"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

La millenaria Festa dei Gigli di Nola

Mario Cesarano

English abstract

1 | Panoramica con l’altezza dei “Gigli”.
2 | Il rivestimento di cartapesta.
3 | L’impalcatura lignea.

Presentazione

Ogni anno il 22 giugno, se capita di domenica, o la domenica che gli succede si tiene a Nola, in Campania, la Festa dei Gigli in onore di San Paolino, co-patrono della città con San Felice vescovo e martire e San Massimo. “Giglio” è il nome che viene dato alla macchina da festa: un obelisco fatto di assi di legno, dell’altezza di venticinque metri e del peso di circa dodici quintali [Fig. 1], tradizionalmente rivestito di cartapesta sulla facciata [Fig. 2]. I gigli, in numero di otto, sono intitolati ad antiche corporazioni di mestieri e artigiani, sicché si hanno il giglio dell’Ortolano, del Salumiere, del Bettoliere, del Panettiere, del Beccaio, del Calzolaio, del Fabbro e del Sarto e in quest’ordine vengono trasportati a spalla, ciascuno da un insieme di circa centoventi uomini, detto “paranza”, seguendo il ritmo della musica eseguita da musicisti e cantanti sistemati su due tavole da ponte poste sulla base in facciata della stessa impalcatura lignea [Fig. 3], lungo un percorso che si snoda per le strade del centro storico della città, tra la mattina della domenica e le prime luci del giorno dopo. Ad assistere una folla di decine di migliaia di persone, che unisce i circa quarantamila abitanti della città ad altre migliaia di appassionati e curiosi che giungono da ogni parte del mondo per diventare autentici protagonisti di una kermesse che non conosce spettatori, perché tutti possono parteciparvi attivamente con massima intensità e coinvolgimento, seguendo i gigli nella loro processione, lasciandosi trascinare in entusiasmanti danze.

La Festa e San Paolino: una (con-)fusione di fatti storici

La tradizione popolare vuole che la festa celebri il ritorno a Nola di San Paolino dalla schiavitù in Africa. La vicenda è narrata nel pieno VI secolo d.C. da papa Gregorio Magno nei Dialogi: al tempo in cui facevano scorrerie in Campania, i Vandali fecero prigionieri numerosi abitanti della diocesi di Nola, di cui Paolino era vescovo, e li deportarono in Africa; per comprarne la libertà Paolino diede fondo a tutte le sue ricchezze e quando una vedova gli chiese di riscattare suo figlio non gli rimase altro da offrire ai barbari che se stesso; fattosi, dunque, volontariamente schiavo in Africa, divenne l’ortolano del genero del re dei Vandali, che, oltre a gustare le specialità del suo orto, prese a godere della sua piacevole compagnia, nutrendosi dei suoi saggi discorsi; un giorno il re riconobbe in Paolino uno dei giudici che sedevano per giudicarlo in un sogno, che si sarebbe rivelato premonitore della sua morte, e chiese al genero di chiedergli chi fosse; dichiaratosi un vescovo, gli fu concesso di tornare in patria con tutti i prigionieri della sua terra su navi cariche di grano (Greg. M. dial. 3, 1) [Fig. 4].

Gregorio scrive poco più di un secolo dopo il tempo in cui sarebbero accaduti i fatti che narra e dichiara che unica sua fonte è il racconto fattogli da alcuni monaci di veneranda età, che a loro volta hanno ascoltato racconti sulla santità di Paolino. La sua narrazione contiene fatti storici reali ma li combina in maniera confusa.

Ponzio Meropio (Anicio)[1] Paolino, nato nel 353/354 a Burdigala nella Gallia Aquitania, membro di una delle famiglie di spicco dell’aristocrazia senatoriale romana, giunse all’episcopato della diocesi di Nola tra la fine del 409 e gli inizi del 410, dopo essere stato ordinato sacerdote a Barcellona e aver scelto di stabilire la sua dimora in una proprietà di famiglia che doveva trovarsi non lontano dal santuario martiriale del presbitero Felice, alle porte di Nola, città che aveva scelto quale sua sede quando tra il 379 e il 381 era stato governatore della provincia Campania[2]. Nel 410, dopo il sacco di Roma, ipsam Nolam barbari vastaverunt (Aug., De civ. Dei 1.10.2). Si tratta dei Goti guidati da Alarico, che assalirono anche quel santuario martiriale, dove tra il 402 e il 403 Paolino aveva fatto erigere una basilica nova[3] e creato una delle prime grandi mete del pellegrinaggio religioso di tutta la cristianità occidentale. Dell’assedio, cui venne sottoposta la città di Nola, si ha conferma da uno scritto del contemporaneo Agostino, vescovo di Ippona, che attribuisce la salvezza della città a quello stesso San Felice, che Paolino onorava alle porte di Nola, riportando che:

verum etiam ipsis hominum aspectibus confessorem apparuisse Felicem, cuius inquilinatum pie diligis, cum a barbaris Nola oppugnaretur, audivimus, non incertis rumoribus, sed testibus certis (Aug. De cura pro mortuis gerenda 16, 19).

Nel De civitate Dei Agostino riferisce che lo stesso Paolino gli ha dato notizia della sua prigionia:

Unde Paulinus noster, Nolensis episcopus, ex opulentissimo divite voluntate pauperissimus et copiosissime sanctus, quando et ipsam Nolam barbari vastaverunt, cum ab eis teneretur, sic in corde suo, ut ab eo postea cognovimus, precabatur: “Domine, non execrucier propter aurum et argentum; ubi enim sint omnia mea, tu scis”. Ibi enim habebat omnia sua, ubi eum condere et thesaurizare ille monstraverat, qui haec mala mundo ventura praedixerat (Aug. civ. Dei 1, 10, 2).

Tornato in libertà, Paolino continuò ad essere il vescovo di Nola fino al 431, anno della sua morte. Che fosse caduto prigioniero dei barbari, dunque, è un fatto storico, ma, diversamente da quanto raccontato da Gregorio Magno, a porlo in catene furono i Goti di Alarico e non i Vandali, che fecero scorrerie a danno dei territori costieri della Campania muovendosi dall’Africa[4], dove si erano stabiliti da circa vent’anni, solo dopo la morte dell’imperatore Valentiniano III (Proc. 3, 5, 4), nel 455, quando ormai Paolino era già venuto a mancare. Nello stesso anno i Vandali compirono un violento saccheggio di Roma, della durata di tre giorni, tale da consegnarlo alla storia come il peggiore che la città avesse mai subito, facendo ridimensionare l’eco di quello dei Goti di Alarico del 410 e facendo diventare proverbiale la loro crudeltà, tanto da assurgere essi stessi a sinonimo di inciviltà. A distanza di poco più di cento anni, con lo scopo di mostrare che Dio agisce nella storia attraverso i suoi santi, Gregorio non scava a fondo per ricercare l’esattezza storica dei fatti che racconta nel dialogo su Paolino, ma fa di costui, della cui santità era ampiamente noto quanto si manifestasse nel soccorso ai poveri e ai deboli, un exemplum della potenza di Dio contro quei Vandali, che erano andati configurandosi negli anni come il nemico per eccellenza della chiesa cattolica[5]. Il prestigio e l’autorevolezza di Gregorio si riverbereranno nel tempo sulle sue opere letterarie e così nella tradizione agiografica su San Paolino per molti studiosi varrà la leggenda della prigionia inflittagli dai Vandali in Africa e non l’esatta verità storica di quei lontani avvenimenti del 410 (Santaniello 2015, 395-407, in particolare nota 31). Altri, me compreso, ritengono che “la vita del Santo non conosce nessun viaggio in Barberìa”[6].

4 | San Paolino da Nola.
5 | La barca con cui leggendariamente San Paolino torna dalla prigionia.
6 | Il busto-reliquia del Santo.

Secondo la tradizione popolare, la Festa dei Gigli, sempre muovendo dalla leggenda gregoriana, introduce nell’ordine di sfilata degli otto gigli, collocandola tra il quarto e il quinto, la cosiddetta “barca”, un’ulteriore macchina da festa, che sulla base di legno, avente la stessa struttura dei gigli fino ad un’altezza di tre metri [Fig. 5], imposta la riproduzione di un’imbarcazione, atta a simboleggiare il viaggio di ritorno di Paolino per mare dalla prigionia africana. Ulteriori nuovi ingredienti vanno a mescolarsi con la verità storica con lo scorrere dei secoli, pur se formalmente e cronologicamente ad essa estranei: durante i festeggiamenti, nella barca viene fatto stare un personaggio che impersona un “turco capellone”, abbigliato in maniera da ritrarre l’iconografia convenzionalmente diffusa in Europa dei soldati ottomani con lunghi capelli e mustacchi. La trovata scaturisce molto probabilmente dal fatto che nel XVI secolo il Mediterraneo occidentale, comprese le coste della penisola italiana, è scosso dalla pirateria turca, al servizio dell’impero ottomano, che fin dalla presa di Costantinopoli del 1453, andrà definendosi come la grande minaccia contro la cristianità. Sarà la battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571, con la vittoria delle forze cristiane della Lega Santa voluta da Papa Pio V e sostenuta finanziariamente soprattutto da Filippo II di Spagna e militarmente dalla flotta veneziana e dalla galee spagnole del Regno di Napoli e di quello di Sicilia, ad allontanare l’incubo delle incursioni turche dalle coste dei paesi europei del Mediterraneo e sarà la battaglia di Vienna dell’11-12 settembre 1683 ad arrestare per sempre l’avanzata dell’impero ottomano in Europa e ad avviarne la cacciata dai Balcani. Nell’immaginario degli abitanti delle coste e delle contrade, dove per decenni si era dato l’allarme al grido di “Mamma li Turchi”, quei pirati dovettero restare impressi come i grandi nemici della cristianità, non diversamente da come era accaduto oltre mille anni prima con i Vandali, gli uni e gli altri ugualmente provenienti dal mare. Non è da escludere che San Paolino nelle sue funzioni di patrono di Nola, sia stato invocato a difesa contro questa spaventosa minaccia, tant’è che, secondo la descrizione che della processione dei Gigli fa Ferdinand Gregorovius nel 1854, dopo i gigli

veniva una barca, in cui stava un giovanetto vestito alla turca, con in mano un fiore di granata, dietro la barca veniva un enorme bastimento da guerra, con a prua un giovane vestito da moro, che se ne stava fumando un sigaro, mentre sul ponte eravi la statua di San Paolino, inginocchiata in atto di preghiera, davanti a un altare (Gregorovius (1853) 1906, p. 23).

Così la Festa dei Gigli di Nola in un momento imprecisato tra la fine del XVI e il XIX secolo ha trasformato in un “turco capellone” il barbaro che dovette condurre la nave del ritorno a Nola di Paolino nella leggenda di Gregorio o, semplicemente, ha accolto tra i suoi obelischi il ricordo della minaccia dei Turchi o Mori provenienti dal mare, debellata per intercessione del santo.

Alle origini della Festa tra suggestioni e ipotesi

È impossibile dire quando la Festa sia stata celebrata per la prima volta. Ogni anno per ognuno degli obelischi vengono scritte canzoni, che vengono associate alle diverse fasi della cosiddetta “ballata” dei gigli. Una di quelle composte in occasione della kermesse del 1978 recita:

‘A storia ‘e chesta festa è vecchia assaje
È vecchia quanno ‘o munno p’’o Nulano.

La storia di questa festa è molto antica,
tanto antica quanto è antico il mondo per il Nolano (Cesarano 2014, 28).

Pur se l’intenzione del poeta è quella di marcare la funzione riconosciuta alla festa di momento di aggregazione sociale sulla base di una condivisa identità culturale, che si manifesta ed esprime pienamente nella fede a San Paolino, dai suoi versi emerge che i Nolani hanno la percezione di una perfetta sovrapposizione della storia della città e di quella della festa, inconsapevolmente accreditando  la proposta di riconoscere a quest’ultima un’origine molto più antica dei tempi di San Paolino, la cui vicenda nolana si svolge quando la città ha più di mille anni di vita.

La nascita della città è da considerarsi il punto di arrivo di un lungo e complesso processo di poleogenesi, che ha inizio nel cuore dell’VIII sec. a.C., su impulso di genti autoctone, note nelle fonti come Ausoni, e che può dirsi concluso definitivamente nel VI sec. a.C., dopo aver accolto nella sua compagine sociale elementi greci ed etruschi, forieri di dinamiche economiche molto avanzate (Cesarano 2011, 143-168; Cesarano 2019, 173-177). Diviene uno dei centri di potere nello scacchiere geopolitico regionale grazie soprattutto alla sua collocazione nel cuore di quel territorio, favolosamente fertile, posto a oriente del Vesuvio. Non ne abbiamo nessuna prova documentale, ma è molto plausibile che la Festa mutui le sue forme e modalità di svolgimento dalle cerimonie che nell’antichità classica venivano celebrate dai Nolani in occasione del solstizio d’estate, cadente il 21 giugno, e in relazione alle operazioni della mietitura del grano, cerimonie facenti parte di quel ricco repertorio di feste connesse al ciclo delle stagioni e alle diverse fasi del lavoro agricolo diffuse in tutto il Mediterraneo antico fin dai tempi preistorici, che in alcuni casi si svolgevano portando in processione le statue delle divinità (Comba, Amateis 2019). Il cristianesimo, nel porre l’Universo e l’intero suo funzionamento sotto l’egida di Dio, affidò alla sorveglianza di due suoi santi i momenti di cambiamento stagionale segnati dal movimento apparente del sole nel cielo, i due solstizi, il primo, quello d’inverno, posto sotto la protezione di San Giovanni apostolo e il secondo, quello d’estate, sotto quella di San Giovanni Battista. È ben noto e documentato, poi, quanto forme liturgiche e folkloriche della religiosità del mondo classico siano confluite nell’equivalente repertorio della religiosità cristiana, sia a livello aulico sia a livello popolare, sicché non appare peregrino supporre che nella Nola a cavallo tra la fine del mondo antico e l’alto medioevo la festa celebrante la ricchezza del raccolto del grano all’inizio dell’estate sia finita per celebrare l’amato vescovo Paolino, approfittando anche del fatto che il dies natalis del santo cadesse proprio il 22 giugno.

L’evoluzione della macchina da festa

Il Giglio che oggi è protagonista della Festa in onore di San Paolino è il risultato dell’evoluzione di una sorta di ex voto, che nei secoli ha assunto forme e dimensioni diverse, fino a diventare la macchina da festa che assembla assi di legno intorno a un’anima centrale, sempre lignea, detta “borda”, elevandosi da terra per un’altezza di venticinque metri, fino a raggiungere un peso di circa dodici quintali, il cui trasporto a spalla a suon di musica da parte dei cosiddetti “cullatori”, che costituiscono la “paranza”, non può non tradursi in una prova di forza, oltre che di fede nei confronti di San Paolino, in un autentico spettacolo, sì capace di attirare ogni sguardo ed attenzione, da portare alla decisione nella seconda metà del XIX secolo di separare la processione dei Gigli da quella delle reliquie del santo, per molti secoli fatte sfilare in un “braccio reliquiario” d’argento, sostituito a partire dal 1610 da un busto ligneo di San Paolino e poi da un busto d’argento, la cui ultima versione, ancora in uso, risale al 1742 (Solpietro, 13-24) [Fig. 6].

Ma i più antichi ex voto portati in processione in onore del santo dovevano avere forma e dimensioni diverse dagli obelischi a noi contemporanei. Non possediamo nessuna testimonianza su come si svolgeva la festa in onore di San Paolino nei primissimi tempi del medioevo, ma, se è giusto vedervi una continuità formale con quelle pagane di età antica, dobbiamo supporre che si mettesse in scena una processione non tanto diversa da quella che nell’Atene classica durante le Antesterie o “Feste dei Fiori” nel mese di Antesterione (febbraio-marzo) si celebrava per Dioniso, portandone in processione la statua su di un carro a forma di nave, seguito da celebranti che indossavano costumi da satiro e suonavano flauti (Comba, Amateis 2019, 321). L’utilizzo imprescindibile del carro per il trasporto dei simulacri degli dèi in processione è probabile che sia all’origine del racconto legato agli antichi misteri eleusini, secondo il quale Trittolemo riceve da Demetra la conoscenza di come lavorare la terra e far crescere il grano e la diffonde tra gli uomini viaggiando per il mondo su un carro alato, donatogli dalla stessa dèa, come rappresentato su numerosi vasi attici, che lo ritraggono sul carro e con spighe di grano tra le mani. Non stupisce, allora, che il più antico documento ad oggi noto riguardante la Festa dei Gigli descriva proprio come un carro la macchina da festa in onore di San Paolino di Nola, che, molto probabilmente, non per caso è onorato anche come santo “ortolano”, connesso, cioè, ai frutti che la terra concede agli uomini a seguito del raccolto agli inizi dell’estate. Si tratta di una relatio del 1323, nella quale il “fabricator lignea Gabriel compages lilii machina”, vale a dire “il costruttore Gabriele dell’impalcatura di legno della macchina del giglio”, viene sanzionato per aver trasgredito alle regole impartite per allestire la macchina da festa. Vi si leggono, anche, le prescrizioni per le quali la macchina deve essere rivestita di drappi di lino, utili a nascondere gli uomini che “propellent”, cioè che la spingono. Infine si danno le istruzioni per la realizzazione della macchina stessa:

Primo fiant rot quatuor alte brachiis tre set iste quatuor rotas ponentur un duas assalibus […] secundas stradas […] transige possint impedimento et […] carro
[…] Post has rotas due rotas quae coniuntur ambe […] volvendo rotas cum maneggia volventur ista […] Carrum ducatur recte per viam et volvatur cum fuerit nocesse unum vel due teneat timonem […]

Si facciano dapprima quattro ruote alte tre braccia, queste quattro ruote si fissano a due assali (lunghi) in base alla larghezza ed estensione della strada, affinché (il carro) possa passare senza ostacoli e quando il carro…Dopo queste ruote…due ruote si uniranno…girando le ruote con la manovella esse girano il carro…Perché il carro vada diritto lungo la strada e possa girare quando è necessario uno o due uomini tengono il timone (Lo Monaco 2003, 55-58).

La macchina è, dunque, un carro, che, diversamente da quello di Trittolemo, si muove su quattro e non su due ruote ed è sospinto da uomini e non dalla forza delle ali. Viene da pensare ai carri da festa della Firenze tardomedievale, che, a partire, molto probabilmente, dagli anni di Lorenzo de’ Medici, col nome di “trionfi” vanno evolvendosi nel tempo nei carnevaleschi carri allegorici. E in trionfo su carri trainati da buoi vengono trasportati i dodici mesi nel ciclo di affreschi dell’omonima Sala nel Palazzo Schifanoia a Ferrara di circa il 1470.

Un disegno risalente al 1323 raffigura un carro su ruote sormontato da un alto cero [Fig. 7]. La natura di ex voto del cero è chiara nel suo significato e ampiamente diffusa, ma trasportato in processione, esso assume anche la funzione di elargire i benefici provenienti dal santo a tutta la città. Si pensi, in tal senso, al cosiddetto “brindellone” di Firenze, protagonista ancora oggi della Festa della Pasqua fiorentina con la manifestazione dello “scoppio del carro”: la nobile famiglia dei Pazzi nel ’200 fece racchiudere in un carro le tre schegge di pietra silicea provenienti dal Santo Sepolcro, che, secondo la tradizione, il loro antenato Pazzino de’ Pazzi, nel corso della prima crociata promossa da papa Urbano II si era guadagnato a Gerusalemme come dono di Goffredo IV di Buglione e aveva consegnato alle autorità fiorentine nel 1101; il carro, riccamente addobbato, prese ad essere portato in giro per la città ogni anno il giorno del Sabato Santo con lo scopo di diffondere il fuoco delle pietre sacre, consentendo ai Fiorentini che non potevano partecipare alla cerimonia nella cattedrale di accendere direttamente dal carro i ceri e le candele da utilizzare per appiccare il fuoco al loro focolare domestico, che sarebbe dovuto rimanere acceso per tutta la durata della Pasqua. Nella stessa Firenze del pieno XV secolo, durante la festa che si svolgeva in onore di San Giovanni Battista era previsto che al santo patrono della città i cittadini recassero un torchietto di cera di una libbra e che venissero offerti ceri e palii da parte dei territori sottomessi a Firenze.

Di “caereus”[7] a riguardo della Festa di Nola parla l’umanista Ambrogio Leone nel De Nola, edito a Venezia nel 1514. Nel descrivere la processione in onore del santo patrono, che identifica con una cerimonia di lustratio, racconta che:

[...] il giorno prima della festa di San Paolino, si fa un altro giro per la città: prima vanno i contadini con falci, seguendo, come fosse il loro vessillo, una grandissima torcia a guisa di colonna, accesa e adorna di spighe di grano. Questa torcia è tanto grande, che un uomo solo non può portarla, onde è portata da parecchi ritta su di una specie di cataletto. Viene fatta col denaro raccolto fra i contadini, ed ogni anno si accresce, non solo viene rifatto ciò che si accende percorrendo la città; la chiamano cereo.  Similmente si fa altra torcia da altri, e in questa processione ciascuno segue la sua, mandandola avanti a sé. Viene poi la torcia degli ortolani, adorno di cipolle e di agli, dietro cui vanno gli ortolani, e di poi le altre torce degli artigiani. Dopo di questi vengono le file dei monaci e le file dei sacerdoti chierici, l’ultimo dei quali è il vescovo, che porta in mano le reliquie degli Apostoli, del legno della croce, di alcuni martiri e di San Paolino, chiuse in una mano d’argento. Accompagnano il vescovo il conte e il maestro del mercato, di poi i primari cittadini e il rimanente popolo, tutti a piedi (Leone 1934, 205-206, traduzione di P. Barbati).

È opinione diffusa che il brano indichi che sia ormai avvenuto il passaggio del trasporto dei ceri dal carro sospinto da uomini, come descritto nella relatio del 1323, al cataletto portato a spalla. In realtà, quando dice che la torcia “adeo magna est ut pondus iniustum sit huic ferenti”, per la qual ragione, dopo essere stata messa ritta su un capulum, “praefertur a pluribus”, Leone usa dapprima il verbo fero, che in maniera generica sta per “portare” e poi praefero, che per la precisione vuol significare “portare innanzi” o “spingere in avanti”, con un significato identico al propello della relatio, senza aggiungervi “umeris”, che sarebbe servito a specificare che si tratta di un trasporto a spalla, per cui il latino ricorre più specificamente al verbo “porto”. Al tempo stesso, l’evoluzione che subirà il Giglio, configurandosi come macchina da festa trasportata a spalla, e il confronto dei ceri nolani così come descritti dà Ambrogio Leone con i giganteschi candelieri della Faradda di Sassari e con i Ceri di Gubbio, gli uni e gli altri portati a spalla, lascia aperta la possibilità che già al tempo di Leone i ceri a Nola fossero trasportati umeris.

7 | Disegno risalente al 1323 raffigurante un carro su ruote.
8 | Macchina creata dall’architetto Ferdinando Sanfelice nel Largo di Palazzo, oggi Piazza Plebiscito, per l’infanta reale, figlia di Carlo III di Borbone, nel 1740.
9 | Stampa tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo in cui Gigli sono definiti nella loro composizione.
10 | Sabato Rodia, Watts Towers in Los Angeles, XXI secolo.

Leone ci informa anche del fatto che ad onorare il santo, facendo realizzare a proprie spese i ceri, sono i contadini, gli ortolani e gli artigiani, organizzati per categorie o corporazioni. Si tratta, cioè, di coloro che si affidano per un ricco raccolto, che nel caso degli artigiani deve intendersi come il ricavato dalla vendita dei loro manufatti, alla benevolenza di San Paolino, ma soprattutto di coloro che definiscono, per il tramite della ripartizione per corporazioni, la struttura della comunità cittadina e che con la partecipazione alla processione, che è insieme un momento religioso e politico, ambiscono a ostentare la loro presenza e a far valere le loro istanze politico-sociali.

In Cemeterio Nolano, edito nel 1644, Andrea Ferraro riporta alla tradizione della leggenda di papa Gregorio il coinvolgimento delle corporazioni:

Intendendo i Nolani che il suo Pastore tornava alla Patria, con navi piene d’un gran turba de’ cittadini liberati, rispendente d’una immortal corona, e trionfando con gloria così rara d’aver dato se stesso in servitù per un uomo popolare, facil cosa è a pensare con qual allegrezza applauso mischiato di lagrime fosse ricevuto dai suoi cittadini, i quali di tutte l’arti, e professioni l’uscirono all’incontro; qual costume osservasi fino a nostri tempi; imperciocché nelle prime vespere della sua festività tutte l’arti ciascuno col suo cereo accompagna per tutta la città le reliquie del Santo poste entro una statua d’argento (Ferraro 1644, 59).

Ferraro non descrive il “cereo” dei suoi tempi, ma è plausibile che proprio sullo scorcio del ’600 si avvii una sua trasformazione in risposta a suggestioni culturali che si diffondono a macchia d’olio nell’Italia del barocco fino alla metà del secolo successivo, con la comparsa di quelle effimere costruzioni, realizzate per esaltare in strabilianti feste di palazzo o di strada le virtù dei regnanti o le glorie di un santo nelle piazze di Roma, di Napoli, ma anche di Madrid, di Vienna e di Parigi, tradotte magistralmente in pietra a Napoli, con la guglia di San Gennaro in Piazza Riario Sforza, con quella di San Domenico nell’omonima piazza e quella dell’Immacolata in Piazza del Gesù Nuovo, e culminanti nelle forme e nelle dimensioni parossistiche della macchina creata dall’architetto Ferdinando Sanfelice nel Largo di Palazzo, oggi Piazza Plebiscito, per la festa celebrante la nascita dell’infanta reale, figlia di Carlo III di Borbone, nel 1740 (Capolavori 1997) [Fig. 8]. Così nella Nolana Ecclesiastica Storia, edita nel 1757, il padre somasco Gianstefano Remondini, voluto a Nola per dirigere il museo di antichità fatto istituire nel seminario vescovile dal vescovo Troiano Caracciolo del Sole, non parla più di ceri ma di “mai” (termine con cui nella tradizione popolare italiana, specialmente della campagna toscana, vengono indicati i rami fioriti o alberi che fanciulli e fanciulle portavano intorno durante le feste del mese di maggio) e di “gigli” e dal suo testo si evince che “mai” e “gigli” sono ormai nomi della tradizione, che non rispondono più alla natura, alla forma e all’aspetto delle realizzazioni portate in processione, perché queste sono diventate ormai “macchine in forma di globi, di piramidi, di navi, o simil altre cose, tutte adorne di innumerevoli garofani, tra quali è situata la particolare insegna di ciascheduna di quelle arti, che la fanno” (Remondini 1757, 28-29).

Nel racconto del suo viaggio a Napoli nel 1790, il cavaliere Carlo Gastone della Torre di Rezzonico descrive, ormai, una festa che si è codificata nelle sue forme espressive, con gli altissimi gigli trasportati a spalla per le strade cittadine, al suono dei musicisti che vi siedono sopra:

Il venti giugno partii dopo pranzo da Napoli col principe Stanislao Poniatowski, il barone Trombeski e l’abate Zarrillo per Benevento […]. Nel ritorno ci fermammo a pranzo in casa Vivenzio, dove ritrovammo il cavalier Hamilton e Milady sua consorte, Dame e Cavalieri, che a Nola erano venuti per la festa di S. Paolino. Si portavano in giro altissime macchine, che da’ popolari si chiamano giglj. Sono queste un informe ammasso d’ornamenti e giganteggiano alcune statue di Santi, e vi sono cantorie piene di suonatori e con grande celerità si trasportano da un luogo all’altro sulle spalle di molti robusti uomini, cosicché parsemi assai pericolosa la situazione dell’orchestra pensile ed ambulante in tanta altezza e per istrade cattive: se mai smucciassero i piedi a que’ divoti atlanti rovinerebbe l’immane giglio e quel pericolo e quel vacillare accresce la maraviglia ed il diletto alla plebe, che intorno vi si aggira vociferando (Torre di Rezzonico 1819, 347-348).

Nel 1854 fornisce una descrizione dettagliata dei gigli e dell’intera festa un altro viaggiatore, Ferdinand Gregorovius, a cui è stato consigliato di recarsi a Nola per assistere alla Festa:

Vidi una specie di torre, alta, sottile, tutta ornata di carta rossa, di dorature, di fregi d’argento, portata sulle spalle da uomini. Era divisa in cinque ordini, a piani, a colonne, decorata di frontespizi, di archi, di cornici, di nicchie, di figure e coperta ai due lati di numerose bandiere. Le colonne erano rosse, lucide, le nicchie dorate all’interno e guarnite di rabeschi assai originali; le figure rappresentavano geni, angeli, santi, guerrieri, tutti vestiti nelle foggie più strane ed erano collocati gli uni sopra gli altri, e tenevano, in mano corni, mazzi di fiori, ghirlande e bandiere. Tutto si moveva, tremava e svolazzava, e la torre stessa, portata da circa una trentina d’uomini robusti, oscillava essa pure. Nel piano inferiore stavano sedute alcune ragazze, incoronate di fiori, in mezzo ai suonatori, i quali facevano un chiasso indescrivibile con trombe, tamburi e triangoli. La torre si avanzava lentamente nella strada, superando l’altezza delle case, ed era sormontata in cima dalla statua di un santo. Da altre parti si udivano nuove musiche e si vedevano consimili torri.
“Dio mio” – dissi ad un uomo che mi stava vicino – “che cosa significa tutto questo?” Mi rispose alcune parole in un dialetto incomprensibile, fra le quali, uniche che riuscii ad afferrare, quelle di guglie di S. Paolino.
[...] Ne arrivarono subito nove da diverse parti ed erano quasi tutte della stessa altezza, ad eccezione di una più elevata delle altre, che raggiungeva i centodue palmi d’altezza appartenente alla corporazione degli agricoltori. Ogni corporazione, od arte di una certa importanza, prepara simili torri per la festa del santo. Le spese sono sostenute dall’arte e ascendono per ogni torre a circa novantasei ducati napoletani.
Nell’esaminare più da vicino quelle strane apparizioni che tanto mi avevano colpito, a prima vista rilevai che riproducevano l’architettura bizzarra e barocca degli obelischi che sorgono sopra alcune piazze di Napoli, e che, sopracarichi di sculture e di ornati, non danno un’idea molto favorevole del buon gusto artistico dei Napoletani.
[...] Lo scheletro delle torri è formato di antenne e di travicelli; un piano si sovrapone all’altro e la parte anteriore e i due lati si ricoprono di carta, mentre la parte posteriore è formata tutta da foglie di rami di mirto e da una quantità di piccole bandiere. Sulle pareti di carta dei due lati sono dipinti geni i quali portano ghirlande. La parte anteriore è la più ricca di ornamenti, perché a questa lavorano pittori ed architetti. Ogni piano è formato di colonne di ordine corinzio, sormontate da uina cornice con una nicchia ed in questa sono collocate figure e statue. Le persone vive stanno al piano inferiore, e sono ragazze e giovanetti che vestono una gonnella corta e portano in testa elmi di carta dorata. Nella nicchia, a metà della torre, si trova la figura principale [...] A fianco di queste figure principali si trovano ad ogni piano emblemi di varia natura, angeli che tengono in mano bandiere, od arpe, e geni con corone di fiori e trombe. Nella nicchia del piano superiore sta un angelo con un incensorio e sulla cupola dorato o sull’ornamento a foggia di giglio, che forma l’estremità della torre, sorge un santo.
[...] Un emblema posta sulla cornice che sormonta la nicchia a metà della torre, indica la corporazione, o il mestiere a cui quella appartiene.

Numerose altre descrizioni, di viaggiatori italiani e stranieri (v. Napolitano 2020), fanno comprendere che tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo i Gigli vanno definendo la loro struttura in maniera caratterizzante ed originale [Fig. 9], tanto da diventare modelli di ispirazione di artisti contemporanei, se è vero che Sabato Rodia, originario di Serino in Irpinia, li ha in mente quando realizza a Los Angeles le tre torri di ferro, note come Watts Towers, la più alta delle quali raggiunge i trenta metri (Ballacchino 2014, 289-308; Ceparano 2014, 125-144) [Fig. 10]. Dei diversi nomi dati alla macchina da festa sopravvive soltanto quello di “Giglio”. La Festa va definendosi in tutte le sue forme fino a raggiungere l’assetto che ha oggi (v. Avella 2000; Barbato 2016).

La Festa nella Rete GRAMAS – Patrimonio Immateriale dell’Umanità

La “ballata” dei Gigli è soltanto il momento cruciale della Festa. Le tappe che scandiscono la kermesse sono disseminate lungo l’intero anno, che per i Nolani in relazione alla festa stessa ha inizio nello stesso momento in cui una Festa finisce e un’altra comincia. La Festa è chiaramente un evento pubblico, non solo per il fatto che a parteciparvi è l’intera popolazione, ma anche perché è una festa religiosa celebrata in onore di un santo patrono, della quale l’organizzazione e la gestione dei momenti più prettamente liturgici fanno capo alla Curia vescovile, e perché l’organizzazione, la gestione e la salvaguardia della tradizione laica fanno capo all’Ente comunale, che emana un regolamento che ne disciplina ogni aspetto. Al tempo stesso i singoli Gigli e la Barca sono assegnati ogni anno a privati cittadini che, a nome delle tradizionali corporazioni, rappresentate da un “firmatario” che sottoscrive l’istanza di assegnazione, ne fanno richiesta e che, in caso di successo, sono detti “maestri di festa”. L’assegnazione avviene tradizionalmente nella notte della domenica della Festa, mentre si svolge la “ballata” dei Gigli assegnati l’anno precedente, sicché una delle canzoni può a giusta ragione far cantare che “la Festa nasce nello stesso momento in cui muore”. Dal momento in cui ogni maestro di festa riceve in assegnazione il Giglio, dà avvio allo svolgimento delle diverse iniziative tradizionali che coinvolgono l’intera città durante tutto l’anno, accompagnandola in un percorso che culmina nella processione del busto argenteo di San Paolino e poi nell’esibizione delle macchine da festa a giugno.

Ne viene un binomio che unisce inscindibilmente la città e la Festa, San Paolino e i Nolani, in un fenomeno che è culturale e non semplicemente folklorico, in quanto si invera come momento di elaborazione e di costante rinnovo di valori identitari per la comunità cittadina e per ogni singolo Nolano. Da qui il fatto che anche se i gigli sono replicati da numerosissimi decenni in più di una cittadina campana (Brusciano, Barra di Napoli, Casavatore, Crispano, Villaricca, solo per citarne alcune), l’unica città a potersi fregiare del titolo di Città dei Gigli rimane e rimarrà sempre soltanto Nola. A ragione della complessità culturale intrinseca alla sua Festa, circa vent’anni fa la comunità cittadina ha cominciato a tessere un dialogo con realtà simili in Italia, promuovendo la Rete delle Grandi Macchine a Spalla (GRAMAS), alla quale hanno aderito la città di Viterbo con la festa della Macchina di Santa Rosa, la città di Sassari con la Faradda di li Candelieri e la città di Palmi in Calabria con la Varia. Il 4 dicembre del 2013 la Rete ha ricevuto dall’UNESCO il riconoscimento di patrimonio immateriale dell’umanità (Lucarelli, Mazzacane 1999; Ballacchino 2015).

Note

[1] I legami della gens Pontia, alla quale appartiene Paolino, con quella Anicia, potente famiglia di Roma, non sono molto chiari (cfr. Santaniello 2015, 4-5).

[2] La Campania diventa una provincia della neocostituita diocesi italiciana nella riorganizzazione amministrativa data all’impero da Diocleziano con la tetrarchia tra 284 e 305 d.C. Per la vita di San Paolino, cfr. Santaniello 2015.

[3] Per uno studio approfondito sul santuario feliciano, v. Ebanista 2003. Per le tracce del rifacimento della basilica a pochi anni dalla sua costruzione, v. Ebanista 2003.

[4] Basandosi sul racconto di Gregorio, molti studiosi sostengono che nel 455 i Vandali abbiano assalito Nola. In realtà è molto probabile che non siano giunti fino alla città, ma che ne abbiano saccheggiato il territorio, che nel V secolo si estendeva fino alla costa, grazie all’acquisizione di buona parte dell’ager Pompeianus dopo la catastrofica eruzione vesuviana del 79 d.C. A tal proposito, una bolla di Innocenzo III testimonia che nel 1215 la diocesi di Nola ha uno dei suoi confini alla foce del fiume Sarno (Beloch 1890, 461-462).

[5] Per l’ostilità dei Vandali contro la chiesa cattolica in Africa, v. Vittore Vitense, Historia persecutionis Africanae provinciae sub Genserico et Hunirico regibus Wandalorum.

[6] Maiuri 1998, 103. Della stessa idea è anche Santaniello 2015, 407, che ricorda che fuori dal coro è già Dancoisne 1858, che riconduce la prigionia del santo ai Goti e la colloca nell’Italia meridionale, e che Baudrillart 1905, 173-180 a proposito della vicenda di Paolino come raccontata da Gregorio Magno parla esplicitamente di “leggenda della sua prigionia in Africa”.

[7] La forma corretta in latino è “cereus”, senza il dittongo nella prima sillaba.

Riferimenti bibliografici
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    L. Avella, La Festa dei Gigli, Nola 2000.
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    K. Ballacchino, Spires and Towers Between Tangible, Intangible, and Contested Transnational Cultural Heritage, in L. Del Giudice (a cura di), Sabato Rodia's Towers in Watts: Art, Migrations, Development, Fordham 2014, 289-308.
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    K. Ballacchino, Etnografia di una passione. I Gigli di Nola tra patrimonializzazione e mutamento ai tempi dell’UNESCO, Roma 2015.
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  • Beloch 1890
    J. Beloch, Campanien, Breslau 1890.
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    G. Remondini, Della Nolana Ecclesiastica Storia, Napoli 1747.
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  • Solpietro 2016
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  • Torre di Rezzonico 1819
    C.G. di Torre Rezzonico, Opere del cavaliere Carlo Gastone conte della Torre di Rezzonico, patrizio comasco, raccolte e pubblicate dal professore Francesco Mocchetti, Tomo VII, Giornale del Viaggio di Napoli negli anni 1789-1790, Como 1819.
  • Zampino 1997
    G. Zampino (a cura di), Capolavori in festa. Effimero barocco a Largo di Palazzo, Napoli 1997.
English abstract

The “Festa dei Gigli” is held annually on June 22nd in Nola, Campania, in honor of San Paolino, the city’s co-patron saint, and is celebrated by thousands of people who come from all over the world to take part in this event. The “giglio” is a wooden obelisk, 25 meters high and weighing about 12 quintals, covered in papier-mache, and named after eight ancient craft guilds: “Ortolano”, “Salumiere”, “Bettoliere”, “Panettiere”, “Beccaio”, “Calzolaio”, “Fabbro” and “Sarto”. The gigli are carried by about 120 men, called “paranza,” following the rhythm of the music played by musicians and singers on two wooden boards. The procession winds through the historic streets of the city, from Sunday morning until the first light of the following day. The article also compares the “Festa dei Gigli” to other historic events, such as the “trionfi” of medieval Florence, and describes the origins of the “ex voto” tradition.*

*The English abstract above was written by ChatGPT and strictly unedited by the editors of this issue (> Editoriale). This sentence itself was automatically translated with DeepL.

keywords | Nola; Festa dei Gigli; trionfi.

Per citare questo articolo / To cite this article: M.Cesarano, La millenaria Festa dei Gigli di Nola. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 223-236 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0069