyne, destinate a mappare la memoria culturale dell’Occidente, Warburg consacra a questo tema la tavola 47, dove Giuditta e Salomè figurano come “cacciatrici di teste”. Raffaello non aveva mai pensato di rappresentare se stesso così, ma nessun pittore quanto lui si prestava a dar sostanza e spessore a questa convenzione rappresentativa, e perciò il ‘falso’ di Ligozzi appare, osserva Settis, “assai avveduto” (Settis 2020, 77).

Il mètre à ruban

Se questo (una donna enigmatica e la testa mozzata di un artista) è il tema del tableau vivant fotografico escogitato da Marcel Duchamp nel 1937, o la sua genealogia, resta una domanda: quale può mai essere il senso del metro da sartoria che Mary Reynolds sta maneggiando, anziché brandire una spada come le sue precorritrici? L’italiano “metro”, come il francese mètre, indica al tempo stesso l’unità di misura introdotta in Francia, diffusa da Napoleone, e lo strumento per misurarlo (metro da falegname, metro da sarto, eccetera, o in francese mètre pliant, mètre à ruban…). L’etimo è il greco metron, ‘misura’, e c’è un lavoro di Marcel Duchamp da lui stesso ha definito “uno scherzo sul metro”: 3 stoppages étalon (1913-1914). Uno scherzo molto serio, che Duchamp lo descrive more geometrico, come se stesse inventando un teorema o illustrando una legge di natura: “Se un filo orizzontale diritto lungo un metro cade dall’altezza di un metro su un piano orizzontale, attorcigliandosi a piacimento, esso crea una nuova immagine dell’unità di lunghezza”. Con quest’idea in testa, Duchamp aveva fatto cadere tre fili lunghi un metro ciascuno “secondo una chiave imprevedibile, travolgendo e oscurando ogni possibile fonte di ispirazione”.

Il mètre à ruban che Mary Reynolds tiene distrattamente in mano potrebbe esser caduto sul tavolo (dall’altezza di un metro?), o avrà assunto quelle curve casuali mentre Mary vi stava giocherellando con le dita? E che rapporto c’è fra il serpeggiare del metro, il bordo del tavolo (di legno, s’immagina, ma coperto da una tovaglia ben stirata e apparecchiata di fresco, come mostrano le righe poste in griglia) e la testa maschile? Se quello che ci vien suggerito è un rammendo invisibile (stoppage), si tratterà forse della ricucitura della testa (apparentemente) tagliata al corpo (probabilmente) nascosto? E come mai il metro da sartoria finisce con l’essere l’unico trait d’union fra i due personaggi del tableau vivant? Infine: se questa fotografia è davvero, come pare probabile, un gioco autoreferenziale di Duchamp (un ulteriore, tardivo “scherzo sul metro”), forse non sarà un caso il fatto che le misure segnate sul metro da sarto non siano in centimetri ma in pollici: quasi a ripudiare l’invenzione francese del razionalissimo mètre, di cui verrebbe qui derisa la pretesa universalità, mettendone in evidenza il carattere forzato e convenzionale (Settis 2020, 85-86).

Chiare le conseguenze di questa specie di rivoluzione copernicana nel dominio delle arti figurative: la qualità estetica è prodotto non dell’abilità artistica ma del puro caso (hasard en conserve): un caso senza regole, senza progetto, eppure promosso a étalon, al pari del campione universale del metro gelosamente conservato a Parigi. Nel Doppio ritratto del 1937 pare accennarsi un percorso inverso. Duchamp torna autoironicamente alla composizione di figura, anche se chi fa scattare l’obiettivo non è lui. Il profilo dello stoppage è segnato da un metro da sarto, e la figura umana torna in primo piano, ma sono ancora delle allusioni dionisiache che dovevano sin dall’inizio far parte della messa in scena, come il kantharos da vino, l’edera, il vaso greco. Un mito in cui Dioniso è responsabile di una decapitazione esiste, ed è quello del quale è comprimario Orfeo, che quando rinnega la fedeltà al culto dionisiaco è fatto a pezzi da menadi furiose: lo fanno a pezzi, gli tagliano la testa e la gettano in un fiume; la corrente la porta fino alle coste di Lesbo, dove verrà poi pietosamente raccolta e posta in una grotta. Ma nel frattempo, pur staccata dal corpo, parla, anzi canta oracoli. I vasi greci la mostrano di profilo e con gli occhi aperti, la lira è una testa mantica. Uno degli astanti, una volta, suona la lira. Quando Gustave Moreau riprende il tema antico (1865) la pone fra le braccia di una giovane donna che deve averla raccolta nell’acqua, e testa e lira sembrano tutt’uno, quasi saldate in un geroglifico, per dire la perennità della parola poetica e l’immortalità dell’arte.

4 | Marcel Duchamp, 3 stoppages étalon, 1913-1914, legno, tela e vetro, New York, Museum of Modern Art.

Suggerendo la coincidenza dell’artista con lo strumento della sua arte, il tema classico dunque converge quindi con quello delle teste d’artista che accompagnano qualche Giuditta barocca. Ci sono delle differenze, perché Orfeo non si è tagliato la testa da sé, e ha bisogno che la propria testa mozza venga incollata sulla lira, perché sia ribadita l’immortalità della sua arte, ma la lira è in qualche modo un equivalente del mètre à ruban del Doppio ritratto: uno strumento dell’arte di Duchamp (pensiamo ai 3 stoppages).

La dimensione “greca”, anzi propriamente dionisiaca, si sovrappone a quella biblica e la contraddice, ma “contribuisce a illuminarne intenti e lettura”. L’accumulo di repêchages concorre a comporre non “l’ennesimo anello di una catena iconografica vecchia di secoli, ma la sua parodia”. Quelli che superficialmente potrebbero essere qualificati objets trouvés, appaiono “le ordinate epifanie di una precisa stratificazione storica, ma semmai bagliori e vampate desultorie di un qualche ‘caso in scatola’” (Settis 2020, 85). Una scatola prospettica, del resto, è anche la camera oscura. E chissà se era venuta in mente a Duchamp, a Mary Reynolds o al fotografo greco autore dello scatto l’antica affermazione di Protagora secondo la quale “l’uomo è la misura [metron] di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono”.

Anche Montesquiou si taglia la testa

5 | Autore sconosciuto, Robert de Montesquiou in posa come San Giovanni decollato, 1885, cianotipo su cartone acquarellato, Collezione privata.

Per serendipity, il caso ha fatto in modo che Settis si sia imbattuto in precedenti dell’autodecapitazione di Duchamp più prossimi nel tempo. Una si deve al conte Robert de Montesquiou-Fézensac (1855-1921), esteta e dandy, fra i modelli del Des Esseintes di Huysmans (À rebours, 1884) e di Charlus nella Recherche. Montesquiou si era fatto ritrarre da un fotografo travestito da san Giovanni decollato: la sua testa, con gli occhi chiusi, pare appoggiata su un vassoio, nel varco di una finestra da cui pende un drappo con decorazione floreale di William Morris. Questi i versi ai due lati dell’immagine, tratti da una poesia dello stesso Montesquiou (L’irresponsable) confluita nel volume Les Paons (1901): “J’aime le jade / couleur des yeux d’Hérodiade et l’améthyste / couleur des yeux de Jean-Baptiste”.

La foto fu scattata qualche anno prima, nel 1885, al castello di Charnizay, e fa parte di una serie di autoritratti in posa raccolti da lui stesso in un album dal titolo Ego imago. Di qui una prima riflessione di Settis:

Posando come il Battista decapitato proprio mentre andava verseggiando sulle danze di Erodiade, questo campione e martire del più decadente e sottile estetismo voleva davvero alludere precocemente, come si è suggerito, alla “morte dell’autore”, lungo una linea che va da Mallarmé alla scrittura automatica dei surrealisti al famoso saggio di Roland Barthes? (Settis 2020, 98-99).

Che passa, subito dopo, a un “macabro gioco di società” in voga, sembra, ai tempi del Coronavirus:

[...] fra i giochi da farsi in casa durante la reclusione da Coronavirus, un gruppo Facebook in Russia che ha più di mezzo milione di membri (Izoizoljacija, “arte in isolamento”) ha lanciato l’idea di costruire dei tableaux vivants domestici, e fra questi il “New York Times” del 27 aprile 2020 ha pubblicato la “ri-creazione” di un quadro di Guido Reni (Roma, Galleria Nazionale di Palazzo Corsini) con Salomè e la testa del Battista (Settis 2020, 100).

Per tornare al barone letterato appassionato di fotografia, c’è da dire che non è certo l’unico a cogliere le potenzialità del nuovo strumento fotografico. Nel suo saggio più famoso – Il romanzo sperimentale (1880), che riassume la poetica della scuola “naturalista” – si legge che “l’osservatore deve essere il fotografo dei fenomeni; la sua osservazione deve riprodurre esattamente la natura”: una natura su cui lo scrittore “naturalista” sospende ogni giudizio, annullando la propria soggettività e comportandosi perciò, nei confronti della realtà, esattamente come un obiettivo fotografico. Stendhal, della generazione precedente, non aveva potuto conoscere la fotografia, ma usa una metafora simile quando nel Rosso e il nero (1830) scrive che “un romanzo è uno specchio”, “passa per una strada maestra”, e “ora riflette l'azzurro dei cieli, ora il fango dei pantani”. L’argomento è canonico e vale a eludere l’accusa che allo scrittore si faceva di rappresentare temi e situazioni moralmente sconvenienti (“l’uomo che porta lo specchio nella sua gerla sarà da voi accusato di essere immorale! Lo specchio mostra il fango e voi accusate lo specchio! Accusate piuttosto la strada in cui è il pantano, e più ancora l’ispettore stradale che lascia ristagnar l’acqua e il formarsi di pozze”), ma è sintomatico per come si fa rivelatore di una concezione speculare del realismo, allora dominante. La metafora della “fotografia”, nel naturalismo tardo-ottocentesco, aggiorna perciò quella “speculare” che aveva dominato il realismo di pieno Ottocento. Questo per quanto riguarda le poetiche esplicite degli scrittori, perché se andiamo a verificare l’applicazione di tali poetiche nella pratica concreta di quegli stessi scrittori, ci accorgiamo che con la fotografia molti di loro ebbero rapporti meno meccanici, e più complicati.

I discepoli italiani di Zola

Quasi tutti siciliani, i cosiddetti “veristi” erano quasi tutti a loro volta, come Zola, appassionati di fotografia (Zola 1979). Così Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto, che è l’unico a inserire delle fotografie all’interno dei suoi testi. Il caso più interessante è quello di Capuana, oggi un po’ dimenticato ma che all’epoca era considerato non meno importante di Verga (ebbe un grandissimo successo, per esempio, con Il marchese di Roccaverdina: romanzo del 1901 che cercava di conciliare la poetica del Verismo e il romanzo poliziesco, innovazione introdotta da Edgar Allan Poe negli anni Quaranta dell’Ottocento). Emballé dalla fotografia, Capuana realizza, come Verga e De Roberto, molti scatti fotografici. Comincia dagli anni Sessanta, e nel 1880 realizza nella sua casa di Mineo un vero e proprio laboratorio fotografico, del quale dichiarava “assistente” il discepolo De Roberto.  All’attività fotografica di Capuana si deve un esperimento singolare, il cosiddetto Ritratto profetico, datato “Ultimo giovedì del maggio 1903 alle ore 5 p.m.”. Nel ritratto, come già il barone di Montesquiou e Duchamp, lo scrittore simula di essere morto, e si fa ritrarre in questa posa singolare, anche se evitando una finta decollazione.

6 | Luigi Capuana, Autoritratto profetico, 1905.

Non era stato neppure il primo, l’autore del Marchese di Roccaverdina, a uscirsene con questo scherzo. Un autoritratto da morto aveva architettato anche uno dei primissimi sperimentatori del mezzo fotografico, Hippolyte Bayard (1807-1887), che a sua volta, forse alludendo a essere ‘ucciso’ da chi aveva concesso il brevetto della macchina fotografica a Daguerre, si era fatto rappresentare per polemica come annegato nella Senna. È il 1840, quando Bayard produce questa immagine pionieristica: appena un anno dopo il brevetto di Daguerre, dunque (Cortellessa 2022, 351-352). Settis parla per la ripresa dell’autoritratto fotografico con la forma tagliata ai tempi del Coronavirus di “un gioco di società un po’ macabro”. Proprio un gioco di società è anche quello di Capuana, che aveva inviato copie del Ritratto profetico ai suoi amici. Pare che Verga, trovandosene una fra le mani, si fosse preoccupato moltissimo. D’Annunzio aveva inviato in risposta una frettolosa ode metastasiana, per rassicurarlo e prenderlo un po’ in giro.

7 | Hippolyte Bayard, Autoritratto da annegato, 1840.

Come gli autoritratti di pittori con la testa tagliata dicono qualcosa anche della pittura, gli autoritratti fotografici da morto dicono qualcosa anche della fotografia. Del suo illusionismo, intanto, e cioè della credenza pressoché universale, specie ai primi tempi della sua diffusione, che qualsiasi cosa appaia su un’immagine fotografica sia per ciò stesso “reale” – credenza smentita non solo da messe in scena come quelle macabre di Bayard e Capuana, ma dalla pratica del ritocco, e del vero e proprio fotomontaggio, che si può dire accompagni la fotografia sin dalle sue origini, introdotto com’era  per ovviare alle imperfezioni tecniche connesse all’uso dei materiali rudimentali allora impiegati (Alinovi [1981] 2001, 325). L’altro aspetto della fotografia a cui rinviano gli autoritratti dove il fotografo si fa la festa è il suo legame con la morte. Entrambi questi aspetti sono stati formulati in modo memorabile dal saggio straordinario dedicato da Barthes alla fotografia (Barthes 1980, apparso l’anno stesso in cui l’autore incontrerà a sua volta la morte, per un banale incidente stradale). Il titolo La camera chiara, giocando col termine del dispositivo tecnico, la “camera oscura”, che consentiva lo sviluppo delle fotografie in regime analogico). Diceva dunque Barthes – a sua volta appassionato di fotografia, che introduce numerose fotografie in questo suo libro che alla fotografia è dedicato – che “il noema della fotografia”, cioè la sua unità di pensiero minima, “è ‘è stato’”. L’obiettivo fotografico reca una testimonianza su qualcosa che si è effettivamente manifestato davanti a sé (non che Capuana sia morto, dunque, ma che Capuana si sia messo in posa come tale). Ha un rapporto effettivo col proprio oggetto, ma quell’oggetto si è manifestato in passato, e per questo l’immagine che lo riflette è sempre e comunque postuma. Esiste dunque fra la fotografia e la morte un legame costitutivo, e perturbante (Pontillo 2022; Cortellessa 2022; De Laude 2022, 102-105).

Spiritismo? Surrealismo?

Il legame tra la fotografia e la morte è tra i motivi, credo, della diffidenza di molti nei confronti della fotografia, come se la sua presentificazione del passato avesse qualcosa di stregonesco, o assomigliasse a un’evocazione di fantasmi. Nei primi decenni della fotografia, non per niente, i tentativi di collegarla allo spiritismo sono stati molti. Ad opera, fra gli altri, dello stesso Capuana, autore di un saggio dal titolo emblematico Spiritismo? (Capuana 1884), prontissimo a cogliere gli aspetti irrazionali della tecnica fotografica, piuttosto che ad entusiasmarsi razionalisticamente della nuova tecnologia. Anche la scoperta casuale, nel 1895, dei raggi X, che nel 1901 vale al suo autore, il tedesco Wilhelm Conrad Röntgen, il premio Nobel della fisica, è apparsa non una conquista della scienza ma il frutto di una ‘supervista’ capace di vedere l’invisibile, e perciò di rendere visibili fenomeni spirituali che la scienza positiva fino ad allora aveva recisamente negato. Pochi anni dopo la scoperta di Röntgen, Capuana scrive una novella intitolata proprio Raggi X (Capuana 1898), ed è autore di diverse altre novelle di argomento esoterico, un Diario spiritico scritto nel 1870, e pubblicato solo dopo la sua morte (Capuana 1916). Sue, molte fotografie sono scattate a cadaveri, come quello di sua madre o di una anonima Donna sul letto di morte. Per farle il ritratto, con il consenso dei genitori, aveva addirittura fatto esumare una bambina morta, Rosina Carcò di Stefano. A un certo punto del lungo saggio Spiritismo? ci si imbatte in una metafora singolare:

Il valore, la vitalità di un'opera di arte dipende anche dalla maggiore o minor quantità di impressioni immediate che noi vi facciamo intervenire. Queste non sono, come parrebbe a prima vista, intieramente coscienti. La più gran parte, accumulate indirettamente, per la via dei sensi, nei ricettacoli nervei e psichici del nostro organismo, si svegliano, si coordinano, si fondono in uno stupendo insieme sotto il pungolo di un'eccitazione volontaria o che almeno sembra tale. L'artista procede, in questa circostanza, come i soggetti del sonnambulismo provocato, ed ha la sua particolare allucinazione […]. La perfetta oggettività della ben riuscita opera d'arte non ha altra origine; talché l'artista non fotografa neppure quand'egli stesso crede di soltanto fotografare (Capuana 1884, 121).

Il Ritratto profetico, allora, è da intendere come un gioco, ma un gioco molto serio, come il Doppio ritratto di Duchamp. Del resto, se torniamo al campo del Naturalismo francese, e in particolare al caposcuola Zola, troviamo una seconda citazione che fa il paio con quella di Capuana. Nell’anno 1900, che inaugura simbolicamente il nuovo secolo, l’autore del celeberrimo J’accuse Zola concede un’intervista al giornale inglese “The King”, dove a un certo punto dice:

[...] non si può dire di aver visto a fondo nessuna cosa fintanto che non se ne sia fatta una fotografia: questa rivela un’infinità di particolari che altrimenti passerebbero inosservati, e che nella maggior parte dei casi non potrebbero essere visti distintamente (Zola 1979, 11).

L’occhio della fotografia, insomma, vede più di quello umano. Come i raggi X di Röntgen, consente di manifestare quanto, a occhio nudo, appare invisibile, rivelando particolari che altrimenti passerebbero inosservati. Intanto perché fissa il movimento, e sembra davvero realizzare il miracolo invocato dal mago di Goethe, Faust, nella tragedia omonima: “istante fermati, sei bello!”. La fotografia invece congela il movimento, lo blocca, e la sua attitudine a immobilizzare la vita ha qualcosa di mortifero, di postumo, che era chiarissimo, per esempio, a uno scrittore da sempre a colloquio con le immagini come Pasolini (Pontillo 2005). La fotografia, in più, oltre a fissare la realtà bloccandone il movimento ci consente di tornarci sopra, in seguito, tutte le volte che vogliamo. Nel 1900, si sta evolvendo anche dal punto di vista tecnologico, e si sta cominciando a sperimentare, per esempio, l’ingrandimento, che consente appunto di apprezzare quei famosi dettagli che altrimenti passerebbero inosservati. Lo ha osservato Walter Benjamin, nella sua Piccola storia della fotografia:

La natura che parla alla macchina fotografica è […] una natura diversa da quella che parla all’occhio; diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall’uomo, c’è uno spazio elaborato inconsciamente. […] Soltanto attraverso la fotografia egli scopre questo inconscio ottico, come, attraverso la psicanalisi, l’inconscio istintivo (Benjamin 1931).

Di mezzo, fra Zola e Benjamin, c’è la scoperta di Freud, che al 1900, sebbene il suo libro fosse uscito qualche mese prima, data simbolicamente L’interpretazione dei sogni. E l’osservazione di Benjamin consente di riconoscere un ponte tra due movimenti che sembrerebbero agli estremi opposti, come il Naturalismo e il Surrealismo. Dirà André Breton che la “scrittura automatica”, cioè l’immersione nell’inconscio praticata da lui e dai suoi discepoli surrealisti in stati di trance autoindotta non così diversi dal sonnambulismo di cui parlava Capuana, è “una fotografia del pensiero”. Esiste, cioè, una specie di inconscio ottico (Benjamin ne parla esplicitamente). E la fotografia, oltre al resto, può rendere visibile quello che in effetti avevamo visto, ma coscientemente avevamo rimosso. La narrativa surrealista, e in particolare l’iconotesto che è il suo capolavoro, Nadja, pubblicato da Breton tre anni prima del saggio di Benjamin sulla fotografia, funziona proprio in questo modo: il narratore vede certe cose, percepisce certi aspetti della realtà, ma non ne comprende il senso. Solo dopo aver visto altre cose, torna indietro con la memoria e capisce (o crede di capire) il senso che in precedenza gli era sfuggito. Non era successo anche a Dante, in quell’autofiction ante litteram che è la Vita Nova? Zola muore nel 1902. Non solo non può conoscere nulla del Surrealismo, ma ignora del tutto con ogni probabilità anche la psicoanalisi. La sua poetica è diametralmente opposta a quella che sarà di Breton, ma entrambi impiegano la fotografia per mettere a fuoco un senso differito della realtà che aveva in mente, forse, anche Marcel Duchamp, nel suo magnifico Doppio ritratto.

Riferimenti bibliografici
  • Alinovi [1981] 2001
    F. Alinovi, La fotografia: l’illusione della realtà [1981], ora in C. Marra, Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni Sessanta a oggi, Milano 2001.
  • Barthes 1980
    R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [La chambre claire. Note sur la photographie, Paris 1980]; trad. it. R. Guidieri, Torino 2003.
  • Benjamin [1931; 1966] 2014
    W. Benjamin, Piccola storia della fotografia [Kleine Geschichte der Photographie, “Die Literarische Welt” (settembre-ottobre 1931); L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, trad. it. E. Filippini Torino 1966]; W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di F. Valagussa, Torino 2014.
  • Capuana 1884
    L. Capuana, Spiritismo? [Catania 1884, 220-222], ora in Id., Mondo occulto, a cura di Simona Cigliana, Catania 1995, 125.
  • Cortellessa 2022
    A. Cortellessa, Romanzi per figure. Pasolini con-temporaneo, in A. Cortellessa, S. De Laude (a cura di), Vedere, Pasolini, Dueville 2022, 327-365.
  • De Laude 2022
    S. De Laude, “Un romanzo aperto verso l’avvenire?”. Sopralluoghi nei dintorni di “Una vita violenta”, in A. Cortellessa, S. De Laude (a cura di), Vedere, Pasolini, Dueville 2022, 69-125.
  • Lavagetto 1996
    M. Lavagetto, La macchina dell’errore. Storia di una lettura, Torino 1996.
  • Nodelman 2006
    S. Nodelman, The Decollation of Saint Marcel, “Art in America”, XCIV, n. 9, ottobre 2006, 107-119.
  • Pontillo 2015
    C. Pontillo, Di luce e morte. Pasolini e la fotografia, Lentini 2015.
  • Settis 2020
    S. Settis, Incursioni. Arte contemporanea a tradizione, Milano 2020.
  • Shearman 1979
    J. Shearman, Cristofano Allori’s “Judith”, “Burlington Magazine”, CXXI, n. 910, 1979, 3-10.
  • Zanotti 2017
    P. Zanotti, KH, sine nomine 2013.
  • Zola 1979
    E. Zola, Émile Zola, Fotografo, Milano 1979.
English abstract

Starting with Marcel Duchamp’s Double portrait, a reflection on how the topos of the photographic self-portrait with a severed head (or generically as a dead person) says something about the medium of photography, just as the self-portrait with a severed head in painting says something about the art of painting itself.

keywords | Marcel Duchamp; Double portrait; Self-portrait with a severed head; Luigi Capuana; Autoritratto profetico; Hippolyte Bayard.

Per citare questo articolo / To cite this article: S.De Laude, Quando l’artista si fa la festa da solo. Sul Doppio ritratto di Marcel Duchamp e altri autoritratti da morto, con la testa tagliata. La rivista di Engramma”, n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 305-318 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0005