Ci sono opere che grazie alla straordinaria fortuna incontrata nel corso del tempo hanno finito per accreditare come indiscutibili dati di fatto, anche nella ricezione comune, alcune ipotesi interpretative decisamente riduttive rispetto alla complessità del tema affrontato. È il caso, per esempio, del libro di Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Dobbiamo proprio a quest’opera il diffuso e radicato luogo comune secondo cui la festa, e in particolare il carnevale, trova nella tradizione popolare medioevale e rinascimentale – sulla scia di un’imagerie grottesca derivata dall’antica mitologia e arte arcaica – la sua espressione più compiuta e vitale attraverso un ribaltamento della scala dei valori compiuto in nome del “principio materiale e corporeo” che, sia pure entro un segmento temporale limitato, riesce a prevalere su ogni altro aspetto della vita collettiva. Durante la festa (dal risus paschalis alla “festa dei folli”, dalla “parodia sacra” alla “festa dell’asino”) si stabilisce, così, un drastico rovesciamento dei modelli sociali e culturali egemoni, regolato – afferma Bachtin – dall’“abbassamento, cioè il trasferimento di tutto ciò che è alto, spirituale, ideale ed astratto, sul piano materiale e corporeo, sul piano della terra e del corpo nella loro indissolubile unità” (Bachtin [1965]1995, 25). Nulla resiste al furore dirompente di una tale deformazione grottesca (anzi, del “realismo grottesco”, secondo la definizione di Bachtin), neanche la Bibbia e il Vangelo, utilizzati nelle feste popolari in chiave “abbassante e materializzante”. Da qui, da questa forza espansiva, traggono origine, secondo Bachtin, la stravaganza e la paradossalità che dominano nelle opere di Bosch e Bruegel come in quelle di Rabelais. L’insistenza di Bachtin sull’elemento “materiale e corporeo” quale principio genetico e connotato precipuo della “forza liberatrice e rigeneratrice” che permea l’autentico spirito carnevalesco, e complessivamente festivo, viene declinata in una chiave così univoca da liquidare come freddamente “astratte”, perché intrise di sterile intellettualismo, le riproposizioni successive di una simile imagerie, sempre più estranea alle esplosioni del ribollente vitalismo popolare diffuse nel Medioevo e nel Rinascimento. Con il Romanticismo la cesura appare a Bachtin irrimediabile:
A differenza del grottesco medioevale e rinascimentale, direttamente legato alla cultura popolare e che aveva un carattere universale e pubblico, il grottesco romantico è un grottesco da camera: è come un carnevale vissuto in solitudine, con la coscienza acuta del proprio isolamento. È come se la percezione carnevalesca del mondo si fosse trasposta nel linguaggio del pensiero filosofico soggettivamente idealistico, e avesse cessato di essere una sensazione vissuta concretamente (si potrebbe dire “corporalmente”) dell’unità e dell’inesauribilità dell’esistenza come accadeva nel grottesco del Medioevo e del Rinascimento (Bachtin [1965] 1995, 44-45).
A confermare i profondi fraintendimenti storico-antropologici su cui poggia la cornice delineata da Bachtin (punto di riferimento comunque indiscutibile per i suoi contributi dedicati specificamente alla teoria della letteratura) basta solo qualche passo di un saggio dedicato alla festa da Kerényi, di sicuro tra i più autorevoli studiosi nel campo della religione antica. Nell’Essenza della festa, pubblicato per la prima volta nel 1938, e poi compreso nelle varie edizioni del volume dal titolo Religione antica, scrive Kerényi:
Occorre che sopraggiunga qualcosa di divino, grazie a cui diviene possibile ciò che altrimenti sarebbe impossibile. Si è innalzati a un piano dove tutto è “come il primo giorno”, splendente, nuovo e “primigenio”; dove si sta con gli dèi, anzi si diviene dèi; dove spira l’alito della creazione e si partecipa a essa. Questa è l’essenza della festa (Kerényi [1995] 2001,58).
Siamo agli antipodi di quel “principio materiale e corporeo”, del radicale “abbassamento” di ogni valore, riconosciuti successivamente da Bachtin quali origine ed epicentro della festa. L’essenza della festa coincide, al contrario, secondo Kerényi, con un innalzamento verso l’universo divino, generato da una tensione spirituale che non si traduce, però, in alcuna estasi o congiunzione con la trascendenza, poiché, come egli aveva ricordato nelle pagine iniziali del saggio, la religione antica – non solo greca, privilegiata dagli studi di Kerényi – è “una religione che non si rivolge all’aldilà; i suoi dèi sono gli dèi di questo mondo e dell’esistenza umana” (Kerényi [1995] 2001, 47). È in opera, dunque, una spiritualità dai tratti squisitamente creativi, che si alimenta di una vigorosa concentrazione ideale, rivolta a instaurare e riconoscere l’indeterminata rete di connessioni che solca l’intero universo fenomenico[1]. La garanzia che un processo del genere non si volatilizzi, ma acquisti una stabile consistenza, è offerta proprio dalla cadenza ciclica del tempo festivo, dalla sua ripetizione secondo precisi intervalli noti a tutti partecipanti. Kerényi sa che si tratta di un nodo cruciale per qualsiasi antropologia della festa, e non manca di sottolinearlo:
Si è innalzati a un piano dove tutto è “come il primo giorno”, splendente, nuovo e “primigenio”; dove si sta con gli dèi, anzi si diviene dèi; dove spira l’alito della creazione e si partecipa a essa. Questa è l’essenza della festa. E ciò non esclude la ripetizione. Al contrario. Non appena i segni della natura, la tradizione e la consuetudine lo rammemorano all’uomo, egli sa partecipare, ogni volta di nuovo, a un essere e a un creare fuori dall’ordinario. Tempo e uomo divengono festivi. Et renovabitur facies terrae. L’“essere rammemorati” non è un fatto secondario. Da un lato ci conduce all’essenza della festa, là dove non soltanto la riconosciamo in base alla nostra esperienza di vita, ma la comprendiamo realmente. Quest’ultimo è l’aspetto spirituale, complementare a quello vitale. Nemmeno negli atti di culto più primitivi è assente un aspetto spirituale (Kerényi [1995] 2001, 58).
L’“essenza della festa”, l’“alito della creazione” che essa diffonde trovano nell’“essere rammemorati” – ribadisce Kerényi – il loro presupposto irrinunciabile e, insieme, il punto di irradiazione nevralgico. Solo grazie alla memoria il tempo festivo, per chi vi partecipa, riesce puntualmente a rinnovare con significati sempre diversi il già-stato di ciascun rituale. Se lo svolgimento di ogni festa si snoda entro la medesima cornice che le ha dato origine, le modalità con cui è possibile di volta in volta parteciparvi comprendono una gamma di variazioni intellettive ed espressive pressoché illimitate. Quante sono le risorse di una memoria chiamata a ri-creare un evento già verificatosi. Senza tale rievocazione – fa intendere Kerényi – sarebbe inconcepibile il tempo festivo.
Dello stesso avviso si dimostra Benjamin. In un passaggio delle sue tesi Sul concetto di storia scrive: “E, in fondo, è sempre lo stesso giorno che ritorna in figura dei giorni di festa, che sono giorni della rammemorazione” (Benjamin [1940] 2006, 491). Se, per Kerényi, la festa opera una ricongiunzione tra passato e presente, ripropone il passato nel presente, per Benjamin essa acquista un’ulteriore, e decisiva, valenza. Permette di sottrarre il passato allo svuotamento prodotto dalla sua consueta integrazione in quello che, nelle battute iniziali di questa tesi (la quindicesima), Benjamin ha definito il continuum della storia[2]. Nel sottrarre il passato all’oblio decretato dall’imperante storicismo, che vorrebbe renderlo una semplice tappa di un processo storico abbagliato dal mito di un generico Progresso, risiede, per Benjamin, la massima festa della conoscenza. A ritagliare i contorni del passato, a definirne lo statuto complessivo, non sono, però, secondo Benjamin, i grandi avvenimenti che ne hanno scandito il corso – pienamente parte di quel continuum orientato verso un indefinito progresso – ma, piuttosto, un immenso serbatoio di dettagli, schegge e sedimenti. La peculiarità della festa consiste proprio nell’estrarre questa costellazione di frammenti dai giacimenti silenziosi del tempo perduto riportandola alla ribalta del presente, di un presente che si rinnova costantemente. Una metamorfosi che avviene, per Benjamin, tramite la “figura”. “È sempre lo stesso giorno che ritorna in figura (Bild) dei giorni di festa”, ha osservato nella citazione riportata. Il passato, cioè, ritorna e sopravvive attraverso l’azione rivitalizzante dell’immagine che, sempre di nuovo, penetra nel presente, con una fenditura che ne lacera l’ipotetica autosufficienza.
Sembra di ascoltare le parole utilizzate da Warburg per indicare la premessa da cui è nato Mnemosyne, l’”Atlante delle immagini” realizzato sistematicamente negli ultimi cinque anni di vita: “Esso potrebbe essere definito – scrive Warburg nell’introduzione – come il tentativo di incorporare interiormente dei valori espressivi pre-esistenti al fine di rappresentare la vita in movimento” (Warburg 2002, 3). La “vita in movimento” corrisponde anche per lui, in tacita sintonia con Benjamin, al dinamismo intrinseco che si annida nella memoria: anzi, più precisamente, nel flusso ininterrotto di immagini che, scompaginando l’ordine del continuum temporale, essa riporta senza sosta alla luce, in un presente sempre difforme, perché sempre nuovo. Ogni segmento di questo presente, se raccordato alle immagini del passato che vi sopravvivono, coincide, dunque, con un giorno di festa, proprio nell’accezione attribuitale da Kerényi: con la riproposizione di un corredo di gesti, movimenti, espressioni che testimoniano la loro dipendenza dal passato nel momento stesso che gli attribuiscono un significato ogni volta singolare, irriducibile a un ordine codificato. Warburg ne è così convinto dal rilevarlo quasi in apertura dell’introduzione a Mnemosyne:
La memoria non solo crea spazio al pensiero, ma rafforza i due poli-limite dell’atteggiamento psichico: la serena contemplazione e l’abbandono orgiastico. Anzi, essa utilizza l’eredità indistruttibile delle impressioni fobiche in modo mnemico. In tal modo, la memoria non cerca un orientamento protettivo, ma tenta di accogliere la forza piena della personalità passionale-fobica, scossa nei misteri religiosi, per creare uno stile artistico (Warburg 2002, 3).
La memoria, come la descrive Warburg in questo passo, risponde a tutti i requisiti di un vettore che si dispiega in uno spazio vuoto. Non può che essere tale il territorio compreso nei “due poli-limite” della “serena contemplazione”, da un lato, e dell’“abbandono orgiastico”, dall’altro. La sua estensione illimitata include l’intero arco delle “espressioni” primarie – termine particolarmente caro a Warburg – che caratterizzano l’uomo, all’insegna della convivenza, instabile e precaria, di due principi antinomici quali Apollo e Dioniso.
Se ne dimostra altrettanto persuaso Giulio Paolini nel ciclo delle sei opere composte tra il 1981 e il 1990 con il titolo di Mnemosine (Les Charmes de la Vie). Riunite per la prima volta, dal settembre 2015 al gennaio 2016, nello Spazio -1, interno al circuito del Museo d’arte della Svizzera italiana di Lugano, vengono ricapitolate da Paolini con la sigla di Teatro di Mnemosine. Giulio Paolini d’après Watteau. In questa occasione il nome di Watteau compare esplicitamente, non solo come l’implicito autore di Les Charmes de la Vie, il quadro trasformato in un’enigmatica traccia mnestica dalle rielaborazioni di Paolini compiute nei decenni precedenti.
L’arcadica fête galante offerta da Watteau con Les Charmes de la Vie, benché solcata dalla malinconica “serie inquieta d’istanti” (Starobinski [2006], 2008, 77) tipica di un genere pittorico consapevole di quanto sia caduca l’apollinea attrazione per un piacere puramente sensibile, rimane, tuttavia, una rappresentazione che si proietta nello scenario naturale per dominarlo compiutamente. “Watteau, infatti – suggerisce ancora Starobinski –, compone un mondo riunendo elementi separati: luce di Rubens, vegetazione del Lussemburgo, figure tratte dal suo album di schizzi” (Starobinski [2006] 2008, 65).
Siamo di fronte a quell’utopia estetica che Paolini, richiamandola di continuo, ha programmaticamente tentato di smembrare in ogni tappa della sua intensa attività artistica, sfidando a ogni passo la tradizione (come ha scritto di recente Andrea Cortellessa “il futuro e il passato si scambiano di segno, l’uno scruta nell’oracolo dell’altro, senza fine i duellanti proseguono il loro agone”, Cortellessa 2019, 50). In uno dei suoi ultimi interventi, dal titolo rilkiano Quando è il presente?, Paolini ha infatti ribadito:
Un’opera non concederà mai a nessuno, in nessun caso, il pieno possesso delle sue generalità e il suo autore sarà soltanto il primo testimone prescelto per compiere la delicata missione di custodire un insondabile segreto. L’opera riguarda invece il come e il perché, cioè le ragioni (sempre che ve ne siano) che determinano l’apertura del sipario della rappresentazione. […] Et in Arcadia ego: forse l’immagine più promettente, condivisibile, è un panorama di rovine classiche per la fascinazione che una tale visione procura ai nostri occhi, desiderosi di consolazione e riposo (Paolini 2022, 54-55).
Che la consolazione e il riposo evocati da Paolini non traggano in inganno. Prima della loro comparsa – un intervento di chiara ascendenza apollinea – è sfilato sotto i suoi occhi “un panorama di rovine classiche”, lo scompaginamento, cioè, dell’ordine armonico provocato dall’irruzione violenta di Dioniso. Un’incursione che nelle sei opere appartenenti al ciclo di Mnemosine ha impresso le sue tracce indelebili. Degli Charmes de la Vie raffigurati da Watteau rimangono varie sequenze di frammenti disarticolati, come dimostra uno dei sei pannelli qui riprodotti. Le colonne che quasi racchiudono la fête galante si sono tramutate in un’ampia cornice contenente, a sua volta, varie tele: due, vuote, disposte simmetricamente sia sopra sia sotto le quattro colonne, altre due riempite da alcuni dei colori presenti nel paesaggio di Watteau (una, poggiata in alto, ne lascia intravedere, nell’ombra, solo qualche macchia). Non è in atto, però, da parte di Paolini, alcuna trasgressione o volontà iconoclasta. La “festa galante” di Watteau protrae ancora il suo charme. Nelle uniche modalità attraverso cui la memoria può essere fedele al passato: lasciandolo “sopravvivere” – direbbe Warburg – grazie alle sue innumerevoli variazioni e rielaborazioni, anche grazie ai suoi tradimenti. Proprio come avviene in ogni festa che confermi la sua necessità.
Note
[1]Sono connotati che, per Kerényi, valgono anche per quelle feste dalla matrice “orgiastica”, secondo la sua definizione. È il caso, per esempio, dei rituali legati al culto di Dioniso. L’ebbrezza che vi domina non ha nulla, secondo lui, del selvaggio tripudio fisico caro a una secolare tradizione mitografica e filosofica, poiché va riportata nella costellazione semantica della zōé, della vita intesa – sottolinea nella sua opera dedicata a Dioniso – come “esperienza della vita infinita”, indistruttibile (Kerényi [1976] 1992, 21). Perciò egli afferma in uno dei capitoli centrali di quest’opera che “il mito di Dioniso esprimeva la realtà della zōé, la sua indistruttibilità che veniva spiritualmente percepita come un dato di fatto, e il suo particolare legame dialettico con la morte. Le azioni del culto rimasero fisse, condotte per secoli seguendo lo stesso schema” (Kerényi [1976] 1992, 225).
[2]Su questo testo fondamentale di Benjamin, che costituisce il suo ultimo lavoro compiuto, oggetto di molteplici interpretazioni, cfr. soprattutto le pagine illuminanti che gli dedica Carchia 2000, 107-121.
Riferimenti bibliografici
- Bachtin [1965] 1995
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W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Opere complete, VII. Scritti 1938-1940, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, Torino 2006, 483-493. - Carchia 2000
G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Roma 2000. - Cortellessa 2019
A. Cortellessa, Un appuntamento rinviato, in G. de Chirico, Il cervello e la mano – G. Paolini, Un appuntamento mancato, Torino 2019, 41-63. - Kerényi [1976] 1992
K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, a cura di Magda Kerényi, Milano 1992. - Kerényi [1995] 2001
K. Kerényi, L’essenza della festa, in Id., Religione antica, Milano 2001, 45-68. - Paolini 2015
G. Paolini, Teatro di Mnemosine. Giulio Paolini d’après Watteau, a cura di B. Della Casa, Bellinzona 2015. - Paolini 2022
G. Paolini, “Quando è il presente?”, in Quando è il presente?, a cura di B. Della Casa e S. Risaliti, Firenze 2022, 51-55. - Starobinski [2006], 2008
J. Starobinski, L’invenzione della libertà 1700-1789, Milano 2008. - Warburg 2002
A. Warburg, Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, a cura di M. Warnke con la collaborazione di C. Brink, edizione italiana a cura di M. Ghelardi, Torino 2002.
The article discusses the work of the Russian philosopher and literary theorist Mikhail Bakhtin, specifically his book Rabelais and His World. The author argues that Bakhtin's interpretations of the medieval and Renaissance carnivals as expressions of grotesque realism have been oversimplified and reduced over time. The article also highlights the differences between the medieval and Renaissance carnivals and the romantic grotesque, which Bakhtin claims was a carnival of solitude and subjectively idealistic philosophy. The article questions the historical and anthropological misunderstandings underlying Bakhtin’s framework and offers a contrasting view of the essence of the festival, as described by the German scholar Kerényi, who emphasizes the divine and the creation of something new and primordial.*
*The English abstract above was written by ChatGPT and strictly unedited by the editors of this issue (> Editoriale). This sentence itself was automatically translated with DeepL.
keywords | Bachtin; L’opera di Rabelais e la cultura popolare; Kerényi; Mnemosine; Giulio Paolini.
Per citare questo articolo / To cite this article: A.Mazzarella, La festa della memoria, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 85-90 | PDF