Calendari e riti
Il significato profondo della festa è legato a quello di ricorrenza, e quindi a quello di ciclicità. Ci riporta alle culture del calendario, che suddividevano l’anno in periodi di tempo legati soprattutto all’astronomia e alle stagioni, per ovvi motivi di attività relative alla pastorizia, all’agricoltura, alla pesca e alla cacciagione. I periodi di tempo erano cadenzati da feste e ricorrenze di carattere rituale e propiziatorio, spesso legate a momenti periodici sia solari che lunari. È difficile dire quando siano emerse le culture del calendario. In genere sono collegate alle culture agricole, particolarmente sensibili alla ciclicità dei raccolti, e quindi le culture del calendario potrebbero essersi sviluppate col Neolitico. Oggi però siamo sempre più consapevoli che alcune tecniche agricole erano ben conosciute anche dagli uomini del Paleolitico, anche se non praticate sistematicamente. D’altra parte la caccia, quando era possibile, garantiva una dieta più ricca, e quindi l’agricoltura sistematica si impose solo quando la popolazione raggiunse una certa densità, e richiese un’organizzazione del lavoro che generò le stratificazioni sociali e il potere politico – con i cacciatori in posizione di privilegio, in quanto detentori della forza, insieme ai custodi del calendario, astronomi e sacerdoti: la triade di Dumézil. Ne potremmo dedurre che la celebrazione di ricorrenze sia più antica dell’economia agricola. D’altronde l’antropologia ci parla di forme rituali esistenti anche presso i cacciatori-raccoglitori, e la coincidenza di rito e festa è sempre stata fondamentale. I paleolitici peraltro condividevano con i loro successori i ritmi del sole e della luna, nonché i passaggi principali della vita, meno invece gli appuntamenti della vita del contadino, la semina, il raccolto, la vendemmia. In più, però, potevano celebrare eventi straordinari o imprevisti, come una grande caccia, o l’incontro con altri gruppi, come capitava a persone in spostamento quasi continuo; questi incontri erano ritualizzati, anche perché confermativi delle mappe mentali con cui i gruppi di viaggiatori paleolitici si orientavano. Notevole è l’esempio delle vie dei canti degli aborigeni australiani, e dello scambio di oggetti simbolici (tjurunga), significanti l’origine dei viaggiatori e il senso del loro viaggio, testimoni di una vita e di un potere di derivazione divina che si riconfermano al momento dell’incontro. I riti e le feste dunque danno senso agli eventi, e hanno una funzione certificatrice e regolatrice della vita degli ecosistemi: una funzione di auto-regolazione delle società che in epoca storica si consoliderà nelle religioni, e con esse nella santificazione delle feste.
Orologi e tempo libero
Tutto cambiò con la modernità. L’agricoltura viene sostituita dall’industria come attività principale. Il tempo della generazione, scandito dalle stagioni, è sostituito dal tempo della produzione, dei processi, che hanno un inizio, una fine, e soprattutto una velocità, determinabili dagli umani. Il tempo di Prometeo si potrebbe dire, una forma di hybris, forse. Le feste tradizionali rimasero, così come il freddo dell’inverno e il caldo dell’estate, ma rispetto al tempo delle macchine non erano ricorrenze, piuttosto disturbi o interruzioni. Il tempo delle feste gradualmente perse il suo significato, insieme ai riti che le celebravano, per diventare lo spazio del recupero psico-fisico necessario a una più efficiente produzione: divenne ‘il tempo libero’. Il tempo libero è un costrutto sociologico, un bene privilegiato che già durante la prima rivoluzione industriale viene messo in mostra dalle classi dominanti ai fini della sottomissione di classe (Veblen [1899] 1994). Via via che le tecnologie divennero più efficaci, il tempo dei processi produttivi si accorciò, lasciando più spazio al tempo libero. Questa tendenza nel 1930 fece prevedere a John Maynard Keynes, in una conferenza a Madrid intitolata Prospettive economiche per i nostri nipoti, che in cento anni il problema economico poteva essere risolto, e quindi per la prima volta dalla sua creazione l’uomo si sarebbe trovato di fronte il suo vero problema permanente, come usare la sua libertà:
Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza, quando verrà. Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale (Keynes [1931] 1991).
A pochi anni dalla scadenza della sua previsione, il tema del lavoro e dell’occupazione continua a proporsi nei termini delineati da Keynes. Nel frattempo disponiamo di tecnologie potentissime, e in più stiamo maturando una visione del mondo che include la sostenibilità, concetto nato solo negli anni ’80 del secolo scorso. Ma il tempo libero non si è dilatato così tanto come pensava Keynes. Vale la pena di soffermarsi su questo tema, perché non dovrebbe mai scomparire dallo sfondo quando approfondiamo la questione del lavoro: lo scopo del lavoro dovrebbe essere quello di garantire la vita e migliorarne la qualità. Tuttavia la definizione di quest’ultima è tutt’altro che evidente.
Leisure vs. consumo
Ai tempi e nell’ambiente di Keynes, il leisure era quello delle classi alte di allora, basato su piaceri fisici ed estetici, e formato da un certo tipo di educazione. Era anche il tempo in cui nelle residenze di campagna si riunivano le famiglie, o sui campi da golf si ritrovavano i conoscenti, per confrontarsi sui temi privati e pubblici che richiedevano di confrontare punti di vista e assumere posizioni conseguenti. Uno stile di vita disteso che non era quello dei lavoratori, protagonisti invece della grande espansione e diversificazione dei consumi che avrebbe avuto luogo nella seconda metà del secolo scorso. Lo sviluppo del potere di acquisto delle classi lavoratrici permesso dalla Seconda Rivoluzione Industriale si è infatti rivolto soprattutto alla crescita dei consumi più che al leisure. Potremmo definire l’‘arte della vita’, dal punto di vista economico, come la gestione di un equilibrio tra leisure, consumi e risparmi. Arte ben poco praticata oggi dalla maggior parte della popolazione, le cui risorse, anche quando vanno oltre la sussistenza, sono assorbite da consumi indotti da uno stile di vita standardizzato e spinto dai media a consumi bulimici, senza quasi spazio per scelte autonome. Con la rivoluzione Informatica, la diversificazione spinta e l’innovazione accelerata di prodotti e servizi hanno raggiunto livelli estremi: una situazione in cui la ‘festa’ sopravvive oggi nei social network come celebrazione ed esteriorizzazione di consumi e stili di vita sofisticati e sempre rinnovati, tipici di classi affluenti ma tuttavia lontani dalla dimensione di scholè che contraddistingue tuttora gli uomini veramente liberi.
Tempo libero come scholè
Il tema è antichissimo, lo ritroviamo già approfondito in autori come Platone e Aristotele, dove la scholè, che corrisponde al latino otium, indica uno stato libero da necessità e bisogni, in cui esplorare liberamente i potenziali inespressi, le domande aperte, i sogni e le utopie: uno stato in cui emerge il senso di possibilità future, e non dipende da alcuna autorità se non dal desiderio dalle persone libere che si impegnano in esso, né è senza scopo e senza riferimento a una dimensione profonda, morale e politica. Un significato comunque lontano da quello di festa: l’uomo libero non attende la festa per godere della sua libertà.
Tuttavia l’indagine sulla natura della scholè può aiutarci a considerare la possibilità che i nostri mali economici e sociali possano essere sorti da risposte errate che abbiamo dato alla domanda socratica: quale tipo di vita vale la pena vivere? Aristotele definisce la scholè come condizione entro cui l’entelechia umana viene attualizzata, e la dichiara, per ragioni empiriche e teoriche, essenziale sia per la prosperità umana sia per la sopravvivenza della polis. È nel tempo libero così inteso che deve realizzarsi la migliore attività che esiste dentro di noi: “Εἰ δ' ἐστὶν ἡ εὐδαιμονία κατ' ἀρετὴν ἐνέργεια, εὔλογον κατὰ τὴν κρατίστην” (Aristot., Eth. Nic. 1177a 12–13). Vediamo qui la grande distanza che separa Aristotele da un teorico moderno del lavoro e del tempo libero come Thorstein Veblen. Per Aristotele il tempo libero non è un costrutto sociologico, ma una condizione naturale in cui l’anelito umano di cercare risposte alle sue meraviglie trova la sua realizzazione. La classificazione di Aristotele di scholè come fine ci fornisce un modo per valutare i tipi di attività nel tempo libero in modo da accertarne meglio la natura. Tutte le forme di rilassamento non devono essere confuse con il tempo libero. Il riposo dal lavoro non è scholè, ma anapausis, una pausa in modo che si possa ricominciare a lavorare. Né è scholè il semplice apprendere. La musica, o la fisica teorica, o anche la filosofia, se condotte per carriera o profitto, quando sono disconnesse dal controllo della nous e dal suo scopo cosmico, legato al kalon, non si qualificano come scholè. Al contrario, anche un lavoro umile, in cui tuttavia la parte esecutiva sia sempre connessa a quella creativa, può manifestarsi come uno stato di scholè.
La festa come homonoia
La questione politica pratica che emerge è la seguente: l’attività di scholè può mai essere praticata da un’intera società? Aristotele fornisce la soluzione a questo enigma quando afferma che l’amicizia politica è il legame della res publica, e questa amicizia, che egli chiama homonoia, è un legame che accomuna chi condivide uno stesso orientamento mentale, una capacità di pensiero collettivo, riguardo al bene comune. Qui possiamo notare che la democrazia ateniese è stata possibile in un contesto dove il teatro ha funzionato come componente indispensabile dell’amicizia politica tra i suoi cittadini. Anche se non tutti i cittadini sono dei sapienti, tutti sono sufficientemente colti all’interno delle loro pratiche e abitudini associative da riconoscere in ciò la presenza della nous e mostrarle rispetto: ciò che forse manca nelle cittadinanze che si configurano all’interno delle istituzioni contemporanee. Possiamo ora ben dire che la festa e i suoi riti si manifestano fin dalla più remota antichità in vere e proprie rappresentazioni che preludono al concetto di teatro, e con esso condividono il ruolo di homonoia, di legame di un gruppo sociale intorno a valori che esprimano il proprio bene comune. Riti con carattere di spettacolarità erano per esempio allestiti secondo il ciclo stagionale allo scopo di venerare, pregare o ringraziare gli dei per la stagione futura. Gli eschimesi erano soliti rappresentare un dramma per celebrare la fine della notte polare: la drammatizzazione dell’evento avveniva tramite un narratore che accompagnava gli attori e il coro, composto da sole donne.
Sempre segnati dal carattere di festa erano i riti sociali, che sottolineavano un avvenimento quotidiano. Il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, le nascite e le morti erano celebrate, in maniera differente, con caratteri drammatici e pubblici che ne giustificano la teatralità. Soprattutto le cerimonie iniziatiche comprendevano rituali e celebrazioni di forte caratterizzazione drammatica. Anche la caccia, la pesca o l’agricoltura offrivano spunti per rappresentazioni teatrali. Una componente importante sia per la festa sia per il teatro era l’azione mimica, accompagnata da danze e musica; non meno importanti erano e sono trucco e costume: molteplici culture sottolineano l’estraneità dell’avvenimento al mondo reale (e quindi la finzione o il ribaltamento della realtà) tramite il mascheramento e l’ornamento. Possiamo quindi ritenere che sia la festa, sia la scholè, per quanto situazioni profondamente diverse, collettiva e popolare la prima, individuale ed élitaria la seconda, siano accomunate da un fine incorporato nella biologia della specie umana, che forse potremmo identificare con l’eros. Nella sua Metafisica Aristotele dice che il potere di meravigliarsi, thaumazein, spinge gli umani a cercare le cause delle cose e quindi possiamo concludere che è la meraviglia che naturalmente ci spinge sia alla scholè, dal momento che gli enigmi che pone devono essere formulati e indagati in questo stato libero da pensieri, sia alla celebrazione dei misteri nei riti della festa: “διὰ γὰρ τὸ θαυμάζειν οἱ ἄνθρωποι καὶ νῦν καὶ τὸ πρῶτον ἤρξαντο φιλοσοφεῖν” (Aristot., Metaph. 982b 12–13).
Che succede col passaggio al digitale?
I sistemi produttivi chiusi (allopoietici) sono nati come realizzazione di principi come la divisione del lavoro (applicazione all’economia del riduzionismo scientifico), l’adozione di standard (primato della conoscenza esplicita su quella tacita, tipica invece del lavoro preindustriale: artigiani, mestieri, botteghe etc.), una certa indifferenza alle esternalità negative (mancanza di sostenibilità). Questi principi si riferivano a un’efficienza di processi caratterizzati da una durata temporale (processi diacronici) in cui si svolgono attività che consumano risorse (principalmente capitale e lavoro), per ottenere un output reificato o reificabile, oggetto di scambio. Ora la compressione dello spazio-tempo indotta dal digitale riduce i costi marginali e il valore dei processi diacronici, deprimendo il valore dei capitali investiti e del lavoro svolto in essi. A ciò corrisponde un incremento sostanziale dei valori cosiddetti (impropriamente) intangibili, già reso evidente negli ultimi decenni dalla necessità di personalizzare sempre più prodotti e servizi, e di conseguire cicli di vita sempre più brevi (innovazione). L’innovazione non è un processo deterministico, emerge in modo discreto e discontinuo, serendipico e ‘improbabile’, grazie alla connessione di conoscenze non solo esplicite, ma anche e soprattutto tacite. Nell’era digitale, grazie alle piattaforme, la ‘connessione’ può riguardare un numero enorme di attori, che generano i dati da cui l’intelligenza artificiale permette l’estrazione di segnali in un tempo zero. Nel complesso, stiamo osservando uno shift di valore dal product-making al sense-making: qualcosa che come abbiamo visto era anche alla base dei riti e delle feste. L’architetto di sistemi di conoscenza, il nuovo maître d’œuvre, guida dall’alto lo sviluppo di un lavoro realizzativo, ma se ne fa anche guidare, lasciando che le possibilità evolutive emergano dallo sciame di agenti, e sostengano così l’evoluzione degli ecosistemi. Questa forma di generazione di ricchezza trova una pietra angolare nella creazione di senso: la produzione di senso corrisponde a una comprensione superiore del mondo: qualcosa che merita certamente di essere celebrato. Questa liberazione del nostro pensare dalle gabbie in cui lo hanno chiuso due secoli di sviluppo basato sul modello riduzionista, è descrivibile come un passaggio a modelli enattivi, in cui non si prevede distinzione tra teoria e prassi come avviene invece nei modelli predittivi-esecutivi codificati nella modernità. In questo modello enattivo non è più centrale l’esecuzione di attività predefinite all’interno di un’organizzazione, ma l’entrare in un ecosistema per curarlo o generarne degli altri. Questo equivale a dire che cambia sia il terminale delle catene del valore: sempre meno i ‘consumatori’, sempre più i membri di comunità che condividono culture, valori, interessi; sia la natura della catena del valore: sempre meno rivolta a produrre oggetti con un valore d’uso da scambiare, sempre più rivolta a incrementare il valore di patrimoni comuni (del cui valore simbolico alcuni prodotti sono portatori).
Qui si chiude il cerchio: mentre la Gesellschaft produttrice di oggetti, tutta definibile in termini di conoscenza esplicita, può essere ridotta ad algoritmo, la Gemeinschaft produttrice di senso, generato e percepito dal sapere tacito, mantiene (o recupera) tutto il suo valore. È implicita nella definizione di Gemeinshaft l’idea di common. Tale concetto si riferisce, come noto, a risorse naturali e culturali accessibili a tutti i membri di una comunità (per estensione alla società umana), includendo aria, acqua, terra. Questi beni non sono soggetti a proprietà, né privata né pubblica, anzi possono includere tali proprietà per diritto consuetudinario. Un membro della comunità che ha accesso ai commons è chiamato commoner. Un common cessa di essere tale quando è trasformato in commodity, cioè in qualcosa suscettibile di proprietà. Oggi il concetto di common è stato ampiamente trasferito alla cultura e alla conoscenza, includendo arte, musica, letteratura, design, informazione e comunicazione, software, a determinate infrastrutture, e a patrimoni storici e culturali. Anche sistemi complessi come i linguaggi, il genoma, il web, la matematica, il diritto, i biosistemi, sono tipicamente dei common, come pure le realtà aumentate, i gemelli digitali, ecc. Le comunità di interessi, passioni, opere che emergono nel nostro contemporaneo, siano esse testimonianze di resilienza o di capacità di iniziativa, sono spesso tenute assieme da quanto oggi chiamiamo ‘piattaforme’. È possibile che anche in queste comunità sia possibile creare una homonoia attraverso riti collettivi? O forse succede già?
Alla fine della modernità usciremo dal “non-tempo” e ritroveremo la Festa?
Una sintesi brillante descrive il passaggio dalla modernità alla dimensione digitale come una ‘svolta paleolitica’, la fine di un ciclo iniziato con l’adozione dell’agricoltura, l’inurbamento e la nascita delle istituzioni. L’antropologia dell’uomo digitale fuoriesce da tutto questo, e trova nel cacciatore paleolitico una metafora molto più convincente che non nell’agricoltore, poi operaio, degli ultimi diecimila anni. L’agricoltore è legato alla terra, l’industriale è legato agli investimenti fissi. L’uomo digitale invece approfitta della tecnologia pervasiva, che è ubiqua e mobile, come la vela che approfitta del vento giusto; è nomade, viaggia leggero, usa le risorse che trova, non le accumula. Non si avvantaggia, come gli imperi del passato, di espansioni territoriali e grandi crescite demografiche. Come il cacciatore paleolitico, non può permettersi molti figli, solo quelli in grado di accompagnarlo. Questa metafora ci offre uno sguardo intrusivo e profondo sulla trasformazione del capitalismo che ci dobbiamo attendere. Quello che conosciamo, e che sta finendo, applica il modello macchina, che ha come obiettivo la produzione di beni e servizi entro sistemi chiusi, che riducono i costi di transazione con l’organizzazione e i costi di esecuzione con l’efficienza.
Quello emergente sembra potersi ispirare al modello del vivente, che crea di continuo la propria organizzazione insieme al proprio ambiente, e genera ricchezza non solo attraverso scambi, ma soprattutto attraverso fenomeni di emersione del nuovo e di espansione del proprio ecosistema. In un mondo in cui l’imprevedibile, l’improbabile, l’indeterminato prenderanno il posto del regolato e del pianificato, si riaprono spazi aperti per la dimensione dell’apotropaico e del propiziatorio? Possiamo immaginare nuove feste e nuovi riti? O stanno già emergendo ma non le riconosciamo come tali? Certo non le ritroveremo negli spazi del (vecchio) ‘tempo libero’; le ritroveremo nei momenti di incontro, la cui importanza diventerà sempre maggiore, e la cui regia dovrà evolversi per renderli sempre più coinvolgenti e generativi. Gli hackaton, per esempio, sono momenti in cui si esalta l’incontro tra intelligenze, e si favorisce l’emersione del nuovo. Si può sicuramente andare oltre. Lo studio dei riti festivi potrebbe dare indicazioni per creare contesti spazio-temporali di particolare efficacia. La natura e la cultura ci forniscono infinite ambientazioni, che oggi nel Metaverso potrebbero trovare ulteriori infinite varianti. La dimensione del teatro può diventare centrale in una società in cui l’emersione di nuove forme di conoscenza è centrale. La modernità ha prodotto i non-luoghi, oltre al ‘non-tempo’ del tempo libero, perché appiattisce l’azione sull’esecuzione, che non distingue i luoghi vitali dai luoghi morti, il bello cosmico dall’amorfo. Se saremo di nuovo incentivati a saper creare, e diventeremo consapevoli che tale magia è possibile solo nel bello, allora forse sapremo rivivere la Festa.
Riferimenti bibliografici
- Keynes [1931] 1991
J.M. Keynes, in La fine del laissez-faire e altri scritti, Milano 1991. - Veblen [1899] 1994
T. Veblen, The Theory of the Leisure Class, New York 1994.
The deep meaning of the festival is linked to that of recurrence, and thus to that of cyclicity. It takes us back to calendar cultures, which subdivided the year into periods of time linked above all to astronomy and the seasons, for obvious reasons of activities related to pastoralism, agriculture, fishing, and hunting. The time periods were punctuated by festivals and celebrations of a ritual and propitiatory nature, often linked to periodic solar and lunar moments. Everything changed with modernity. Agriculture was replaced by the industry as the main activity. The time of generation, punctuated by the seasons, is replaced by the time of production, of processes, which have a beginning, an end, and above all a speed, determinable by humans. Promethean time one might say, a form of hybris, perhaps. The time of festivals gradually lost its meaning, along with the rites that celebrated them, to become the space of psycho-physical recovery necessary for more efficient production: it became ‘free time’. Leisure time is a sociological construct, a privileged commodity that already during the first industrial revolution was put on display by the ruling classes for the purposes of class subjugation (Veblen [1899] 1994). With the IT revolution, the driven diversification and accelerated innovation of products and services reached extreme levels: a situation in which the ‘party’ survives today in social networks as a celebration and externalisation of sophisticated and ever-renewed consumption and lifestyles, typical of affluent classes but nevertheless far removed from the scholè dimension that still characterises truly free men.
keywords | Feast; Leisure; scholè; Digital age.
Per citare questo articolo / To cite this article: P. Zanenga, La fine del tempo libero (e il recupero della festa) ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 365-372 | PDF