"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Festa (riepilogo d’intenti)

Piermario Vescovo

English abstract

Émile Benveniste – ragionando sul fatto che “difficilmente due aggettivi in -to, con un’origine comune, si siano costituiti sullo stesso radicale” – distingueva e opponeva il dies fastus, il complessivo scorrere dei giorni “in cui si esercita l’attività dei magistrati e dei cittadini” (ovvero dei nostri ‘giorni lavorativi’), al dies festus, il giorno ‘festivo’ (Benveniste [1969] 2001, 385-386). Se l’etimo stesso di ‘festa’ si oppone a quello di ‘lavoro’, questa occasione, per il duecentesimo numero di “Engramma”, è da considerarsi festiva, e non solo per la cifra tonda che ‘chiama anniversario’, ma per il senso complessiva dell’intrapresa che sta dietro a questo raggiungimento, fatta di ‘lavoro’ ma in qualche modo ‘festiva’ perché caratterizzata da discontinuità rispetto al lavoro inteso nel senso della ‘routine’ e degli adempimenti dovuti, anche se cadenzata soprattutto nelle riunioni di redazione del mercoledì pomeriggio, giorno in ogni senso medio e non connotato, in nessuna tradizione, come dies festus.

Queste righe si giustificano in rapporto all’interesse per un oggetto, un’attività o una pratica, che presentano infatti un carattere di ‘quasi quotidianità’ nello spazio degli ultimi cinque secoli, ma in una dimensione riconducibile alla ‘festa’. Mi vengono in mente alcune righe, bellissime, che si leggono in un intervento di Ferdinando Taviani – sul quale vado da un po’ di tempo riflettendo, relativamente alla nozione in esso proposta di “mente teatrale” – che inquadrano appunto l’‘invenzione’ del teatro a pagamento nella seconda metà del XVI secolo, ovvero la professionalizzazione di una pratica, legandola all’apertura degli edifici adibiti allo spettacolo (Taviani 1988, 3-21). Scegliendo a campione esemplificativo la Londra elisabettiana, per un’evidenza di collocazione topografica dei teatri pubblici sull’altra riva del Tamigi che altre capitali europee non presentano, Taviani parlava appunto della fondazione di “luoghi chiusi” in cui, a pagamento, “si accendeva artificialmente e quasi quotidianamente il tempo allegro e lagrimoso della festa”. Di questa formulazione mi piace moltissimo, come ho premesso, in primo luogo il “quasi quotidianamente”, per il carattere dello spettacolo rispetto al tempo del lavoro e dell’occupazione, e, subito dopo, la sottolineatura dell’ambivalenza del tempo della festa, non solo allegro ma anche lagrimoso. La soglia storica opposta riguarda l’istanza, o diciamo pure il desiderio, sostanzialmente novecenteschi, pur con rilevanti e varie premesse, di uscita da questi ‘luoghi chiusi’ (dove la chiusura definisce evidentemente la separazione e delimitazione non la copertura di un tetto) e la riconduzione del teatro, il teatro del rito borghese, alla ‘festa’. Ne ho discusso intorno al mirabile saggio di José Ortega y Gasset intitolato Idea del Teatro (una abreviadura), che, nel 1946, elegge la sala ‘all’italiana’ nella sua eredità dai teatri antichi, a forma simbolica caratterizzante la cultura occidentale, ma nella contrapposizione della forma organica al paesaggio di rovine, fisico e morale alla fine della seconda guerra mondiale e, più in generale, all’hombre ruinado. Sono tornato ancora sull’argomento ristampando e scrivendo una postfazione a un testo rilevantissimo, fortunato e rappresentativo di un momento singolare per la creazione e la riflessione su questi temi come gli anni settanta del secolo scorso, ovvero La scena di Alessandro Fontana (Fontana [1972] 2019), per una definizione allargata, appunto, del theatron: luogo in cui si vede e si viene visti.

Un progetto dedicato a ‘festa e teatro’ coinvolge il sottoscritto e altre persone che danno vita all’attività di “Engramma” e ha già visto nel corso dell’anno precedente alcuni seminari e incontri dedicati al tema, a partire soprattutto dalla riflessione sulla categoria di “forme intermedie”, coniata da un Aby Warburg giovane e direttamente in italiano nel 1895. Una categoria principalmente ispirata a Jacob Burckhardt studioso della civiltà italiana del Rinascimento e delle sue feste, ma introdotta – in un saggio dedicato agli intermedi fiorentini del 1589 – a individuare un terreno appunto intermedio tra arte e vita, e non nel senso di un’evoluzione dalla festa verso le forme drammatiche regolari, ma anzi e piuttosto della resistenza di queste rispetto all’orizzonte che in tedesco si definiva, e a cui infatti Warburg fa riferimento in senso distintivo, della dramatische Kunst. Il prossimo numero di “Engramma” – il 201, a cura di Silvia De Laude e Monica Ferrando – sarà dedicato alla ‘conferenza terapeutica’ di Kreuzlingen del 1923 che si usa chiamare Il rituale del serpente, che compie, a propria volta, quest’anno un secolo, allo scopo di prendere le distanze dall’idea di un Warburg etnografo e antropologo. Il numero conterrà un mio piccolo contributo, che prova a ragionare sulla doppia raccomandazione che egli rivolgeva all’europeo del suo tempo, pregando lo spettatore che si immaginasse per procura presente agli intermezzi fiorentini del 1589 di non sorridere di fronte al carico eccessivo di segni simbolici e alla sovrabbondanza del ruolo della ‘sartoria teatrale’, impedendosi di penetrare il fondamento ‘non drammatico’ dello spettacolo e, similmente, in un recupero a distanza di molti anni dell’esperienza del viaggio americano (che data all’anno successivo a quello del saggio fiorentino) al testimone occidentale di non ridere di fronte alla povertà estrema degli accessori della ‘festa delle antilopi’ degli indiani Hopi. Chi ride o sorride – ecco il punto – si preclude, nell’uno e nell’altro caso, “la comprensione dell’elemento tragico insito in queste consuetudini”. Warburg recupererà solo più tardi – e con una significativa presa di distanza dalle suggestioni musical-wagneriane ed estetizzanti – un nesso con La nascita della tragedia di Nietzsche, riproponendo la questione nel senso dell’originale riferimeno a Burckhardt.

Possibilità/impossibiltà di comprensione della festa: mi viene da associare a tale indicazione un saggio di Furio Jesi, anzi la questione fondamentale in esso posta, che si intitola appunto alla Conoscibilità della festa, scritto nel 1977 per un’antologia (Jesi [1977] 2013). Si parla in esso, tra l’altro, di due movimenti dell’etnologo, da intendere nel senso ampio del termine: quello che, da una parte, si cala o tenta di calarsi in incognito, o si nasconde, nella ‘festa’ dei ‘diversi’ “come all’interno del proprio io”, dall’altra che cala i ‘diversi’ nella propria tradizione o nel proprio io. Due direzioni che si incrociano a quelle – nell’osservazione etnografica del lontano e del diverso – della ‘festa pacifica’ e della ‘festa crudele’, del ritrovarsi nelle prime nel senso di una creaturalità originaria, che trova appunto la sua epifania nella festa, e nell’osservare con turbamento l’appetenza feroce di sangue della festa del ‘selvaggio’, e così via. Questo in un quadro in cui la festa moderna dell’occidente si mostra depauperata, sia nel senso di riduzione alla festa folklorica, “priva di fatto di autentica qualità festiva”, che in quello della festa aristocratica, o della sua imitazione borghese, che rievoca il ‘buon tempo antico’ (quello, per esempio, in stile XVIII secolo, come notava Proust, percepito come un tempo collocato già sul limite estremo della ‘festa vera’), o addirittura una tradizione antifestiva del moderno, che la splendida immagine che Kerény, a proposito dell’impossibilità di accesso a tale dimensione, esprime nell’attitudine di chi osservi qualcuno danzare senza sentire la musica (o, addirittura, si potrebbe pensare, del danzare senza musica). Questo riguarda, più ampiamente, la questione di una ‘macchina antropologica’ (in rapporto alla ‘macchina mitologica’ di Jesi, ovvero a un dispositivo che produce mitologie generando l’illusione di nascondere il mito al centro delle proprie impenetrabili pareti; ma la questione appare troppo complessa per essere qui coinvolta, e basti l’indicazione della sua centralità assoluta in questo saggio, dove l’assenza del centro della ‘macchina’ riguarda non il mito ma l’epifania privilegiata dell’uomo universale nella ‘festa’ (si veda una puntuale interpretazione in Agamben 2005, 109-123).

Si permetta, infine, un richiamo al punto di partenza del saggio di Jesi, che individua con grande acutezza un passaggio breve, poco visibile quanto importante, in un testo di Benedetto Croce dedicato ad Angelo Conti e ad altri ‘estetizzanti’ in cui, a lunga distanza d’anni, egli sottolinea la definzione dello stesso in occasione dell’eruzione del Vesuvio del 1906 quale Festa del fuoco (Croce 1945, 191-192). In realtà Croce, mentre impiega l’esempio per definire l’enfasi di Conti ricordando il suo disappunto e turbamento – osserva Jesi – ne riformula la descrizione e ripropone in altri termini, oltre il titolo “gaudioso e ammirante”, questa identificazione, senza “sfoggio di combinazioni immaginifiche”, e riconducendola a un terreno storico. Se Conti evocava San Gennaro e il suo “sangue che bolle ancora, quasi fosse materiato della sostanza che si agita in grembo ai vulcani”, rivestendolo, secondo Jesi, “con qualche brandello della Nascita della tragedia di Nietzsche”, Croce connetteva diversamente “le strade di Napoli ingombre di greve cenere gialliccia”, le persone coperte dalla polvere, l’“enorme nero globo di cenere” incombente sul Golfo a “memorie della storia”, nel diverso nesso con le “paurose processioni salmodianti” della “plebe” napoletana di quei giorni. Un termine, quest’ultimo, che un lettore dei tempi seguenti troverà inappropriato, ma la cui storicizzazione, relativamente al suo uso nella prima metà del Novecento, può aprire a prospettive meno prevedibili del previsto. Si mediti, per esempio, al fatto che, oltre a definizioni come “cultura subalterna”, “cultura arretrata”, o al più neutro “cultura popolare” e simili, Ernesto De Martino impiegava inizialmente il termine di “plebi rustiche”, guardando al diverso, ma forse non troppo diverso, terreno tanto poco distante nello spazio quanto diversamente lontano nel tempo, quello appunto di esercizio di una “etnografia metropolitana” dell’Italia del Sud.

Mentre scrivo è apparsa una riedizione, curata e introdotta da Marcello Massenzio e Fabio Dei, de La terra del rimorso (De Martino [1959] 2023): vorrei ricordare qui anche quella del 2021 di Morte e pianto rituale, con un’introduzione utilissima dello stesso Massenzio, pure per una possibile messa in rapporto di De Martino con Warburg. Si permetta allora di riprendere brevemente quanto opportunamente meditata dai curatori, relativamente al richiamo in questo testo, che data al 1961, di Tristes tropiques di Claude Lévi-Strauss, che lo precede di pochi anni (Lévi Strauss 1955). De Martino – in una ricerca dedicata al tarantismo, alla sua sopravvivente osservabilità in una dimensione senz’altro festiva (la cui ‘scena’ era la cappella di San Paolo a Galatina, dal 28 al 30 giugno di ogni anno) – citava la domanda di fondo di Lévi-Strauss e la risposta ad essa, relativa alla persona che si fa etnografo andando in luoghi lontani e difficili. Una domanda non meno pertinente per luoghi la cui alterità si misurava non nello spazio ma nel tempo, da Campos Novos a Tricarico, e, più in generale, pertinente ad ogni déplacement da un ambito disciplinare individuato o da un campo di studi o applicazione. “Qu’est-on venu à faire ici? Dans quel espoir? À quelle fin?”. Basterà citare la prima risposta ripresa da Lévi-Strauss, che riguarda non le ragioni dello spostamento, ma la comprensione di sé avvenuta attraverso quell’esperienza:

Si l’Occident a produit des etnographes, c’est q’un bien puissant rémords devait le tourmenter, l’obligeant à confronter son image à celle de sociétés différentes dans l’éspoir qu’elles réfléchiront les mêmes tares ou l’aideront à expliquer comme les siennes se sont développées dans son sein.

E dal punto di vista di De Martino, attraverso l’esperienza allora ancora sopravvivente del tarantismo, degli “avanzi pagani” e dei resti nella “bassa magia cerimoniale” – ciò che per noi, a distanza di mezzo secolo, è diventata l’innocua e turistica ‘notte della taranta’ – per capire, anzi “per essere costretti a misurare le insidiate potenze della nostra modernità”, soprattutto nei suoi limiti e nelle sue dispersioni.

Riferimenti bibliografici
  • Agamben 2005
    G. Agamben, Sull’impossibilità di dire io. Paradigmi epistemologici e paradigmi poetici in Furio Jesi, in La potenza del pensiero, Vicenza 2005, 109-123.
  • Benveniste [1969] 2001
    É. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, II, Potere, diritto, religione, Torino 2001, 385-386.
  • Croce 1945
    B. Croce, La letteratura dell’italia unita, VI, Bari 1945.
  • De Martino [1959] 2023
    E. De Martino, La terra del rimorso, a cura di M. Massenzio e F. Dei, Torino 2023.
  • Fontana [1972] 2019
    A. Fontana, La scena, postfazione di P. Vescovo, Venezia 2019.
  • Jesi 2013
    F. Jesi, Tempo della festa, a cura di A. Cavalletti, Roma 2013.
  • Lévi-Strauss [1955] 2008
    C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, in Œuvres, Paris 2008.
  • Taviani 1988
    F. Taviani, Tre note, “Teatro e Storia” III, 1, 3-21.
  • Ortega y Gasset [1958] 1999
    J. Ortega y Gasset, Idea del Teatro (una abreviadura), in Ideas sobre el teatro y la novela, Madrid 1999, 59-96.
English abstract

Piermario Vescovo proposes here a brief reflection on an ongoing research project, linked to “Engramma” and to the people who give life to the impresa, dedicated to the party, in relation to Theatre and Dramatic Forms, without taking in consideration the idea of an evolution of the former, bringing into play Warburg's definition of “Intermediate Forms” for their relationship. 

keywords | Celebration; Dramatic Forms; Intermediate Forms.

Per citare questo articolo / To cite this article: P. Vescovo, Festa (riepilogo d’intenti), ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 355-360 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0080