Una “festa” in gemma di Antonio Berini (?) al Civico Museo d’Antichità Winckelmann di Trieste
Gabriella Tassinari
English abstract
Nella cospicua collezione di più di 100 impronte di intagli e cammei del celebre incisore Antonio Berini, custodita al Civico Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste, attira l’attenzione il calco di un complesso corteo bacchico. Esso si rivela significativo e stimolante sia per illustrare e meglio definire la fisionomia di un artista sia per indagare sui modelli glittici e riflettere sulle relative modalità di diffusione, ricezione, interpretazione, adattamento, alterazione. Il calco ovale in gesso, di colore bianco-grigio-beige (altezza 2,1 cm, larghezza 2,6 cm, spessore 0.5 cm), delimitato da un bordo un po’ rilevato, raffigura un corteo bacchico [Fig. 1]. Sileno nudo, barbato, ebbro, con le gambe di profilo e il busto di tre/quarti, piegato all’indietro, siede a dorso di un asino bardato, con la testa bassa; appoggia un braccio sull’animale, solleva l’altro sopra la testa tenendo un ramo di vite con foglie e un grappolo. Nell’estrema destra, dietro di lui, un putto stante, nudo, col corpo di prospetto e il viso di profilo, alza lo sguardo e il braccio come per prendere il grappolo. Procedendo verso sinistra due menadi con il tirso: una in primo piano incedente, il viso di profilo, ben delineato, i capelli raccolti, il busto in parte nudo, in parte coperto da una veste panneggiata, nella mano alzata solleva una coppa traboccante di rami di vite con foglie e grappoli (?); sullo sfondo il viso di tre/quarti, parte del busto e del braccio dell’altra baccante. Segue un fauno di profilo, di cui si vede tutto il busto nudo, il volto con corna e barba, che suona il doppio flauto, mentre davanti a lui una figura femminile inginocchiata, accovacciata, coperta in parte da una veste, beve da una coppa tenuta in mano. Alla testa del corteo, un altro fauno nudo, dal viso e zampe caprine, di profilo stringe una baccante nuda che protende il braccio con un vaso. Sullo sfondo il viso di prospetto e il busto di un’altra baccante, coronata d’edera, con il braccio piegato, e solo il viso di profilo di una figura che suona (?). Linea di terreno.
Vediamo di inquadrare il calco nel suo contesto.
L’interesse rivestito dall’insieme triestino è notevole e molteplice. Esso è sostanzialmente inedito; è stato menzionato (Tassinari 2005, 372, 374; Tassinari 2006, 32; Tassinari 2012, 333-334, n. IX/17), presentato, descrivendolo e analizzando le peculiarità; qualche impronta è stata pubblicata (Tassinari 2009; Tassinari 2006-2010; Tassinari 2021, 105-107, figg. 17, 20-21); quella in esame si individua in una vecchia fotografia d’insieme (Barberio 1916, 53).
I calchi sono sciolti, attualmente non incollati sul fondo, privi di spiegazioni; sul retro di ognuno è stato scritto un numero corrispondente ad una schedina manoscritta, dove sono segnate le dimensioni, la forma, la firma, se c’è; viene indicato se esistono altri esemplari; le spiegazioni sono brevi e piuttosto generiche; a volte si identifica il personaggio o la raffigurazione. Lo stato di conservazione è in generale buono. Quasi tutte le impronte fanno parte del legato a Trieste di Filippo Zamboni (Trieste, 1826-Vienna, 1910), letterato militante, prolifico, e misconosciuto, cosmopolita, sensibile ed ingenuo filantropo, acceso anticlericale, patriota, profugo a Vienna come insegnante di lettere italiane (Tassinari 2009, 83-86; Tassinari 2006-2010, 451-452, 454-456).
La collezione triestina si rivela un ausilio prezioso e insostituibile, un riferimento imprescindibile per studiare l’opera del Berini: ne è di gran lunga la più consistente documentazione; la maggior parte dei calchi, che verosimilmente risalgono agli anni milanesi dell’artista, sono l’unica testimonianza di opere perdute o disperse dell’incisore. Essa non si colloca in quel circuito commerciale della fabbricazione su vasta scala delle serie di calchi tratti dalle pietre incise, corredati da spiegazioni, serie decisive per illustrare e divulgare (e popolarizzare) le opere degli incisori. Infatti queste impronte furono donate dal Berini allo Zamboni – nell’ambito del loro rapporto di stretta familiarità –, che le serbò come ‘reliquie’. Dunque, uno strumento di lavoro dell’artista, con impronte talvolta doppie, triple, quadruple e quelle di opere di altri incisori che godono grande reputazione, come Nathaniel Marchant, Filippo Rega e Teresa Talani.
Antonio Berini (Roma, 1770-Milano, 1861) (da ultimo, Tassinari 2017, 20; Tassinari 2018a, 80-82; Tassinari 2018b, 191; Tassinari 2021, 104-107, dove precedente bibliografia), allievo di Giovanni Pichler, il più celebre incisore della seconda metà del XVIII secolo, tra il 1802 e il 1804 lasciò Roma e si stabilì a Milano, forte polo di attrazione in epoca napoleonica. Elogiato come uno dei migliori artisti, con una lunga e intensa attività, Berini lavorò per committenti insigni, potenti. Determinante per la sua carriera un patron straordinario, quale il ricco conte lombardo Giovanni Battista Sommariva (1760-1826), che impiegò vari famosi incisori per riprodurre in pietra dura le opere delle sue splendide raccolte, in modo da non separarsene mai (da ultimo, Pirzio Biroli Stefanelli 2022, dove bibliografia precedente). L’eccezionale dattilioteca è andata sostanzialmente dispersa, e quindi anche gli intagli e i cammei eseguiti dal Berini, insieme alle opere poste in vendita nel 1839, in un’asta di cui rimane il catalogo; non vi è il tiaso dionisiaco del calco triestino.
Ovviamente numerosi soggetti trattati dal Berini si allineano con il repertorio degli incisori del periodo: motivi più o meno consueti e frequenti, apprezzati dal pubblico, come le iconografie legate al mondo antico. Un ramo consistente – e nettamente predominante nella raccolta zamboniana – della produzione del Berini è costituito da teste e busti di personaggi storici (antichi o contemporanei), mitologici, pagani e religiosi, gli Uomini Illustri, e ritratti di contemporanei. Se difficilmente si identificano varie effigi, altre sono ritratti di personalità “impegnative”, come i cammei e gli intagli con Napoleone (vari ritratti), l’imperatrice Giuseppina, il viceré Eugenio di Behauarnais solo o con la moglie Augusta-Amalia, l’imperatore Francesco I d’Austria, lo zar Nicola I, o illustri, come la contessa Confalonieri, Giuseppe Bossi, Vincenzo Monti, Bertel Thorvaldsen. Commissioni queste di particolare rilievo che dimostrano la bravura (e il successo) dell’artista nei ritratti, idealizzati o realistici, spesso suggestivi e splendidi.
Rispetto alla feconda produzione del Berini, sono pochi gli originali preservati e ancor meno gli editi. Sorte questa condivisa con altri incisori post-classici: la documentazione è prevalentemente affidata alle grandi raccolte ottocentesche di calchi, prodotte specialmente dalle manifatture romane. Attraverso cammei e intagli conservati, impronte, testimonianze scritte, si possono schematizzare le caratteristiche stilistiche dei lavori del Berini, in genere di qualità alta. Si ammira l’accurato trattamento della pietra, il sapiente utilizzo degli strati della pietra, la capacità di rendere i diversi passaggi di piano, di evidenziare le forme dei corpi e le pieghe delle vesti, l’esecuzione attenta alle capigliature e ai dettagli, lo stile corporeo, il modellato talvolta assai sporgente. Le dimensioni notevoli, la prominenza con solchi profondi, la ricerca dell’effetto coloristico, risentono di quel gusto del periodo per i grandi cammei a forte contrasto di colori e a rilievo molto alto.
Particolarmente interessante, piuttosto anomala e isolata la scena bacchica del calco in esame, nell’ambito di un repertorio, come quello del Berini, palesemente orientato verso busti e teste. Così l’indagine si fa più complessa e ricca di spunti, ponendo vari quesiti.
L’assenza di firma non consente un’attribuzione sicura; senza questo fondamentale strumento di identificazione possono sorgere dubbi di paternità. Infatti non solo molte delle opere del Berini sono firmate, ma la fisionomia della raccolta zamboniana, che contiene impronte di opere di altri incisori, inducono a grande cautela. Dunque affrontiamo un esame volto a cercare di ricostruire la temperie artistica e culturale in cui si colloca questo soggetto, e a gettare luce sulla gemma. Innanzi tutto non rimane traccia dell’opera – del tutto probabilmente un intaglio – e l’impronta relativa non figura in nessuna delle collezioni di calchi note: è dunque un unicum. Per inciso, ancora una volta è questa una conferma di come in numerosi casi ricorrere ai calchi rimanga l’unico modo possibile per studiare le opere degli incisori post-classici.
Analizziamo brevemente questa scena nell’ambito del repertorio glittico del periodo.
Tra i soggetti favoriti dagli incisori del XVIII-XIX secolo, spesso con gemme appariscenti, vi è la testa / busto di Baccante, con varianti, commistioni, libere rielaborazioni; meno frequente il busto di Dioniso / Bacco. Un tipo iconografico conosciuto e replicato in antico e nel XVIII-XIX secolo, perché ascritto al famoso incisore antico Dioskurides, sebbene non sia firmato, e disperso, è costituito da un bell’intaglio con Dioniso ebbro, incedente, con il tirso appoggiato alla spalla (Tassinari 2013, 72-74, fig. 39).
Invece non sono comuni le composizioni affollate di figure come nel calco triestino. Se ne offre uno scarno elenco senza pretese di esaustività, premettendo che dall’universo così ricco e diversificato dei cortei bacchici si estrapola e si considera solo questo tipo di scena con Sileno ebbro sull’asino.
L’approccio qui scelto esime dall’entrare nel merito di un’analisi specifica riguardo al clima culturale e ideologico sotteso al folto corpus di gemme antiche, o presunte tali, con un ampio spettro di varianti iconografiche e stilistiche, raffiguranti il thiasos dionisiaco. Inoltre nei secoli quei significati, quei simbolismi, quei codici espressivi possono essersi ridotti o persi: in che misura il Berini e i suoi contemporanei erano consapevoli dei messaggi insiti (e trasmessi) nel soggetto glittico di Sileno ubriaco su di un asino? Richiamiamo solo che lo stato di ubriachezza di Sileno, satiro “anziano”, frequente nel kòmos di Dioniso, riconduce al vino, alla musica, alla danza, al mondo festoso del simposio, ma anche a quel comportamento che oltrepassa il limite consentito. I satiri, esseri ibridi nell’anatomia, liminari tra l’uomo e l’animale, sono contraddistinti da energia, specie sessuale, inesauribile, esuberante, esagerata. Per soddisfare il loro implacabile appetito sessuale i satiri si uniscono a tutto ciò che vive, e perfino a ciò che è inanimato. L’asino è l’animale dionisiaco per eccellenza, il partner privilegiato dei satiri per la sua anatomia e lubricità, l’eccesso e l’indecenza. La vicinanza dei satiri agli asini testimonia una impudenza, una spudoratezza che non è dell’uomo libero, e dell’ideale classico: l’universo immaginario e selvaggio dei satiri gioca come un contro-modello. La glittica antica riflette il rilievo e la diffusione del culto dionisiaco, i profondi significati e valori iniziatici, grazie a sue componenti, quali l’energia vitalistica, l’edonismo, la natura irrazionale, l’egualitarismo (per uno sguardo sui satiri / sileni, e le figurazioni glittiche antiche, da ultimo Tassinari 2019, 85-86, dove bibliografia).
Ammirato, celebrato dai contemporanei, anche con scritti autorevoli, l’unico baccanale del quale abbiamo indicazioni tali da consentire una conoscenza precisa: l’intaglio di Giovanni Beltrami (1770-1854). In giacinto guarnaccino, realizzato nel 1832 per i fratelli Bartolomeo e Ferdinando Turina, di Casalbuttano (CR), facoltosi committenti e proprietari di varie gemme dell’artista, l’intaglio rappresenta Mercurio che consegna Bacco fanciullo alle Ninfe dell’antro Niseo, di Antonio Canova.
Nè il Beltrami si stette contento al mostrarsi imitatore, sebben l’imitare di questo modo raggiunga il merito della creazione. Egli ha voluto mostrarsi anche inventore, ed al suggetto che tolse a Canova, ne ha posto sotto un altro al primo allusivo, ed è un Baccanale, composto di ventiquattro figurine così leggiadramente aggruppate in piccolissimo spazio, e così distinte di forme e di azione, che l’occhio ne comprende ad un tempo l’assieme e tutti i divisamenti (Colla 1833, 189-190).
E la parte descrittiva della scena tratta dal Canova nell’articolo dedicato a questo intaglio dal professore Colla viene riportata dallo stesso Beltrami, in un suo prezioso libricino manoscritto (inedito; Archivio di Stato di Cremona, Ms 352), destinato a Bartolomeo Turina (16 aprile 1834), dove l’artista analizza le opere da lui eseguite per il mecenate, specificando fonti iconografiche e letterarie, difficoltà di realizzazione, sottintendendo la propria abilità. Infatti il Beltrami conclude rimandando al resto dell’articolo, se si desidera conoscere le difficoltà superate e i pregi dell’opera: meriti che all’incisore non compete affermare. Questo baccanale vanta l’onore di esser illustrato nel suddetto contributo, di una lettera altamente elogiativa, per l’originalità e “l’ardimento”, del conte Leopoldo Cicognara, e viene esaltato dal biografo entusiasta per l’esattezza del disegno, i gruppi delle figure, la grazia delle mosse (Meneghelli 1839, 15). E il contributo del Colla e il baccanale vengono menzionati da Defendente Sacchi, critico d’arte, giornalista e narratore, pubblicando un manoscritto autobiografico, che il Beltrami gli aveva mandato (Sacchi 1834, 251).
Il fatto che il baccanale sia una composizione di invenzione del Beltrami acquista un particolare valore, poiché le iconografie inventate costituiscono di solito una percentuale minima nel repertorio di un incisore: possono dunque essere motivo di orgoglio.
Nel numero esiguo di originali rimasti, in confronto alla copiosissima produzione del Beltrami, non rientra l’intaglio in esame, documentato solo nelle raccolte di calchi (Pirzio Biroli Stefanelli 2012, 320-321, n. 514; Genovese 2016, 170-171, n. 12). Perciò non si può pienamente apprezzarne il livello artistico; comunque la maestria dell’incisore è evidente nel raffigurare un soggetto complicato, nel riuscire a incidere in piccolo spazio numerose figure minute – tra le quali alcune analoghe a quelle del Berini, come Sileno (più giovane) a cavallo dell’asino o il fauno e la baccante nudi e abbracciati –, rendendo con abilità e precisione anche i dettagli.
Unicamente da un’impronta nella collezione conservata al Museo Civico Ala Ponzone di Cremona, la più cospicua e preziosa di opere del Beltrami, priva di spiegazioni e essenzialmente inedita, è attestato un altro baccanale dell’artista. Dioniso fanciullo nudo, semisdraiato, alza una coppa nella quale una menade nuda versa del liquido; in secondo piano un fauno e una baccante nudi e abbracciati; ai loro lati un fauno che tocca la spalla del compagno e un altro fauno che suona; chiude la scena un putto con un cesto sulla testa.
Non sono assolutamente paragonabili alla messe di informazioni esaminate per il Beltrami le situazioni che riguardano gli altri incisori. Nemmeno nel caso felice dell’orefice, incisore di pietre dure e di medaglie, Louis Siriès (circa 1686 - 1762), che scrisse un catalogo dei suoi lavori (Catalogue 1757), però privo di immagini. Dunque Siriès realizzò varie opere con soggetti dionisiaci: Bacco, e baccanti (figure intere e teste), due trionfi di Bacco (Catalogue 1757, 16, n. IX, 31, n. XLV), del primo dei quali Siriès sottolinea che è degno di esser evidenziato, perché lo zaffiro orientale su cui è inciso è una pietra dura e “ingrata” da lavorare, e le più di cinquanta figure della scena sono piccolissime ma assai distinte, realizzate con esattezza. Infatti le opere del Siriès erano ammirate per le composizioni affollate di personaggi microscopici e per l’abilità di incidere pietre tanto difficili da esser spesso rifiutate dagli incisori, come il lapislazzuli (per gli elogi nei confronti di Siriès che ha superato gli inconvenienti del lapislazzuli, Tassinari 2022a, 148). Proprio in lapislazzuli di grande qualità, con una placca in oro applicata al di sotto, Siriès eseguì il trionfo di Sileno, circondato da una corona di viti con grappoli (Catalogue 1757, 46, n. II). Anche nell’altro trionfo di Sileno spicca l’abilità tecnica dell’incisore: un cammeo in onice di tre colori lavorato a forma di tazza. Nel primo strato è inciso il trionfo di Sileno accompagnato da baccanti e animali; negli altri strati due vigne cariche di uva partono dalla bocca di un mascherone e si estendono tutto intorno alla tazza per riunirsi all’estremità opposta (Catalogue 1757, 34, n. VIII).
Nella collezione di migliaia di calchi e paste di vetro colorate dei famosi inglesi James e William Tassie, catalogata da Rudolf Erich Raspe, è presente il calco di una scena di processione con al centro Sileno in groppa all’asino, firmato da Siriès, del 1752, con le consuete piccole figure, che però non sembra corrispondere a nessuno dei suddetti trionfi di Sileno (Raspe 1791, 278, n. 4417).
Giovanni Antonio Santarelli (1758, 1759 o 1761-1826) illustre incisore, ceroplasta e medaglista, in un intaglio non rintracciato, apponendo la sua firma (Pirzio Biroli Stefanelli 2012, 129, n. 72), riproduce un altro intaglio inserito tra le opere del XVI secolo nella raccolta di calchi e matrici vitree dei Paoletti (Pirzio Biroli Stefanelli 2007, 321, n. 592). Questa scena presenta varie analogie con la nostra, quali Sileno a dorso dell’asino, la figura inginocchiata, maschile, che tiene una coppa in mano, figure stanti e incedenti, tra cui un fauno, con strumenti musicali e un tirso.
Un altro famoso incisore, Luigi Pichler (1773-1854), raffigura in un intaglio in sarda (51 mm), sotto le fronde di un albero, Sileno cavalcante ubriaco sull’asino, sorretto da un personaggio barbato, dal braccio alzato con un serto vegetale, accompagnato da altre figure: due satiri di cui si vede solo il busto, uno dei quali beve da una coppa nella mano e regge nell’altra una fiaccola, una baccante danzante con lira e tirso, e la consueta figura maschile inginocchiata, che versa liquido da un otre in una coppa tenuta in mano; nell’esergo brocca, tirso, pedum. L’intaglio è conservato al Metropolitan Museum di New York (inv. 20.80.1; https://www.metmuseum.org/art/collection/search/194606); è edita l’impronta (Lippold 1922, 183, tav. 112, 4) e nella relativa spiegazione della collezione Cades (libro 71, n. 745) viene data un’informazione basilare: copia di gemma antica.
Un intaglio in corniola (27 x 37 x 4,5 mm) con Sileno ubriaco sull’asino, satiri e baccanti con lire, flauti e timpani, firmato ΠΙΧΛΕΡ, e attribuito a Luigi Pichler, è conservato a Bucarest, al Gabinetto Numismatico dell’Accademia Rumena (Gramatopol 1974, 98, n. 787, tav. XXXVII). Però rimane il dubbio che sia un’opera del Pichler, come del resto già giustamente notato (Gasparri 1977, 33, nota 20).
Forse va inteso come un’allusione al conflitto tra amore carnale e virtuoso il gioiello realizzato da Nicola Morelli (1771-1838), inciso da entrambi i lati: da una parte un cammeo in corniola con Eros che guida un carro di leoni e dall’altra un intaglio con Cupido con tirso e strumento musicale, che conduce un asino su cui è Sileno che tiene nella mano alzata una coppa. La scena semplificata è chiaramente incentrata sul potere dell’amore (Multum in parvo 2019, 130-131, n. 73).
Anche sull’intaglio eseguito da Bartolomeo Paoletti (?) (1757-1834) il baccanale è ridotto a quattro figure: Sileno su un capro tirato da un satiro con pedum, una menade e un fauno che tiene un’anfora (Pirzio Biroli Stefanelli 2012, 318, n. 482).
Disperante, come sempre sottolineato e ripetuto, il preciso inquadramento cronologico nella glittica post-classica anonima, vastissima, articolata, pochissimo studiata ed edita, e persino talvolta non identificata. Scarsissimi i punti di riferimento sicuri, vaghe le datazioni; disponiamo di rari consolidati presupposti per un’adeguata collocazione delle gemme; non sono delineati i confini tra la produzione dei secoli XVI-XVII e quella dei secoli seguenti. Eloquente esempio le gemme qui presentate: quando datate, esse vengono in genere inserite tra le opere del XVI secolo. E si osserva che questo tema, e dunque tale tipo di composizione, incontra particolare fortuna nella glittica rinascimentale. Ma si tratta quasi di un luogo comune, un’affermazione ricorrente, presupposta, ma non suffragata da criteri ben determinati. Ciò premesso non va escluso che molte (?) di queste gemme siano davvero da collocare nel XVI secolo. Senza dubbio la glittica antica predilige del thiasos dionisiaco immagini del dio, di satiri e menadi singole o con due personaggi e animali.
Paradigmatico esempio degli interrogativi irrisolti il famoso, bellissimo intaglio in diaspro sanguigno, dove è rappresentato Sileno ebbro di vino, sostenuto per le spalle e per le gambe da due satiri e un fanciullo, accompagnato da vari personaggi, tra cui Baccanti che suonano; sullo sfondo un alberello, in basso capra, maschera e anfora. Conservato a Parigi (Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles), da una notevole collezione, quella di Pierre Antoine Rascas de Bagarris, antiquario e cimeliarca del re di Francia Enrico IV, diffuso nelle raccolte di calchi, gode di una fortuna dimostrata da intagli, disegni e placchette (Caylus s.d., tav. 161; Dolce 1772, 26, O2; Raspe 1791, 277, n. 4410; Chabouillet 1858, 323-324, n. 2338; Burns, Collareta, Gasparotto 2000, 244-245, 358, 521, n. 154; Pirzio Biroli Stefanelli 2007, 245-246, n. 548 (bibliografia essenziale)). Noto fin dal 1605, pubblicato e spiegato anche da Rascas de Bagarris, l’intaglio era creduto antico fin quando lo Chabouillet lo inserì tra gli intagli moderni imitanti l’antico. Un grande studioso – Ernst Kris – lo attribuì a Valerio Belli, detto Valerio Vicentino (circa 1468-1546), una personalità di primo piano, abilissimo incisore, orefice, medaglista (Kris 1929, 164, tav. 49, 210). Tuttavia la paternità del Belli resta congetturale, poiché l’intaglio si discosta dalle composizioni note dell’artista; i modelli antichi di riferimento possono aver svolto un ruolo vincolante.
Concludendo, di proposito si è preferito rinunciare ad addentrarsi in questioni non qui risolvibili, riportando solo la datazione del testo, quando presente.
Viene ritenuto uno dei pezzi più belli della collezione del Museo Correr, a Venezia, per la composizione armonica e l’esecuzione raffinata, il cammeo in onice (17 x 31 mm), datato al XVI secolo, con Sileno ubriaco sull’asino, sorretto da una menade, preceduto da un satiro che gli mette una corona sul capo e regge un corno, e da un faunetto che solleva un tamburello, e seguito da un altro satiro danzante con brocca in mano (Dorigato 1974, 32, 60, n. 100).
Invece al XVIII secolo è ascritto un intaglio in granato (11 x 13 mm), nello stesso Museo, con il corteo: Sileno sull’asino, una menade con cornucopia, un satiro che suona, un fauno che incorona Sileno (Dorigato 1974, 35, 63, n. 113).
Un superbo intaglio in onice della dattilioteca dei Medici, nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze, raffigura Sileno ubriaco sopra l’asino, con coppa in una mano e l’altra sulle spalle di un satiro con tirso, che lo sostiene reggendogli il ventre e poggia il piede su un kantharos; un’altra figura maschile barbata con un corno (o cornucopia) inghirlandato di edera, lo precede e si volge per incoronarlo; segue un altro giovane danzante con in mano un vaso e nell’altra la fiaccola (Tondo, Vanni 1990, 173, 206, n. 88).
Una gemma di una collezione prestigiosa come la medicea, diffusa nei testi (Lippold 1922, 183, tav. 111, 1) e nelle raccolte di calchi (ad esempio, Raspe 1791, 277, n. 4412; Pirzio Biroli Stefanelli 2007, 243, n. 509), si pone come modello di riferimento: così viene copiata, con qualche lieve variazione, in un intaglio in corniola (18 x 14 mm), assegnato al XVII-XVIII secolo, dalla famosa collezione Bessborough, passato in quella altrettanto famosa Marlborough, ora al Walters Art Museum di Baltimora (Marlborough Gems 2009, 181, n. 406). Va ricordato che l’eccellente e versatile incisore Lorenz Natter (1705 - 1763) descrisse e disegnò questo intaglio nel Museum Britannicum, una grande survey dei cabinets glittici britannici (Boardman, Kagan, Wagner 2017, 97, n. 160).
È lecito rimanga il dubbio sia l’intaglio fiorentino, malamente compreso e /o disegnato e riprodotto, o piuttosto un altro, il pezzo edito privo di indicazioni nel Recueil di Michel Philippe Lévesque de Gravelle, autore drammatico, amatore d’arte, disegnatore, incisore (Lévesque de Gravelle 1732, 21-22, n. L). Salomon Reinach lo ripubblica con le tavole del Recueil, fornisce le misure (26 x 22 mm), sospetta dell’antichità (Reinach 1895, 76, tav. 76, n. 50).
Viene pubblicato tra i post-classici l’intaglio in sardonice (20,3 x 25,2 mm) della collezione Sommerville, all’University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology, a Philadelphia, dove Sileno con tirso e corpo quasi reclinato sull’asino, è accompagnato da due satiri (di cui uno suona) e un fauno (Berges 2011, 188, n. 45, 191, fig. 97).
La figura accovacciata che tiene una coppa in mano, la menade che solleva una patera colma, del calco triestino, compaiono nella processione con Sileno in groppa all’asino, un’altra menade e un fanciullo in un intaglio in corniola (45 x 26,5 x 2,5 mm), del XVI-XVIII secolo, dalla collezione Wellcome, al Fitzwilliam Museum, Cambridge (Nicholls 1983, 48-49, n. 216).
Cortei bacchici sono ‘semplificati’ con tre-quattro figure essenziali quali Sileno ebbro, a dorso d’asino, fauni che suonano e baccante danzante, in un cammeo in agata (30 x 43,6 x 5 mm), datato al XIX secolo, in collezione privata (Vitellozzi 2017, 99, n. 47), e un altro in sardonice (27 x 34 x 6,8 mm), a Monaco, Staatliche Münzsammlung, ascritto intorno al 1800 (Weber 1995, 107, n. 115).
La collezione di calchi dei Tassie fornisce una serie numerosa di esemplari con questo tipo di thiasos dionisiaco con Sileno ebbro sull’asino, circondato dal suo corteggio, con una varietà e variabilità di personaggi maschili e femminili (e animali), di atti, pose, combinazioni, oggetti, attributi. Senza dubbio testimoniano l’ampio favore goduto dal soggetto, e la sua intensa circolazione.
Se tutti i calchi hanno come terminus post quem non il 1791, data di pubblicazione del relativo catalogo del Raspe, non si hanno ‘prove’ per fissare una cronologia circoscritta; non abbiamo molte informazioni e alcuni calchi sono del tutto privi di dati (Raspe 1791, 272, 276-277, nn. 4363, 4396-4397, 4399-4409, 4413, 781, nn. 15258-15259). È sembrato inutile disperdersi nel descrivere e commentare tale gamma di figurazioni; invece se ne sono selezionate alcune sulle quali concentrarsi. Va premesso che l’esattezza nella ricerca e nelle affermazioni è pesantemente menomata dalla situazione, giudicando unicamente in base a fotografie non sempre di qualità: talvolta rimane incerto riconoscere le gemme e identificare particolari e varianti.
Il primo caso da prendere in considerazione riguarda un intaglio in lapislazzuli, già della collezione Macgowan, ora di ignota ubicazione, con Sileno e vari personaggi incedenti, anche in atto di danzare e suonare, tra i quali la figura inginocchiata come nell’impronta triestina, scena che Raspe non considera antica e specifica trattata malamente (Raspe 1791, 272, n. 4363). L’esemplare appartiene alla cosiddetta “produzione dei lapislazzuli”, da manifatture probabilmente localizzate a Venezia e/o a Milano, del XVI-XVII secolo (per uno studio specifico, Tassinari 2010). Si tratta di una produzione vasta e molto copiosa, spesso di ordinaria esecuzione, da giustificare il commento di Raspe, sebbene dall’impronta non risulti assolutamente così scadente. Nell’ambito della produzione dei lapislazzuli si distinguono vari gruppi, a livello iconografico e stilistico, definibili come “insiemi”, “filoni”, con stretti scambi e influssi tra loro. L’intaglio Macgowan appartiene al gruppo classicistico, antichizzante, composto da pezzi che riecheggiano più o meno fedelmente, nella tematica e nello stile, modelli antichi o rinascimentali. Tra i soggetti classici, “all’antica”, pagani e religiosi, vi sono appunto le raffigurazioni bacchiche. Risultato interessante: l’esemplare costituisce uno dei pochi appigli cronologici sicuri e si può ascrivere ad una produzione studiata.
Il miglior modello di riferimento, che Berini aveva a disposizione facilmente attraverso calchi e repliche, si individua in un intaglio in corniola, di cui si ignora l’attuale ubicazione. La somiglianza è così forte nell’impostazione generale e nelle singole figure che a prima vista si potrebbe ritenere siano lo stesso esemplare. Vediamo le principali differenze. I partecipanti sono di meno; mancano le due menadi a bassissimo rilievo sullo sfondo dell’impronta triestina; a destra chiude la scena Eros, con le ali ben distinte, che poggia una mano sulla spalla del Sileno; più giovane, e senza corna e barba, il viso del satiro che abbraccia la baccante; il muso dell’asino è più distante da terra, il piatto con i rami di vite è meno ricco. Il calco è diffuso e presente in tutte le più note raccolte (Dolce 1772, 26-27, O7; Raspe 1791, 277, n. 4409 (che la definisce una buona incisione); Pirzio Biroli Stefanelli 2007, 67, n. 550) [Fig. 2].
Nel processo di popolarità che determina la produzione di serie di esemplari questa formula figurativa può presentarsi in ripetizioni fedeli dello stesso “archetipo”, oppure modificate da aggiunte, soppressioni, semplificazioni, completamenti, riduzioni nella qualità, rielaborazioni: repliche che partecipano della circolazione di tali schemi iconografici, diventandone veicolo.
La composizione suddetta è rappresentata in un intaglio in calcedonio che deve la sua fama al fatto di appartenere al cabinet del re di Francia, e di esser incluso nell’opera che aveva intenzione di pubblicare, con le gemme della collezione reale, un personaggio chiave come il versatile Anne-Claude-Philippe de Tubières, conte di Caylus, archeologo, collezionista, teorico, esperto di gemme, mecenate, e anche fecondo incisore che eseguì all’acquaforte numerosi soggetti. Per una serie di travagliate vicissitudini l’opera è incompleta, senza testo, con le tavole che recano il titolo del soggetto aggiunto dall’editore, in questo caso “Silene” (Caylus s.d., tav. 171). L’intaglio, attestato nelle collezioni di impronte (Dolce 1772, 26, O3; Raspe 1791, 277, n. 4397), definito dal Raspe una bella incisione, presenta la stessa scena, ma invertita e con sei personaggi sotto una vite: Eros incedente, Sileno sull’asino alza il braccio reggendo un drappo a conchiglia, la menade, il satiro che suona il doppio flauto, la donna accovacciata che beve dalla coppa, e un personaggio rivolto verso il centro della scena.
Ricalca, con qualche modifica, questo intaglio un altro in corniola, proprietà del Conte Mnizech, al quale Raspe dedica un insolito lungo commento, osservando che è una bella incisione (Raspe 1791, 276-277, n. 4396). Dopo aver spiegato il soggetto, lo studioso si sofferma sul fatto che la baccante ha un serpente nella mano, richiamando che ce n’era uno d’oro nella cista mistica di Bacco e, in accordo alle fonti, ai Baccanalia le macedoni erano coronate con edera, e anche serpenti d’oro intrecciati nei capelli. Molto probabilmente è di questo intaglio la matrice vitrea Paoletti inserita tra le opere del XVI secolo nella raccolta (Pirzio Biroli Stefanelli 2007, 67, n. 552).
La stessa scena, ma senza il personaggio volto verso il centro, figura in un intaglio in sardonice che si distingue nel panorama per il nome di spicco del suo proprietario (Raspe 1791, 781, n. 15258). Si tratta dell’inglese John Stuart, terzo conte di Bute (1713 - 1792), tutor e mentore del re Giorgio III, primo ministro, insignito di numerosi titoli e cariche, ricco e influente collezionista, di ampi interessi, un leader nel promuovere la vita intellettuale e artistica. Il nobile compì il suo tour in Italia nel 1768-71, acquistando quadri, statue, libri, vasi di pietra dura, disegni, nonché set di calchi di gemme, cammei in conchiglia e soprattutto opere di Giovanni Pichler (Tassinari 2015, 101-106).
Rispetto all’intaglio del re di Francia cambiano alcuni particolari – mancano la vite ed Eros; la baccante tiene un serpente in mano – in un intaglio in diaspro variegato della raccolta fiorentina, edito da una figura primaria, il fiorentino Anton Francesco Gori, erudito e antiquario, autore di opere - pietre miliari, anche per gli studi glittici (Raspe 1791, 277, n. 4399; Reinach 1895, 46, tav. 43, n. 91,1).
Replicano, con qualche variante, l’intaglio fiorentino due lavori di cui restano i calchi nella collezione del Tassie; del primo Raspe specifica che è un’eccellente incisione, del secondo la pietra, una corniola (Raspe 1791, 277, nn. 4400-4401).
È sempre la stessa scena ridotta a cinque personaggi con alcune modifiche, come lo strumento suonato dal fauno e l’oggetto tenuto dalla menade, in un intaglio in sardonice, documentato da un calco tra i lavori del ‘500; assai significativa l’aggiunta della firma con il nome di un famoso incisore antico, Gnaios (Cades, libro 61, n. 51).
Presumibilmente all’interno di gruppi omogenei nella collezione del Tassie di calchi del tutto simili o diversificati per varianti più o meno lievi, i “capofila” vanno localizzati nei pezzi più rilevanti e diffusi. Comunque non disdegnano queste scene glittiche personaggi illustri, come il terzo conte di Bute; e talvolta esse godono dell’attribuzione ad un maestro come Valerio Belli.
Il filo conduttore di quanto sinteticamente presentato attesta ciò che è già noto, ma non sempre tenuto abbastanza presente quando si sostengono facili conclusioni sulla paternità delle gemme, loro esecuzione, datazione e ambiente. Non è agevole districarsi nella trasmissione dei motivi iconografici, nell’intreccio delle interrelazioni tra gemme antiche, non antiche, copie, imitazioni, repliche, nuove creazioni: spesso è impossibile (e scorretta) una demarcazione netta. Possono servire di modello, fonte di ispirazione, perfino assunte come prototipi, gemme di incisori che hanno rivestito somma importanza, un ruolo chiave nel formarsi e diffondersi di iconografie e stili, come il Belli e l’emulo e rivale, figura altrettanto decisiva, Giovanni Bernardi da Castel Bolognese (1494-1553), incisore, orefice, medaglista. La reputazione, l’influsso esercitato, l’impatto delle loro opere, determinano una proliferazione di impronte e placchette, che le riproducono, copie e repliche: esse continuano a circolare, l’eco perdura nel tempo e nello spazio (sull’argomento, da ultimo Tassinari 2022b).
E accenniamo appena che il calco Cades con la firma di Gnaios testimonia un aspetto essenziale della frode del XVIII secolo: la gemma (falsamente) firmata aumentava di merito, valore e prezzo. Tra l’altro, questo sarebbe un buon indizio per ancorarla a quel secolo.
Tornando al calco triestino, si può specificare sia un promemoria figurativo, per facilitare al Berini l’esecuzione, sulla sua falsariga, di un proprio lavoro con un corteo bacchico con Sileno? Oppure è un modello divulgato, leggermente modificato dall’incisore, che realizza a sua volta un contributo nuovo?
Al fine di valutare l’attendibilità dell’attribuzione al Berini, sintetizziamo il suo rapporto con “l’antico”. Senza ripercorrere quanto risaputo, richiamiamo solo che egli è un protagonista in quella rigogliosa stagione per la glittica, quando gli incisori, nella competizione con gli antichi, si vantano di essere capaci di imitarli alla perfezione, produrre gemme credute antiche, e anche spacciarle come tali ad altissimo costo, rendendo tuttora non agevole discernere i veri pezzi classici. Nella vasta casistica del fenomeno dell’antico, da recepire, imitare, vivere, interpretare, trasformare, sono labili i confini tra ispirazione, dipendenza, copia, falso.
Portiamo solo un esempio emblematico. Pressoché tutti gli incisori del XVIII - prima parte del XIX secolo riprodussero il famosissimo intaglio comunemente noto come Medusa Strozzi, con la firma di Solone (ma alcuni studiosi la ritengono un’aggiunta settecentesca), diffusissimo attraverso pubblicazioni, calchi, paste vitree, ora al British Museum (Tassinari 2009, 86-89, dove repliche moderne e bibliografia). Nella raccolta triestina vi è un calco della Medusa Strozzi con firma ΣΟΛΩΝΟC (Tassinari 2009, 86-87, fig. 1), classica dimostrazione dell’ambiguità: è impossibile stabilire se esso sia tratto dall’intaglio originale o da una delle impronte circolanti oppure sia un’opera del Berini che, come altri incisori, lascia il nome di Solone e non vi appone il proprio. In tal caso Berini, in linea con tanti altri incisori, avrebbe consentito che le sue opere fossero scambiate per antiche.
E difatti, con un complimento sempre ripetuto per i migliori incisori, le fonti paragonano le gemme del Berini alle più belle antiche, tanto da essere credute antiche e trarre in errore anche gli intenditori. Lo stesso Zamboni fornisce convincente testimonianza: “Spesso il Berini, avendo inciso una gemma e trovata eccellente questa sua fattura (…) v’ebbe inciso un nome di antico artefice greco. E passava per greca” (Zamboni 1912, 252). E ancora: “Mostravami spesso impronte di antiche gemme greche, ovvero paste storiate, copie di gemme perdute, con minutissime figurine” (Zamboni 1912, 266). In tale prospettiva perfettamente rientra il calco in esame: l’iconografia è “antica”, in senso lato, rinvia ad un soggetto diffuso, che persiste nel tempo.
Comunque, non vi sono accuse né documentazione di alcun tipo che Berini abbia sfruttato a fini commerciali la sua abilità e sia stato responsabile o coinvolto in quelle lucrose truffe.
Quanto all’imagerie dionisiaca, entra più volte nel repertorio del Berini, seppur non sia altrimenti attestata una scena dall’impostazione così dinamica, fitta di creature legate al thiasos dionisiaco, dalla larvata connotazione erotica e dalla chiara manifestazione della bestialità dei satiri.
Un bellissimo busto di baccante, ad alto rilievo, firmato, è inciso su un cammeo in agata (2,9 x 2,1 mm), conservato a Vienna, al Kunsthistorisches Museum (Eichler, Kris 1927, 217, tav. 78, n. 618).
Invece dispersi sono un intaglio con Sileno calvo, barbato, nudo, seduto in riposo su una roccia (Cades Milano, contenitore n. 60, n. 972), una Baccante in groppa ad una leonessa (Cades Milano, contenitore n. 60, n. 985; Pirzio Biroli Stefanelli 2012, 308, n. 335; Tassinari 2018a, 81, fig. 14) e una figura femminile di profilo incedente con ampio panneggio velificante, diversamente chiamata ballerina (Cades Milano, contenitore n. 60, n. 973) o baccante, definizione più appropriata (Pirzio Biroli Stefanelli 2012, 288, n. 46).
Per meglio delineare quel quadro glittico milanese, in cui agisce il Berini, e senza forzare connessioni, non è fuor di luogo richiamare un elemento interessante riguardo ad un protagonista sulla scena lombarda: il versatile Giuseppe Bossi, che se ne intende di gemme, le commissiona, acquista, dona, vende, impiega come sigilli nelle lettere; è bene informato, come attestano anche fondamentali testi glittici nella sua eccezionale biblioteca. Nella sua consistente ed eterogenea collezione di gemme, antiche e moderne, totalmente dispersa, ricomposta virtualmente, sono elencati due Baccanali: in onice (probabilmente un cammeo) e in corniola (un intaglio), che dovrebbero datarsi al XVI secolo. E Bossi, in relazione con famosi incisori di pietre dure, mostra una certa dimestichezza con il Berini: sceglie di impiegarlo per eternare le proprie fattezze, sembra possedere più opere dell’incisore, si interessa di procurargli commissioni (Tassinari 2018a, 74, 79-82).
Alla luce di quanto esposto, è doverosa una posizione che lascia purtroppo insoluta la domanda della paternità del calco triestino. Se il Berini si è appoggiato ad un prestito “antico” per eseguire la sua opera, gli va comunque riconosciuta maestria e capacità inventiva, modificando il modello e creando un contributo nuovo, incisivo, che costituisce indubbiamente un apporto al repertorio glittico. Se invece il calco triestino testimonia una gemma dispersa, verosimilmente da collocare nel floruit di queste figurazioni, attesta una circolazione in periodi ben successivi alla sua creazione, nonché palesa predilezioni, gusto, scelte del Berini.
E in ultimo, va ancora e sempre ribadito che la complessa, poliedrica e problematica realtà glittica deve esser affrontata e studiata da una pluralità di prospettive, decifrata, ricomposta – talvolta solo parzialmente! –, senza l’illusione di poterla pienamente comprendere, né la pretesa di risolvere questioni. La chiave di lettura corretta non deve esser dettata da risposte azzardate, semplicistiche, assiomatiche, bensì unicamente a partire da un approccio prudente, che talvolta conduce a esegesi solo postulate, e non risolutive.
Ringraziamenti
Desidero esprimere i miei più vivi ringraziamenti per l’autorizzazione a pubblicare il calco del Berini, e per la costante disponibilità, a Marzia Vidulli, funzionario direttivo culturale, conservatore del Civico Museo d’Antichità J.J. Winckelmann di Trieste. Sono grata a Sveta Kokareva (Conservatore, Museo Statale dell’Ermitage, San Pietroburgo) per le sue informazioni sempre utilissime. Devo alla collaborazione e all’amicizia di Miriam Napolitano (Università degli Studi, Cagliari) la foto del calco [Fig. 2] dalla collezione di impronte di gemme, antiche e moderne, appartenuta all’archeologo sardo Filippo Nissardi (1852-1922), oggi custodita dagli eredi in Sardegna. La raccolta, inedita, è stata oggetto del dottorato di Miriam Napolitano: Dattilioteca Nissardi: Impronte di gemme nella collezione di Filippo Nissardi (Università degli Studi di Cagliari, a.a. 2017-2020).
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The glyptic context in which a unicum is placed is reconstructed: the cast of a dispersed gem, with a complex Bacchanalian procession representing Silenus drunk, seated on his ass, followed by Bacchants, Fauns and other figures, in the outstanding collection of impressions, without explanations, of intaglios and cameos of the famous engraver Antonio Berini (Rome, 1770 - Milan, 1861), kept at the Winckelmann Civic Museum of Antiquities in Trieste. The absence of a signature does not allow for a secure attribution to Berini, since this collection is a “work tool” of the artist, also with casts of gems by other engravers, and this Bacchic scene is rather anomalous and isolated in the ambit of Berini’s repertoire. Is it a model that Berini had at his disposal to facilitate the execution of his own work? Or is it one of his gems?
The glyptic is a very complicated, multifaceted reality, in an endless intertwining of relationships and transmission of iconographies, which circulate, in faithful replicas, or compositions diversified for more or less slight variations.
keywords | Antonio Berini; Intaglios; Cameos; Impressions; Bacchanalian; Trieste.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Tassinari, Una “festa” in gemma di Antonio Berini (?) al Civico Museo d’Antichità Winckelmann di Trieste, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 269-286 | PDF