"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Lutto sfrenato

Estasi ed eccesso al Burning man

Guglielmo Bilancioni

English abstract


In a landscape where nothing officially exists 
(otherwise it would not be “desert”), 
absolutely anything becomes thinkable,
and may consequently happen.
Peter Reyner Banham, Scenes in America deserta.

1 | Burning Man Festival (foto Scott London).

Il 21 giugno del 1986, su una spiaggia di San Francisco, Larry Harvey, un attivista filantropo e landscape artist, insieme a un suo amico, Jerry James, un carpentiere, diedero fuoco a un pupazzo di legno alto circa due metri e mezzo che avevano costruito in un garage. Lo avevano fatto per celebrare il solstizio d’estate e anche, si dice, per lasciare definitivamente alle spalle, tra le fiamme, una delusione d’amore di Larry. La cultura underground di Frisco, diffusiva e trasgressiva, ha i suoi propri sotterranei tamtam, codici cifrati e comportamenti: l’anno successivo, alla ripetizione del rito, erano presenti centinaia di persone, eccitate dall’evento, l’anno dopo migliaia, e ancora di più poi, finché nel 1990 la polizia ha vietato, con i consueti metodi, l’assembramento. Per ‘motivi di sicurezza’.

A fondamento della Cacophony Society – artisti di strada dadaisti e pranksters, burloni urbani, inventori fra l’altro del sit-in e del flash mob – erano stati i membri del San Francisco Suicide Club, che avevano preso il loro nome da un racconto di Stevenson, The Suicide Club. Era una società segreta di exploits semi-illegali il cui fondatore, Gary Warne, è stato definito “il nonno spirituale di Black Rock City”. Forse le loro azioni sono state ispirate da questo passo di Stevenson:

Silas Q. Scuddamore had many little vices of the more respectable order, and was not restrained by delicacy from indulging them in many rather doubtful ways. Chief among his foibles stood curiosity. He was a born gossip; and life, and especially those parts of it in which he had no experience, interested him to the degree of passion. He was a pert, invincible questioner, pushing his inquiries with equal pertinacity and indiscretion.

Le intenzioni degli attivisti erano semplici quanto potenti: planned chaos.

SUICIDE CLUB have agreed to EXPERIENCE THINGS THEY HAVEN’T EXPERIENCED BEFORE.

Il loro programma, diffuso fra i membri che aderivano, era di gotica chiarezza:

Meeting regularly but at odd times. Members must agree to set their worldly affairs in order, to enter into the REAL world of chaos, cacaphony and dark saturnalia, and they must further agree to live each day as though it were their last, for it may BE. The club will explore untravelled, exotic, dismal and exhilarating experiences of life: deserted cemeteries, storms, caving, haunted houses, Nazi bars, fanatical movements, hot air ballooning, stunts, expose, impersonation. The Club will be ongoing for the rest of our lives.

Incontrarsi regolarmente ma in orari strani. I membri devono accettare di mettere in ordine i loro affari mondani, di entrare nel VERO mondo del caos, della cacofonia e dei saturnali oscuri, e devono inoltre accettare di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo, perché ciò potrebbe ESSERE. Il club esplorerà l’inesplorato, l’esotico, il tetro e l’osceno ed esilaranti esperienze di vita: cimiteri deserti, tempeste, speleologia, case infestate, bar nazisti, movimenti fanatici, voli in mongolfiera, acrobazie, denunce, personificazioni. Il Club continuerà ininterrotto per il resto della nostra vita (traduzione nostra).

Con queste meravigliose premesse estetiche, e per protesta contro l’autorità costituita, i membri della Cacophony Society costruiscono su una chiatta un pupazzo gigante alto 12 metri, 40 piedi, e lo trasportano nel deserto del Nevada, nel luogo più desolato, arido e inospitale del mondo, “in the middle of Nowhere”, solo vento e polvere, dove a stento vive qualche raro insetto, e, sul letto prosciugato di un lago del Pleistocene, il Lake Lahontan, fondano una nuova città: Black Rock City. The frightful chaos of the unknown. Un miraggio di eventi geologici, dove l’inconoscibile genera l’impensabile e dove il Nulla confina con l’Altrove. Così argomenta William John Thomas Mitchell studiando i deserti, dalla Bibbia al Mojave: “The ‘Great American Desert’ was an idée fixe imposed on the reality of the fertile Western plains for several generations, as if Americans needed a desert to wander in, a diasporic ordeal to purify them for the promised Canaan of California”. Tellurico, tettonico, e anche ctonio, questo totalizzante paesaggio, un epico burnscape che si impone come un universo momentaneo, un vero Burnerverse, uno dei molti possibili Multiversi. Con 80 cittadini nel ’90, Black Rock City ne ebbe 1000 nel ’93, che ogni anno raddoppiavano; nel ’95 erano 4000, nel ’96 8000. Oggi sono intorno ai 90000. Fu chiaro, fin dal ‘96, che fosse ormai necessaria una organizzazione, il controllo della sicurezza, e quello dei flussi economici, fiscali e amministrativi. Si istituirono i BRC Rangers, cui si affiancarono poi gli uomini dello sceriffo della contea. Si trattava di “organizzare l’energia”.

Si può pensare a Larry Harvey, che è morto nel 2018 a sessant’anni, come a un social planner utopista, un architetto di comunità attraversato dalla sua visione di un nuovo modello di società. Lui voleva che i Burners, realizzando tutti i sogni dell’età dell’Acquario e della Summer of Love, ormai tramontata, tornassero a casa e cambiassero radicalmente il mondo, riportando nella vita quotidiana – la default life – i principi fondativi della sua Festa annuale, un Festival molto connotato in senso etico-politico. Erano tramontate anche le azioni esagerate della Cacophony Society. Il Manifesto era in dieci punti, assai lungimiranti sul piano ecologico, su quello dell’educazione civica, e sul senso della comunità; punti che di certo andrebbero restaurati, soprattutto nel cuore senza cuore del capitalismo:

1) radical inclusion
2) gifting
3) decommodification
4) radical self-reliance
5) self-expression
6) communal effort
7) civic responsibility
8) leaving no trace
9) participation
10) immediacy

A unire i punti di questo nobile programma, soprattutto, HOPE. L’espressione di sé, unita alla responsabilità civica, una autostima radicale – la molto americana self-reliance di Emerson –, la diffusione del dono per eliminare merci e denaro, che avrebbe portato alla partecipazione e a una piena e franca immediatezza, insieme a un rispetto per la terra e per i luoghi, i parchi, le città – e il deserto – espresso nella regola aurea del non lasciare scarti e tracce del proprio passaggio: idee preziose, indiscutibili, anche se, forse, ancora non del tutto accettate. Harvey si è fatto ritrarre con un bellissimo sorriso e con in mano un cartello che sintetizza il suo programma filantropico: “Ho elevato le passioni a doveri. (P.s. That’s not enough)”. Nel settembre del 1990 ha quindi inizio quel che è stato definito “the cheapest trip to Mars you’ll ever take”, nominato Zone Trip #4, e soprannominato “Bad Day at Black Rock”. Un détournement di matrice situazionista, un turismo surreale. Alla fine della settimana, il mangiafuoco David T. Warren, anche conosciuto come Flamo LaGrande, o R. J. Mololopozy, con un gesto spettacolare da lanciafiamme umano dava fuoco al grande allegorico fantoccio, consacrando l’inizio della nuova stagione desertica del Burning Man. Grazie a YouTube e a Shazam si conosce la musica che accompagnava l’evento sorgivo, fuoriuscita dal ghetto blaster di uno dei partecipanti: The Sisters of Mercy, Dominion/Mother Russia. Uno dei gruppi preferiti: i Devo, un gruppo New Wave, molto elettronico, il cui nome significa De-Evolution. Haight Ashbury, la culla del Flower Power, è molto lontana all’orizzonte. Eppure, molti fuochi ardono nel Rock. Vanno ricordati, almeno, I have only one a-burnin' desire… Let me stand next to your fire di Jimi Hendrix, che aveva dato fuoco alla sua chitarra a Monterey, i Rolling Stones con don’t play with me ‘cos you play with fire, i Doors con Light my fire, Bruce Springsteen con I’m on fire, Bob Seger con The fire inside, e ZZTop con Afterburner. Si tratta sempre del fuoco del desiderio e dell’amore. Neil Young con Love to Burn lo conferma: 

You got love to burn
You better take your chance on love
You got to let your guard down
You better take a chance
A chance on love
A chance on love
On love
On love.

Ma non c’è Rock al Burning Man, soltanto musica techno. EDM, Electronic Dance Music. I partecipanti ne dichiarano le ragioni: il concerto rock è ‘ego-driven’, si segue un personaggio unico sulla scena, considerato migliore di tutti gli altri, sul quale si concentra l’attenzione di tutti. L’audience è alienata, fuori dal loop, guarda seduta ai pochi eletti che si esibiscono. Traendo il linguaggio adeguato dal sito fusionanomaly.net si comprende meglio questa attitudine: “Techno is a whole different trip. At events everyone is there to express, to involve, to enjoy, to love, to be seen, to be accepted, to feel and emote, and to participate actively. A good event is fully participatory. Good DJ’s play what the dancers are feeling; they move people in a positive way and bring them to an emotional and energetic climax. The best DJ’s Dance, too. [...] The beat, the dance, the feelings and energies invoked at raves need to be consciously focused, the techno-pagans say. That is, a person should have some intention or reason to be there and make good on a feeling, a wish, something they want to do for themselves”.

È l’estetica e la bio-politica del rave: “Raves/Events need to invoke specific energies which will help and heal everyone: people who participate, the rave community, even the world and all species. Sometimes that energy raised is best expressed or channelled through specific “god-forms: Pan Venus, or Eris, the goddess of Chaos, or…”. Questi eventi, e quelli del Burning Man – un immenso rave in zona franca della durata di 7/10 giorni – ricordano le TAZ di Hakim Bey – pseudonimo di Peter Lamborn Wilson, anarchico situazionista e neopagano, ricercatore dei piani astrali e degli stati superiori di coscienza – detto dai suoi followers “the Goofy Sufi”. Sono le Temporary Autonomous Zones, zone conquistate da incursioni antagoniste in territori indeterminati e imprevisti, che diventano momentanei presidi di libertà. Dice Hakim Bey: 

The TAZ is an encampment of guerilla ontologists: strike and run away [...]. The TAZ is thus a perfect tactic for an era in which the State is omnipresent and all-powerful, and yet simultaneously riddled with cracks and vacancies [...]. A TAZ’s greatest strength lies in its invisibilty - the State cannot recognize it because History has no definition of it. As soon as the TAZ is named (represented, mediated), it must vanish, it will vanish, leaving behind it an empty husk.

Una ludica guerriglia ontologica, sovversiva e disarmata, non durevole, destinata a svanire. “The TAZ is in some sense a tactic of disappearance.” It happens. Pura controcultura. “The TAZ is a space for all of us to move forward emotionally and spiritually by allowing us to be who we really are ­­and who we really can be. No coercion, no bullshit”. Molti si sposano al Burning Man, sulla Playa, sentendosi protetti da una grande comunità, in un gigantesco spazio di circolazione e di scambi, di esaltazione, spontaneità e connessioni effimere. Forse, anche, dalla ufficialità della non-ufficialità. Perché la Playa è sacra. Uno spazio-Oltre, figura geosofica dell’Altrove. Lo ha descritto lo stesso Larry Harvey in parole solenni:

Sacred things appear to come from some profoundly other place that is beyond the bounds of space and time. It is as if a window is opened on another world that is too real to be real. This place is absolutely unique. Like all sacred places, it releases powerful emotions: joy, wonder, dread, and—most transcendently—pure exaltation. The sacred speaks to us of vastness and of union with a power larger than our conscious selves. The sacred provides access to a greater sense of being. Yet whether sacred things are literally real is always open to examination. “Beyond Belief” asks two related questions: How does the sacred exist, and where might it be found?

Tutti, e sono moltissimi, scrivono che Playa Beach “is a most liminal zone”. E citano Victor Turner, il ‘nomade incursore’, l’antropo-psicologo del rito che ha studiato, seguendo i Riti di Passaggio di Van Gennep, il limen, la soglia da uno stato di coscienza ad un altro, dal rito al teatro: “L’essenza della liminalità consiste nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra”. E specifica: “la parola ‘intrattenere’, entertain deriva dall'antico francese entretenir, ‘tenere separato’, cioè creare uno spazio liminale o liminoide nel quale le performance possano aver luogo”. Questo è il punto: forse non si tratta propriamente, in questo caso, di uno spazio liminale. Lo spiega proprio Turner: “il liminoide assomiglia a una merce – e in realtà spesso è una merce, che si sceglie e per la quale si paga – più del liminale, che suscita sentimenti di fedeltà ed è collegato all’appartenenza, o alla aspirazione all'appartenenza, dell’individuo a qualche gruppo dotato di una forte coesione interna. Si lavora al liminale, si gioca con il liminoide”. Nella ludica intensificazione della vita nervosa, nella fusione fra azione e coscienza, simile alla trance, e nella concentrazione dell’attenzione su un fuoco – Focus – si è parte di un flusso di energie combinate, pervasive e onnidirezionate: si può essere in unione con tutto ciò che vive in mistica partecipazione, e si fa allora l’esperienza del Completamente Altro, che è il Sacro, o si può semplicemente esagerare, abusando di sé, del proprio corpo e della propria mente, e si è in pieno in quel che Chogyam Trungpa ha definito, con un euristico ossimoro, Materialismo Spirituale. Situarsi nel liminale o nel liminoide dipende dalla coscienza di ciascuno. Van Gennep aveva avvertito che “le passage d’un état à un autre est un acte grave, qui ne saurait s’accomplir sans précautions spéciales”. La più importante delle quali è di certo la devotio, la bhakti, l’intenzione consapevole. Soltanto così – poiché i clan totemici neobarbari mostrano spesso, con il loro culto del chaos, una appartenenza sovraccaricata dalla densità non durevole di una ridda di significati eterogenei e di ammassi di cose disarmoniche – si potrà sperare di occupare in stato di quiete quel terreno mutevole e ambiguo che sta fra la reverenza e il ridicolo, la fede e le credenze, l’assurdo e il sublime che sbalordisce, la libertà e l’appartenenza. “Without confrontation,” ha detto Allen Cohen, “we wanted to create a celebration of innocence. We were not guilty of using illegal substances. We were celebrating transcendental consciousness. The beauty of the universe. The beauty of being”. E lo dice anche in versi:

The auras of virgin giants felled

stretch upward making glistening holes in the sky.

I feel the evanescent beauty of living

fill my empty waiting cup

Ah! The longings and sorrows of everydayness

are displaced by the essential milk

of these stirrings of imagination

How much more awaits the aspiring heart?

Nella città nel deserto si vive in regime di do-ocracy, un anelito molto serio celato dietro un pun: una struttura organizzativa nella quale gli individui scelgono i compiti per loro stessi e li eseguono. Le responsabilità gravano sulle persone che fanno (do) il lavoro piuttosto che su persone elette o nominate. Come nei monasteri Zen. Il termine è molto diffuso fra i manager liberali e libertari e fra i partecipanti al Burning Man, e fra la cybercongregazione che si è formata negli anni e che cresce sulla Rete. Sulla pianta di Black Rock City hanno scritto Francesco Bacci e Beatrice Moretti:

Osservando l’impianto planimetrico di Black Rock City, è impossibile non riconoscere alcuni paradigmi che rimandano inequivocabilmente a schemi urbanistici ideali. Nella disposizione ortogonale e nella struttura concentrica dei percorsi, ad esempio, si ritrovano la Sforzinda di Filarete e i dipinti architettonici di Francesco di Giorgio Martini, il fulcro centrale occupato dall’elemento simbolico più importante (il castello, la piazza, la chiesa) richiama, tra le altre, le rappresentazioni rinascimentali di Dürer; è perfino possibile sostenere che la forma ‘lunata’ somigli al profilo di Utopia, l’isola metaforica di Thomas More.

Nuova Abraxa, questa città effimera, che si dispiega nel deserto come Altro-dalla-Città, ha nella sua forma a ferro di cavallo, – una sezione di anello a cerchi concentrici – riferimenti perenni: il cerchio intorno al fuoco, origine sia della parola che dell’architettura, il Poverty Point in Louisiana, teatro astronomico di antichissimi allineamenti solari, che celebravano l’unione sacra fra la terra e il cielo, il teatro dei Greci, luogo della catarsi collettiva – il ‘rinascere puri’, i Three Magnets di Ebenezer Howard sul frontespizio di To-morrow A Peaceful Path To Real Reform, del 1898, la città-giardino di Letchworth di Raymond Unwin con quel ben pensato “co‐ordinated approach to landscaping”, gli impianti solari a concentrazione a torre centrale, che trasformano – tecnica è magia – l’energia solare in energia elettrica. Ma vi è anche, in quella pianta, una traccia profonda del Panopticon di Bentham, per contemperare due posizioni compresenti ma in conflitto fra loro: gli ideali di libertà e la perpetua sorveglianza. Di tutto questo, e anche di molto altro, ha tenuto conto Rod Garrett, il grande architetto della controcultura, nel dare forma a Black Rock City.

Le attività che si svolgono nella città effimera hanno il tratto di un ritiro spirituale sui generis, o del summer camp di un college o degli scout, dove i marshmallow arrostiti con uno stecco sul fuoco costituiscono un cibo rituale, una eucaristia pagana, il Battesimo del Fuoco, una iniziazione alla Wilderness, una formativa scuola di resistenza: Bildung. Il campfire on the trail è un archetipo americano, la connessione di un gruppo con l’immensità della natura, e il corpo spirituale di questa connessione è il fuoco. Porta del cielo e legame fra il visibile e l’invisibile, il fuoco è centrale. Non è però, qui, la centralità centripeta di Hestia – quella del Megaron – ma quella esplosiva, centrifuga, dove il centro è dappertutto. I sacrifici sull’altare di Hestia salgono verso il cielo e, ad un tempo, spalancano le porte degli inferi. Così come l’anello di fiamme intorno a Siva raffigura il ciclo cosmico della creazione e della distruzione. E Agni, il dio vedico del fuoco, è rappresentato spesso con due facce, il Bene e il Male. Ogni biglietto del Burning Man reca la scritta: “POTRESTI MORIRE, ed è una tua responsabilità evitarlo”. All’incrocio – at the crossroads, come nel mito del Blues – fra immaginazione e pericolo vive il dramma della rappresentazione dell’intensità. Bachelard su questo è molto chiaro: “Et la plus grande leçon que nous trouverions dans une psychologie du feu vécu, c’est peut-être de nous ouvrir à une psychologie de l’intensité - de l’intensité pure - de l’intensité d’être”. Fuoco vissuto: Empedocle, Prometeo, la Fenice, l’attrazione, il calore, la cucina, il sacrificio, l’energia, la morte e la rinascita. Tutto. “La nascita del fuoco è il principio della sua adorazione”. Questa verità, una sublimazione verticale, attiene ai fuochi di gioia e più in generale alle feste del fuoco, ad ogni fiaccolata, alle eruzioni dei vulcani, ai roghi di Benares sul Gange o alle fiammelle sulle tombe, alle ordalie, i carboni ardenti; e all’arcaico carattere agrario dei falò: al loro centro spesso è collocato un palo ornato di nastri colorati, di fronde verdi e fiori, o un albero. Ancestrale mezzo di espiazione e purificazione, ogni fuoco rimette in scena la ἐκπύρωσις originaria, un cosmo che si faceva e si disfaceva di continuo – per molto fuoco. Il “Grande Anno”, un ciclo cosmico di un eterno ritorno. Il cosmo stesso si sottoponeva a cosmesi, una meta-cosmesi per consolidarsi e rigenerarsi in purezza.

Il fuoco per Eraclito è materia dell’anima umana. Sembra essere ciò che tiene insieme il cosmo, è la causa delle trasformazioni negli elementi. “La morte del fuoco è la nascita dell’aria”. Nullum sacrificium sine igne est. Lo scrive Servio nei commentari all’Eneide di Virgilio. Il più scandaloso dei sacrifici umani, che ancora ustiona, fu il rogo di Giordano Bruno, il filosofo nel fuoco, nel quale si concentrano pullulanti i fuochi che rievocano tutte le intolleranze, come il rogo dei libri, i fuochi di tutte le città in fiamme, i fuochi di tutte le armi del mondo. E Nietzsche, spesso immodesto ma quasi sempre consapevole, scrive nei frammenti di Ecce homo: “Come la fiamma mi ardo e mi consumo. Luce diviene tutto ciò che afferro, carbone ciò che lascio: sono sicuramente fiamma”. Freud invece, a volte, appare forse un po’ fissato: “Il fuoco doveva apparire ai primitivi come qualcosa di analogo alla passione amorosa - noi diremmo: come un simbolo della libido. Il calore irradiato dal fuoco evoca la stessa sensazione che accompagna lo stato di eccitazione sessuale, e la fiamma rammenta, per forma e movimenti, il fallo in attività”. Jung, più riservato, parla del fuoco come “risveglio regressivo del ritmo”. Incendiario e bruciante, e anche misterioso, è ancora Bachelard: “Le vécu garde la marque de l’éphémère s’il ne peut être revécu. Et comment ne pas incorporer avec le vécu la plus grande des indisciplines qu’est le vécu imaginé ? Le vécu humain, la réalité de l’être humain, est un facteur d’être imaginaire”. Il nesso fra vivente e vissuto sta nell’immaginazione, categoria in sommo grado mitopoietica. Nel fuoco che rigenera e distrugge vivono Voluttà e Delirio, disordine del ridere e dei singhiozzi, nel vitalissimo intervallo fra la ‘piccola morte’ ove cessano i desideri e la morte vera ove cessano del tutto. Chi vuol esser lieto sia… Traversare, si deve, le barriere dell’interdetto, les faux-pas, i passi falsi di cui scrive Blanchot. “A volte è possibile, o persino prescritto, violare l’interdetto, trasgredirlo”, dice permissivo Georges Bataille in Les larmes d’Eros. “Il valore del ‘frutto proibito’ si ritrova nelle feste, nel corso delle quali è permesso – e lo si esige persino – quel che di ordinario è escluso. La trasgressione, nel tempo della festa, è proprio ciò che conferisce alla festa il suo aspetto meraviglioso, l’aspetto divino”.

Semel in anno licet insanire. È Trasporto, una voluttà capace di sopraffare, una ebrezza che conduce all’oblio, il dolore schiacciato, ogni speranza allontanata e ogni paura dissolta, nel potente convoglio di una energia collettiva. Speranze e ansie sovreccitate, metamorfosi di ogni genere per queste creature del dramma, per le quali il contegno sparisce e conta solo la Scena: con-fusione della individualità, dissoluzione dell’ego e fusione ad alta temperatura di tutti i registri di irriconoscibilità: le gioie di Eros, i riti parossistici, danze frenetiche e, cosa importante, la nascita del teatro dallo spirito della danza. Questo è Happening: poiché, si sa, il mondo è tutto ciò che accade. Tutto ciò che appare. L’evento è eventuale, qui, nella polvere fumosa dell’Apparenza, ove Caso e Causa concrescono. È davvero quantomeno bizzarro vedere come agiscano insieme iconoclastia, consenso e cooperazione, sorridente solidarietà e desiderio di distruzione, in una Care and Share Community nella quale non si compra e non si vende ma ci si aspetta l’inaspettato. Circo e Carnevale, teatro di strada e giostra, teatro di massa dove la folla è spettacolo a se stessa, luna park e otto volante delle sensazioni e delle emozioni: si possono qui accostare facilmente gli studi di Tito Vignoli sulla Audizione Colorata e le idee di Bakunin, secondo il quale “la passione per la distruzione è una gioia creatrice”. Marx e Nietzsche insieme: la critica al feticcio della merce e l’eterno ritorno dell’uguale.

Il Burning Man ha un antecedente: Zozobra. La parola significa: Sentimiento de tristeza, angustia o inquietud de quien teme algo. Dal 1924 alla Fiesta di Santa Fe, per esorcizzare l’oscurità e lasciarsi alle spalle le colpe e le paure, si dà alle fiamme una marionetta gigantesca alta 15 metri che impersona Zozobra. Lui è il Male e il dolore, ostile spettro di sventura che viene rievocato ogni anno. Per attirare Zozobra fuori dal suo nascondiglio, i capi della città lo invitano a una festa che lui crede si tenga in suo onore. Attratto dalla vanità del suo enorme ego, Zozobra accetta questo invito: pensa sia la sua migliore opportunità per invadere il cuore della città, distruggere ogni speranza e felicità, e derubare la città del suo bene più prezioso: la speranza. E viene così fatto bruciare ogni volta al grido Burn Him! Burn Him! Ma il vero antecedente sacrificale del Burning Man è il Wicker man dei sacerdoti druidi: dentro questo uomo di vimini si sarebbero officiati sacrifici umani di massa per propiziare i raccolti futuri. Il racconto di Frazer ne Il Ramo d’Oro è agghiacciante:

I Celti destinavano i condannati a morte a essere sacrificati agli dei in una grande festa che si celebrava ogni cinque anni. Quanto più numerose erano queste vittime tanto maggiore si stimava che sarebbe stata la fertilità della terra. Se i condannati non bastavano a fornire le vittime necessarie s’immolavano i prigionieri di guerra per colmare la deficienza. Giunto il tempo fissato, le vittime venivano sacrificate dai Druidi o sacerdoti. Alcuni venivano uccisi a frecciate, alcuni impalati, altri bruciati vivi nel modo seguente. Costruivano delle figure colossali di vimini o di legno ed erba; le riempivano di uomini vivi, di bestiame e di animali diversi, e davano fuoco alle immagini che ardevano con tutto il loro contenuto vivente.

James Frazer cita John Barleycorn, sacrificato per dare fertilità ai campi, come prova del fatto che vi fosse una volta un culto pagano in Inghilterra che adorava un dio della vegetazione. Offrivano la vita in sacrificio perché vivesse il loro mondo. Girard è stato colui che ha approfondito il nesso fra il sacro e la violenza. E, ne Le Cose nascoste fin dalla Fondazione del Mondo, così argomenta:

Se il sacrificio conclude i riti, deve apparire alle società religiose come la conclusione della crisi mimetica messa in scena da questi riti. L’intero uditorio è tenuto, in numerosi riti, a prender parte all’immolazione, che somiglia al linciaggio in modo tale che si può scambiare l’una per l’altro. Anche laddove l’immolazione è riservata a un unico sacrificatore, costui di norma agisce in nome di tutti i partecipanti. Nell’atto sacrificale si afferma l’unità di una comunità e questa unità sorge nel parossismo della divisione, nel momento in cui la comunità si ritiene lacerata dalla discordia mimetica.

Mimesi è probabilmente il fondamento del Burning Man, nel quale chi si assomiglia si riconosce e agisce a specchio, mima o imita; neuroni-specchio di massa: somiglianza è appartenenza. E anche conoscenza e riconoscenza. Aggregazione rituale, in sorridente e leggera togetherness, e grande attesa dell’Evento folgorante comportano una vita aumentata, una vita interiore intensificata nel culto. Scrive su questo Erik Davis, che nel ’94 ha scritto il primo articolo sull’evento: “The essential cult is the Cult of Experience, a cult to which all Burners in some sense belong. I’ll follow my brief overview of that cult with four more specific formulations: the Cult of Intoxicants, the Cult of Juxtapose, the Cult of Flicker, and the Cult of Meaningless Chaos”.

I Pueblo e gli Hopi erano ispirati dai sogni. I loro rituali erano la danza, l’estasi e la trance. I clown degli Hopi sono figure importanti: agiscono come esempi negativi mostrando ciò che non dovrebbe essere fatto. Umiliano e ridicolizzano e sono molto rudi. Nessuno ne è immune. Giustappongono in un guizzo, e in questo, come il fool shakespeariano, dicono immense verità. E le Art Cars che popolano rombando la polverosa città si giustappongono alla norma e ad ogni consuetudine. Sono le follies mirabili e mobili che il Burning Man dona agli astanti. Ogni genere di spettacolo semovente in una estetica che va da Mad Max ad Alice in Wonderland. Veri e propri carri allegorici, vascelli fantasma, rinoceronti con due carburatori, autobus a due piani tappezzati di luci a led, barche a vela sulla sabbia, diligenze con cavalli volanti, maggiolini dipinti come dei quadri di Mondrian, Wild Wheels and Friendly Sharks. Vanno registrate le Art Cars: il DMV, Departement of Mutant Vehicles, deve approvare queste macchine, per autorizzarle a circolare sulla Playa, sia dal punto di vista della sicurezza che da quello dell’originalità artistica. Scrive Stewart Harvey in Playa Fire, un altro dei molti bellissimi libri – il tema è veramente molto fotogenico – dedicati al BM: “Clever is the key to a successful mutant vehicle, and the best ones reflect the builder’s personality. Modern soundscape behemoths are often the result of spending lots of money, but putting the array of high-tech audio gear aside, the very best show the hallmarks of individual inspiration”. In questo luogo dove la vita diventa arte si sono incontrate, in trent’anni, centinaia di installazioni artistiche piene di significati. Si è vista una Prairie wind Chapel, obliquamente decostruttivista, una Wheel of Time, in onore del Kalachakra, la ruota del tempo buddhista, un Well of Darkness presso il quale esercitare autocoscienza, o elaborare un lutto o, semplicemente, piangere. E si succedono, ogni anno, molti templi effimeri ma accuratissimi. Anch’essi con nomi euristici: il tempio delle lacrime, tempio della mente, tempio della gioia, tempio dei sogni, tempio delle stelle, tempio della speranza. Vengono dati alle fiamme ogni anno appena consumato il rogo del Burning Man. Come il Teatro del Mondo alla fine delle feste barocche a Venezia e come il Mandala che viene disfatto, rimescolando i colori delle sabbie appena raggiunta la perfezione e realizzato il suo scopo. Il primo tempio fu nel 2000: David Best e Jack Haye hanno portato e installato il Tempio della Mente. Non venne bruciato perché è diventato un memoriale per un amico, Michael Hefflin, che aveva costruito con loro le strutture lignee e che era morto in un incidente con la motocicletta. Nel 2001 gli stessi artisti costruttori innalzarono il Tempio delle Lacrime e da allora continua la tradizione annuale di costruire e poi bruciare il tempio, sacrificio estremo. Il primissimo era stato il Temple della Idle Worship al Burning Man del ’98. Un tempio della pigra venerazione a una divinità davvero pigra: un cartello all’entrata istruiva i devoti: “You can light candles and prostrate yourself all you want, but your prayers won’t be answered: the Deity is napping”.

Impressiona il nesso fra la moderna frenesia dei Burners e le antiche descrizioni del tumultuoso Tyasos dionisiaco, l’ebbro corteo mascherato di menadi e coribanti, dal coro del quale saliva il ditirambo. Vestiti di pelle di cerbiatto, con in mano il tirso, un’arma rivestita di edera, nacchere e tamburelli e piatti di rame dal tintinnio metallico, in un incedere surriscaldato e percussivo, e nell’altra mano il kantharos, la coppa per il vino. Dioniso è molteplice, ha fabbricato la pluralità. Dioniso è la molteplicità degli enti, degli eventi, dei processi, dell’essere e del divenire, della materia e della luce che si frange e si rivela come ombra in ciò che è oscuro. Henri Jeanmaire nel suo trattato su Dioniso ha evocato “l’atmosfera, cioè l’evocazione o, per meglio dire, l’allucinazione dell’universo dionisiaco dove si urtano e, ad un tem­po, si risolvono tutte le contraddizioni, dove si cancellano le opposizioni fra culto barbaro e religiosità ellenica”. Accelerazione, intensificazione dei flussi, istantaneità, autoindulgenza, fantasmagoria e forza soverchiante del piacere e del dolore determinano uno stato di confondimento, di alterazione, e di disassata perdita del centro, commiste, nondimeno, a una incalcolabile grazia e a una bellezza trascendentale. È detto molto bene ne Le Baccanti di Euripide:

Beato chi riceve la grazia
di entrare nei divini misteri: santifica la vita,
consacra l’anima nel tìaso, e pio si purifica,
celebra sui monti
Bacco
e i riti della
gran madre Cibele;
scuotendo alto il tirso,
il capo cinto d’edera
La terra ha rivi di latte, vino, nèttare d’api.
Il celebrante - c’è fumo
come d’incenso di Siria - si lancia
agitando sul tirso fiamma ardente di pino,
eccita con la danza, scuote
con grida acute chi accorre,
rovescia al vento i suoi morbidi capelli.

Invasamento e follia recano una grande virtù profetica. Quando il dio penetra in una creatura con la pienezza della sua potenza, rende capace chi delira di predire cosa succederà. Agisce qui il Numinoso, capace di sopraffarti. Ma essere invasati è assai differente dall’essere iniziati: “Ministri di Demetra sono gli iniziati, i daduchi che portano la sacra fiaccola, e gli ierofanti, di Dioniso i Sileni, i Satiri, i Titiri, le baccanti, le Lenai, le Tiadi, le Mimalloni, le Naiadi e quelle che chiamano Ninfe”. È in un passo di Strabone. Alle iniziazioni di Eleusi chi veniva iniziato alle visioni riceveva una impronta, ma non un insegnamento. E proprio questo imprinting è un segreto, forse perché è indicibile.

“Siamo stati iniziati ai misteri della festa, cioè abbiamo avuto conoscenza degli indicibili oggetti dei misteri, che non si possono rivelare a chi non è iniziato. Sono infatti detti misteri perché stringono le labbra, vale a dire che agli iniziati chiudono la bocca ed essi non ne parlano con nessuno dei non iniziati”. Un passaggio di Giovanni Tzetzes, che commenta le Rane di Aristofane. Lo scopo di tutti i misteri è raggiungere la ἐποπτεία, la contemplazione, un concetto difficile da comprendere e da raggiungere, che si rinviene sia in Platone che in Aristotele. Pimandro, l’intelligenza suprema, appare come un gigante a un uomo che cerca la conoscenza e gli domanda quale sia il significato di “udire e vedere e poi apprendere e conoscere grazie alla contemplazione”, e il Ricercatore gli risponde con umile grandiosa semplicità: “Voglio essere istruito intorno agli esseri, comprenderne la natura e conoscere dio”. Sapere è comprendere la natura degli esseri. E a chi si domandi ancora quale sia la pertinenza fra i misteri di Eleusi e il BM dovrebbe essere sufficiente ricordare che Demetra è la dea dei papaveri… Dorien Zandbergen vede un nesso fra attivismo controculturale e una occulta - oc-culture, la definisce Erik Davis - spiritualità gnostica: “Gnosticism has a particular temporal form that is quite the opposite of the modernist idea of time acceleration. Gnostic temporality is decisively non-linear, aspires to the ideal of transcending time altogether, and of creating a sense of immediate connectivity between all that exists”. Allora forse è la Gnosi il fine ultimo di Aldous Huxley, Alan Watts, Carlos Castaneda, William Burroughs e di certo William Leonard Pickard, che sono i maestri di questo nuovo Youth Quake neo-pagano. E del Dr. Timothy Leary, che fu definito “l’uomo più pericoloso d’America”: il suo modello di conoscenza “Turn on, tune in, drop out”, psichedelico in sommo grado, ne diffonde tuttora l’influenza.

C’è un fondo religioso nel lisergico “γνῶθι σαυτόν”: “Actions which are conscious expressions of the turn on tune in and drop out are religious”. La sola estasi, il solo significato: esperienza estrema, a volte autodistruttiva, ma sommamente significante. Visionaria. Trascendente. Le coscienze si raccolgono nella terra di Youtopia, un altro jeu-de-mots che indica allocentrismo e simpatia, dopo tanti iPod, iPad e iPhone: stessa pronuncia ma diverso significato. Un eventuale Io cosciente si realizza unicamente vedendo bene il Tu, l’Altro, che è diverso ma uguale, uguale ma diverso. Nomadi pellegrini, stranieri o forestieri, naufraghi praticanti, credenti e non credenti, iniziati e apprendisti, tecnici o ‘creativi’, artisti o scienziati, preda estatica di experiment and experience, rush and rust, Erlebnis und Erfahrung, ci mostrano – ognuno di loro – una verità indiscutibile: gli altri siamo noi. Questo è a fondamento di ogni coscienza civica e dovrebbe esserlo di ogni atto politico.

Burning Man as an event is filled with Giants and Fires – the neon-and-wood Man himself is the quintessential culmination. The Promethean themes relate to the Marxist-flavored consciousness that scrutinizes superstructure, casting industry as the controller of productive, creative, or visionary techniques and technologies. This makes the Promethean wresting of fire, or the creative spark, significant, in that it symbolizes a political struggle for control over the creative powers of a community or a culture.

Lo dice Robert Kozinets, un brillante economista, uno studioso della rete e un Burner dal 1999. Poiché “All power to all People” è la religione dei Burners. Luogo della ansiosa interrogazione e della intensissima interpretazione: una potente esperienza, ove si esperiscono rituali e si inscena il teatro della varia umanità. Porto franco delle passioni dove libertà è licenza, e si viene condotti per mano da una folla di tuoi simili verso una trascendente destinazione. È sufficiente una consapevolezza dei propri desideri ed una immaginazione attiva. Energia in movimento, edonismo, gioia di vivere, sciame di forze e di forme ricercate, di Personæ che ballano in maschera, in cerca di una qualche illuminazione, del piacere artistico fra decorazioni fiammeggianti, dello spazio per esibirsi in legittimata auto-espressione, con l’indulgenza dei sensi alla radice del principio di piacere. Il Burning man è rutilante sintesi di tutto questo; come diceva Larry Harvey: “it becomes a striking neon symbol of pretty much everything that matters”. Tutto dappertutto in attimi eterni, nell’“antico orgiasmo del primo danzatore”. Danza della gru, la cui geometria è generata da ogni granello della polvere del deserto e il tempo è sospeso e lo spazio non esiste più, rovesciato in una polarizzazione di energie socialmente disperse confluite in un unico punto, in un flusso forzato di rara potenza. Lo ha cantato Bob Dylan:

I gaze into the doorway of temptation’s angry flame
And every time I pass that way I always hear my name
Then onward in my journey, I come to understand
That every hair is numbered like every grain of sand.

Omogeneizzazione delle differenze nell’evento, il festival mostra appieno il carattere sacrificale di ogni festa, nello spreco vistoso, nel guasto e nella dépense. Molti computer e dispositivi audio e video vengono ritualmente ridotti a rottami e bruciati come in una ordalia durante quella settimana. La festa, disse Furio Jesi, è crudele. Sempre, poiché excessus è exclusio. Serve a spiare il diverso. Chi non ottempera al dress code, chi non si conforma. E vi sono solo azioni – performance – niente pensiero, solo sensazioni. I pellegrini del deserto, consapevoli turisti di uno stranissimo ed esotico Magical Mystery Tour, cercano l’innocenza nella nudità. Sono loro la natura dove la natura si è ritirata dai tempi del Pleistocene. Sciamani, animisti, pagani, suscitano la potenza rituale e mitica del primitivo, e la mistica del momento presente, qui e ora, nel quale ogni nondum non trova luogo. Questa Trasmutazione ignea, gigantesco e collettivo solve et coagula sociale, è un frenetico fenomeno psico-storico, un vortice dell’accadere, una follia; come nella Montagna Magica di Thomas Mann: “qui si mutano i propri concetti”. “God is a DJ”. Nel “Sacred Disorder of the Enigmata!?!”, come era scritto sulle t-shirt di alcune partecipanti. Qui si tratta davvero di Apocalisse come rivelazione, una “apocalittica dell’immagine”, come l’ha definita Michele Cometa, di catastrofe come rigenerazione, e di forze misteriose come genesi di conoscenza: la catarsi. È una discesa rapsodica negli abissi di un Io divenuto, in un incanto collettivo, esaltante perché compresso nella caducità, un “Tutti-Noi-Qui-ed-Ora”. Un pellegrinaggio di nuovi nomadi del deserto, primitivi moderni, viandanti stroboscopici, techno-aborigeni, artisti dissipati di – spesso blasfemi - tableaux vivants, terapeuti di tutti i chakra, yogi e yogini in meditazione, esseri senzienti con molti tatuaggi che han fatto del loro corpo il fondo della loro tela, bikers con il chiodo nero consunto dalla polvere di molte strade, freaks dissoluti, danzatori cerimoniali dal volto truccato e dalle vesti indiane, acconciati per i riti, praticanti di tai-chi, persone su alti trampoli, majorettes tribali che brandiscono bastoni fiammeggianti, donne in tenuta burlesque, hippies e hackers, biohackers allucinati che vogliono passare dall’alienazione alla affermazione, nerds e cowboys, astrologi e indovini, maghi e giocolieri, pirati e dervisci rinuncianti, corpi dipinti nello spazio, corpi con piercing dappertutto e persino marchiati a fuoco: animulæ vagulæ blandulæ. “Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, ognuno in fondo perso…”, come ha scritto il poeta italiano di “siamo solo noi”. Tutti attendono la combustione, la conflagrazione cerimoniale, il collettivo ardore di una liberazione. La pira cosmica, il falò gigantesco della infinita redenzione. Nel fosforo innaturale delle luci colorate. A sovraintendere, il Conclave del fuoco, con artificieri, esperti di esplosioni programmate, tecnici delle luci al neon e vigili del fuoco.

E il Burning Man finalmente, la notte del sabato, dopo aver alzato al cielo le sue braccia tecnologiche, viene dato alle fiamme, che si innalzano epiche verso la volta stellata, nel deserto, al centro della Playa, in un’estasi collettiva, fra grida strepitose. Lo spiega Baudrillard: “il deserto non è che questo: una critica estatica della cultura, una forma estatica della sparizione”. La Fenice, così viene definito il gigante bruciato, risorgerà dalle sue ceneri: è l’idea ciclica della rigenerazione. Molti Burners ingeriscono i resti carbonizzati dell’Uomo o se ne segnano il viso. E raccolgono la cenere. L’ultimo rito, prima di ritornare, trasformati, nel mondo reale. È un atto ancestrale: cercare nella cenere i resti, le reliquie del sacrificio rituale, le ossa – oracolari – dell’animale sacrificato, un pezzo di un bucranio incenerito. Esatta ripetizione dell’Arché, il rito si ripete, ancora una volta. Il rito, e la festa, hanno dato accesso ad una reintegrazione degli stati mentali del gruppo, punti incandescenti di contatto con il sacro, mistico attimo eterno, attraverso il quale si riaccede all’Origine. È questo il significato vero delle feste: quanto è spettacolare ha sempre un fondamento sacro. Una sacra rappresentazione. Hope and Wonder, speranza e meraviglia: la “cenere lieve del vissuto” si mescolerà nel vento alla polvere del deserto. Così, fra i cicli della natura, la luna e il sole, la polvere e il vento del deserto, le stagioni le messi e i raccolti, Eros e Thanatos, LSD e Ekstasi, i ritmi bombastici della techno, totem eretti e taboo infranti, si cela il segreto e la grande lezione di ogni festa: l’impermanenza. Dopo la festa si è sempre un po’ tristi, in un down che depotenzia, e assale la malinconia: la vera burla triste è che, oggi, BlackRock, sia uno dei maggiori gestori di investimenti al mondo. La corporazione ha incorporato il suo fiero e ludico antagonista. “La nostra cultura, dice Kozinets in tono conclusivo, può viaggiare dal pathos al bathos in meno di sessanta secondi”. Dalla coincidenza sacrificale di capro e tràgos, di tragedia e capriccio, di caducità e di eternità, si erge il monito severo quanto tragico di Nietzsche nei Ditirambi di Dioniso (25): “Il deserto cresce: guai a chi alberga deserti!”. Pietra stride su pietra, il deserto inghiotte e strozza. La morte atroce fissa rovente il suo sguardo bruno e mastica – la sua vita è il suo masticare. Non dimenticare, o uomo che la voluttà ha macerato: tu - sei la pietra, il deserto, tu sei la morte”.

Ancora più pessimista, se possibile, è Death’s Echo di Auden:

The desires of the heart are as crooked as corkscrews,
Not to be born is the best for man;
The second-best is a formal order,
The dance’s pattern; dance while you can.
Dance, dance, for the figure is easy,
The tune is catching and will not stop;
Dance till the stars come down from the rafters;
Dance, dance, dance till you drop.

2 | Satiro danzante, IV-II secolo, a.C., Museo del Satiro danzante, Mazara del Vallo.

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English abstract

Since more than three decades the Burning Man Festival changed, growing from year to year, purposes and meanings of the counterculture. Purification and regeneration through fire is the central ritual of the Festival. Self expression, respect, and a deep ecological awareness which manifests itself in the collective determination of not  leaving traces in the desert – along with the most unbelievable artistic imagery and freedom of behavior – gather together to form a community of initiates – the Burners – who in dance, theatre, trance and visions are radically changing the phenomenology of perceptional world. Black Rock, the ephemeral city in the desert,  has generated many studies and has multiplied on the web. It’s  a center of many important transformative experiences of the Self and became nowadays the bright source of a passionate Global Movement.  

keywords | Larry Harvey; Decommodification; No spectators- Self reliance; Ekstasis-Trance-Ritual; Electronic Dance Music-EDM; Desert-Playa ; Counterculture-Oc-culture; TAZ- Temporary Autonomous Zone.

Per citare questo articolo/ To cite this article: G.Bilancioni, Lutto sfrenato. Estasi ed eccesso al Burning man ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 77-94 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0053