In risposta all’invito di Engramma a cimentarsi col tema del gioco e della festa, ho pensato di rispolverare un mio scritto assai lontano nel tempo, che appartiene alla mia produzione semi-letteraria ovvero alla mia più o meno segreta “corda pazza”, connessa con la inveterata passione per i giochi di parole, nonché indulgente a reminiscenze giovanili anni ’60 come la cantante a piedi scalzi Sandie Shaw del titolo o ai ricordi della poesia pascoliana e inevitabilmente alle atmosfere felliniane, oltre che alla parodia del libro di Le Corbusier, Quando le cattedrali erano bianche. Viaggio nel paese dei timidi.
Il testo fu pubblicato a prefazione del catalogo (Oberon, Roma 1984) di una manifestazione – per l’appunto assolutamente “festaiola” – intitolata Arenapolis, città di sabbia, organizzata da Remo Vellani sulle spiagge di Rimini e Riccione con la partecipazione di uno stuolo di noti architetti, da Vittoriano Viganò a Alessandro Mendini fino a Sergio Bracco, Vieri Quilici, Stefano Pompei, Cesare Leonardi, Giorgio Conti, nonché di un drappello di semiologi quali Alberto Abruzzese e Beppe Cottafavi.
Buona lettura.
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“È una giornata d’estate, verso mezzogiorno: filo sui quais dell’Adriatico, in direzione di Torre Pedrera, sotto l’ineffabile cielo blu di Rimini. Il mio occhio fissa per un istante un punto bianco nell’azzurro: il nuovo campanile di Marcenaro. Mi fermo, guardo, e subito mi immergo nelle lontananze dei tempi: sì, gli architetti erano scalzi, tutti scalzi, splendenti e giovani”.
La traduzione da Le Corbusier, come ben s’intende, è alquanto libera, e potrebbe continuare all’infinito.
“Quando gli architetti erano scalzi, la partecipazione era unanime, in tutto. Non c’erano cenacoli a pontificare… Non c’erano Accademie per dettar legge. Si parlava chiaro e tondo, apertamente”.
Se credevate di trovare qui, sulle spiagge di Rimini e Riccione, quegli architetti à la page che pontificano nei seminari sul post-moderno e sul pre-moderno, avrete avuto una cocente delusione. Qui l’architetto à la plage si arma di paletta e secchiello e suda sette camicie per muovere metri cubi di sabbia con le sue proprie mani. E vi sarà dato di vedere come equalmente anche all’efebico intellettuale il sole possa disegnare a suo piacimento canottiere bianche sulla pelle.
Qui riga e squadra falliscono miseramente di fronte all’antica arte che insegna a plasmare la creta a mani nude e, difatti, chi progetta, in odio al sole e al mare, in-cubi di sabbia ne è mal ripagato. Così il cubo di sabbia pensato da Alessandro Mendini [Fig. 1].
Poco più in là, la stessa sabbia dispettosa rifiuta anche l’inscatolamento industriale ad uso laterizio, sicché i mattoni di Cesare Leonardi sono tramutati, obtorto collo, in sacchi di sabbia tipo-torrefazione [Fig. 2]: donde il detto “a chi s’aiuta, il ciel la juta”. Di quanto progettato riescono così più labirintici i giri di parole assai dotti del semiologo (Cottafavi) che non i semplici giri di sacchetti dell’architetto (Leonardi), ripagato però dai soliti bambini, che anche in tal caso sanno scoprire i significati più autentici delle cose, camminandoci dentro e sopra e raggiungendo ottimamente lo scopo.
Due passi più in là, però, nella stessa area sabbiosa del Festival, il gruppo di Alberto Abruzzese organizza allusivi giochi di trasparenze e trasparenti giochi d’allusione con silhouettes di plexiglass e sussurranti sventolii di vele [Fig. 3]. Appena fuori del labirinto esistenziale di Leonardi/Cottafavi la gente è così forzata a ricadere nella captazione subdola della video-informazione, allargata ormai su estensioni planetarie. Come direbbe Jannacci, “la televisiun la g’ha na forsa de leun!”.
E il dubbio, atroce, ci riassale. Ma che sia proprio impossibile costruire oggi “castelli di sabbia”? – si chiede l’ingenuo cronista, strascicando i sandali su e giù per il bagnasciuga.
Si direbbe di sì: dal cubo impossibile e impassibile di Mendini, all’incubo avventuroso ma in fondo misterioso del labirinto di Cottafavi-Leonardi, all’“evanescente disperso effimero” castello di sabbia post-industriale di Abruzzese, l’itinerario della ricerca sembra condurre entro un vicolo cieco.
“Non vi è percorso da compiere né centralità da costituire, ma solo la possibilità di trovare (vedere) tracce” – ammonisce infatti Abruzzese. Ma allora sembra riaffermarsi, anche con la sabbia, l’impossibilità o improbabilità oggi non solo di fare architettura, di costruire forme stabili, monumenti, ma anche di costruire forme fantastiche, sogni, castelli di sabbia. Salvo forse affondare nei labirinti, “avventure dell’anima e delle forme”, come dice Cottafavi.
Il cronista, ormai rimasto in slip pelle e ossa, si fa pensieroso e cupo, camminando a palme nude sulla sabbia che scotta. Dopo le delusioni sessantottesche che gli avevano vietato di fare l’architetto-costruttore, questa nuova piccola delusione che pare vietargli ora – quando credeva finito il proibizionismo ideologico – di sognare l’architettura, fosse pure di sabbia, lo getta in una crisi profonda.
Per fortuna, cercando ristoro per i suoi magri piedi bruciacchiati, volge lo sguardo e le gambe al mare e scopre l’“azzurra visïon” delle torri vagamente falliche di Ro Marcenaro, piazzate giusto in mezzo al mare medesimo [Fig. 4]. Incuriosito, s’avvicina e può riscontrare, rincuorato, che progettar castelli, almeno in aria e sopra il mare, è ancora consentito. Marcenaro, che non a caso è un illustratore non un architetto, non ha curiosamente “dato per perse” – secondo le sue parole – la città e l’architettura, bensì la natura (il mare, nella fattispecie). Ed ecco riapparire sogno e utopia, con tutta la propria carica vitale: Marcenaro progetta, con tanto di disegni esecutivi esibiti ai passanti, e costruisce, in scala, un vero plastico di una pur inverosimile architettura, anzi una città per quattro milioni di abitanti sollevata su una piattaforma in mezzo al mare.
E gli intellettuali-architetti s’interrogano sul loro futuro, scavalcati in attivismo ora anche da un dinamico fumettaro romagnolo e dalle sue torri coperte di cupole azzurre, come cuffie da pallanuotista. “Il solito mercenario!” – esclama il più giovane e promettente del gruppo, equivocando sul nome e ingenuamente pensando che la leggendaria imprenditoria romagnola avesse già acquisito nei suoi piani il progetto e ne stesse studiando il finanziamento, onde riempire le falliche torri di biondi tedeschi e di famigliole lombardo-venete. “Cocco, cocco bello, cocco di mamma!” – lo irride inconsapevolmente il venditore ambulante, paludato in una bianca vestaglia, e sparisce in fretta, come un fantasma. Il cronista, alquanto sollevato, scatta una foto e corre ciabattando a prendere l’autobus per Riccione, dove si annunciano nuovi avvenimenti.
A Riccione fervono gli scavi. Ruspe inseguono sulla spiaggia bagnanti impauriti, svegliati di soprassalto dal torpore dell’elioterapia. Qui le opere appaiono già da lontano faraoniche, per non dire titaniche. Un bel tratto di spiaggia è messo sottosopra da architetti senza scrupoli o timori reverenziali. La gente si chiede il perché di tanto sconquasso e accorre inquieta e curiosa. La voce più diffusa è quella che si stia girando un nuovo film: forse, chissà, del grande Fellini.
“I titoli di testa del film appaiono sulla visione di una cabina da spiaggia che viene smontata da quattro operai. Quando le pareti sono state tolte, sullo sfondo appare il mare biancheggiante di schiuma…” – cita a memoria il cinefilo vitellonesco, che non ha ancora visitato – qualche chilometro più in su – il monumento appena erettogli da Giorgio Conti.
Di fatto si tratta, più semplicemente, ma forse più curiosamente, di scavi archeologici. Sabbia siamo e sabbia torneremo. La sabbia segna inesorabile lo scorrere del tempo, fin dall’epoca delle clessidre e ancora da prima. La sabbia coprirà prima o poi tutte le effimere costruzioni dell’uomo. La sabbia, portata dal vento, portata dal mare, è nei nostri destini.
Lo spaesato cronista, ormai in piena crisi mistica, si sporge per guardare nella voragine dello scavo. Un’auto, anch’essa divenuta sabbia, affiora a metà là in fondo, fra i picchetti delle stratigrafie [Fig. 5]. Già, forse i veri castelli di sabbia vanno cercati sotto la sabbia, rovesciando la clessidra, scavando nel passato. Il sogno, la fantasia, l’invenzione, sembrano avere sempre più bisogno della scoperta, della conoscenza, della storia. L’ignoto è dietro di noi e dentro di noi. La costruzione chiede lo scavo in profondità, per avere fondamenta più solide.
E così – sembra suggerire Monti – i castelli possono essere costruiti per sottrazione di materiale, riscoprendo le forme cristallizzate e nascoste nel tempo. “Il castello non è edificabile, è stato edificato ma ora fa parte della sabbia” – aveva ammonito Abruzzese qualche chilometro più a nord, e Monti non ha posto tempo in mezzo ad aprire la ricerca. La suggestione della scoperta è grande: anche la vasta piatta spiaggia adriatica nasconde dunque segreti; certo se oggi non li nasconde, li nasconderà un giorno: i segreti di un tempo in cui le cattedrali erano di plastica e di lamiera.
Questi architetti sconvolgono sempre più la mente e il cuore del povero cronista, come se fossero stati improvvisamente essi stessi riempiti di sabbia dal vento. Chi disegna labirinti e ingarbuglia le carte per rendere impossibile trovarne la chiave, chi si rinchiude dietro le facce tutte uguali di un cubo, chi mette in scena deserti elettronici, chi al dilagare inesorabile delle sabbie oppone una città da ultima spiaggia, futuribile palafitta sul mare inquinato, ed ora ecco un altro che, riscoprendosi archeologo, cerca di recuperare un paesaggio scomparso, rinunciando ad ulteriori “castelli”. La sabbia è dunque solo sinonimo di morte, di deserto, di tempo demolitore? Ma questa spiaggia non è forse un brulichio di folle in vacanza, paradiso di mamme e bambini, esposizione universale di corpi e facce di bronzo, che non chiedono altro che di non essere disturbati da pensieri di vita e di morte? Dov’è il famoso mito della spiaggia, questa grande avventura di Arenapolis, città nata dal mare come Venere citerea? Così immiserito è il nostro sogno festoso e festaiolo? Dov’è l’effimero Nicolini, consolatore di folle, dispensatore di gioie estive? Si è già dissolto lui stesso in sabbia sulla strada per la Romagna, fulminato dagli strali d’un principe-rospo sotto il sole nascente? Il cronista, masticando sabbia fra i denti, in preda agli effetti di un’incipiente insolazione, si muove ormai verso il delirio. Con gli occhi fissi verso il sole, lo sventurato vede apparire sulla linea dell’orizzonte l’hoffmanniano uomo della sabbia.
Ma, come? Non lo sai ancora? – riecheggiano sorde le parole della vecchia – È un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro manciate di sabbia negli occhi fino a farglieli schizzare dalla testa…
Ma, ecco, come d’incanto, tolte le mani dagli occhi, la mente del cronista comincia a distendersi, come se il sole non bruciasse più; volge il viso illuminato da un nuovo raggio di vita, e sogna….
Una sfinge sulla spiaggia di Romagna, una mole maestosa che non può non alludere a un’altra mole che volge al sole nascente sul mare il suo tricuspidato volto camuso e che tutti riconoscono come simbolo del ‘paese ove andando ci accompagna l’azzurra visïon di San Marino’.
Qui l’architetto (Stefano Pompei), fattosi sognatore ed illustratore, ha dato libero sfogo all’atavica voglia di dar forma figurativa alla materia inerte e la sabbia s’è fatta via via donna, sfinge, montagna, sequenza di simboli e figure [Fig. 6]. Tra i pochi ad accettare a mani nude la sfida ed il gioco nelle sue semplici regole, Pompei ha trovato con felice intuizione “qualcosa che appartenesse al patrimonio di grandi e piccini e che significasse al di là dei significati di cui lo avremmo inevitabilmente caricato”. E la curiosità della gente lo ripaga di un pubblico attento e interessato, che segue passo per passo l’insolito evento. Il materiale (la sabbia) asseconda docile gli intenti del progettista, che ha accettato di tornare all’antico gioco infantile, pur dotandosi di ruspe.
Lo stesso gioco hanno accettato Sergio Bracco e Vieri Quilici e non è dunque difficile trovare il modo di integrare il loro progetto con quello di Pompei. Al di là della grande Sfinge, o monte Titano che sia, oltre la grande trincea che ripete la “greppa” adriatica, va sorgendo così – a suon di manate – una catena di colli coniformi, ciascuno colla sua piccola rocca in vetta. L’architettura di sabbia si fa così paesaggio, ricco di allusioni e di simboli [Fig. 7].
“Ma che Romagna e Romagna d’Egitto!” – esclama invidioso il solito emiliano da sbarco, mentre il Bracco Albornoz conclude la sua fatica, issando le bandierine sulle cime dei colli-fortezza.
Il cronista – giovane non più giovane – comincia a capire. La sabbia, la terra, è materia di paesaggio. La sua architettura è architettura del paesaggio, architettura della natura. Forse che non fu fatto di fango il primo uomo? La sabbia mal sopporta le stereometriche ricerche formali dell’architettura artificiata, ma è docile materia sotto le mani di chi costruisce con le regole della natura: pioggia, vento, dilavamento, erosione. Lo zelante cronista, venuto credendo di trovare architetture di sabbia piuttosto che sabbie di architettura, può finalmente ricorrere alla sua povera documentazione tecnica d’appoggio, estraendo un libro sulle “meraviglie dell’architettura in terra cruda”, comperato a metà prezzo prima di partire per Rimini. Calcato il berrettino, si accoccola presso le grandi materne poppe della sfinge Titania e legge.
Il bambino che in riva al mare o sulle sponde d’un fiume modella il suo castello di sabbia o di fango inconsciamente ripete gesti, tecniche e, in qualche modo, finalità che si perpetuano pressoché immutate da migliaia di anni; e se ci avviciniamo al nostro ipotetico e paziente ‘dimostratore’, possiamo riconoscere in dettaglio le principali operazioni che egli compie per abbozzare e comporre la sua effimera opera. La sabbia o l’argilla, convenientemente inumidite, donano plasticità e facilità di manipolazione ad un materiale altrimenti incoerente: le mura, le torri, i bastioni vengono modellati con una naturale, spontanea tendenza a rastremarsi verso l’alto. Per dare maggiore solidità all’insieme, l’impasto viene compresso e compattato con la paletta o con le mani, in modo da risultare anche maggiormente ‘rifinibile’ in superficie; in qualche punto particolarmente delicato o nel caso di forme più complesse, il piccolo costruttore ricorrerà alle tradizionali ‘formine’, siano esse costituite dal classico secchiello o dai più recenti stampi per le soluzioni d’angolo, per le merlature, ecc.
Già! Viene assai più facile la cronaca dai Bagni Titania, là dove l’architetto semplicemente “ricorda con sabbia” che Arenapolis è in fondo già stata costruita da secoli e in scala uno a uno fra terra e mare, lungo il sacro Nilo o il rubicondo Rubicone. Il cronista sorride alla Sfinge, e questa risponde con un sorriso, o almeno finge. Il cronista decide di prendersi un bagno. Dissolvenza sull’esile figura del cronista che entra in mare, fendendo la folla.
Spiaggia. Esterno. Giorno. Giudizio, seduto su un mucchio di sabbia, con un tozzo di pane in mano, osserva con aria estasiata la statua posata sulla soglia di casa. Accanto a lui, due cani si aggirano annusando il terreno. Dopo aver guardato a lungo la statua, Giudizio si alza, va a prenderla e la porta sulla spiaggia, posandola su un mucchio di sabbia. Poi ne ammira l’effetto guardandola con amore ed ammirazione e l’accarezza affascinato.
Architetture da spiaggia se ne erano già viste a Rimini, fin dal giorno di Giudizio, e ancor da prima. Arenapolis, qui, non è una novità. Anzi, l’equivoco è molto: è più Arenapolis l’enorme tendone geodetico della nuova follia collettiva aerobica o la vecchia, un po’ palafitticola, terrazza a mare o il mastodontico pretenzioso Grand Hotel? Qui Arenapolis è storia di tutti i giorni, di tutti i tempi. Qui da troppo tempo il dado è tratto, qui è il tempio dei Malatesta, qui sono tutti tipi da spiaggia, qui c’è Paolo, Paolo maledetto, e più in là – magari ti pare – ma non è Francesca. Qui è una bolgia d’inferno, ma solo d’estate, mica d’inverno. Qui d’estate la carne è rossa o bruna di sole e di creme abbronzanti, è carne da arrosto; d’inverno invece la carne è bianca, carne di vitellone.
La spiaggia dinanzi al Grand Hotel di tutto ciò è il luogo comune. E non poteva aver luogo che qui la resa dei Conti. Ecco dunque Giorgio Conti al lavoro, con il suo bravo gruppo, ad innalzare un’alta ciminiera di simil-sabbia e a gettarci intorno tutti gli avanzi di casa, in un repulisti da prematuro capodanno. Radio, elettrodomestici ed oggetti banali vengono scaricati sulla spiaggia, intorno al monumento-ciminiera (il fallo è di rigore) [Fig. 8]. È un gioco dell’oca dell’italiano medio, quello che paga anche e soprattutto il canone Rai, quello che in Abruzzese si chiama il lavoratore video-dipendente, per distinguerlo dal lavoratore autonomo, che invece guarda solo i canali privati e la pubblicità? No, è un monumento ai Vitelloni di tutto il mondo – spiega il Conti e ce lo scrive davanti a chiare lettere; perché sia finita per sempre con questo mito felliniano del Riminese che bighellona per la spiaggia aspirando, oltre alla polvere e alla sabbia sollevata dal vento, anche e soprattutto alla metropoli industriale e ai suoi propri miti. E non manca la signora grassa vestita di paillettes verde-smeraldo, doviziosa di cosce e sguardi ammiccanti. “Eppure i vitelloni dei Fellini sono belli” – recita in latino maccheronico il solito bastian contrario con gli occhialetti da sole alla Blues Brothers. E Federico è salvo.
Comunque questa di Conti è un’architettura da spiaggia assai azzeccata: una di quelle architetture spontanee, un po’ americane se volete, che fanno parte del paesaggio delle marine moderne: una garbage-architecture non priva di un fascino triste e sarcastico.
Il cronista ormai ha superato il suo momento critico ed ha occhi ed animo più disincantati. Può così apprezzare questo ironico monumento di un riminese ai riminesi che tengono al Milan, ma allo stesso tempo può anche apprezzare con un pizzico di trasporto l’astratta poesia – un po’ retrò – d’un milanese vero (Viganò) che ai riminesi riporta dal mare, veleggiando, evocazioni puriste e mondrianesche, in forma di un’ideale zattera approdata sulla linea fra terra e mare, quasi un miraggio frutto dell’illusionistico gioco di luci e di colori nel riverbero del tramonto [Fig. 9].
E il mare si fa così, per un attimo ancora, specchio nitido di colori smaglianti, come un beneaugurante arcobaleno. “Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle”.
In this paper, the author proposes one of his essays, originally published as a preface to the catalogue (Oberon, Rome 1984) of a ‘festive’ event, Arenapolis, città di sabbia. It was organised by Remo Vellani on the Rimini and Riccione beaches, and saw the participation of a host of well-known architects such as Vittoriano Viganò, Alessandro Mendini, Sergio Bracco, Vieri Quilici, Stefano Pompei, Cesare Leonardi, Giorgio Conti, as well as semiologists such as Alberto Abruzzese and Beppe Cottafavi.
keywords | architecture; Arenapolis; Rimini and Riccione; beaches; sand.
Per citare questo articolo / To cite this article: R.Bocchi, Sandy Show, ovvero: Quando gli architetti erano scalzi ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 107-114 |PDF