"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Festa della pietra, festa per sempre

Vitalità della visione (e della forma) prima e oltre il mondo cartesiano 

Susanna Pisciella

English abstract

1 | Tempio induista del Sole a Konark, India. Iconografia vedico-induista. I faraoni di granito / tramano la propria fuga / dal museo / l’ibis di peltro / si libra nella sala egizia / la pantera di marmo luminosa / balza… la carne dell’uomo / un sacrilegio / in questo luogo (J. Hejduk, poesia n. 155, 774, R. Rizzi, S. Pisciella 2020). Gli animali di pietra sono più vivi dei visitatori in carne e ossa, perché l’arte è una vita potenziata.

C’era una volta un mondo in cui la dimensione “festiva” coincideva con la vita stessa. In ogni suo aspetto. Il mondo vedico per esempio. Abitato da presenze incorporee, percepibili solo tramite epifanie. I Brahmana, raccolte di rigorose prescrizioni liturgiche, erano i codici per raggiungere l’ebbrezza, che a sua volta era l’unico strumento di accesso a quelle apparizioni. In una società che ruotava interamente attorno alla conoscenza del mondo, anche quello inaccessibile, l’ebbrezza era il solo stato possibile e permanente della coscienza. Non sospensione dell’ordine, come accadrà più tardi con il rapimento dionisiaco, ma consolidamento dell’ordine stesso.

Della civiltà vedica non sono rimasti templi né palazzi, in quanto ritenuti più un ostacolo che un raggiungimento. Solo altari rituali, per immagini e architetture tutte mentali. Per ingenti sacrifici, per immaginazioni inimmaginabili. E quando nei testi si parla di imprese, non sono mai belliche, ma di conquista interiore. Tutto partiva dalla consapevolezza della respirazione, cordone ombelicale inestirpabile con il mondo esterno. In un travaso continuo e una comunione profonda tra la meraviglia dell’universo fuori e quello dentro di sè. Una gratitudine e uno stupore che si profondevano in rituale, una forma di dispendio di risorse e tempo, di cui noi oggi siamo completamente incapaci, se non nelle forme del lusso o della perversione individuale. Dépense come improduttività operosa. Un fare non finalizzato a produrre alcunchè di biologicamente, materialmente utile o commercialmente spendibile. Questa attività così collettiva e ininterrotta di “otium” finalizzato a theofanie è forse tra le più antiche e poderose forme di festivo. Forme che di per sé richiedono una quantità di energia infinitamente superiore a quella richiesta per qualsiasi attività invece produttiva. Si potrebbe dire che la comunità vedica abbia praticato quel tipo di conoscenza che Kafka avrebbe poi sintetizzato nel suo aforisma n. 109 di Zürau “Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te”. Il risveglio della meraviglia in tutto ciò che apparentemente non sembra averne. Una maggiore attenzione permette di vedere ciò che tenderebbe a sparire. Una festa senza fine.

Le civiltà di area indiana, messicana, mesopotamica, egizia, etc, delle quali possediamo imponenti rovine architettoniche, hanno trasferito quella ebbrezza nella materia. Animando le pietre. Scultura incarnata nell’architettura. Uomini, déi, aquile, sfingi, occhi scolpiti che paiono persino più vigili di quelli vivi. E lo sono, perché vegliano senza sosta. Reciprocità di sguardi tra due mondi. Templi, zigurrat, piramidi alla ricerca continua del punto di equilibrio esatto tra geografia e astronomia. Per penetrare i segreti cosmogonici, per garantire presenze immortali tra i mortali. Grandiosi altari, propiziatori, tombe. Città per i morti più solide e ricche delle città per i vivi. Un mondo al contrario se visto attraverso l’ottica della nostra cultura. Eppure in tempi relativamente recenti a Roma persino un sistema fognario valeva ancora la nascita di una nuova divinità con relativo santuario, quale la Venere Cloacina della Cloaca Maxima. E non c’era acquedotto che, giunto a destinazione, non venisse festeggiato con qualche grande fontana, mostra terminale del miracolo della dislocazione dell’acqua. Acqua Paola, Acqua Felice, Fontana di Trevi, etc. La materia si anima della stessa vitalità del mito.

Non la filosofia greca, non il monoteismo cristiano, nemmeno la riforma protestante hanno mai frenato questa vertigine gioiosa della forma. Anzi. La prima ha assorbito, avvallato e incrementato il valore conoscitivo del mito. Il secondo, attraverso la mistica, ha introdotto una tensione gnoseologica simile a quella vedica. Esercizi spirituali, preghiere, cattedrali, incredibili sforzi di visualizzazione. Trattati sulle possibili consistenze delle vesti angeliche, sui possibili incarnati della pelle di Maria, sul suo possibile volto e su quello di suo figlio. Per riuscire ad attribuire una fisionomia, un peso, un volume. I pennelli di Giotto si sono allungati in quelli di Raffaello, di Tiziano, sempre alla ricerca dello stesso viso. Della stessa visio. La Riforma protestante, suo malgrado, con la risposta della Controriforma ha impresso una esuberanza ancora più forte. È forse solo con Il Discorso sul Metodo di Cartesio, 1637, che il sapere, al culmine di un lungo percorso dello scetticismo scientifico, subisce una torsione senza ritorno.

Nell’antichità il soggetto del sapere e quello dell’esperienza erano diversi. “Sapere” nell’antichità significava entrare in contatto con un intelletto agente che non era interno a noi. L’antico poteva solo partecipare del sapere, ma non certo disporne a suo piacimento. L’esperienza era il punto di contatto, quell’unico punto, in cui la retta della vita mortale intercettava il cerchio e il temporaneo sfiorava l’eterno. Quello che accadeva nelle epifanie che si offrivano nei grandi rituali festivi. Solo in quel punto, per continuare la metafora geometrica, avveniva che il soggetto dell’esperienza fosse anche il soggetto del sapere. Il sapere nell’antichità non erano cognizioni già possedute, ma era il mondo stesso, si trattava solo di accedere a quel sapere nel senso della gnosi, della conoscenza. E il sapere acquisito non si perdeva mai, una volta acquisito. In quel punto di tangenza, il momento forse più autentico del festivo.

2 | Jan Baptist Weenincks, Ritratto di Renato Cartesio, 1647-1649. Mundus est Fabula, la formula cartesiana “il mondo è una favola” liquida il sapere dell’antichità, che non ci apparteneva come accade invece oggi, ma era posizionato al di fuori di noi. Un sapere molto diverso da quello attuale, al quale era possibile accedere solo per segmenti fulminei, di esperienza festiva.

Il discorso cartesiano liquida quella distanza, nella cui tensione si è costruito l’intero rituale antico, che è rituale della visione. Festa in cui risuona il phain- fenomeno dell’apparizione. Perché l’apparizione è il momento della conferma che tutto il processo preparatorio è andato a buon fine. La stessa ritmica annuale era impostata interamente su quella circolarità periodica di preparazione-attesa. Quando Cartesio appare nel dipinto di Jan B. Weenincks con in mano le pagine autografe della sentenza Mundus est Fabula, “il mondo è una favola” sta spazzando via tutto il sapere esterno a noi. Ma anche tutto quello interno a noi, in quanto anche l’esperienza è favola se non verificata attraverso il rigoroso processo del dubbio. Questa strana frase suggella l’inizio del pensiero moderno. L’immediatezza delle sensazioni, ciò che ricordiamo, la nostra storia personale, divengono fantasmi se non dimostrati attraverso la logica matematica del pensiero. L’intellettualismo del pensiero moderno è esattamente questo, il dover passare tutto attraverso il vaglio del pensiero. Il mondo così com’è non è, è un’immagine affascinante e assolutamente illusoria, bisogna fondarla. Questa è la pretesa del pensiero moderno. Il mondo non ha di per sé stesso la sua verità, ce l’ha solo se passa attraverso il vaglio del pensiero, che è un vaglio rigoroso, more geometricum, matematico. Misurabilità. Se non c’è misurabilità, quindi cogitabilità -cogitare vuol dire calcolare per Cartesio- non c’è alcuna realtà, ma solo un discorso fantasioso come quello mitologico. E a partire dalla fine del Seicento la trasposizione del reale sulla carta, la mappa, subisce una trasformazione irreversibile: l’introduzione della scala metrica. Il criterio della misurabilità decide riguardo l’esistenza o inesistenza delle cose, riguardo il loro finire sulla mappa o meno. E la necessità di misurare equamente comporta una seconda manovra visiva, la rotazione del punto di vista. Non più tangente, tridimensionale, esplorativo. Ma zenitale, di controllo, di possesso. Cambia il nostro modo di guardare, di pensare, di progettare. Soggetti mitici, angelici, tutto ciò che è arrotolato nelle pieghe di un luogo, sparisce, rimane solo lo spazio continuo e omogeneo di ciò che è tangibile. Rimane con la pretesa però di esaurire il reale. E così il mondo inizia a rimpicciolirsi. E a semplificarsi terribilmente. Perché è innegabile che tra mappa e realtà sussista una circolarità continua. La mappa registra, ma soprattutto informa il modo della visione, il progetto. Perché non è tanto la mappa che si fa a immagine del reale, ma è il reale che finisce con l’assumere il sembiante della mappa. E lentamente la città si è trasfigurata in periferia, il principale soggetto progettuale dell’ultimo secolo. E la periferia è quanto di meno gioioso ci possa venire in mente, a dispetto del suo nome, perì-pherein che sembrerebbe promettere una qualche forma di processione festiva.

A partire dal discorso di Cartesio, soggetto del sapere e soggetto dell’esperienza iniziano a coincidere. Il sapere non è più già dato. Inoltre è soggetto continuamente a essere superato da teorie più recenti. Il sapere diventa un oggetto nelle nostre mani, qualcosa che si risolve interamente con la nostra volontà, cogito ergo sum. Eppure il pensiero moderno, unificando sapere e soggetto dell’esperienza per attribuire più centralità al soggetto individuale, in realtà priva il soggetto dell’esperienza stessa. Perché l’autorità del sapere, riposta nella scienza, in realtà è ancora una volta posta al di fuori del soggetto. In una nuova entità astratta, che procede non per esperienze uniche e irripetibili, ma per esperimenti pianificati e infinitamente reiterabili. Se il soggetto della conoscenza è quel soggetto che fa conoscenza attraverso gli esperimenti, allora ciò che conosce non è più soggettivo. Infatti la scienza è un sapere impersonale. La scienza è lo sguardo da nessun luogo, come la descriveva Thomas Nagel. Mentre tutti gli sguardi sono situati per natura. L’ideologia della tecno-scienza è rimuovere il punto di vista, un processo astrattivo e disumanizzante. Per Cartesio tutto deve essere rigorosamente dimostrato. Il mondo esterno, persino il nostro stesso corpo. Se non ne avessimo coscienza attraverso il pensiero logico, potrebbe anche essere fatto di coccio, scrive nel Discorso sul Metodo. E nella quinta parte del libro arriva ad affermare che gli animali, proprio in quanto privi di logica cogitans, siano incapaci di provare dolore. Tristemente celebri gli esperimenti che ha condotto sui cani, inchiodandoli al muro e assumendone i guaiti di dolore per automatica emissione di suoni meccanici. La terribile pericolosità dell’astrazione. Eppure questo è il sistema di pensiero al quale prestiamo quotidianamente opera e nel quale accettiamo nostro malgrado di vivere. Adattandoci a una proceduralità sempre più ossessiva e disumanizzante, che non ci vede più nemmeno come oggetto di conoscenza, ma come consumatori necessari per mantenere in vita una scienza che si è applicata e trasformata in tecnica. Mercato tecnologico. Eppure come la scienza, anche la tecnica, ai suoi esordi, ha conosciuto un momento assolutamente festivo, l’accendersi delle case attraverso il prodigio dell’elettricità, la semovenza di giganti di metallo al nostro servizio per la produzione, il cinema e la magia dell’estroflessione filmica dei nostri incubi e desideri. Nuove narrazioni, nuovi miti. L’ebbrezza di una nuova autorità del sapere esterna a noi ma alleata e potente. Finché quel poderoso tentativo di auto-distruzione globale a mezzo della tecnica, che è stata la seconda guerra mondiale, ha sbriciolato ogni entusiasmo. Lasciandoci ammutoliti, e tuttavia nelle mani della sola tecnica anche per la ricostruzione, non solo delle città ma anche delle nostre interiorità distrutte. La tecnica si è incuneata in ogni disciplina offrendosi come mezzo, per innestarsi invece poi come scopo. Non c’è ricerca oggi che abbia valore se non ha una diretta ricaduta sul mercato, se non contribuisce al potenziamento illimitato della tecnica per la tecnica. Che ci costringe a progettare saturando il mondo di future macerie, con materiali che richiedano di essere sostituiti in tempi brevi da nuovi ritrovati della tecnica. Un circolo vizioso. Dove la società, evaporata in solitudini, non offre più riflessione culturale, ma la blandizie dell’industria culturale. Non feste, ma eventi e intrattenimenti. E la tecnica promuove un’illusione di immortalità, una forma di anestesia della coscienza critica.

Un primo antidoto significativo per uscire dall’intorpidimento è tornare a valorizzare la morte. In quanto estrema forma di esperienza e in quanto la vita prende senso proprio dal suo essere a termine. Dalla imprevedibilità e irriducibilità di quel termine. Che fa di ogni vita una perfezione conclusa, compresa tra un inizio e una fine. Un mistero ancora irrisolto, a dispetto del poderoso potenziamento della tecnica. E proprio per questo un grande rimosso del nostro tempo. Mentre la consapevolezza della morte è il primo motore di conoscenza, per uscire dalla stretta dimensione cronologica. Per tornare a produrre in prospettiva lunga, architetture destinate a diventare, in un tempo remoto, rovine, non macerie già oggi. Unica forma di ecologia e economia, il festivo insito nelle cose.

John Hejduk, architetto americano di origine cecoslovacca, nel secondo dopoguerra avvia, attraverso i suoi progetti, un’opera di ricostruzione dell’interiorità umana, in architettura, che non ha eguali in termini di dispendio: tutta la durata della sua vita. Quasi cinquanta progetti e oltre centocinquanta componimenti poetici dedicati alla morte. Quella di Orfeo, di Cristo, del drago di San Giorgio, di Jan Palach, etc, la sua propria morte. Perché è solo la dignità della morte a umanizzarci. In sua assenza si viene semplicemente soppressi, da malattie, eventi, come cose. La ricostruzione della sensibilità inizia riaccendendo il dolore nella forma. Tre progetti per Vie Crucis Journey I, II, III – ripercorrono il dolore della flagellazione, quello per la Christ Church propone tre diversi gradi di dolore del corpo crocefisso, che da orizzontale viene issato verticale, poi processioni funebri, crematori, tombe, cappelle. Il progetto Victims, sessantasette figure architettoniche berlinesi per una nuova comunità dopo la distruzione. E tanti cimiteri, per quelli che se ne vanno e, soprattutto, per quelli che rimangono. Cimiteri persino per le architetture, poi Cemetery for the Mothers of the Children ad accogliere le madri che hanno perso i propri figli e che si trovano, seppure in vita, a morire ogni giorno. House of the Mother of the Suicide mostra il corpo architettonico della madre del martire Jan Palach, sotto la pressione del dolore per la perdita, contrarsi al punto da divenire la tomba vivente del figlio perso. La divaricazione degli aculei appuntiti: l’attimo incendiario del ragazzo. La fissità verticale degli aculei spuntati: il dolore inesauribile di sua madre.

La consapevolezza di essere a termine porta srotola dalle pieghe del reale tutta la meraviglia che si nasconde attorno a noi in ogni dove. Per ricominciare, piano piano, ad amplificare il mondo, che oggi pare così piccolo da non bastarci più. Mentre il mistero è un moltiplicatore, un luogo dentro il quale lo spazio continua a espandersi via via che il mistero scende sempre più in profondità. Misterioso è tutto ciò che non pensiamo possa esserlo, ci insegna Hejduk. E antidoto è cercarlo senza fretta, riappropriandoci di tutto il tempo che noi siamo, ponendo la massima cura possibile. Perché la ripetizione che proviene dall’incanto è crescita, non stordimento. È pulizia progressiva dello sguardo, per una visione sempre più nitida. La base del rituale, del suo dispendio apparentemente inutile. E anche del nostro ingresso nel mondo. L’infanzia è ripetizione continua, perfezionamento sempre più esatto. Una fiaba letta più volte assume contorni ogni volta più esatti, incrementando il suo senso e, insieme, la sua fascinazione. Perché la rappresentazione è tanto più potente quanto più è precisa. Leggi e regole passano tutte attraverso le narrazioni (il mito) o attraverso il gioco (la vertigine). La massima ebbrezza. Nell’infanzia si rischia di precipitare perché non è ancora escluso che si possa anche volare. L’attesa è elettrica perché è attesa di inconoscibili che varcano la soglia domestica, come il Natale, o l’Epifania. Quando il sipario di quel mondo crolla, lì finisce l’infanzia. Ma quell’Eden di cui ci è fatto dono allora, lo porteremo in noi per tutta la vita come un bagliore interiore. Riuscire, attraverso il nostro fare, a riaccenderlo anche solo in minima parte nelle opere, è il rinnovarsi dell’autentica dimensione della festa.

3 | John Hejduk, House of the Suicide and House of the Mother of the Suicide, Memoriale per la morte di Jan Palach, ricostruito a Praga nel 2016 in forma permanente. Due strutture architettoniche analoghe, per due diverse nature del dolore. La divaricazione degli aculei: l’attimo incendiario del martirio di Jan Palach. La fissità verticale degli aculei, inclinati appena verso l’interno: la contrizione del dolore inesauribile di sua madre.

Riferimenti bibliografici
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    F. Kafka, Aforismi di Zürau, Milano 2015.
  • Kerény 2001
    K. Kerény, L’essenza della festa in Religione antica, Milano 2001.
  • Nagel 2018
    T. Nagel, Lo sguardo da nessun luogo, Milano 2018.
  • Rizzi, Piscella 2020
    R. Rizzi, S. Pisciella, John Hejduk. Bronx. Manuale in versi, Milano 2020.
  • Rosa 2015
    H. Rosa, Accelerazione e alienazione, Torino 2015.
  • Tagliapietra 2018-2019
    A. Tagliapietra, La macchina mitologica, lezioni tenute presso l’Università Iuav Venezia, 2018/2019.
English abstract

In this text, the author reflects on the concept of "festive" as it has been understood in different civilizations throughout history. They start with the Vedic civilization, which saw intoxication as a means of accessing otherworldly experiences, and where all aspects of life were infused with a sense of wonder and gratitude for the universe. The author then discusses the monumental architecture and sculpture of civilizations such as those of Mexico, Mesopotamia, and Egypt, which infused matter with the same vitality as myth. Finally, they discuss the role of religion in Western civilization, where mysticism and exercises aimed at visualizing the divine have continued to inspire ecstatic experiences. Throughout the text, the author highlights the importance of celebration, which they see as a means of accessing and expressing the ineffable aspects of life that cannot be captured through rational thought or productivity.*

*The English abstract above was written by ChatGPT and strictly unedited by the editors of this issue (> Editoriale). This sentence itself was automatically translated with DeepL.

keywords | John Hejduk; René Descartes; Vedic religion.

Per citare questo articolo / To cite this article: S.Pisciella, Festa della pietra, festa per sempre. Vitalità della visione (e della forma) prima e oltre il mondo cartesiano, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 179-186 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0027