"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

“Sfiorare pericolosamente il diverso”

Furio Jesi, la macchina mitologica e la festa

Alessandro Fambrini

English abstract

Il bambino passa rasente la porta dell’ebreo, del diverso per eccellenza, e dalla porta esce un braccio che trascina dentro. Avvicinarsi alla casa dell’ebreo significa sfiorare pericolosamente il diverso, da cui può protendersi la mano che afferra. La mano dell’ebreo, del diverso, è una mano unghiuta, come un artiglio. È la mano dell’usuraio che si protende ad afferrare l’oro, ed è al tempo stesso la mano del diverso. (Furio Jesi, Il processo agli ebrei di Damasco)

“Che cos’è la festa?” (Jesi 2001, 89) si domanda Furio Jesi in La festa e la macchina mitologica (1973), e risponde che, tra l’altro, essa serve “a definire in termini di scienza le caratteristiche di quanto servì e serve a conoscere i diversi” (Jesi 2001, 89), è punto di contatto tra sé e il mondo, tra l’io e l’altro, e nella sua essenza rappresenta un punto di articolazione vicino alle sorgenti del mito. Non a caso, questo saggio rappresenta una delle prime articolate trattazioni dell’argomento della “macchina mitologica” da parte di Furio Jesi, e contiene anche una delle definizioni più pregnanti del concetto che la sottende, da poco elaborato e affrancato da quello di “mito tecnicizzato” (che implica il precedente, ma non lo esaurisce):

La macchina con la sua presenza funzionante è un costante rimando alla tensione fra pre-esistente ed esistente in quanto prodotto dalla macchina, fra mito e mitologia, e tale tensione perennemente irrisolta costituisce la realtà, la flagranza del fatto mitologico. La macchina mitologica è autofondante: pone la sua origine nel fuori di sé che è il suo interno più remoto, il suo cuore di pre-essere, nell’istante in cui si pone in atto. Questo presupponimento d’origine (il rimando al mito) è totalizzante: coinvolge tutti gli istanti e gli ambiti spaziali di funzionamento della macchina, poiché il fuori di sé in cui la macchina pone la propria origine è il suo centro. Ogni fatto mitologico è quindi esso stesso presupponimento della propria origine, che è altresì l’origine della macchina (Jesi 2001, 111).

Ma ciò che conta, come è evidente, è il funzionamento della macchina mitologica, e il “presupponimento” stesso del suo agire, del suo esserci, guiderà i procedimenti di analisi e di giudizio di Jesi a partire dalla metà degli anni Settanta, portandolo ad affilare le armi della sua critica. Ciò avviene in studi come Cultura di destra (1979) con i capitoli dedicati a Julius Evola, Mircea Eliade e all’esoterismo nazista che, nella sua esibizione di un apparato iconico e mitologico privo di spessore e consistenza, rende “avvertibile quella che un cultore di simboli definirebbe perdita del centro” (Jesi 1979, 60): l’aggirarsi intorno a un vuoto che rende “il Reich senza centro” (come recita il titolo di un capitolo di Cultura di destra [Jesi 1979, 60-66]) l’incarnazione più aliena e agghiacciante della macchina mitologica nella storia; oppure nei lavori di germanistica, come quelli su Rainer Maria Rilke, oggetto per Jesi di un pluridecennale confronto critico (da Rilke e l’Egitto [1964] al volumetto monografico Rilke pubblicato nel 1971 per la serie del “Castoro” e alla traduzione del Malte del 1974 [Rilke 1974] fino a Esoterismo e linguaggio mitologico [1976], in cui si approfondiscono nel fuoco del poeta praghese le riflessioni su mito e artista che erano state già al centro di Germania segreta), o in quelli in cui lo sguardo si punta su fenomeni riconducibili all’ambito del fantastico (al quale anche Jesi partecipò nei suoi rari excursus narrativi come La casa incantata e L’ultima notte). È qui, in particolare, che si presentano per natura stessa del genere uniti molti dei fili che altrove, dispersi, Jesi recupera e riunisce sotto la categoria del mito, e ciò spiega l’attenzione che Jesi ebbe per testi borderline come Le Matin des Magiciens di Louis Pauwels e Jacques Bergier (1960), verso il quale pure, dopo un’iniziale considerazione (in Germania segreta Jesi adopera ampiamente il testo di Pauwels e Bergier per delineare lo scenario esoterico che si muove intorno e assieme al Terzo Reich e ricostruire il “fenomeno di alterazione del mito” (Jesi 1997, 186) che lo caratterizza; mentre in Sopravvivenze mitiche nell’esoterismo nazista scrive che gli “studi di Pauwels e Bergier, […] pur nella loro dichiarata provvisorietà, contengono alcune osservazioni particolarmente acute e stimolanti” (Jesi 2008, 185), il giudizio si fa decisamente critico: con l’avvertenza che “non reca alcuna indicazione di fonti” (Jesi 1979, 53n) e “dev’essere usato con molta cautela” (Jesi 1979, 53n), il volume dei due autori francesi, in cui “ogni pagina resta in un’atmosfera tra l’esoterismo e il puro effetto da feuilleton” (Jesi 1979, 53n), viene assunto come esempio di opera che precipita nel “calderone della fantastoria occultistica” (Jesi 1979, 53) una messe di materiali che, nel rifiuto di ogni analisi storica, economica, politica, finiscono per mettere in scena una manipolazione di miti da parte di forze oscure che agirebbero nelle vicende umane e farebbero la storia da alcuni secoli a questa parte, se non da sempre.

Oppure l’attenzione per il tema vampirico: qui, in particolare nella seconda parte del già rammentato L’accusa del sangue, con il titolo Metamorfosi del vampiro in Germania, Jesi percorre a ritroso il cammino che dai fascismi novecenteschi riporta alle loro radici esoteriche o pseudoesoteriche, e poi di nuovo in avanti, verso di essi e il loro nodo che unisce tecnicismo e occultismo. Il congegno della macchina mitologica si rivela così un’invenzione dalla duplice valenza: con la sua entrata in scena permette di rappresentarli e al tempo stesso di smascherare le loro radici sincreticamente confuse, che si uniscono al filone antisemita nel segno di un’eguale ossessione di paura, di assedio e di smarrimento di certezze. Al centro di entrambi gli scritti de L’accusa del sangue vi è una diversità che si misura nel sangue, e le valenze ugualmente concrete e simboliche che la percorrono sono sovrapposte e mescolate attraverso una rassegna di fatti storici e di letteratura che li riflette. Il fantastico è per la letteratura l’ebreo, il diverso, o almeno uno di essi, la cui linfa è attraversata dalla stessa dissonanza rispetto alla realtà che pervade il nucleo più autentico e profondo della riflessione jesiana, quello che investe la natura e le manifestazioni del mito. Il tema vampirico – succhiamento letteralizzato del sangue – si innesta su quello simbolico dell’omicidio rituale tradizionalmente attribuito agli ebrei e attraverso il quale “uccidendo un cristiano e succhiandone vampiricamente il sangue durante la celebrazione della Pasqua (ebraica), essi credono di conciliare la religione di Mosè con quella di Gesù” (Jesi 2007, 29). A questa interpretazione “storica” della festa pasquale, degradata e corrotta al rango di rituale satanico, se ne sovrappone una più latamente simbolica, secondo la quale gli ebrei, consapevoli della propria colpevolezza di fronte alla morte di Cristo e desiderosi di riscatto, avrebbero appreso che tale riscatto sarebbe potuto giungere soltanto mediante “sanguine Christiano”; ma l’espressione reca in sé una trappola che diverrà una vera e propria maledizione (vampirica):

Anziché capire che la salvezza sarebbe giunta loro dalla conversione, dal battesimo e dall’eucarestia, dunque dal ‘sangue del Cristo’, presero a uccidere ogni anno un cristiano nella speranza di riscattarsi dalla maledizione dei padri (‘Che il sangue di lui ricada sui nostri figli’). Questa interpretazione […] collegava gli ‘omicidi rituali’ degli ebrei da un lato con la condizione del popolo ‘deicida’ (che avrebbe avuto ampia parte nelle persecuzioni antiebraiche), dall’altro con la magia e con i processi contro le streghe (Jesi 2007, 30).

L’“accusa del sangue” si rivela così una definizione duplice e transitiva: l’accusa al sangue degli ebrei, il loro marchio di Caino che ne fa una stirpe maledetta, e l’accusa agli ebrei di abbeverarsi di sangue cristiano, cui fa da corollario una serie di pratiche a essa connesse (il pugnalamento dell’ostia consacrata, il rapimento di bambini a scopo di sacrificio rituale, la preparazione di pane azzimo con impasto di sangue cristiano ecc.: la festa che viene tradita fino all’estremo del suo divenire empia e oscena). Ciò che interessa a Jesi, in questa costellazione, è che l’accusa del sangue va a incardinarsi in una visione del cristianesimo come “mito del sangue di Cristo” da cui l’accusa agli ebrei discenderebbe, deformando il meccanismo originario del mito secondo lo schema che prevede la trasformazione in macchina mitologica.

Da tale decadimento della mitologia cristiana scaturisce anche il tema vampirico, che si autonomizza poi secondo caratteristiche proprie che Jesi indaga nella seconda parte del suo scritto. Da una parte, il vampiro rosacruciano e old gentleman alla Bram Stoker, dietro il quale Jesi, con una lettura sociologica, individua l’incarnazione storica, l’“adesione al secolo” (Jesi 20071, 43) dei “Grandi Sconosciuti” (Jesi 20071, 43), titolari di una presunta superiorità tradizionale che va oltre il tempo; a loro il romanzo nero offre una formula che ne racconta l’estraneità alla storia e al contempo li attualizza nel mentre li secolarizza. Dall’altra, la traccia risale a una tradizione diversa, ben consistente nella letteratura tedesca, e che vede emergere, alle soglie dell’età moderna, figure di revenant, di morti che tornano a reclamare non la vita, ma i vivi, imponendo loro il proprio riscatto. Così Voss, che con Die Pferdeknechte (1776) mette in scena una genia di “spettri sociali”, avi di un moderno feudatario che tornano a infierire sui contadini, di cui individuano le potenzialità destabilizzanti e che, a loro volta, formano con essi una paradossale alleanza che si regge sul bersaglio comune offerto dal loro debole, moderno discendente; e così la Lenore (1773) della celebre ballata di Bürger, in cui la voluttà e l’ebbrezza dell’abbandono alla morte segnano la traccia soprannaturale di un’impronta anticristiana che diede luogo a reiterate accuse di blasfemia. Concrezioni fantastiche cui tuttavia manca l’elemento propriamente vampirico, che Jesi definisce così per contrasto:

Il fidanzato morto della Lenore, però, non è però, propriamente, un vampiro. Vampiro è, innanzitutto, l’essere che succhia il sangue dei viventi e ne trae vita […]. La Lenore è significativa solo nella misura in cui, da un lato, fa irrompere nella letteratura tedesca il tema larvatamente vampirico della “fame di vivi” che hanno i morti, dall’altro lato collega, sia pure nella prospettiva “pietistica”, la “fame dei vivi” che hanno i morti con una forza che è nei vivi e che chiama i morti, i morti affamati di vivi. (Jesi 20071, 46-47)

Tale elemento emerge in senso specifico per la prima volta in E. T. A. Hoffmann e ben oltre i confini territoriali della novella Der Vampir, che ne rappresenta l’esempio più evidente, e va a costituire nel corpus delle novelle hoffmanniane una sorta di autoraffigurazione dell’individuo dalla sensibilità estenuata ed estrema, una possibile incarnazione dell’artista. Sul modello di Hoffmann Jesi definisce il vampiro come colui che “è tanto vicino alla forza della vita da poterla in certa misura manipolare, da suggerla negli altri viventi e perfino in quel vivente che è il suo stesso io” (Jesi 20071, 54). In tal senso, è Heinrich Heine che, seguendo una traccia già hoffmanniana, contribuisce a creare l’immagine che sarà quella, vincente, del vampiro decadente, fondata su “un inquietante autovampirismo che corrisponde alla scissione tra io-artista e io-uomo” (Jesi 20071, 54) e che ne esalta le contraddizioni proiettandone le caratteristiche sul piano dell’“essere maledetti-privilegiati, ed essere morti-viventi” (Jesi 20071, 54).

Proprio in Heine, ebreo, la traccia vampirica si fonde con l’accusa del sangue, che diviene il portato tematico del romanzo incompiuto Der Rabbi von Bacherach (1824-40), nel quale la comunità ebraica di Bacherach am Rhein viene accusata di omicidio rituale e pertanto condannata allo sterminio. Ma per Heine tale accusa, come scrive Jesi, “giunge a circoscrivere l’esterno dell’ebraismo: il volto dell’ebreo, disegnato dai non-ebrei” (Jesi 20071, 56). Un volto che vede appunto nell’ebreo “il succhiatore di sangue, il vampiro per eccellenza, secondo una tradizione antisemita che fa coincidere vampirismo rituale con ‘vampirismo economico’: l’usuraio ebreo succhia sangue ai cristiani, così come i rabbini uccidono per Pesach un bambino cristiano al fine di suggerne il sangue ritualmente” (Jesi 20071, 56).

Da Heine a Richard Wagner il passo è breve, e non solo nella misura del tempo. La mistica del sangue dell’ultimo Wagner, esaltata soprattutto nel Parsifal, e la stessa idea del Gesamtkunstwerk, dell’opera d’arte totale, richiamano l’idea del poeta come agente vampirico, manipolatore delle forze vitali che trova il suo paradigma nell’“uso sacrale, esoterico del sangue di Cristo che […] ricorre nell’opera di Wagner” (Jesi 20071, 59). Meno breve può sembrare il passo ulteriore, quello da Wagner al nazionalsocialismo: eppure, ciò che in Wagner restava ancora sospeso a livello di tematica simbolica, diviene con il nazismo “materiale mitologico tecnicizzato in favore di un’operazione politica con obiettivi di conservazione e profitto ben precisi” (Jesi 20071, 60). Non a caso, scompare in questa nuova prospettiva il vampiro, pressoché assente dalla letteratura nazionalsocialista in cui, in paradosso apparente, la mistica del sangue assume un rilievo mai conosciuto prima: perché, per usare le parole di Jesi, “per gli scrittori nazisti, non solo non esistono censure e autopunizioni, ma non esiste neppure la figura del manipolatore del sangue: egli, il manipolatore del sangue, era concretamente, storicamente presente dinanzi a loro, e ogni coincidenza dell’ambito del mito con l’ambito della storia è una trivializzazione del mito, oppure una sublimazione del mito a ontologia trascendente. L’eroe mitico – in questo caso l’eroe negativo: il vampiro – cede il passo a chi governa o crede di governare la centrale del mito, la macchina mitologica” (Jesi 20071, 62).

Anche come risposta a tali appropriazioni è da leggersi allora il contributo originale e spiazzante che lo stesso Jesi offrirà (stava offrendo, aveva già offerto: il suo romanzo fu scritto tra il 1962 e il 1970, ma apparve postumo nel 1987) alla letteratura vampirica con L’ultima notte. Qui i vampiri, da tempo banditi dal mondo e costretti a nutrirsi del sangue dei morti per sopravvivere, progettano un ritorno in grande stile, un’“impresa epica” destinata ad annientare “i mostri della civiltà urbana” (Cases 2012,197), come scrisse Cesare Cases in una recensione apparsa sull’“Indice dei libri del mese”. Un’impresa non priva, ancora un volta, di contraddizioni. Le stesse che doveva avvertire Jesi quando, facendo suo un ambito di ricerca pieno d’insidie e di controversie come quello del mito, agiva con le sue forze di studioso lucido e coerente per riportarlo nell’orbita dell’indagabile e del conoscibile, sottraendolo alle manipolazioni mistificatorie del potere, al monopolio di una cultura ostile alla vita e votata costituzionalmente a usarlo come strumento di omologazione dell’esistente: e la spinta più grande all’elaborazione di sistemi sempre più complessi, sempre più sottili, scaturiva dal rischio di essere attratto dalle stesse costellazioni esoteriche che andava evocando.

Riferimenti bibliografici
  • Cases 2012
    C. Cases, Recensione a “L’ultima notte”, in Furio Jesi, a cura di M. Belpoliti e E. Manera, “Riga” 31, 2010.
  • Jesi 1976
    F. Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, Messina 1976.
  • Jesi 1979
    F. Jesi, Cultura di destra, Milano 1979.
  • Jesi 1997
    F. Jesi, Germania segreta. Miti nella cultura tedesca del ‘900, postfazione di D. Bidussa, Milano 1997.
  • Jesi 2001
    F. Jesi, La festa e la macchina mitologica, in Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, nuova edizione a cura di Andrea Cavalletti, Torino 2001.
  • Jesi 2007
    F. Jesi, Il processo agli ebrei di Damasco, in L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, intr. di David Bidussa, Torino 2007.
  • Jesi 2007b
    F. Jesi, Metamorfosi del vampiro in Germania, in L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, intr. di David Bidussa, Torino 2007.
  • Jesi 2008
    F. Jesi, Sopravvivenze mitiche nell’esoterismo nazista, in Mito, nuova edizione, con una nota di Giulio Schiavoni, Torino 2008.
  • Jesi 1960
    Louis Pauwels e Jacques Bergier, Le Matin des Magiciens. Introduction au réalisme fantastique, Paris 1960.
  • Jesi 1974
    R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Introduzione, traduzione e note di F. Jesi, Milano 1974.

English abstract

The article takes its cue from the definition of "party" as described in La festa e la macchina mitologica (1973) by Furio Jesi. It examines the close interconnections that Jesi identifies between party, myth and mythological machine, the latter understood as a device inaccessible in itself, but useful as a tool in the service of unmasking manipulative and oppressive ideologies.

keywords | Furio Jesi; party; mythological machine; Heinrich Heine; Richard Wagner; anti-Semitism; vampirism.

Per citare questo articolo / To cite this article: A.Fambrini, ”Sfiorare pericolosamente il diverso.” Furio Jesi, la macchina mitologica e la festa. La rivista di Engramma”, n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 369-374 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0008