La festa delle Antesterie, gli Uccelli di Aristofane e il satiro con lo sgabello
Concetta Cataldo
English abstract
Sotto l’arcontato di Cabria (414 a.C.) Aristofane mette in scena gli Uccelli conseguendo il secondo posto nell’agone comico delle Grandi Dionisie dopo Amipsia, che presentò i Comasti e prima di Frinico, che allestì il Misantropo. A dire il vero, Aristofane non curò neanche la regia della commedia che fu affidata a un suo stretto collaboratore, Callistrato. Queste le scarne notizie recuperabili dalla didascalia alessandrina della commedia:
Ἐδιδάχθη ἐπὶ Χαβρίου ἄρχοντος διὰ Καλλιστράτου ἐν ἄστει, ὃς ἧν δεύτερος τοῖς Ὄρνισι. Πρῶτος Ἀμειψίας Κωμασταῖς, τρίτος Φρύνιχος Μονοτρόπῳ.
Fu rappresentato durante l’arcontato di Cabria [...], ad opera di Callistrato, che fu secondo con gli Uccelli. Primo fu Amipsia con i Comasti, terzo Frinico con il Misantropo (trad. Zanetto 1987, 11).
La trama
Due vecchi, Pisetero ed Evelpide, scappano via da Atene poiché sono disgustati dalla insensata passione che i loro concittadini nutrono nei confronti dei processi e si mettono alla ricerca di una località utopica dove, vivendo in pace, possanro trascorrere la loro vecchiaia. Durante questa ricerca incontrano Upupa: un tempo era stato un uomo (Tereo), e per i due, è lui l’uccello adatto a sapere se esista una città nella quale si possa vivere in pace. Siccome nessuna delle indicazioni che Upupa fornisce sembra soddisfacente gli propongono di fondare una città dedicata agli uccelli: questa proposta piace molto a Upupa che invita tutti gli uccelli a esprimersi in merito. Gli uccelli reagiscono negativamente all’invito poiché riconoscono in Pisetero ed Evelpide i rappresentanti di una stirpe, quella umana, che è malvagia e che da sempre è ostile alla loro specie. Upupa però riesce a convincerli e Pisetero illustra il suo progetto: la fondazione di una città celeste dove gli uccelli potranno dominare sia sugli uomini sia sugli dèi. La città è fondata con il nome di Nubicuculia (Νεφελοκοκκυγία), e immediatamente si riempie di personaggi poco raccomandabili come Metone, un poetastro, astronomo e matematico che vive come un pitocco. Un messaggero porta la notizia che in tempi veramente brevissimi sono state erette le mura della città e che la dea Iride è stata bloccata poiché sorpresa mentre cercava di invitare gli uomini, per conto di Zeus, a sacrificare agli dèi. La fama della fondazione di Nubicuculia ormai si è diffusa su tutta la terra e purtroppo questo attira altri personaggi equivoci. A un certo punto entra in scena Prometeo, il Titano amico degli uomini, il quale giunge a Nubicuculia per dare dei buoni consigli a Pisetero. Sopraggiunge intanto un’ambasceria formata da Poseidone, Eracle e il dio barbaro Triballo. Gli ambasciatori hanno un compito difficile, affidato loro da Zeus: cercare di trattare per il termine delle ostilità tra gli dèi e gli abitanti della città di Nubicuculia: alla fine si raggiunge un accordo, che viene suggellato dalle nozze tra Pisetero e Regina, una fanciulla bellissima che gli era stata già anticipata come promessa sposa da Prometeo.
Il dialogo tra Prometeo e Pisetero (Ar. Av. 1494-1552)
A poco più di duecento versi dalla fine della commedia si assiste a un dialogo tra Prometeo e Pisetero: il Titano entra in scena nascosto da un ingombrante mantello (v. 1495) poiché teme di essere visto dall’alto da Zeus. Prometeo, infatti, così come raccontano le fonti, sta scontando inchiodato alla rupe del Caucaso la pena inflittagli dal padre degli dèi per aver rubato e donato il fuoco agli uomini (sul punto, rimando a Cataldo 2022, 11-49). Il Prometeo degli Uccelli, temendo di essere visto da Zeus, non soltanto porta con sé qualcosa sotto cui è possibile ripararsi, ma al v. 1508 Aristofane ci dice che sta utilizzando addirittura un parasole per evitare lo sguardo indiscreto degli dèi. Da queste poche battute appare chiaramente l’intento del commediografo di ridicolizzare il Titano che nell’economia drammaturgica entra nello svolgersi della trama comica esclusivamente per supportare la protesta di Pisetero, ma che finisce per essere, assieme a Zeus, uno dei protagonisti della derisione aristofanea: la sua prigionia, secondo il mito drammatica e cruenta, stando alla commedia non sarebbe poi così severa se – per quanto sia legato a una colonna (Esiodo) o inchiodato a una rupe (Eschilo) – riesce agevolmente a svignarsela (Aristofane) comparendo in scena impaurito e “intabarrato” (Grilli 2021, 351) sotto il naso del padre degli dei.
Inoltre, il suo costume teatrale è completato dall’uso di un parasole (σκιάδειον), un accessorio solitamente femminile “anche se documentato in relazione a uomini o Sileni” (Grilli 2021, 351): tra le tante raffigurazioni vascolari di uomini ammantati e con parasole si segnalano una kylix a figure rosse attribuita a Brygos in cui la figura maschile, rappresentata da sola, è riprodotta sul fondo interno della vasca (Parigi, Musée du Louvre, n. inv. G285; 450 a.C. circa. Beazley 1963, 380, n. 170), e un cratere a colonnette a figure rosse attribuito al Pittore del Porco (Cleveland (OH), Museum of Art, n. inv. 26.549; 480-460 a.C. Beazley 1963, 563, n. 9) in cui il parasole è tenuto sì da un personaggio maschile, ma inserito in un contesto di komos ‘anacreontico’. Meno frequenti sono le raffigurazioni di satiri o sileni con parasole, e in quel caso l’ombrello è utilizzato per fare ombra o comunque per coprire un personaggio femminile, la basilinna: uno skyphos a figure rosse attribuito al Pittore di Penelope ritrae un satiro con una vistosa corona a più punte mentre regge un ombrellino a protezione della moglie dell’arconte basileus – anch’ella (come Prometeo e gli uomini nelle raffigurazioni di komos ‘anacreontico’) “intabarrata” in un himation drappeggiato (Berlino, Antikensammlung, n. inv. F2589; 440 a.C. Beazley 1963, 1301, n. 7). Sull’altro lato dello skyphos un satiro spinge una fanciulla su un’altalena: questo vaso, così come la maggior parte delle ceramiche che riproducono giovinette o bambini su dondoli, è solitamente collegato alla festa dell’Aiòra, dedicata al ricordo di Erigone e celebrata il terzo giorno delle Antesterie (Burkert 1983 [1972], 241; in disaccordo con Burkert è Harder 2012, 958-959). Come già detto in precedenza, il parasole è un tipico oggetto femminile: oltre a essere raffigurato in contesti di gineceo è presente anche su alcuni vasi che riproducono un momento della cerimonia dei Choes che si celebrava durante le Antesterie. Usando dei mestoli, fanciulle o sacerdotesse versano del vino mescolato ad acqua in grossi stamnoi poggiati su tavolinetti e davanti a xoanon di Dioniso coronato di grappoli e pampini (un esempio è sullo stamnos del Museo Archeologico Etrusco di Firenze attribuito al Pittore di Villa Giulia, n. inv. 4005; 460-450 a.C. Beazley 1963, 621, n. 37).
I casi finora riportati testimoniano la versatilità del parasole nel mondo greco sia come ornamento presente in contesti di komos (associato al vino e al culto dionisiaco), o come accessorio ornamentale femminile, oppure come paramento distintivo di alcuni tipi di cerimonie religiose, le quali evidentemente prevedevano processioni all’aperto in cui era necessario proteggersi dal sole. Elemento che lega il parasole a momenti di corteo è anche l’himation che avvolge da capo a piedi sia le figure maschili che femminili raffigurate di profilo: come noto, la convenzione iconografica prevede che la persona ammantata sia in uno spazio aperto, e quindi, anche, durante una processione.
Tornando agli Uccelli, così scrive Aristofane al termine del dialogo tra Pisetero e Prometeo:
Πρ. ἀλλ’ ὡς ἂν ἀποτρέχω πάλιν
φέρε τὸ σκιάδειον, ἵνα με κἂν ὁ Ζεὺς ἴδη
ἄνωθεν, ἀκολουθεῖν δοκῶ κανηφόρῳ.
Πε. καὶ τὸν δίφρον γε διφροφόρει τονδὶ λαβών.
Pr. Ma per farmi andar via dammi il parasole,
così anche se Zeus mi vede da lassù mi prende per
l’ancella di una canèfora.
Pi. Allora tieni anche questo, così sembri la serva che porta lo sgabello.
(Ar. Av. 1549-1552; trad. di A. Grilli 2021, 357)
Il dialogo si chiude con l’uscita di scena di Prometeo, il quale chiede a Pisetero il parasole e riceve da costui anche uno sgabello (producendo un effetto che dobbiamo immaginare comico). Da queste poche battute ricaviamo una conferma riguardo una consuetudine sociale, fedelmente rappresentata anche iconograficamente sia sui vasi che su altre classi di materiali, e cioè la presenza nella società greca di una categoria di subalterni, i quali, essendo di rango sociale inferiore, si preoccupano delle esigenze di coloro da cui dipendono – portare un parasole o uno sgabello come in questo caso – attraverso un formulario comportamentale codificato e riconoscibile che, se stravolto (Prometeo che esce di scena con lo sgabello) doveva produrre effetti esilaranti. Ma è possibile che l’uscita di scena del Titano possa essere interpretata anche diversamente. I versi in esame potrebbero essere ascritti alla categoria di scene e di battute che per noi è difficile da cogliere e da interpretare per la distanza temporale e culturale che ci separa dal contesto dell’Atene del V secolo a.C. Ciò che faceva ridere gli ateniesi non è detto che susciti in noi la stessa ilarità: in particolare, se un attore in scena vestito da Prometeo con un ombrello e uno sgabello può evocare un personaggio genericamente ridicolo, certamente ci mancano alcuni (o tutti i) riferimenti e le allusioni a cui Aristofane affidava la comicità della scena.
Chiediamoci dunque: quali sono le motivazioni drammaturgiche per l’inserzione nel cast del personaggio di Prometeo, e in particolare per il dialogo fra il Titano e Pisetero? Aristofane si rivolgeva a un pubblico che probabilmente coglieva nell’immediato il gioco con il materiale mitico, lo stravolgimento rispetto all’uso comune degli oggetti, le eventuali allusioni a personaggi contemporanei messi alla berlina, e il doppio senso di battute che a noi sfuggono. Ad esempio, nello stesso dialogo tra Pisetero e Prometeo, al v. 1549 compare il nome di ‘Timone’ sulla cui identificazione c’è un dibattito tra gli studiosi (Grilli 2021, 357). Sulla scena vale l’osservazione di Giuseppe Zanetto: “queste parole sottendono una gestualità che non si riesce affatto facile ricostruire” (Zanetto 1987, 304).
Lo skyphos del Pittore di Lewis
Resta la domanda sul perché Aristofane abbia evocato lo sgabello e il parasole (nei suoi versi ed evidentemente anche come oggetti di scena) per chiudere l’atto di Prometeo e per poi passare alla parte finale della commedia. Si richiama qui un dato: il dialogo tra Prometeo e Pisetero potrebbe essere accostato a una serie di ceramiche della stessa tipologia morfologica (in prevalenza skyphoi, di cui si propone un esemplare per tutti) i quali presentano uno schema iconografico comune, che prevede la rappresentazione degli stessi personaggi, con alcune varianti di posture e di oggetti raffigurati.
Prima di descrivere le caratteristiche iconografiche del vaso, pare opportuno fornire alcune brevi considerazioni sul Pittore di Lewis (identificato anche con il nome di Polygnotos II) utili a comprendere le scene raffigurate sullo skyphos del Puškin (Beazley 1963, 972-976). Il Pittore di Lewis produce principalmente skyphoi, una tipologia di forme utilizzata per bere, sovente decorata con scene dionisiache che alludono al banchetto e alla gioia del consumo del vino. Altra caratteristica del pittore sono le figure ‘in corsa’, cioè scene di inseguimento dove i personaggi si rincorrono da un lato all’altro del vaso: questo particolare è importante per delineare lo stile del pittore che preferisce soggetti dinamici, i quali, per mettere in essere le proprie azioni, utilizzano tutto lo spazio pittorico disponibile con narrazioni figurative continue, in cui il racconto di ciò che si raffigura, non è spezzato dalla presenza delle anse, o partito in modo distinto e separato tra i due lati del vaso.
Sul lato A dello skyphos del Puškin è raffigurato un satiro con un klismos o un diphros: una poltroncina con un sottile schienale e con la seduta ricoperta da un soffice cuscino dalla tappezzeria a righe [Fig. 1]. La seggiola è tenuta sulla testa del satiro con la mano sinistra mentre con la destra sorregge un kantharos. Le proporzioni del satiro sono minori rispetto alla figura maschile che lo segue, ed è raffigurato secondo le consuete caratteristiche della sua specie ibrida e ferina: nudo, con la coda di cavallo, orecchi equini, naso camuso, labbra sporgenti, barba e capelli lunghi e riccioli sulla nuca, ma calvo sulla sommità della testa.
Segue un personaggio maschile che rivolge lo sguardo verso il satiro, riconoscibile come Dioniso: ha il capo coronato da una fascia probabilmente attorcigliata su sé stessa, è barbato con frangetta riccioluta sulla fronte; il suo corpo è coperto da un lungo himation, che lo copre quasi per intero, fortemente panneggiato e con orlo bordato. Il mantello nasconde il braccio destro, che pare piegato sul fianco, mentre con la mano sinistra regge un tirso con una punta di dimensioni esagerate. Sul mantello poggiano due lunghe ciocche di capelli riccioluti; la parte inferiore della veste, anch’essa drappeggiata e punteggiata da un ricamo; i piedi, nudi, sono uno in posizione frontale e l’altro rivolto verso destra.
Nello spazio tra l’orlo del vaso e lo sgabello sorretto dal satiro è presente una iscrizione, non facilmente rilevabile a causa della vernice evanida (sull’iscrizione e sul suo possibile rapporto con altri vasi della stessa serie iconografica, mi riservo di ritornare con uno contributo specificamente dedicato) [Fig. 2].
Il lato B presenta una figura femminile di profilo rivolta verso destra vestita con un doppio chitone, probabilmente con zoster, riccamente drappeggiato e dagli orli bordati. Un morbido velo si diparte dall’acconciatura dei capelli, riccioluti e tenuti insieme da una corona sulla fronte e da una benda sulla nuca, poggiandosi mollemente sulle spalle. Un bracciale spiraliforme adorna il polso del braccio destro, che è proteso in avanti, mentre la mano sinistra è impegnata a sollevare il velo nel gesto dell’anakalypsis. La figura femminile è raffigurata in movimento verso destra e il ricco panneggio e la doppia linea anatomica sotto il mento sembrano voler sottolineare l’intento del pittore nel raffigurare una donna dal profilo florido, o probabilmente non di giovane età.
Accanto è la figura di un satiro, nudo, rappresentato con il busto di fronte e le gambe e il volto di profilo verso destra: il suo movimento procede però verso sinistra. Con la mano destra si tocca la fronte (forse nel gesto dello skopeuma: vedi Isler-Kerényi 2015, 137) mentre la mano sinistra è protesa verso la figura femminile. Il satiro è caratterizzato secondo la consueta iconografia: orecchi equini, coda di cavallo, testa calva ma con riccioli sulla nuca, con barba. Il capo presentava in origine una benda sovradipinta, che con una morbida voluta si appoggiava sulla spalla sinistra, ma la vernice è ormai quasi completamente evanida. Tra la donna e il satiro c’è un oggetto di forma allungata, una specie di bastone o una torcia, dal quale fuoriesce un germoglio riscontrabile soltanto guardando l’mmagine con un forte ingrandimento; l’oggetto appare come sospeso a mezz’aria, e non è sorretto con le mani da nessuno dei personaggi.
Come già rilevato precedentemente e secondo le abitudini figurative del Pittore di Lewis, i quattro personaggi raffigurati sul vaso possono essere letti come partecipi di una stessa azione, probabilmente un rito processionale (Isler-Kerényi 2015, 137-138) in cui la prima posizione è occupata da Dioniso (il quale riceve i partecipanti alla processione), la seconda dal satiro con lo sgabello, la terza dal satiro che fa il gesto dellop skopeuma, e per ultima la figura femminile. Ma tale schema dinamico forse può essere letto anche secondo un’altra prospettiva: i satiri che precedono la figura femminile stanno presentando la donna che fa il gesto dell’anakalypsis rivolta verso Dioniso. Come noto l’anakalypsis è tra i gesti di seduzione più rappresentati nella sfera muliebre, e in particolare esso indica lo svelamento della donna allo sposo nella camera nuziale (Roscino 2017, 375).
Una parentesi sulla festa delle Antesterie
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che le immagini rappresentate sullo skyphos del Pittore di Lewis siano collegabili alle ritualità in onore di Dioniso e alle Antesterie (una rassegna di tutte le fonti sulla festa sono in Pickard-Cambridge 1989, 1-8 e in Hamilton 1992, 149-171). La festa ateniese più antica dedicata al dio, la “festa dei fiori”, si svolgeva presso il tempio di Dioniso Limneo (Th. II, 15, 4; Plu. Moralia III, 655E) nell’undicesimo giorno del mese di Antesterione – l’ottavo del calendario attico – che corrisponde grossomodo al periodo compreso tra la metà di febbraio e la metà di marzo (Eliade 1979, 390; Mikalson 2015, 11-114). Queste feste si svolgevano durante l’arco di tre giorni e ogni giornata di celebrazione iniziava la sera precedente al calare del sole (Pickard-Cambridge 1989, 11).
Secondo la spiegazione proposta in un brano di Filostrato il nome della festa deriverebbe dall’usanza presso ragazzi e fanciulle di indossare una corona di fiori appena trascorsa l’età infantile (Philostr. Her. 35, 9); Esichio riferisce che le fanciulle di Rodi in età da marito erano definite ἀνθεστρίδας (Hesych. s.v. α 5127 Latte). Le testimonianze letterarie sono ampamente confermate anche a livello iconografico dalla presenza su choes di giovanetti inghirlandati e abbigliati a festa.
Il primo giorno delle Antesterie era detto Pithoigia (“festa per l’apertura dei vasi”) dal nome dei grossi contenitori che contenevano il vino prodotto nell’autunno precedente e che veniva assaggiato durante la festa. Gli ateniesi si radunavano presso il santuario di Dioniso Limneo e dopo aver fatto le libagioni di rito al dio, bevevano il vino in una cerimonia collettiva che vedeva partecipe tutta la popolazione in una sorta di “egalitarismo interclassista” (Guazzelli 1992, 28): un giorno ‘bianco’ anche per gli schiavi (Call. Fr. 178.2). Scopo del rituale era l’eliminazione dell’interdetto che incombeva sul raccolto (Jeanmaire 1972, 46), il quale veniva allontanato dopo una consumazione rituale della bevanda (Pickard-Cambridge 1989, 9). Probabilmente i vignaioli portavano una botte al santuario e con il vino mescolato con acqua secondo l’uso rituale, venivano versate le libagioni per il dio: per effetto di questa ritualità la divinità assaggiava il vino e di conseguenza anche la comunità, eliminando in questo modo il bando sulla bevanda (Jeanmaire 1972, 46).
Il secondo giorno era la festa dei Choes (“festa dei boccali”) nel quale in tutta la città erano organizzate delle bevute, annunciate dal suono della tromba, per le quali si utilizzavano i tipici vasi a forma di piccoli boccali (i choes, infatti, hanno l’aspetto di minute oinochoai molto tozze) organizzate dall’arconte basileus nel thesmotheteion, un edificio situato nell’agorà e sede dei sei arconti minori (sul ruolo dell’arconte basileus v. Burkert 2011, 364). Secondo la tradizione queste bevute rituali si svolgevano in silenzio e ogni partecipante beveva dal proprio recipiente in modo da non contaminarsi, così come aveva fatto Oreste (E. IT, 947-960). Infatti, tale rito si svolgeva in suo ricordo: infatti Oreste, dopo l’omicidio della madre Clitemnestra, sarebbe stato ospitato ad Atene dal re Pandione e avrebbe ottenuto una purificazione dal matricidio (Phanod. FGrH 325 F II ap. Ath. 437c–d.). L’arrivo di Oreste ad Atene coincideva proprio con l’inizio della festa dei Choes: la proverbiale ospitalità della città non avrebbe consentito di offendere i sentimenti dell’ospite, per quanto contaminato dal matricidio, lasciandolo bere da solo, ma allo stesso tempo bisognava preservare gli ateniesi dalla possibile contaminazione. Il re Pandione così dispose che ciascun ateniese portasse da casa un proprio boccale per partecipare al rito e alla gara. Con questo mito eziologico le fonti cercano di spiegare il significato originario di una festa che affonda le sue origini in un tempo lontano e di cui in realtà è impossibile stabilire con sicurezza l’inizio (Guazzelli 1992, 31). Le bevute rituali erano però anche delle gare perché al vincitore era dato in premio un otre colmo di vino. Altri premi potevano essere dolci e ghirlande e al termine della giornata i partecipanti alla festa, con le corone in testa e con i choes nei quali avevano bevuto adornati di ghirlande, si recavano presso il santuario di Dioniso Limneo dove facevano dono dei fiori – corone e ghirlande – alla sacerdotessa incaricata, che si preoccupava di versare libagioni al dio con il vino restante (Burkert 1983 [1972], 231). Un ricordo di ciò che accadeva durante questo giorno e del carattere di allegra baldoria che si alternava a colossali mangiate è in Aristofane in cui, nell’esilarante dialogo tra Diceopoli e Lamaco, ancora si coglie il clima scanzonato della festa dei Choes (Ar. Ach. 1071-1142).
Il santuario di Dioniso Limneo veniva aperto soltanto in quel giorno dell’anno (Ar. Ra. v. 218; ps. D. In Neaeram 77), in cui nessun altro luogo di culto era accessibile. Fozio racconta che il 12 di Antesterione ero un giorno impuro perché si credeva che le anime dei morti risalissero dall’oltretomba: perciò le persone erano solite masticare dell’olivello spinoso già dal mattino e ungere le porte della loro casa con la pece (Phot. μ 439 s.v. μιαρὰ ἡμέρα. Sul punto anche Burkert 1983 [1972], 218 e Parker 2005, 294-295). I partecipanti alla festa si intrattenevano presso il sacro recinto dotato di grandi porte fino a sera inoltrata quando a rigor di termini era iniziata già la festa dei Chytroi (“festa delle marmitte”). Nel frattempo nel santuario, le quattordici sacerdotesse di Dioniso preparavano la cerimonia della ierogamia tra il dio e la basilinna, la compagna dell’arconte basileus. La festa dei Choes probabilmente era celebrata anche in tutte le altre poleis greche in forma privata all’interno delle proprie abitazioni, ma il rito ierogamico tra il dio e la basilinna era una prerogativa di Atene (Parker 2005, 290).
Le notizie che le fonti tramandano su questa cerimonia sono davvero esigue: la maggior parte delle informazioni si ricava da una orazione pseudo-demostenica pronunciata durante un processo a una cortigiana di nome Phano (ps-D. In Neaeram 73-78) accusata di non possedere le qualità morali tali da poter aspirare a essere basilinna. Phano, straniera, adultera e sacrilega, è accusata di aver compiuto i sacrifici segreti in nome della città vedendo ciò che non aveva il diritto di vedere; si è introdotta nella cella del santuario, luogo che poteva essere visitato soltanto dalla moglie dell’arconte basileus; ha fatto prestare giuramento alle Reverende Donne celebrando in questo modo i riti tradizionali in onore degli dei e soprattutto è stata data in matrimonio a Dioniso, senza averne né il diritto né i requisiti morali e di nascita (Guazzelli 1992, 34). Purtroppo, non vi sono altre fonti che illuminano il mistero di queste cerimonie e anche la ricostruzione dell’ordine con cui esse venivano officiate è affidata a quest’unica fonte.
L’ufficio liturgico segreto si teneva in una cella del santuario di Dioniso Limneo (“alla Palude”; per l’accostamento di Dioniso alla palude v. Burkert 2011, 359) ed era presieduto dalla basilinna (“regina”), assistita da un araldo sacro di Eleusi o un attendente al sacrificio (ἱεροκῆρυξ LSJ, 821) e dalle sacerdotesse, le Reverende Donne (γεραῖραι): quattordici dame appartenenti alle migliori famiglie della città, investite di caratteri sacri per un periodo di tempo determinato (Pascal 1910, 132) e scelte dall’arconte basileus. Le sacerdotesse prestavano un giuramento segreto e lo pseudo-Demostene ci rivela soltanto ciò che gli è possibile riportare a fini giudiziari, in quanto la promessa era una parte integrante del rito: esse si impegnavano a essere caste, a non avere alcun contatto e unione con uomini, di celebrare i θεοίνια, le feste in onore di Dioniso, e i Ἰοβάκχεια dedicati a Bacco, secondo la codifica rituale tramandata dalla comunità e nei momenti opportuni. Le Reverende Donne prestavano giuramento presso l’altare e al di sotto dei cesti con questa formula: “Io sono nello stato di purezza, esente da ogni macchia, in particolare dall’unione con un uomo” (ps-D. In Neaeram 78; trad. di T. Guazzelli). Dopo la formula di rito, le Reverende Donne e la basilinna aprivano le ceste, guardavano e toccavano gli oggetti sacri: cosa essi fossero non è dato sapere poiché rientra nella categoria dei “misteri indicibili” dell’antichità (Plebe 1956, 97), tanto indicibili da non poter essere riportati in forma logico-verbale (Mylonas 1961, 281).
Anche lo hieros gamos tra Dioniso e la basilinna, che incontra il dio in nome della collettività veniva celebrato secondo una liturgia che ci sfugge completamente (Pickard-Cambridge 1989, 12): probabilmente avveniva nel Boukoleion, la dimora dell’arconte basileus che si trovava a sud-est dell’agorà, e la forza simbolica di tale rito ierogamico era talmente sentita da essere praticata ancora al tempo di Aristotele (Arrighetti 1988, 104). La localizzazione di questo edificio è al centro del dibattito degli studiosi, poiché se l’Athenaion Politeia III, 5 di Aristotele lo localizza nei pressi del Pritaneo, dallo pseudo-Demostene sappiamo che le nozze della basilinna avvenivano presso il santuario di Dioniso Limneo (sul punto v. Gagliano 2018, 46).
Ancora una volta non abbiamo fonti sicure che raccontino cosa accadeva durante lo spostamento della basilinna dal santuario di Dioniso Limneo al Boukoleion ma su di un chous del 425 a.C. circa conservato al Metropolitan Museum di New York (n. inv. 24.97.34) è raffigurata una scena singolare e rilevante per la questione: una figura maschile barbata è alla guida di un piccolo calesse a baldacchino con il tetto ricoperto di foglie e trainato da un cavallo o un mulo (sul vaso è raffigurata soltanto la parte posteriore dell’animale); l’uomo regge con le mani un kantharos e un tirso; un personaggio maschile dall’abito panneggiato si aggrappa al calesse con una mano mentre l’altra è tesa verso una figura femminile che ricambia il gesto allungando il suo braccio verso l’uomo. Seguono altre tre figure maschili nude che portano un oggetto di forma allungata con l’estremità a forma di croce su di una specie di portantina che tengono all’altezza delle spalle. Alcuni studiosi, tra cui Ludwig Deubner, ritengono che la scena raffigurata sia una parodia tenuta da bambini delle nozze tra Dioniso e la basilinna (Deubner 1932, 104-105, taf. 11, 2-4): il personaggio che guida il calessino dovrebbe essere proprio il dio mentre il personaggio che porge la mano all’unica figura femminile, interpretata come la basilinna, è un paranymphos, un aiutante dello sposo/Dioniso. L’oggetto trasportato dai tre personaggi nudi è secondo Deubner uno stylis (Poll. 1, 90), cioè un albero che porta la bandiera a poppa (LSJ, 1657) adornato con tenie fiorite. Da sottolineare il motivo della nave che ha trasportato Dioniso – che riprenderò in seguito – mentre la raffigurazione del vaso indicherebbe il momento in cui, dopo i riti svolti nel santuario della Palude, Dioniso si avvia con la basilinna/sposa verso il Boukoleion (in perfetta sintonia con la testimonianza tucididea che descrive la basilinna sul carro assieme a Dioniso: Th. II, 15).
Nonostante le grosse lacune documentarie si può comunque ipotizzare che le nozze tra la basilinna e Dioniso fossero intese come un rito di fertilità: attraverso l’unione tra il dio della fecondità per eccellenza e la compagna del capo religioso della comunità, veniva ridistribuita la prosperità a tutta la collettività. Come avvenisse l’unione tra il dio e la moglie dell’arconte basileus, cioè se vi fosse una unione sessuale o soltanto una evocazione dell’atto in sé, non è dato sapere (Magris 2015, 278-279). È possibile che Dioniso partecipasse al gamos sotto le spoglie dell’arconte basileus, perché dal punto di vista dell’interpretazione iconografica, Dioniso non è mai rappresentato come una statua, un agalma, ma con l’aspetto di un uomo barbato, forse lo stesso arconte basileus travestito da Dioniso (Deubner 1932, 110; Guazzelli 1992, 36).
Ciò che invece appare abbastanza evidente dalle testimonianze vascolari è che le feste delle Antesterie fossero estremamente dinamiche: il movimento processionale, lo spostamento da un luogo all’altro, era in qualche modo determinante. Del resto, è lo stesso Dioniso a essere accolto dalla comunità – nelle feste Katagogie è “portato a casa” (Pickard-Cambridge 1989, 12) – e il suo arrivo dalla Tracia, dalla Lidia o dall’Eubea, è esplicitato dall’iconografia di una serie di vasi che lo vedono sopra un carro a forma di nave (ad esempio sulla coppa a figure nere di Exekias conservata presso l’Antikensammlungen di Monaco, n. inv. 8729 e datata al 530 a.C.; Beazley 1956, 146, n. 21) seguito dai partecipanti della processione festosa (Guazzelli 1992, 33-34) che si scambiavano insulti e motteggi osceni (Pickard-Cambridge 1989, 10; Burkert 2011, 358).
Il terzo giorno delle Antesterie (la festa dei Chytroi) era dedicato anche al culto dei morti con la consumazione rituale di una particolare minestra – la panspermia – composta da vari tipi di grano e semi cucinata nelle “marmitte” in ricordo dei superstiti del diluvio universale (Theopomp. Hist. FGrH 115 F 347 a, b) e offerta a Hermes psicopompo (Burkert 2011, 363). Il 13 di Antesterione, quindi, aveva anche alcuni tratti funebri e si riteneva che le anime dei defunti circolassero tra i vivi: per questi motivi al termine della festa gli spiriti venivano scacciati via. Le Antesterie quindi nell’ultimo giorno delle celebrazioni sembravano in qualche modo travalicare i limiti del culto in onore di Dioniso, ma c’è testimonianza di un piccolo agone comico che si svolgeva durante il giorno dei Chytroi e che sarebbe stato rivitalizzato grazie a un intervento di Licurgo (Call. Hec. fr. 85 Hollis; Plu. Vitae decem oratorum 841f; Pickard-Cambridge 1989, 15; Parker 2005, 297); ma l’intervento del legislatore non riuscì ad arginare il declino di questa competizione, e così degli agoni teatrali nell’ambito delle Antesterie si perdono le tracce. Fatto sta che il vincitore dell’agone dei Chytroi acquisiva il diritto a partecipare alle competizioni dionisiache del successivo mese di Elafebolione (marzo/aprile).
Antesterie e raffigurazioni vascolari
Il difetto di fonti letterarie sulla festa delle Antesterie è in qualche modo riequilibrato dalla copiosa produzione ceramica che riproduce diversi momenti delle celebrazioni: il clima festoso delle danze dionisiache, la solennità delle sacerdotesse che mescolano il vino per Dioniso, la gioiosa partecipazione di bambini e fanciulli alle cerimonie – tutti temi che ricorrono su vasi a figure rosse che rientrano in una stressa tipologia morfologica, prodotti da una cerchia ristretta di pittori e con schemi compositivi molto simili (Parker 2007, 306). Françoise Frontisi-Ducroux quantifica questa produzione ceramica dedicata alle Antesterie contando circa settanta vasi che riproducono in maniera sicura alcuni momenti della festa: questo gruppo è formato da 28 lekythoi a figure nere databili tra il 490-480 a.C., da 25 stamnoi a figure rosse prevalentemente databili al 460-440 a.C., e da un terzo gruppo di vasi non rientranti in nessuna di queste classi (Frontisi-Ducroux 1991, 67-68).
In questa terza e ultima serie di vasi ritengo plausibile che possa rientrarvi anche lo skyphos del Puškin. Infatti, ritornando al vaso, alla luce delle informazioni riguardanti la festa delle Antesterie, mi sembra ipotizzabile interpretare l’intera scena, che si snoda in entrambi i lati del vaso, come un momento delle nozze di Dioniso (Heinemann 2016, 445-449) e in particolare il momento in cui il corteo festoso dei partecipanti alle celebrazioni della festa, al termine del giorno delle Choes, accompagna la basilinna al suo incontro nuziale con la divinità.
Una lettura diversa da questa è proposta dal commentatore del Beazley archive (scheda n. 19347) e da Cornelia Isler-Kerényi (Isler-Kerényi 2015, 137-138), i quali interpretano la donna come una menade con torcia. Il soggetto di questo vaso e della serie di skyphoi a esso collegabili è riferibile a un corteo nuziale dove la sposa è velata, ed è associabile in generale allo hieros gamos, le nozze sacre tra Dioniso e la basilinna (Heinemann 2016, 442-448) e si esplicita in tre tipologie di scene: satiro che regge un ombrello/donna velata, scena di donna velata/personaggio barbato con elemento rettangolare-torcia e scena di satiro con sgabello/Dioniso.
La figura femminile riccamente abbigliata dello skyphos del Puškin a mio avviso non è accostabile al tipo della ‘menade’, la quale di solito è caratterizzata da un fare scomposto, coperta talvolta dalla nebride e accompagnata dal tirso e dalla fiaccola. L’oggetto a forma di parallelepipedo raffigurato tra la figura femminile e il satiro compare anche sugli altri vasi della serie e in particolare quelli della tipologia donna velata/personaggio barbato con elemento rettangolare-torcia (ad esempio uno skyphos dello stesso pittore appartenente a una collezione privata: Heinemann 2016, 447, fig. 302). L’elemento dello skyphos del Puškin potrebbe essere interpretato come una fiaccola anche se dalla sua estremità non fuoriesce né la tipica fiamma di forma triangolare piegata dall’azione del vento, né l’elemento cruciforme che si è soliti interpretare come torcia accesa nelle raffigurazioni vascolari. L’eventuale presenza della torcia su questo vaso tuttavia avrebbe comunque un doppio valore simbolico: da un lato, avvicina la raffigurazione al contesto nuziale poiché con le fiaccole si illuminava il percorso dalla casa paterna alla nuova dimora coniugale della sposa e dall’altro, contestualizza la ierogamia a un momento temporale ben preciso: le nozze tra la basilinna e il dio avvenivano di sera, al termine del giorno dei Choes e al principio della festa dei Chytroi (sull’orario serale del rito v. Burkert 1983 [1972], 233; Deubner 1932, 109; Parker 2007, 304-305; Burkert 2011, 362). Inoltre, riguardo all’interpretazione della figura femminile come una menade è importante osservare che il Pittore di Lewis ha probabilmente desiderato mettere in luce cinque elementi: la donna è adornata con una speciale corona; il capo è velato; è presente il gesto dell’anakalypsis; la veste è preziosa; la donna appare florida, dalle linee rotonde (probabilmente per indicare una donna non più in giovane età o comunque appartenente a una classe sociale in cui vi erano risorse economiche tali da garantire una adeguata nutrizione), tutti elementi che concorrono a delineare una figura coerente al profilo della compagna dell’arconte basileus, piuttosto che a quello di una menade.
Invece, per quanto riguarda il lato del vaso con il satiro con lo sgabello, è importante notare che lo stesso schema compositivo è ripetuto in molti vasi. Si fornisce un breve elenco:
– Cratere a colonnette a figure rosse attribuito al Pittore di Pan (New York, Metropolitan Museum, n. inv. 16.72; 500-450 a.C.): lato A: Dioniso e satiro con sgabello, kantharos e ramo di edera; lato B: satiro con stamnos;
– Cratere a calice a figure rosse attribuito al Gruppo di Polignoto (Londra, British Museum, n. inv. E465; 475-425 a.C.): lato A: Dioniso con tirso e satiro con sgabello e torcia; lato B: giovani ammantati con bastone;
– Vaso frammentario a figure rosse attribuito al Gruppo di Polignoto (una volta presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli; 475-425 a.C.): lato A: satiro con sgabello; lato B: menade;
– Cratere a campana a figure rosse attribuito al Pittore della Phiale (Parigi, Musée du Louvre, n. inv. G422; 475-425 a.C.): lato A: menade con torcia e satiro con sgabello e lira; lato B: menade con tirso e satiro ammantato con bastone;
– Chous a figure rosse attribuito alla Maniera del Pittore di Shuvalov (Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, n. inv. 50511; 450-400 a.C.): Dioniso con kantharos e tirso e satiro che regge uno sgabello;
– Cratere a calice a figure rosse comparabile al Pittore Kleophon (Basel, Mercato privato Jean- David Cahn AG; 450-400 a.C.): Dioniso con ramo di edera e kantharos, menade con tirso e torcia, satiro con sgabello e ramo di edera.
Da uno sguardo di insieme di questo elenco si evince che questo schema, variamente interpretato con la presenza o meno di Dioniso e della basilinna, sia utilizzato con consuetudine da vari pittori ateniesi, i quali sembrano raccogliersi intorno alla Cerchia di Polignoto. Altro elemento comune a questa serie di vasi con sgabello è che i satiri che lo trasportano sono glabri, la basilinna è ammantata o velata, e Dioniso è ‘intabarrato’ e ha un braccio nascosto sotto il mantello, come se la foggia di questo indumento prevedesse uno dei due arti sempre coperto. Questi tratti, comuni a tutti i vasi, appaiono in qualche modo codificati, e se per noi moderni tali soggetti, a una lettura superficiale, appaiono come dei semplici referenti dei personaggi che raffigurano (satiro, Dioniso, donna ecc.), per i fruitori antichi essi veicolavano istantaneamente il proprio messaggio attraverso questi elementi sempre uguali e immediatamente riconoscibili. Il satiro che trasporta lo sgabello, inoltre, è raffigurato nella maggior parte dei casi con proporzioni minori rispetto alle altre figure, tanto che la maggior parte degli studiosi ritiene che siano dei satiri ‘ragazzini’, cosa che mi sembra alquanto improbabile visto che sono barbati e calvi (Isler-Kerényi 2015; Heinemann 2016). Ciò che si può ipotizzare, tentando di decodificare queste scene, è che il satiro è raffigurato con proporzioni differenti perché si tratta di una figura ancillare: l’attenzione dell’osservatore è indirizzata su Dioniso e sulla basilinna, mentre il satiro acquisisce il ruolo di parochos, aiutante immancabile e necessario che svolge quei compiti che gli altri due personaggi di ‘alto rango simbolico’ non possono eseguire.
Conclusioni
Ritornando agli Uccelli e al dialogo tra Pisetero e Prometeo, le battute con cui si chiude la scena sono alquanto difficili da interpretare per noi moderni, avendo perso quasi completamente la capacità di decodificare il senso e il messaggio della comicità antica. Comunque, avvalendoci di quanto possiamo ricavare dai vasi attici che presentano la scena del ‘satiro con lo sgabello’, e collegando il dialogo aristofaneo nel contesto delle celebrazioni delle Antesterie e delle raffigurazioni della basilinna e delle sue nozze sacre con Dioniso, è forse possibile illuminare, per quanto parzialmente, il senso della scena. Aristofane faceva leva su un codice visivo e comportamentale ben conosciuto: il 12 del mese di Antesterione, nel momento di passaggio dalla festa dei Choes a quella dei Chytroi, il corteo gioioso dei festaioli accompagnava la moglie dell’arconte basileus al suo incontro con la divinità. Gli ateniesi ogni anno partecipavano a quelle celebrazioni e ogni primavera vedevano la processione partire dal sacro recinto del santuario di Dioniso Limneo per recarsi al Boukoleion con tutto il suo apparato di oggetti e simboli: torce, carri, parasole e sgabelli destinati a rendere il tragitto meno pesante per la basilinna e per le signore di Atene. Il rituale era codificato in modo molto stretto: lo stravolgimento operato da Aristofane sulla scena degli Uccelli probabilmente scatenava l’ilarità degli spettatori perché si trovavano parato in scena un Prometeo, “intabarrato” con parasole e sgabello, proprio come se fosse stato la basilinna.
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With this contribution I try to read a passage from Aristophanes’ Birds, whose profound meaning is not easy to understand, since modern society has lost the elements to decode the comic solicitations of the Attic comic theatre: many of Aristophanes’ jokes they no longer make us laugh. By juxtaposing Aristophanes’ passage with a skyphos depicting a satyr with a stool, Dionysus and a female character, I try to recompose the ancient Aristophanes comedy and the festive element of the Athenian feast of the Anthesteria.
keywords | Anthesteria; Satyr; Stool; Dionysus; Aristophanes’ Birds.
Per citare questo articolo / To cite this article: C.Cataldo, La festa delle Antesterie, gli Uccelli di Aristofane e il satiro con lo sgabello. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 197-212 |PDF