Per il settantesimo genetliaco di Wilhelm Dilthey
Coscienza storica e verità filosofica
Giancarlo Magnano San Lio
English abstract
Guardando ai festeggiamenti da tenersi in occasione del suo settantesimo compleanno, Wilhelm Dilthey ha avuto modo di scrivere la bozza di un discorso, breve ma efficace, nel quale, cominciando con il richiamare – sebbene soltanto attraverso qualche cenno essenziale – alcuni snodi fondamentali della sua vita, ha di fatto finito per tracciare, in modo per certi versi suggestivo e, nello stesso tempo, significativo, una sorta di bilancio della propria riflessione storica e teorica [1]. Immaginando di rivolgersi a una circoscritta cerchia di allievi e amici, egli ha pensato di farlo utilizzando l’espediente della descrizione di un sogno effettivamente fatto, a partire dalla suggestione esercitata da una celebre opera d’arte, oltre dieci anni prima [2]: in tal modo egli poteva di fatto procedere a illustrare la continua e mai risolta dialettica storica che ha da sempre caratterizzato le diverse forme e manifestazioni del sapere filosofico. Come dire, cioè, uno dei caposaldi del suo intero Denkweg. Appare in qualche modo indicativo che egli abbia scelto di marcare l’occasione offerta dalla festa tentando in una qualche misura di coniugare la dimensione della fantasia onirica e letteraria con quella, più rigorosa e concettuale, ascrivibile a linee teoriche in qualche modo riepilogative del suo lungo, articolato e importante itinerario storiografico e speculativo [3].
In tale occasione, dopo avere ringraziato gli intervenuti, che lo “hanno rallegrato con questa bella festa”, rispetto alla quale egli stesso voleva evitare “ogni celebrazione ufficiale”, preferendovi, per così dire, il più “libero dono che scaturisce dal sentimento personale”, e dopo avere sinteticamente richiamato alcuni importanti momenti e figure della sua vita, alla quale attribuisce, “con gratitudine, molta felicità”, Dilthey accenna a uno degli eventi più rilevanti che hanno in qualche modo segnato la sua esistenza e per il quale egli stesso si è speso non poco, vale a dire “l’unificazione della nostra amata nazione tedesca e la più libera formazione dei suoi ordinamenti vitali”. Questo processo è stato accompagnato, per quel che riguarda la sua persona, da “un’attività indipendente nell’ambito più considerevole. Certamente noi professori nelle università abbiamo una magnifica professione!”. Di seguito, poi, l’immancabile riferimento a maestri (Trendelenburg, in primo luogo), interlocutori (soprattutto Yorck von Wartenburg) e allievi, ai quali egli ha “sempre guardato […] come miei amici”, dove ad apparire di particolare rilievo è l’atteggiamento critico-problematico che ha sempre rappresentato la cifra, essenzialmente storica, della sua filosofia, laddove, più che ai contenuti, sempre considerati nel loro costitutivo e ininterrotto divenire, occorre guardare alla profondità e alla consapevolezza dell’atteggiamento metodologico con il quale ci si accosta, ogni volta, ai medesimi:
Ho cercato di comunicare loro i metodi della ricerca – l’arte dell’analisi della realtà che fa il filosofo, il pensiero storico. Non ho nessuna soluzione per l’enigma della vita, ma la disposizione vitale, che è cresciuta in me con il meditare sulle conseguenze della coscienza storica, questo volevo comunicare loro.
Si evince con tutta chiarezza, dunque, come l’evento della festa costituisca qui l’occasione tanto per procedere a sobrie ed essenziali manifestazioni affettive e di grata riconoscenza quanto per muovere a riflessioni di indubbio spessore a proposito del senso e del significato della ricerca (e dunque dell’insegnamento) e della necessità di conferirvi, proprio per tali ragioni, una decisa e decisiva curvatura in direzione storica.
La narrazione, condotta attraverso il ricordo dell’esperienza onirica, se da una lato sembra ben rispondere al fermo dettato diltheyano teso a considerare l’‘uomo intero’ – che ‘rappresenta, sente e vuole’ – come una sorta di unità inscindibile nell’ambito della quale tutte le manifestazioni espressive trovano legittima cittadinanza, dall’altro rimanda alla necessità, a un tempo, di organizzare e di sistemare i risultati (considerati, però, in perenne divenire) ogni volta conseguiti dalla ricerca e di ritenerli, però, sempre storicamente condizionati, dunque soggetti a rivisitazioni e revisioni continue e talvolta persino radicali: “La forma sistematica è davvero indispensabile nell’ambito della conoscenza – essa è nello stesso tempo un limite” (Dilthey 1998, 341-342). Per questo egli intende, in definitiva, comunicare “poeticamente” “il sentimento della vita, che scaturisce dalla coscienza storica quando viene innalzata, nel pensiero, alla conoscenza della sua importanza”, ma sempre alla luce della maturata consapevolezza secondo la quale “ogni espressione di una qualche dottrina è troppo difficile e troppo fredda”. Ecco perché egli ritiene preferibile, almeno in questa occasione, rendere lo spessore e la profondità di quelle che certamente costituivano, a quel tempo, convinzioni teoriche di uno storico della filosofia di primissimo piano e oramai giunto alla piena maturità non tanto o non soltanto nella forma dell’argomentazione, per dir così, rigorosa e scientifica ma, piuttosto, muovendo dalle suggestioni esercitate da un’immagine e procedendo attraverso il resoconto del sogno che in una qualche misura ne era derivato.
Oltre un decennio prima Dilthey era stato ospite, come molte altre volte, nel castello di Klein-Oels dell’amico e studioso conte Paul Yorck von Wartenburg, con il quale le conversazioni filosofiche erano solite durare sempre fino a notte fonda. In tale occasione, prima di andare a letto, egli era rimasto “ancora a lungo in piedi, come già tante volte, davanti alla bella incisione di Volpato della Scuola di Atene” che campeggiava sopra il suo letto. Alla luce delle sue oramai ampiamente maturate e radicate convinzioni storico-filosofiche, egli poteva lì apprezzare “come lo spirito armonico del divino Raffaello ha placato in una pacifica conversazione la disputa tra i sistemi che si combattono su morte e vita”. Infatti, Dilthey si era già da tempo convinto della costitutiva storicità di ogni sistema filosofico (e non solo) e, dunque, della loro comune capacità di rappresentare la vita sempre e soltanto da punti di vista ogni volta differenti, il che, piuttosto che inficiare in senso scettico la validità di ciascuno, finiva, piuttosto, per sottolinearne la reciproca complementarietà, dunque l’inevitabile e persino necessaria convivenza storica così come - tra contrasti più o meno aspri e successivi, momentanei riavvicinamenti – si era di fatto sempre prodotta e manifestata. Era, questo, in fin dei conti, l’esito più maturo dell’opera corrosiva ma salutare esercitata dalla coscienza storica, dove il riferimento comune (vale a dire la molteplice e multiforme varietà degli individui che si sono continuamente posti, cercando di venirne a capo, di fronte all’enigma della vita) sembrava poter offrire adeguato e motivato rifugio rispetto a ogni pericolosa deriva scettico-relativistica e, d’altro canto, doveva anche rendere immediata e ineludibile la constatazione dell’effettiva improbabilità – nonostante i così tanti e diversificati tentativi di procedere in una tale direzione – di qualunque forma di verità da ritenersi, per così dire, ‘oggettiva e definitiva’, evenienza, questa, che rendeva di fatto impraticabile ogni eventuale e spesso agognato approdo a improbabili codificazioni sistematico-metafisiche.
Nell’immagine resa da Raffaello Dilthey immagina di vedere, seppur nei tenui confini della rappresentazione onirica, l’or ora richiamato, fondamentale e irrisolto tentativo di reciproco avvicinamento e di successivo riallontanamento da parte di prospettive filosofiche differenti e talvolta persino decisamente contrapposte:
Una pacifica disposizione è diffusa su queste leggere figure in relazione reciproca, disposizione che dapprima, nel crepuscolo della cultura antica, tentava di appianare i forti contrasti tra i sistemi e che, poi, era attiva anche nel rinascimento, negli spiriti più nobili.
Così, nell’affresco di Raffaello:
Le figure dei filosofi divenivano realtà. E da più lontano, da ampia distanza, vidi dalla sinistra del tempio dei filosofi una lunga serie di uomini in abiti diversi, dei secoli succedutisi, avvicinarsi. Ogni volta che uno mi passava vicino e mi volgeva la faccia mi sforzavo di riconoscerlo. Questo era Bruno, questo Cartesio, questo Leibniz, così molti altri come mi li ero rappresentati secondo i loro ritratti.
Dilthey rintraccia in queste figure (e in altre simili) un significativo e condiviso sforzo di aggregazione, di conciliazione delle rispettive dottrine, il che gli sembra, alla luce delle sue convinzioni, un dato fondamentale e che va dunque posto in evidenza: “E ora accadde qualcosa che perfino nel sogno mi meravigliò. Spinti avanti come da una forza interna, essi tentavano reciprocamente di riunirsi in un gruppo” (Dilthey 1998, 342-343). Si tratta, qui, di un primo gruppo di filosofi che, a partire da alcuni elementi di fondo in qualche modo rintracciabili – seppur per grandi linee – e comunemente condivisi, cercano, per così dire, di trovare sempre maggiori punti di aggregazione, un gruppo che Dilthey sostanzialmente identifica con i cosiddetti ‘naturalisti’ (qui da intendersi, però, in senso assai ampio e generico), cioè:
Coloro che fondano la loro spiegazione del mondo su una solida, universale natura fisica, che avanzano così dal basso verso l’alto, i quali vogliono trovare una spiegazione dell’universo causale e unitaria, a partire dalla connessione delle leggi di natura reciprocamente dipendenti e, così, subordinano lo spirito alla natura o, anche, limitano rassegnati il nostro sapere a ciò che è conoscibile secondo il metodo scientifico-naturale.
È, questo, uno dei tre gruppi fondamentali di filosofi che Dilthey, rileggendo la storia della filosofia in chiave critico-comparativa, crede di potere individuare e rintracciare – seppur mantenendosi sempre nell’ambito di una prospettiva esclusivamente storico-ermeneutica, dunque da considerare soltanto come provvisoria e da mantenere, per tale ragione, assolutamente al di fuori da qualunque codificazione sistematica e definitiva – lungo l’ampio corso della storia della filosofia.
Accanto a questi ‘naturalisti’ stanno, poi, quelli che Dilthey raggruppa (con la medesima prudenza critica ed ermeneutica di cui sopra) sotto la dicitura di “idealisti della libertà”:
E ora una nuova corrente spingeva verso il centro, dove si trovavano Socrate e la nobile figura di vecchio del divino Platone: entrambi hanno cercato di fondare il sapere di un ordinamento soprasensibile del mondo sulla coscienza di Dio nell’uomo.
Tra questi (e molti altri) a emergere è la figura di Kant:
Ma poi l’intero circolo si aprì quando si avvicino la delicata, leggermente chinata figura di Kant, con cappello a tre punte e bastone a gruccia, i tratti irrigiditi come nella tensione del pensiero – il grande che ha innalzato alla coscienza critica l’idealismo della libertà e l’ha così riconciliato con le scienze empiriche (Dilthey 1998, 343).
Questi filosofi – senza per questo ignorarne le differenze specifiche – vengono caratterizzati, rispetto al primo gruppo, per il comune tentativo volto a riaffermare la sostanziale preminenza dello spirito (comunque lo si declini) rispetto alla natura, sebbene per lo più guardando pur sempre al complicato tentativo di conciliare tali dimensioni, comunque rilevanti, della vita e del mondo.
Infine, un terzo gruppo di filosofi è costituito dai rappresentanti di quello che Dilthey definisce “idealismo oggettivo”, vale a dire da chi si riconosce nell’idea dell’esistenza di una forza unitaria che, comunque declinata, abita l’universo in maniera pervasiva e diffusa, e dunque lo connota in modo precipuo. Egli vede, dunque, che:
Ora, anche a sinistra si riunivano intorno a Pitagora ed Eraclito, che dapprima hanno contemplato la divina armonia dell’universo, intellettuali di tutte le nazioni. […] Tutti annunciatori di una divina, spirituale, ovunque diffusa forza nell’universo, che abitando in ogni cosa e in ogni persona, agisce in tutto secondo le leggi di natura: così che all’infuori di essa non c’è nessun ordinamento trascendente e nessun ambito proprio della libertà di scelta.
I tre gruppi così individuati sembrano esercitare reciprocamente un movimento continuo di avvicinamento e, immediatamente dopo, di allontanamento, il che vuole significare la consistenza nel contempo unica e diversificata del pensiero filosofico guardato nel suo concreto evenire storico, e dunque la convinzione ultima dell’intera speculazione diltheyana, costantemente tesa a rilevarne, alla luce dell’inesorabile lavoro della coscienza storica, le evidenti somiglianze così come, d’altro canto, le differenze precipue:
Ma invano i mediatori tra questi gruppi correvano affacendentamente qui e lì – la distanza che separava questi […] gruppi aumentava ogni secondo – ora spariva lo stesso terreno tra loro – sembrava separarli un enorme, ostile estraniamento – mi assalì una strana angoscia, che la filosofia sembrava esser lì tre volte o forse ancora più volte – l’unità della mia propria essenza sembrava lacerarsi perché ero spinto appassionatamente ora verso questo ora verso quel gruppo, e tendevo a sostenerli. E sotto questo ergersi delle mie idee il velo del sonno divenne più sottile, più leggero, le figure del sogno impallidirono, e mi svegliai (Dilthey 1998, 344).
E qui Dilthey, procedendo a confrontare le visioni del mondo filosofiche a partire da queste tre tipologie fondamentali (così come esse si sono rivelate a fronte del lavoro comparativo compiuto dalla coscienza storica), ricorda la loro originaria parentela (seppur con le dovute differenze specifiche) con le altre due forme fondamentali di Weltanschauungen, vale a dire l’artistica (specie nella forma poetica) e la religiosa. Tutte e tre, infatti, da sempre tentano di assolvere al compito, per l’essere umano assolutamente urgente e ineludibile, di cercare di comprendere quanto più possibile della vita e del mondo: “Questo […] smisurato, incomprensibile, imperscrutabile universo si riflette in modo vario nei profeti religiosi, nei poeti e nei filosofi”. E tutto questo avviene – ed è, certamente, il dato essenziale dell’intero argomentare diltheyano – in modo storicamente determinato, il che finisce per escludere, inevitabilmente, qualunque pretesa di validità universale:
Essi sottostanno, tutti, alla potenza del luogo e del momento. Ogni visione del mondo è storicamente condizionata, quindi limitata, relativa.
Tale condizione, se da una parte sembra legittimare “una spaventosa anarchia del pensiero”, dall’altra, invece, agisce, in modo assai più avveduto e, per così dire, costruttivo, sostenendo ed alimentando la funzione critica e problematica della comprensione storica e, dunque, rendendo di fatto plausibile ogni manifestazione culturale umana (quindi anche le diverse forme di Weltanschauungen), purché intese e considerate sempre alla luce di tale ineludibile prudenza ermeneutica:
[…] Le visioni del mondo sono fondate nella natura dell’universo e nella relazione dello spirito finito, che fa opera di comprensione, con le stesse. Così ognuna di esse esprime, nei nostri limiti di pensiero, un aspetto dell’universo. Per questo ognuna è vera. Ma ognuna è unilaterale. Ci è negato di guardare insieme questi aspetti. La pura luce della verità è visibile, per noi, soltanto in diversi raggi spezzati.
Si tratta, dunque, di una più attenta e rinnovata concezione storica della verità, laddove essa risulta sempre e comunque in qualche modo relativa, senza che questo autorizzi, però, esiti scettico-relativistici, dal momento che di essa si possono cogliere i molteplici, pluriformi aspetti che, con tutta evidenza, emergono dalle diverse prospettive storiche. Ciò che, nell’ambito di questo originario, costitutivo e ininterrotto tentativo che l’uomo persegue per cercare di comprendere se stesso e l’universo nel quale si trova a insistere, sembra differenziare la filosofia dalla altre forme di visione del mondo è la pretesa di raggiungere (è, questo, il senso ultimo delle ripetute contraddizioni che emergono dalla considerazione comparativa dei diversi sistemi filosofici che si sono avvicendati, con alterne vicende e prevalenze, nel corso dei secoli) una forma di validità universale quanto più ampia e condivisa, ed è proprio tale pretesa – se non viene opportunamente rivisitata e radicalmente reinterpretata alla luce delle evidenze raggiunte dalla coscienza storica – a determinarne, in definitiva, il sostanziale fallimento, al cospetto della reale impossibilità, storicamente appurata, di potere definitivamente affidare ad una qualunque sistema filosofico una verità per una qualche ragione considerata ‘oggettiva’ ed esaustiva:
La filosofia mostra un duplice volto. L’inestinguibile istinto metafisico procede alla soluzione dell’enigma del mondo e della vita, in ciò i filosofi sono collegati con i religiosi e con i poeti. Ma il filosofo si differenzia da questi quando vuole risolvere questo enigma per mezzo del sapere universalmente valido. Oggi quest’antico legame si deve per noi risolvere (Dilthey 1998, 345).
La reale – continuamente constatata in sede storica e storiografica – impossibilità di raggiungere, all’interno di qualunque sistema filosofico (ma non solo), verità e certezze assolute si lega direttamente, d’altra parte, con la non meno radicata convinzione diltheyana secondo la quale non è possibile identificare tout court l’essere umano – ora inteso, però, nella sua complessa e complicata interezza – con la dimensione, per così dire, della pura ragione logico-gnoseologica, dal momento che, in realtà, questi appare assai più ricco e composito, e, dunque, degno di ben altra e più ampia considerazione:
Al di la di questo sapere universalmente valido stanno le questioni che riguardano la persona, che certamente, alla fine, di fronte alla vita e alla morte è sola per se stessa. La risposta a queste questioni è soltanto lì, nell’ordinamento delle visioni del mondo, che esprimono la multilateralità della realtà per il nostro intelletto in diverse forme, che rimandano a una sola verità. Questa è inconoscibile, ogni sistema si perde in antinomie.
Sono, questi, in definitiva, gli esiti ultimi del lavoro compiuto dalla coscienza storica, un lavoro decisivo che permette di liberare l’uomo da tante false illusioni, senza per questo privarlo, però, di rassicuranti riferimenti e di una qualche certezza, purché concepiti e mantenuti al di fuori da qualunque pretesa universalistica assoluta e esclusiva:
La coscienza storica rompe le ultime catene che filosofia e ricerca della natura non potevano spezzare. L’uomo sta ora qui completamente libero. Ma essa salva, nello stesso tempo, nell’uomo l’unità della sua anima, lo sguardo a una connessione delle cose sebbene imperscrutabile tuttavia manifesta per la vitalità della nostra essenza. Vogliamo venerare serenamente una parte di verità in ognuna di queste visioni del mondo. E se il corso della nostra vita ci porta vicino soltanto singole parti della connessione imperscrutabile – quando la verità della visione del mondo che esprime questa parte ci coglie in modo vitale, allora noi possiamo abbandonarci tranquillamente a questo: la verità è presente in tutte loro.
In occasione della festa concepita per i suoi settant’anni Dilthey riassume così, dunque, in poche parole, quello che – seppur qui soltanto per grandi linee e in modo fin troppo schematico - può essere in qualche modo considerato l’approdo della sua complessa e articolata riflessione teoretica e storiografica, e lo fa utilizzando (e non è un caso, anche considerando la difficoltà del tema affrontato, ma non solo per questo) una forma di descrizione, per dir così, onirica e letteraria, cioè “in modo approssimativo, a dire il vero soltanto come uno che sta vegliando tra sogno e sogno” (Dilthey 1998, 346), e comunque sempre ben consapevole che in quelle figure “si esprimeva […] la beatitudine di una libertà e di una vivacità dell’anima superiori”. Tale ordine di ragioni sembra poter rendere possibile – afferma il filosofo di Biebrich, rivolgendosi agli eventuali partecipanti alla suddetta festa – “aspirare alla luce, alla libertà ed alla bellezza dell’esistenza”, ora guadagnate proprio in ragione di una maggiore e più avveduta consapevolezza rispetto alla costitutiva storicità dell’umano, se è vero che non si può “procedere con un nuovo inizio, respingendo il passato” ma occorre “portare con noi in ogni nuova casa i vecchi dei”. È la cifra ultima, se si vuole, dell’esercizio della coscienza storica, e, dunque, dell’intero argomentare diltheyano, capace di guardare innanzi senza per questo ignorare il passato, piuttosto assumendolo in modo critico e problematico, dunque raccogliendo e legando l’evenire storico delle diverse individualità concrete lungo un filo rosso in qualche modo unitario ma pur sempre segnato, però, da inattesi ripiegamenti, da infinite svolte e da rilevanti passaggi mai definitivamente assunti e risolti:
Che cos’è l’uomo glielo dice soltanto la sua storia. Invano altri gettano dietro di sé l’intero passato per iniziare, per così dire, con la vita liberi da pregiudizi. Essi non sono capaci di respingere ciò che è stato, e gli dei del passato diventano per loro fantasmi. La melodia della nostra vita è condizionata dalle voci accompagnatrici del passato. L’uomo si libera dal tormento del momento e dalla fugacità di ogni gioia soltanto con l’abbandono alle grandi potenze oggettive che la storia ha prodotto. La riconciliazione della personalità sovrana con il corso del mondo è abbandono a esse, non alla soggettività dell’arbitrio del godimento (Dilthey 1998, 347).
L’occasione della festa permette, dunque, di ricomporre, attraverso la raffigurazione onirica suscitata da una ben determinata e significativa immagine, affetti e teorie, sentimenti e pensieri, rileggendoli costantemente, ora, nell’assai più realistica e convincente prospettiva dell’‘uomo intero’, che a un tempo ‘rappresenta, sente e vuole’: che Dilthey abbia scelto di condensare (anche) in così pochi ma efficaci passaggi ricavati dalla suggestione onirica e resi attraverso la rammemorazione letteraria segmenti in qualche modo portanti della sua straordinaria riflessione storico-filosofica non può che apparire, qui, anche alla luce della sua copiosa e articolata produzione scientifica, di sicura rilevanza e di evidente significato complessivo.
Note
[1] Si tratta del breve abbozzo, significativamente intitolato Sogno, ora raccolto in W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo, in Id., La dottrina delle visioni del mondo. Trattati per la filosofia della filosofia, a cura di Giancarlo Magnano San Lio, Napoli, Guida, 1998, pp. 341-347 (tale libro costituisce l’edizione italiana del volume VIII delle Gesammelte Schrfiten diltheyane: Weltanschauungslehre. Abhandlungen zur Philosophie der Philosophie, a cura di B. Groethuysen, Stuttgart/Göttingen, Teubner/Vandenhoeck & Ruprecht, 1931).
[2] Qui il riferimento è a una nota incisione di Giovanni Volpato (1740-1803) raffigurante il celebre affresco di Raffaello intitolato La scuola di Atene.
[3] In questa breve nota celebrativa mi soffermerò brevemente soltanto sullo scritto diltheyano or ora ricordato, evitando, per ovvi motivi, qualunque ulteriore riferimento critico-bibliografico di e su Dilthey e rimandando, per eventuali approfondimenti, all’ampia e nota letteratura critica già disponibile, oltre che ai molti luoghi nei quali, a un tale riguardo, ho già ampiamente detto.
Riferimenti bibliografici
- Dilthey [1931] 1998
W. Dilthey, La dottrina delle visioni del mondo, in G. Magnano San Lio (a cura di), La dottrina delle visioni del mondo. Trattati per la filosofia della filosofia, Napoli 1998. - Magnano San Lio 2000
G. Magnano San Lio, Filosofia e storiografia. Fondamenti teorici e ricostruzione storica in Dilthey, Soveria Mannelli 2000. - Magnano San Lio 2005
G. Magnano San Lio, Forme del sapere e struttura della vita. Per una storia del concetto di Weltanschauung. Tra Kant e Dilthey, Soveria Mannelli 2005. - Magnano San Lio 2013
G. Magnano San Lio, Philologie, Anthropologie und Geschichte: Dilthey und Usener, in G. D’Anna, H. Johach, E.S. Nelson (a cura di), Anthropologie und Geschichte. Studien zu Wilhelm Dilthey aus Anlass seines 100. Todestages, Würzburg 2013, 369-386. - Magnano San Lio 2017
G. Magnano San Lio, Per una filosofia dello storicismo. Studi su Dilthey, Soveria Mannelli 2017. - Magnano San Lio 2020
G. Magnano San Lio, Dilthey e la filosofia della cultura, in R. De Biase, G. Morrone (a cura di), La filosofia della cultura. Genesi e prospettive, Napoli 2020, 45-71. - Magnano San Lio 2020
G. Magnano San Lio, Umanità e storia. Considerazioni antropologiche e contaminazioni culturali nel giovane Dilthey, Acireale/Roma 2020.
English abstract
The essay reconstructs some important ideas of Wilhelm Dilthey’s historical-philosophical conception starting from the narration of a dream he himself planned for the celebrations for his seventieth birthday. The essential value of his Weltanschauungslehre is highlighted, i.e. the complex and prospective sense of every form of knowledge and the essentially historical meaning that characterizes them all. The party thus becomes an occasion for a narrative in which imagination and reality continually overlap to celebrate the complexity of life, understood in its essential historical connotation and within which the philosophical truth takes on a strongly renewed, critical and problematic meaning.
keywords | Dilthey; Imagination; Reason; History; Philosophy; Life.
Per citare questo articolo / To cite this article: G. Magnano San Lio, Per il settantesimo genetliaco di Wilhelm Dilthey Coscienza storica e verità filosofica, ”La rivista di Engramma”, n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 51-58 |PDF