F.I.E.S.T.A.
Festose Istituzioni Euromediterranee per Spazi Transtemporali delle Arti?
Giuseppe Allegri
English abstract
La realtà, il quotidiano possono rivelare aspetti strani e
meravigliosi.
Leonor Fini
Ringrazio la professoressa Monica Centanni e l’intera Redazione per avermi coinvolto nei festeggiamenti del numero 200 de “La rivista di Engramma”, occasione che mi permette di tornare su di un tema che proprio su questa rivista (166, giugno 2019) provai a trattare, a proposito della necessità di immaginare nuove istituzioni sociali e politiche in quella transizione delle forme di vita, del lavoro e del fare impresa che, dalle intuizioni e sperimentazioni imprenditoriali e culturali di Adriano Olivetti giunge all’emergere di un quinto stato (Allegri, Ciccarelli 2013), sospeso tra intermittenza della retribuzione, precarietà di frammentarie, eppure pervasive, attività lavorative – soprattutto nel settore culturale, della conoscenza e della comunicazione – e ricerca di inedite forme di tutele e garanzie, per una società post-salariale.
Riannodo il filo con quella riflessione seguendo la mossa del cavallo proposta dalla stessa Redazione, volgendo uno sguardo festoso all’urgenza, già affermata altrove, di ripensare le istituzioni intese come prodotto della dimensione relazionale dell’essere umano in società (Allegri 2021). Vere e proprie creazioni collettive per un buon vivere in comune, frutto di una sorta di General Intellect, per riprendere la formula del giovane Marx, da intendersi come immaginazione e prassi della cooperazione sociale, per transitare da una simpatia limitata all’affermazione di una generosità estesa, seguendo gli insegnamenti di David Hume riletti dall’interpretazione di Gilles Deleuze, “per inventare artifici e creare istituzioni che forzino le passioni a superare la loro parzialità e formino altrettanti sentimenti morali, giuridici, politici (ad esempio il sentimento di giustizia) ecc.” (Deleuze 1976, 47; Deleuze [1953] 1981). Si tratta di tornare a interrogare le possibilità dell’inventività e della creatività sociale che immagina le proprie istituzioni in mutamento, nello scarto tra permanenza e innovazioni, stabilità e trasformazione (Castoriadis [1975] 2022), alla ricerca di immaginari collettivi che possano ripensare le istituzioni dentro e oltre la condizione pandemica e bellica, nella quale quella che ancora ci ostiniamo a chiamare vecchia Europa continua faticosamente a (soprav)vivere. Si intraprende così un sintetico incedere per punti interrogativi, appunti e contrappunti. Con la sentita brevità di un omaggio a questa preziosa Rivista, spazio aperto di ragionamenti e immaginazioni in comune.
Disgustati dal macello della Prima guerra mondiale ci
dedicammo alle belle arti.
Richard Huelsenbeck, En avant dada, 1920
Da Dada a noialtri tutte, un secolo dopo?
Un secolo dopo l’insurrezione dadaista contro nazionalismi e imperialismi protagonisti del macello della Prima guerra mondiale, siamo ancora a scrivere mentre nel cuore dell’Europa orientale e continentale il neonazionalismo imperialista putiniano porta il suo conflitto nel cuore dell’Ucraina, generando altri contro-movimenti nazionalistici. Lì, una irriducibile generazione di ribelli, artiste, teatranti, pittrici, cantanti, fuggiaschi, disertori, pacifiste, liberi pensatori, attiviste cosmopolitiche e internazionalisti trovò un rifugio nella neutrale Svizzera per disertare la chiamata nazionalista, in quel di Zurigo, nel tempo e nello spazio liberato del Cabaret Voltaire per cospirare contro le malefiche e mortifere potenze di intolleranti e sciovinistiche classi dirigenti che per un altro, tragico, trentennio avrebbero annichilito la vecchia, dispotica, totalitaria e colonialista Europa, portandosi dietro tutto il mondo. Eppure, quella plurale forza intellettuale e artistica collettiva scelse di lottare contro la guerra civile europea provando a smontare le premesse belligeranti dello Stato monoclasse ottocentesco (Giannini 1986), rifiutando quel rigido ordine organicista statualistico che al suo interno dominava le classi subalterne e al suo esterno produceva conflitti tra nazionalismi e imperialismi, dove le masse venivano appunto mandate al macello di trincee e bombardamenti.
Così l’iniziale dissacrante balbettio Dada fu anche un uso immaginifico e stravolto dei luoghi di incontro dell’Europa Otto-Novecentesca – il Cabaret – e della sua inaridita ragione – Voltaire. Per sconfiggere le ombre dei lumi, direbbe Tzvetan Todorov, che “sono l’esito di un’ipertrofia: una delle istanze del movimento viene isolata e portata all’estremo; le altre, che la limitavano, sono accantonate o ignorate. […] Il desiderio di diffondere gli ideali dell’illuminismo […] può rivoltarsi contro sé stesso, è possibile uccidere e torturare in nome dei diritti umani altrettanto facilmente che in nome di Dio” (Todorov [2018] 2019, 307). Il Cabaret Voltaire diviene allora una dimensione spaziale multitemporale dove tenere insieme letture, incontri, performance, voci, canti, suoni capaci di evocare una alter-Europa, un altro tempo per le europee e gli europei in fuga dai loro fantasmi. Una istituzione sociale – il cafè-cabaret – un pensiero filosofico – l’illuminismo volterriano – per mettere in tensione istituzioni e pensieri di quella tradizione europea capace di far germogliare i contrari: libertà laddove prevale asservimento; cosmopolitismo in luogo dei nazionalismi; aperture all’altro invece che chiusure identitarie; diserzione conflittuale contro gli eserciti. Dedicarsi alle belle arti, rifiutando l’arte della guerra, bruciando notti di festa nel Cabaret Voltaire, per superare la notte di Europa. Anche lì la festa mostrava “la sua indole di tempo fuori del tempo” (Pierazzuoli 2020, 33), contro il bellicoso tempo che ebbero in sorte. Perché “al Cabaret l’arte veniva messa in scena come una rivelazione notturna del volto nascosto - ora lo vedi e ora non lo vedi - pazienza se la maggior parte delle persone erano ubriache, ballavano, non vedevano nulla o semplicemente erano lì per divertirsi; era una prova notturna che i dadaisti volevano recitare, era un paradosso, oltre una semplice prova” (Marcus [1989] 1991, 222).
Ora, qui, siamo reduci da quasi un triennio di pandemia globale e da oramai un anno di bellicosa invasione della Russia putiniana nei confronti dell’Ucraina, dentro un conflitto strisciante che sembra coinvolgere l’intero confine euro-orientale, fino all’Europa continentale. Uno scacco doppio, esistenziale e culturale, che non sembra incontrare le forze immaginative e pragmatiche per invertire la tendenza di impoverimento sociale, relazionale, sanitario, economico di un vecchio Continente posto ai margini di una nuova articolazione globale tra Oriente ascendente e Occidente decadente. Con la consapevolezza, inoltre, che quel processo di creolizzazione d’Europa incontra nuove forme di chiusure identitarie tra classi dirigenti nazionaliste e movimenti culturali e sociali xenofobi e rende sempre più faticoso quell’incamminarsi sulla via delle decolonizzazione europea, invocata e intrapresa decenni fa dallo studioso di letteratura comparata Armando Gnisci (1946-2019) e da intendersi come suo inesauribile lascito (Gnisci 2002, 2003), per dismettere l’habitus eurocentrico e percepirsi come noi tutte e tutti insieme, in una visione di ecologia sociale dell’umanità sulla terra.
Anche per questo, il messaggio che quell’avanguardia artistica, poetica e politica ci lanciò oramai un secolo fa può tornare ora in circolazione, dentro e contro la pandemia e la guerra, potendolo articolare con un ennesimo interrogativo che attraversa la secolare contro-storia europea.
Dopo la guerra […] sarà un nuovo fiorire dell’arte, un nuovo
affermarsi dei valori, un brillar nuovo di idee
Maria d’Arezzo, 1914.
Festose istituzioni e antichi maestri e maestre, per re-immaginare Europa oltre Europa?
Del resto, l’incendio Dada ha attraversato il secolo scorso proprio a partire dalla connessione tra immaginari artistici, spazi sociali di incontri, produzioni culturali e continua ricerca di libertà, guidando le avanguardie in giro per il mondo, passando per il Situazionismo, fino al punk e oltre, pensando ai Cabaret Voltaire, prolifico collettivo e gruppo musicale electro-industrial fondato a Sheffield già nel 1973 e poi attivo nella scena punk e soprattutto post-punk europea, giungendo poi al cyberpunk quindi a rave & club culture che ha chiuso il secolo appena passato, in quelle correnti utopiche giunte al nuovo millennio (Berger 2021), ibridando gli spazi urbani, immaginando e praticando futuri cabaret di arti soniche, performative, teatrali.
Allora si procede continuando a evocare questa trans-generazionale intelligenza collettiva, che potrebbe accompagnarci e sostenerci nello scandagliare il nostro incedere da europee ed europei erranti, “noi senzapatria” (Hirschmann 1993), così ci ha raccontato e insegnato Ursula Hirschmann (Berlino, 1913 – Roma, 1991), eurofederalista errante, potremmo anche ricordarla così, insieme a molto altro (Passerini, Turco 2011), in fuga giovanissima dalla Germania nazista, tra la Francia e l’Italia, dove “resta però vero che le lunghe stagioni di bel tempo creano effettivamente in questo paese quella continua osmosi tra case e strade, strade e caffè, caffè e piazza che non esistono nel nord, e aprono il cuore alla gioia e a rapporti umani più facili” (Hirschmann 1993, 136). Quasi si possa pensare a una conviviale, accogliente e festosa Europa mediterranea di caffè all’aperto, affacciati sul bacino comune al nord Africa e al vicino Oriente, i bar arabi si trovano nel Mediterraneo ci raccontava ancora una volta Armando Gnisci, giocando d’immaginazione linguistica sul palindromo i bararabi: “forse sapendo che io amavo starmene nei giardini interni dei bar arabi, tra Alessandria e Parigi, tra Gerusalemme e Venezia” (in Il palindromo. MediterraneaMente).
Ma un altro – certo più autorevole e forse tradizionale – europeo errante ci ricorda che “l’Europa è i suoi caffè, quelli che i francesi chiamano cafés […]. Basta disegnare una mappa dei caffè ed ecco gli indicatori essenziali dell’“idea di Europa”. Il caffè è il luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo. Lo frequentano il flâneur, il poeta, il metafisico con il taccuino. È aperto a tutti, e al tempo stesso è un club, una massoneria di identità politiche o artistico-letterarie” (Steiner [2004] 2006, 29-30). Il caffè, che è bar e all’occorrenza cabaret, ecco la vera istituzione comune, altro che la moneta (unica o comune), oltre l’Europa, verso oriente e verso sud, in perenne trasformazione, aperta all’altro(ve) da sé, proprio intorno a quel Mediterraneo che invece da troppo tempo è la tomba di migliaia di corpi e sogni migranti, vittime di brutalità escludenti, razziali, identitarie, di fronte alla permanenza mostruosa del Leviatano (Pisanò 2019), cupa rappresentazione hobbesiana di quello Stato sovrano che deriva dal famelico mostro acquatico dell’immaginazione biblica e tuttora mortifera immagine, capace di lasciarci senza parole.
Eppure proprio il bar, il caffè è da sempre l’istituzione senza porte, spazio di asilo e accoglienza plurale: “Anche il Pedrocchi di Padova, come il Florian di Venezia, era un caffè senza porte. All’idea del caffè si associava l’idea dell’asilo. […] L’‘asilo’ doveva essere aperto a ogni ora del giorno e della notte. Pronto ad accogliere il viandante che passa, il viaggiatore che arriva, lo studente che vuole studiare ma non ha soldi per comprarsi il carbone o la legna, l’uomo ‘che non sa dove andare’ (caso più tragico di tutti) e il comune, il paziente, l’allegro senzatetto”. Questo la celebre narrazione contenuta in Catafrossi, in Ascolto il tuo cuore, città (1944) di Alberto Savinio (nato Andrea de Chirico, Atene, 1891 – Roma, 1952), artista eclettico, musicista, scrittore, pittore, affabulatore che, spesso insieme al fratello, ha attraversato tutte le avanguardie del primo Novecento e che fissa nella nostra memoria la vocazione storica dei caffè, porto franco di un asilo collettivo, inteso come invito al rifugio, alla protezione, al sostegno di erranti viandanti, studenti, artisti, spesso tanto squattrinati quanto necessari di accudimento, ospitalità, accoglienza, senza essere costretti alla consumazione, osserva ancora Savinio (Savinio [1944] 1988, 53). È la libera repubblica delle lettere e delle arti nei bar, caffè, brasserie dell’affaticata modernità europea, a significare l’universalità di questo caffè e di molti altri, dove la vocazione all’ospitalità genera incontri imprevisti, produce stanzialità occasionali, invita a immaginare istituzioni-rifugio, istituzioni-santuario. E nei mediterranei mesi miti, all’aperto, permetterebbe di ripensare questi luoghi come nuove agorà, spazi pubblici votati alla libera circolazione dell’aria e delle idee contro la diffusione dei virus, anche quello bellicoso, quindi in favore delle pratiche più solidali e filantropiche possibili, per l’accoglienza festosa di un altro tempo da vivere insieme.
Riferimenti bibliografici
- Allegri 2021
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This paper proposes a festive rethinking of European social institutions of artistic and cultural production in the last century, from the Dadaist experience to bars and cafes understood as spaces of asylum and hospitality, as sanctuary institutions.
keywords | Institutions; European social imaginary; Dadaism; European cafés; Sanctuary institutions.
Per citare questo articolo / To cite this article: G.Allegri, F.I.E.S.T.A. Festose Istituzioni Euromediterranee per Spazi Transtemporali delle Arti? ”Rivista di Engramma” n.200, marzo 2023, vol.1, pp. 23-30 | PDF