All’inizio di tutto, come riporta il Libro della Genesi, terminati i sei giorni di creazione e prima di riposarsi, Dio “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1.31). Nella tradizione ebraica il compimento dell’opera divina viene celebrato ogni sabato dalla festa del riposo, lo Shabat. Se gli ebrei ricordano di sabato la creazione divina, nella tradizione cristiana il giorno nel quale si ricorda il compimento della creazione da parte di Dio è anche quello della Resurrezione di suo Figlio, la domenica, cioè il giorno del Signore, un’occasione di gioia e di festa.
Anche per gli umani la creazione di un’opera d’arte e il compimento di un’impresa di valore possono diventare occasione di gioia e di festa, e lo scopo di questo breve contributo è quello di ricordare il senso gioioso e festivo per il compimento di un’opera d’arte o di virtù celebrato da un artista del Rinascimento italiano, l’architetto e scultore fiorentino Antonio di Pietro Averulino, che si era scelto proprio il soprannome umanistico di ‘Filarete’, cioè di ‘amante della virtù’. Il termine greco ἀρετή, poi associato alla virtus, il valore del vir, l’eroe maschio dei latini, indicava la capacità di realizzare in pieno la propria natura. Dopo la realizzazione, tra 1433 e 1445, delle porte bronzee della basilica di San Pietro in Vaticano, il più importante tempio della cristianità latina, l’amante della virtù e dell’eccellenza aveva lasciato la sua firma figurata, scolpita in rilievo sul retro dell’anta sinistra (King 1990). Lo vediamo infatti celebrare a passo di danza con i suoi aiuti la realizzazione dell’opera [fig. 1].
L’atmosfera di festa e soddisfazione è confermata dall’iscrizione latina che si trova sopra le figure degli assistenti: “Per gli altri la ricompensa per la propria opera è l’orgoglio, cioè fumo, per me è la gioia” (Scafi 2012, 144: “CETERIS OPER[A]E PRETIUM FASTUS [FU]MUS VE MIHI HILARITAS”). Filarete conduce la danza, tenendo in mano un gigantesco compasso rovesciato, con la vite e il cerchio perfetto che con il compasso si può fare. La scritta ai suoi piedi ci conferma che si tratta di Antonio e dei suoi allievi (Ibid., 147: “ANTONIUS ET DISCIPULI MEI”). Filarete, senza grembiule, trascina nel ballo i suoi giovani apprendisti, tutti con il grembiule da lavoro e i loro strumenti. L’ultima parola dell’iscrizione citata qui sopra, HILARITAS (“gioia”), sembra quasi uscire dalla bocca del maestro.
Per Filarete creare un’opera d’arte è motivo di festa e di gioia profonda. Nel suo “architettonico libro” (Filarete, a cura di Grassi e Finoli 1972, I, 7), composto nei primi anni Sessanta del Quattrocento, dove è descritta la costruzione di una città ideale – Sforzinda – lo scultore e architetto fiorentino sviluppava il motivo della gioia festosa provata al compimento di un’opera d’arte e di una qualunque impresa di valore. Per Filarete, la gioia per la realizzazione di un progetto e l’edificazione di un’opera architettonica si poteva paragonare a quella per la nascita di un figlio. Esattamente come accade con il corpo umano, secondo l’artista e architetto di Firenze, l’edificio si generava infatti con il contributo di una madre – l’architetto – e di un padre – il Signore committente, un’associazione della costruzione artificiale al processo creativo della natura che è stata interpretata come una conferma della radice alchemica della formazione di Filarete (Sinisi 1971, 13). Dopo che il progetto era stato concepito dai suoi genitori, l’architetto-madre, proprio come una gestante, lo maturava nella sua mente, passando nove mesi a “fantasticare e pensare e rivoltarselo per la memoria in più modi” (Filarete, a cura di Grassi e Finoli 1972, I, 40). Il momento del parto arrivava quando, scegliendo il disegno migliore tra i vari sviluppi del progetto, l’architetto-madre ne faceva “uno disegno piccolo rilevato di legname, misurato e proporzionato come che ha a essere fatto poi” (Ibid.), e mostrava così il ‘neonato’, cioè il plastico della futura costruzione, al padre-Signore, che lo riconosceva. La madre-architetto lo allevava allora amorevolmente, procurandogli, d’accordo con il padre, “buoni maestri” per crescere. Del resto, secondo Filarete, edificare era come innamorarsi, un piacere e un desiderio al quale l’uomo si dedicava senza risparmio, “un piacere voluntario, come quando l’uomo è innamorato” (Ibid., 41); e, proprio come accade agli innamorati, chi edifica va sempre a rivedere volentieri il suo edificio, “e quanto più lo vede più lo vorrebbe vedere, e più gli cresce l’animo, e quel tempo passa, e non gli rincresce mai o di ragionarne o di guardarlo, come lo innamorato proprio di ragionare dell’amorosa”(Ibid., 42).
Nel corso della narrazione leggiamo frequenti descrizioni di canti, danze, feste, giostre per celebrare la fondazione della città e le varie fasi della costruzione degli edifici (Ibid., I, 108, 147, 332; II, 472, 487, 527). Alle gioie della produzione artistica è chiamato il giovane figlio del Signore, che, come narrato all’inizio del Libro VII, abbandona i passatempi signorili per dedicarsi all’architettura e aspirare alla gloria della virtù. La gioia e la festa per l’acquisizione della virtù e per l’apprendimento delle scienze sono descritte in particolare nel Libro XVIII del trattato, dove l’architetto illustra il progetto per una Casa della Virtù e del Vizio. In realtà l’arte di tutta la città ideale doveva servire, nelle parole dell’autore, a “incitare gli uomini a seguire virtù e così a fuggire e ischifare il vizio” perché la virtù rende l’uomo felice, in questa vita e nell’altra (Ibid, I, 264; II, 532). Sforzinda doveva funzionare come una macchina collettiva generatrice di virtù (Hub 2020, 397-405).
La Casa della Virtù e del Vizio, da costruire nella città ideale per l’educazione dei cittadini, rielaborava architettonicamente il tradizionale scenario delle due strade da scegliere, il tema di Ercole al bivio (Panofsky 1930, 192). Si trattava di una complessa costruzione cilindrica, posta su una struttura quadrata e coronata da una statua monumentale della Virtù. [fig. 2]
Dalla base quadrata l’edificio circolare si svolgeva in altezza attraverso gallerie concentriche collegate al centro da diaframmi murali radiali, in uno schema ispirato al Colosseo. Il cittadino sarebbe entrato nella Casa attraverso l’ingresso principale, rialzato rispetto al piano terreno, dopo aver salito nove gradini; quindi, attraversato un chiostro, avrebbe incontrato due porte. Ad Ercole erano apparse due bellissime donne: il Vizio, che lo invitava a una vita di piaceri senza dolori, per una strada semplice e piana, e la Virtù, che invece lo esortava a prendere un cammino difficile, ripido e sassoso, ma verso un premio divino. Le donne scomparvero ed Ercole decise di percorrere la via impervia e difficile della Virtù, ed è così che divenne un eroe. Nella città ideale di Sforzinda la scelta di Ercole diventava l’alternativa tra le due porte e i due percorsi che il cittadino poteva scegliere una volta entrato nella Casa della Virtù e del Vizio: il percorso virtuoso passava attraverso la porta Areti, sulla destra, con l’iscrizione “fatica con gaudio”, insieme a un’immagine della Virtù e l’avvertimento: “Questa è la via ad andare acquistare la virtù con fatica”, mentre la discesa viziosa passava per la più spaziosa porta Cachia, sulla sinistra, con l’iscrizione “piacere con tristizia”, insieme a un’immagine del Vizio, con l’aggiunta: “Qui entrate, brigata, che goderete e poi con dispiacere il piagnerete” (Filarete, a cura di Grassi e Finoli.1972, II, 535). La scelta era quindi tra un percorso in salita verso le gioie faticose della Virtù – una scala che conduceva all’acquisizione delle arti con lo studio e la disciplina – e una ripida discesa senza gradini verso il basso, a godere dei piaceri distruttivi del Vizio, disperdendo energie in ristoranti e bordelli.
Oltre la soglia della porta Areti, iniziava un percorso di gradini, ponti e archi trionfali. Le scale conducevano ad altre porte e a sette ambienti da attraversare, in sette diversi livelli, ognuno dedicato ad una delle sette arti liberali, dalla Logica e la Retorica fino all’Astrologia, che si trovava più in alto perché è “una scienzia che tratta di cose alte e celeste” (Ibid., 540). Al culmine del cilindro centrale, una statua bronzea della Virtù campeggiava su una piccola cupola a forma di diamante, sorretta da nove statue delle Muse, “uno luogo molto ameno e bello e dilettevole” (Ibid.), ma accessibile solo a chi avesse acquisito tutte le scienze e avesse attraversato tutti i passaggi che collegavano il perimetro esterno alla struttura centrale: i sette ponti delle sette virtù, le quattro virtù cardinali e le sette virtù teologali.
Filarete immaginava la complessa procedura di feste e trionfi nella Casa della Virtù in onore di chi si fosse addottorato nelle varie scienze. Quando il cittadino aveva finalmente compiuto il suo itinerario per l’acquisizione della virtù e l’apprendimento delle scienze, veniva incoronato d’alloro e festeggiato “con suoni e strumenti”, e accompagnato a casa “con suoni e feste” e “grande onore” (Ibid..II, 545-549). L’alternativa tra virtù e vizio era sottolineata dalla contrapposizione spaziale tra il Teatro della Virtù e il Teatro del Vizio, annessi alla Casa: mentre nel Teatro del Vizio si potevano frequentare taverne e luoghi di prostituzione, nel Teatro della Virtù erano praticate tutte le discipline e tutti i giochi, con giostre, tornei, palii e duelli con ogni arma, premi e onori riservati ai vincitori, e feste regolarmente eseguite nei giorni festivi o in onore di qualche forestiero.
La gloria è il premio della Virtù, come era indicato dalla singola personificazione da scolpire sulla porta Areti, ma che Filarete situava nei luoghi più significativi della sua città ideale:[fig. 3] “una figura a modo d’uno il quale fusse armato, e la sua testa era a similitudine del sole, e la mano destra teneva uno dattero e dalla sinistra teneva uno alloro; e stesse diritta su uno diamante, e di sotto a questo diamante uscisse una fonte d’uno liquore mellifico, e di sopra dalla testa la Fama” (Ibid., II, 533). La Virtù era rappresentata quindi da una figura alata, trionfale e gloriosa, quasi un angelo armato, dal viso risplendente di luce solare, posto su di un diamante, con in mano un alloro e nell’altra una palma, mentre dal diamante scaturiva una sorgente di miele, che attraeva due api. Filarete ricorreva spesso al simbolo delle api, come modello di virtù e organizzazione (per esempio Ibid., I, 175) e associava la produzione del miele al processo creativo dell’architetto (Sinisi 1971, 28-29, 50). Nell’immagine vediamo in alto una personificazione della Fama che dalla Virtù si diffonde veloce: un putto alato, circondato da quattro occhi, due orecchie, una bocca e un naso, tutti alati, probabilmente un simbolo dei cinque sensi che distillano dall’esperienza il nettare necessario all’acquisizione della conoscenza e alla produzione del dolce miele della virtù (Yocum 1998, 70-71). Il premio della virtù è la gloria; destino dell’artista virtuoso è la felicità (Parlato 2005, 311 e Beltramini 2000, 486); una festa gioiosa attende sempre chi sa affrontare la fatica dell’ascesa.
Riferimenti bibliografici
- Beltramini 2000
M. Beltramini, Antonio Averlino detto Filarete (1400 circa-post 1466). Porta (1433-1445), in A. Pinelli (a cura di), La Basilica di San Pietro in Vaticano (Mirabilia Italiae), 4 vol., Modena, 2000, IV, pp. 480-487 - Filarete 1972
Filarete (A. Averlino), Trattato di Architettura, a cura di A. M. Finoli e L. Grassi, Milano 1972, 2 vol. - Hub 2020
B. Hub, Filarete: Der Architekt der Renaissance als Demiurg und Pädagoge, Weimar 2020. - King 1990
C. King, Filarete’s Portrait Signature on the Bronze Doors of St Peter’s and the Dance of Bathykles and his Assistants, “Journal of the Warburg and Courtauld Institutes”, 53, 1990, pp. 296-299. - Panofsky 1930
E. Panofsky, Hercules am Scheidewege, Leipzig-Berlin 1930. - Parlato 2005
E. Parlato, Filarete a Roma, in F.P. Fiore, A. Nesselrath (a cura di), La Roma di Leon Battista Alberti: Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento, Milano - Roma, 2005, pp. 302-313 - Scafi 2012
A. Scafi, ‘La firma di Filarete sulla porta bronzea di San Pietro: la gioia della creazione artistica’, in La Basilica di San Pietro: Fortuna e immagine, a cura di G. Morello, Roma 2012, 137-151. - Sinisi 1971
S. Sinisi, filarete nascosto, ‘Quaderni contemporanei’ 5 (s.a. [1971]), 1-54. - Yocum 1998
C. Yocum, Architecture and the Bee: Virtue and Memory in Filarete’s Trattato di Architettura, MA Thesis, McGill University Montréal, 1998.
At the beginning of time, as it is reported in the Bible, God created, reflected, and considered what He made to be good. Humans too can achieve joy and satisfaction through their creations. This short paper takes the case of Antonio Averulino (c. 1400 – c. 1469), known as Filarete, as an example of a Renaissance artist and architectural theorist who saw an opportunity for celebration when a creative process was completed. On the back of one of the bronze central doors for the old St. Peter's Basilica in Rome, completed in 1445, Filarete sculpted himself dancing with his assistants to celebrate the work’s completion. Likewise, in his later Treatise on Architecture (c. 1460 – 1464), which describes the ideal city of Sforzinda, Filarete presented the realisation of building projects as an occasion of great rejoicing. In particular, with the project for a House of Vice and Virtue – a complex structure with a brothel on the bottom and an academy of learning on the higher levels – he offered an architectural allegory that celebrates the joyous reward for human education and creativity.
keywords | Architecture; Ideal city; Filarete; Virtue.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Scafi, Filarete, la gioia festosa del compimento, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 233-238 | PDF