Dopo lo spettacolo Solone gli rivolse la parola e gli domandò
se non si vergognava a raccontare tali fandonie davanti a tanta gente.
Tespi replicò che non c’era niente di male a dire e a fare tali cose per divertimento,
e allora Solone, colpendo violentemente col bastone a terra, esclamò:
“Ben presto certo, a furia di lodare e apprezzare così questo divertimento,
ce lo troveremo negli atti pubblici e nei trattati”.
Plutarco, Vita di Solone 29-7[1].
Hortus conclusus
La condizione attuale è tale da imporci una maschera obbligata al sorriso, una bocca eternamente aperta da un orecchio all’altro, come quella che Hugo fissò per sempre al suo Homme qui rit e che Todd Philips offerse a Joker, poiché non c’è più nulla di divertente, nonostante l’arte si affanni a produrre continui distoglimenti dalla presente tragedia.
Ne è testimonianza ciò che è avvenuto durante l’esposizione dell’ultima Biennale di Venezia (improvvidamente intitolata al Latte dei sogni) riguardante la decisione degli artisti russi di ritirare le loro opere in segno di dissenso con la scelta militare del loro paese. La decisione operata dagli artisti russi, che è stata accettata acriticamente dalla Biennale, assume una enorme importanza non solo politica ma anche etica e culturale, tuttavia quasi del tutto sottaciuta dai media, e la Biennale ha perso una grande occasione per esprimere, con il suo peso internazionale, una scelta di campo: non una opzione ideologica in favore di Putin o di Zelensky ma una presa di coscienza contro la guerra in sé, che cambia l’orizzonte degli eventi in cui l’arte si confronta con tutta la sua pesante responsabilità.
Il grande circo della Biennale, senza nulla togliere all’importanza di alcuni singoli artisti, ha chiuso le tende, lasciando sul terreno un grande cerchio bianco, quel cerchio bianco che in Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders testimonia della fine del tempo dei giochi: l’angelo vuole tagliarsi le ali per capire il mondo e la artista del trapezio vuole solo librarsi nel cielo, metafora che si presta ad esprimere i vani volteggi delle avanguardie.
Il ritiro degli artisti russi, motivato dal dissenso nei riguardi dell’aggressione del loro paese all’Ucraina, ha posto un problema di enorme gravità, cui la grande esposizione universale non ha voluto dare risposta: nel tempo della guerra è ancora possibile ‘fare arte’? Per paradosso la principale funzione dell’arte dovrebbe essere quella di fare essa stessa guerra, nella sua funzione di avanguardia vigilante e critica sullo ‘stato delle cose’.
La scelta operata dagli artisti russi, che si connota dunque come una sorta di operazione critica che ha utilizzato l’arte contro la guerra facendole guerra, non ha avuto conseguenze. E allora dobbiamo porci la domanda: perché i poeti non riescono a cambiare il mondo, interrogativo posto da Heidegger nel suo discorso del 1926 e che oggi, “nel tempo della povertà”, fosco come quello che il filosofo tedesco preannunciava, si fa altrettanto cruciale [2].
Da un punto totalmente opposto alla formulazione di Heidegger, Wittgenstein si era domandato se l’essenza dell’arte non fosse altro che “vedere il mondo con occhio felice”, facendo proprio un verso schilleriano, “seria è la vita, allegra è l’arte” [3]. Wittgenstein, attribuendo dunque all’arte una precisa funzione di divertimento, nel senso di una attività diversiva dalle tragedie del mondo, si poneva con voluta provocazione anche agli antipodi del noto pensiero di Hegel, e che Adorno aveva invece posto in esergo alla Filosofia della musica moderna: “Nell’arte non abbiamo a che fare con un gioco meramente piacevole o utile, ma con un dispiegarsi della verità”[4].
Ipotizzare un tempo fausto è nel cuore di ognuno. Nondimeno temo che tutti i compagni di questo virtuale simposio, hortus conclusus di una reificata Castalia [5], vivano lo stesso mio profondo disagio. Scampiamo alla peste, alla guerra e al fascismo occupando una TAZ, una zona temporaneamente autonoma, dandoci alla parola [6]. Alain Badiou, riprendendo una riflessione di Adorno, sosteneva che il fare arte e musica dopo Auschwitz diventa impossibile, irriguardoso e offensivo o, quanto meno, non commensurabile con l’entità del male e della sua eterna eredità. Oggi, durante la terza guerra mondiale, è ancora possibile avere animo gioioso? Sul tema dell’arte e del suo rapporto con la situazione attuale ho più volte parlato: nel tempo di guerra è impossibile ‘fare arte’; non solo: è impossibile cantare l’orribile refrain de LaVita è bella. Il giorno della memoria, che stiamo in queste ore rievocando e reificando, si intreccia con il terrore del domani, passato e futuro accostati dal medesimo sonno della ragione.
Il grande gioco
Non ci rimane, al momento, che lavorare all’interno del linguaggio: delle parole, e non tra le cose. Abbiamo perso la speranza di incidere concretamente sulle forze politiche che governano il mondo in maniera sempre più autoritaria. Non dobbiamo, proprio per ciò, essere impolitici: è in questione la fondazione di una nuova idea di politica che faccia riferimento a pochissimi elementari principi di cui ci siamo dimenticati, libertà, uguaglianza e fraternità. Adorno aveva, assieme ad Horkheimer, lanciato, in Dialettica dell’illuminismo, una terribile profezia: quando anche tutto sarà finito (“quand’anche scomparisse definitivamente il fascismo”) non è detto che uno spirito di libertà debba diffondersi sull’Europa e che le sue nazioni possano diventare non meno xenofobe e meno anticulturali di quanto non si sia già manifestato negli anni della tragedia nazifascista.
Cacciari in Krisis aveva a suo tempo perfettamente dimostrato la tragedia della sparizione del politico, ovvero della pratica materiale del fare sociale, da parte delle avanguardie: il loro ritrarsi nel puro linguaggio dimostra che dire non è possedere le cose, che il nome e l’immagine non sono che ciò che resta, ciò che sopravvive. Capiamo finalmente ciò che aveva dannato Faust nel suo intento di capire la vita e il reale smettendo di rovistare nelle parole [7]. Parafrasando Rilke, cui Cacciari dedica pagine intense, la Terra non rimane che come memoria [8].
Uno spettro infernale si aggira per l’Europa e per il mondo. E i fantasmi, come si sa, si formano nelle menti predisposte a ospitarli. All’armi, son postfascisti, già s’intitolava, vent’anni or sono, la serie di splendidi contributi contenuti nel numero 18 di “Alfabeta2” [9]. Per una non casuale coincidenza, l’allegato della rivista conteneva la riedizione del lontano primo numero del maggio 1979, in cui il primo testo, immediatamente celebre, era il saggio di Umberto Eco, La lingua, il potere, la forza, che rianalizzava il pensiero di Foucault (soprattutto di Sorvegliare e punire) chiosando una magistrale leçon di Barthes. Sono passati alcuni decenni e la cultura di dominio si è estesa in tutti i paesi del mondo [10]. Siamo chiamati ad un difficile compito: dichiarare la caducità del nostro sforzo intellettuale di fronte al Potere, maschere condannate a fingere un riso che nasconde le lacrime. Fingiamo che nulla di tragico e catastrofico stia avvenendo – oggi che sto chiudendo questo testo è il 24 gennaio 2023, undici mesi dall’inizio della terza guerra mondiale – e che affrontiamo con totale indifferenza e irresponsabilità. Ma è proprio la questione di questa ennesima crisi della ragione che dobbiamo nuovamente indagare.
Un mondo ‘senza ragione’: la fine dell’Europa e dell’Occidente, che porta nel nome il destino della sua fine, si sta svolgendo sotto i nostri occhi. La ragione si è corrotta lungo il tempo del secolo breve e negli ultimi decenni non è avvenuta alcuna elaborazione di progetti teorici di razionalità filosofica [11]. Questa tensione verso la ‘verità’, che chiama l’artista ad opporre la sua ‘immagine’ del mondo ad un mondo già trasformato in immagine, dimostra come l’arte debba affrontare un mondo nel quale – per utilizzare la splendida parafrasi marxiana di Debord – tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli [12]. Rileva acutamente Agamben, in alcune glosse in margine ai Commentari di Debord, che non solo tutto ciò che lì vi era stato previsto si è verificato, ma che ormai “la sostanziale unificazione di spettacolo concentrato (le democrazie popolari dell’Est) e spettacolo diffuso (le evanescenti democrazie occidentali) nello spettacolo integrato” è ora di un’evidenza immediata. Verità e falsità sono diventate interscambiabili e la realtà si legittima solo attraverso lo spettacolo [13].
A partire dal Barocco, quindi nel corso del Settecento e infine a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso abbiamo assistito ad un processo di progressiva sovraesposizione dello spettacolo sulla realtà e sulla vita in cui la crisi della ragione è stata vissuta come un ‘grande gioco’ con cui poter convivere. È soprattutto nel Settecento che le contraddizioni culturali e politiche diventano irreversibili. Tra tutti i testimoni di quel rivolgimento storico l’artista che meno parrebbe indicativo per esprimerne la complessità è certamente Giambattista Tiepolo, ma non l’autore dei grandi affreschi celebrativi, bensì il meno noto disegnatore di una serie di incisioni intitolate agli Scherzi e ai Capricci [14], in cui, sotto forma di sciarade, si nascondono chiavi per comprendere l’altro volto della festa in maschera, ovvero di una dimensione totalizzante di esteticità diffusa, di cui Venezia è diventata la regina morente.
Anche nel tempo attuale è necessario che l’arte, concepita come uno strumento critico non diversivo, permetta di opporsi al progetto politico di anestesia della realtà. Segnali di ricerca di realtà, che si manifestano oggi nella nuova coscienza antagonista (di bande, organizzazioni, attivisti), come quelli che si sono manifestati nell’ultima edizione di “Documenta” a Kassel, immaginata dal collettivo di Jakarta ruangrupa, lascino presagire l’inizio di una volontà di smascheramento degli inganni.
La dolce vita
È dunque nel Settecento, il secolo dei lumi, che il conflitto tra ragione e spettacolo diventa paradigmatico. La posizione di un artista come Giambattista Tiepolo, seguito nella medesima strada dal figlio Domenico, è stata quella di rappresentare l’inconciliabilità tra la funzione rasserenante dell’arte e la “dura realtà” d’una società ancora volgare, assai simile a quella dei nostri giorni. L’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, pubblicata tra il 1751 e il 1772, diffonde i principi della ragione in tutta Europa, Venezia compresa. Venezia, isolata e neutrale, vive il suo ultimo momento di gloria nel momento in cui scivolando fuori dalla scena della storia, sta promuovendo una proiezione di sé nella sfera del mito.
È l’inizio della trasformazione della città in immagine - oseremmo dire post moderna. Il primo ad operare questa trasformazione mediatica è Luca Carlevarijs, l’inventore delle vedute cittadine, che Canaletto e Bellotto, zio e nipote, porteranno a risultati estremi. È l’epoca di Rosalba Carriera e di Giovanni Battista Piazzetta (maestro di Giambattista), di Francesco Guardi, di Sebastiano e Marco Ricci, di Pietro Longhi. Vi passa Piranesi e frequenta lo studio di Giambattista Tiepolo. Venezia nel Settecento diventa la capitale europea del teatro e della musica. Casanova, per quanto accusato dall’Inquisizione di empietà (1755) governa i salotti galanti e culturali proprio negli anni degli Scherzi tiepoleschi. È la Venezia dell’Accademia di Belle Arti. È la Venezia dell'opera e del melodramma. È la Venezia della Dolce vita e del Grand Tour. Via Veneto è il Liston di piazza San Marco.
Nel capolavoro di Fellini la ‘vera’ storia della decadenza di Roma non è indicata dal baccanale dei vizi, bensì da eventi oscuri, come il delitto di Steiner, che uccide i figli e si suicida, o la falsa apparizione della Madonna, con la folla isterica che travolgendo i malati provoca un morto. A rivelare la realtà della Serenissima nel suo ultimo tempo non è la fantasia festosa della commedia, ma sono i piccoli episodi di una storia segreta sottointesa nelle incisioni realizzate da Tiepolo.
È, per l’appunto, in questa Venezia morente che Giambattista, nel mezzo dei suoi capolavori parietali, realizza gli Scherzi di fantasia e Capricci, che di scherzoso e di capriccioso non hanno nulla. Il termine capriccio rimanda di fatto al suo doppio etimo: “capo riccio”, per lo spavento, e capro, animale notoriamente collegato con il diabolico. Si tratta di opere enigmatiche, molto differenti da quelle pittoriche, tutte troppo note per essere commentate, dall’enorme forza spettacolare e illusionistica, caratterizzate dalla invarianza di un colore dalle tonalità dolcissime, basate sui lilla, gli azzurri, i rosa. Chiamo queste incisioni “infernali” non perché facciano riferimento ad una dimensione dantesca; dell’inferno cristiano non vi è alcuna traccia, ma perché il mondo cui alludono è quello sotterraneo e pagano, quell’Ade che appare per indizi, vivendo da sempre tra noi.
Il sentimento inquietante di tali immagini nasce dal fatto che esse trasmettono a noi quegli stessi sentimenti che vediamo raffigurati nei loro volti e nei loro gesti. Figure spaventate da ciò che esse sole vedono: stanno vedendo l’inenarrabile. Il loro sguardo è quasi sempre volto a terra, mai in avanti, mai verso un orizzonte, mai verso di noi, tanto meno verso il cielo. Questo inenarrabile è lo scontro tra la ragione interrogante e la mancanza di qualsiasi risposta che non sia per pratiche magiche.
Cogitus interruptus
Se noi vogliamo capire la Venezia attuale, con una residuale popolazione trasformata in una folla di comparse, molto simili a quelle che popolano il teatro di Oklahoma in America di Kafka, dobbiamo riguardare con attenzione il messaggio contenuto nei Capricci di Giambattista Tiepolo e nell’album di 104 tavole, intitolato Divertimento per li regazzi, di Giandomenico, figlio e collaboratore. Giambattista ci permette di assistere allo spettacolo di una città che resiste alla ventata illuministica rifugiandosi nella illusione sospesa tra la farsa e la tragedia. A sua volta Giandomenico offrirà alla maschera creata dal padre una identità multipla e ossessiva e condurrà il racconto al limite dell’allucinazione, come se non ci fosse altro mondo ormai che quello abitato da una popolazione di Pulcinella. Per Giandomenico l’intera umanità è definitivamente diventata una compagnia di spettacolo.
Tra tutte le figure che popolano gli incubi dei Capricci la più spaventosa è quella di Pulcinella, protagonista di alcune tra le incisioni più enigmatiche e infernali. Tra le apparizioni di Pulcinella ve n’è una che è fondamentale, perché ci fa comprendere l’impossibilità del gioco e della festa nel tempo della fine: La scoperta della tomba di Pulcinella. La scena raffigura un gruppo di persone che ne osservano il corpo addossato ad una lapide. Se ne osserviamo i tratti che si intravedono al di là della maschera ne scorgiamo gli occhi. Sono chiusi. Un giovane indica proprio questi occhi al gruppo incredulo degli astanti [15]. Il silenzio di Pulcinella significa che non si può più dare risposta nel sonno della ragione. Il rivoluzionario assunto di quel cogito, ergo sum, che ha fatto della ragione e del pensiero il fondamento del sapere, della razionalità e del progetto politico dell’Occidente, si è offuscato per sempre.
Pulcinella morto, figura apotropaica che rappresenta la certezza della fine dell’attore e della maschera, testimonia della impossibilità del riso: nel mondo trasformato in spettacolo non è più possibile essere esclusi dal gigantesco inganno ‘politico’ (postmoderno) che dà ragione al dialogo tra Solone e Tespi. Questo il vero ultimo segreto di Tiepolo, riuscire a impedirci per sempre di sorridere di fronte alla maschera, mettendo in scena l’apparente ludicità dell’eterno carnevale con delle immagini distopiche [16]. Tra queste ve ne è una, la piùterribile di tutte, La morte dà udienza, in cui essa è rappresentata come un corpo vivente-morente, uno zombie; ha la bocca aperta e sta parlando ad un gruppo di persone sfogliando il libro del segreto, tra crani, coccodrilli, ossa, resti di un sacrificio. Ma chi sono questi personaggi che si stringono l’uno all’altro per la paura? Tra questi compaiono degli anziani, che sono stati interpretati come dei maghi e come degli Orientali, e che per me corrispondono alla convenzionale immagine degli ebrei, con la loro tunica a righe e la folta barba. Questo spiegherebbe molti degli enigmi contenuti nelle oscure incisioni, alcune delle quali segretamente alludono al perpetuarsi dell’ostilità, ancora a Venezia, verso gli ebrei nonostante il diffondersi della cultura illuministica.
Dal canto suo, Giandomenico documenta la mutazione epocale di Venezia in una serie di affreschi realizzati nella propria villa di Zianigo (tra il 1759 e il 1797 – l’anno fatale della caduta di Venezia). Si circonda, nella sua dimora di campagna, delle immagini della festa, del divertimento, della clownerie, nelle quali vi è spazio per ironizzare, quasi in omaggio al capolavoro del Parini (1763), la “vita del giovin signore” immerso negli ozi della vita in campagna, come denunciano le immagini del Minuetto e della Passeggiata. Il primo è di pura denuncia della definitiva deresponsabilizzazione morale e politica della classe aristocratica veneziana: pochi rilevano che il passo di danza nel paesaggio agreste ha come sfondo dei cipressi funerei. Nel secondo, la Passeggiata, i personaggi vengono ritratti di schiena, perché non sono più soggetti che valga la pena di farli passare alla storia.
Accanto ad altre immagini che appartengono al mondo religioso, a quello documentaristico e a quello diabolico, mitologico (sono satiri e centauri) la figura testimoniale di Pulcinella possiede una importanza fondamentale in due dipinti. Il primo è L’altalena di Pulcinella [Fig. 1]. Pulcinella – che nelle incisioni sarà più volte ritratto in scene acrobatiche – ondeggia sulla corda mossa da un altro Pulcinella; si afferra al filo per non cadere, mentre il suo doppio, che lo assiste, è a sua volta in precario equilibrio. Si tratta di un’immagine profondamente simbolica: l’esistenza non è che un ondeggiamento continuo tra la vita e la morte. Ma il tema dell’acrobazia possiede un immediato riferimento anche al compito universale dell’artista. Ogni artista sa che la sua opera rischia sempre il precipizio se perde il contatto con la sua funzione suprema: quella di pronunciarsi in favore della verità, l’unica parola, la sua, che, dopo la fine dei grandi racconti, può ancora levarsi per sconfiggere il mondo degli inganni.
Per paradosso, proprio all’arte, cui da sempre la società ha dato l’incarico di creare mondi altri, di sogno e di fantasia, si deve richiedere di indicare dove stia la realtà. Per questo motivo l’artista debutta continuamente sul vuoto. Non possiamo non essergli grati per quest’esistenza vissuta nell’altezza e che fa del pericolo e della generosità la sua cifra eterna e inimitabile, come ci ricorda Kafka, uno dei suoi racconti, Primo dolore: il trapezista vive unicamente per il suo trapezio, per lo strumento pericoloso che lo tiene sollevato da terra, sospeso nel vuoto, lontano dalla folla, ma è per la folla, per ognuno di noi, che la sua acrobazia disegna nell’aria infinite figure d’invenzione [17].
Il Mondo Novo
Il secondo dipinto fondamentale è il Mondo novo [Fig. 2], il capolavoro “politico” di Giandomenico, così come lo era stato, segretamente, il grande affresco sommitale di Giambattista, la sua opera eccelsa: l’Olimpo e i quattro continenti sulla immensa volta dello Scalone d'onore della Residenza vescovile del Vescovo principe a Würzburg [18], in cui l’artista aveva celato l’indizio sconvolgente di un atto di cannibalismo, crimine che non è pensabile possa effettuarsi nel nostro occidente di battezzati. Giambattista, volutamente, inserisce l’immagine d’una testa tagliata e collocata sul fuoco rituale come già aveva fatto in più di una incisione. Assieme ai resti umani, bruciano libri, fogli, memorie.
Di quale mondo novo, dunque, parliamo? Il Settecento illuminista è anche il secolo nel quale si continua a praticare la stregoneria, a coltivare credenze diaboliche e a sospettare degli ebrei sui quali ancora perdurava la cosiddetta “accusa di sangue” [19]. Una donna, accusata di stregoneria, viene bruciata viva proprio davanti al palazzo vescovile dentro cui Tiepolo sta dipingendo il suo massimo capolavoro. A Venezia, nel frattempo, si discute sui rapporti tra magia e stregoneria, soprattutto in funzione antiebraica [20]. Stregoneria e anti ebraismo erano profondamente intrecciati all'interno del pensiero cattolico. I grossi libri che vediamo ardere nelle incisioni tiepolesche fanno per l’appunto riferimento a questo clima, testimoniato, per esempio, dalla pubblicazione coeva di libri come la Dissertazione sopra i vampiri (1740) di Giuseppe Davanzati; i redivivi, i “resuscitati”, succhiatori di sangue umano, chiamati anche spettri, ombre, fantasmi, larve, geni, dovevano essere individuati nelle loro tombe, decapitati, attraversatone il cuore con una lancia, e infine bruciati nel fuoco [21].
In questa settimana, in cui sto completando la scrittura, si sta celebrando il giorno della memoria e l’intero ciclo dei Capricci nonché l’album surreale del figlio Giandomenico assumono una valenza sconvolgente: poiché, mettendo in scena la perennità e la pervasività dello spettacolo, ci insegnano a rifiutare nel tempo di guerra qualsiasi gioco scherzoso, come quello che prevede la presenza di Zelenski al prossimo festival di Sanremo. È in queste opere, dunque, che si cela la chiave per comprendere il lato oscuro di una società, come quella veneziana negli spasmi del Settecento, per molti versi simile a quella attuale, incapace di liberarsi dal gioco degli inganni.
Cosa vediamo nel vasto affresco del Mondo novo? Vi si raffigura come in una foto di cronaca un accadimento sorprendente, l’arrivo in un campo veneziano di un circo virtuale, un padiglione che contiene un’altra magia rispetto a quella che l’eterno carnevale delle maschere ha ormai consolidato trasformando il reale in spettacolo continuo. All’interno del circo non vediamo ciò che vi si mostra. Non riescono a vedere neppure gli astanti che si affollano tutt’attorno e che ci volgono le spalle, a fatica trattenuti da un imbonitore che scagliona i visitatori uno per uno: perché, come in Étant donnés di Duchamp, è possibile affiggere un solo occhio al foro che permette allo sguardo di penetrare nella visione segreta.
All’interno del circo è in azione una lanterna magica, il cosmorama, lo strumento appena inventato e che rende possibile fare da fermi il viaggio in luoghi lontani e sconosciuti. Forse stiamo vedendo le immagini che il pittore John Webber aveva fatto per James Cook seguendolo alla scoperta del passaggio a Nord Ovest. È la fine della lontananza e l’inizio della planetarizzazione virtuale. Ci sono due ritratti tra la folla: Giambattista appare perplesso, Giandomenico aumenta la sua vista nel futuro con il monocolo. Sul limitare della folla e del quadro, sul bordo estremo che congiunge l’arte e il mondo, ricompare Pulcinella, eternamente vivo: è venuto a dirci che non c’è più differenza tra lo spettacolo e la realtà.
Divertimento per li regazzi
Nel Divertimento per li ragazzi, l’album realizzato alla fine dei lavori a fresco che l’artista sta realizzando nella sua villa di Zianigo, e dunque negli ultimi giorni della Serenissima se non immediatamente dopo [22], e che ne sono l’ideale prosecuzione, l’ossessione di Giandomenico per la figura di Pulcinella è evidente già dal titolo, un titolo che è un trucco per non farci inorridire. La prima immagine del Divertimento è sconvolgente: Pulcinella sta osservando la propria tomba, un sarcofago su cui è appoggiata una scala. Una scala che non porta in cielo, ma che allude alla continua fatica del vivere. Pulcinella sta dunque osservando nello stesso tempo il suo futuro e il suo passato, perché è sia morto sia vivo, e ciò che vediamo non è che la sua rinascita eterna di fronte alle tribolazioni a cui è andato incontro e a quelle che dovrà eternamente affrontare, il carcere, la tortura e la morte. A terra nature morte, tra cui un canestro rovesciato, una giubba dismessa, legna pronta per la pira. Sul fronte del monumento funerario è incisa la scritta “Divertimento per li regazzi Carte No. 104”. Ebbene, divertitevi, se ne siete capaci.
Al misterioso personaggio, che ormai non appartiene più a nessuna possibile catalogazione all’interno degli stereotipi della Commedia dell’arte, Giandomenico affida il compito di documentare la realtà segreta di Venezia nel momento del suo disfacimento: è una società che ha perso la faccia e che, grazie alla maschera, riesce a fingere la vita nel momento della sua morte. Si tratta di una metafora che si presta al nostro tempo di mascherature della verità e in cui la cronaca della realtà sparisce all’interno dello spettacolo persuasivo, arma di guerra più potente delle bombe.
La violenza, talvolta persino audace e volgare, con cui Giambattista aveva ritratto il personaggio in numerosi disegni, e nella incisione che abbiamo citato, viene trasformata da Giandomenico in fredda registrazione di cronaca, offrendo a Pulcinella una gamma di espressioni e di comportamenti del tutto umanizzati: anche quando ne illustra le vicende più drammatiche, l’arresto, la fustigazione, la fucilazione e l’impiccagione. È qui, nella rappresentazione di questa catena di episodi che Giandomenico si evince dal padre e rompe con il suo mondo fantastico e magico, proponendo delle questioni morali, che oserei definire, dato il contesto epocale, politiche. Giandomenico mette in scena la ineluttabilità della Legge, da cui nessuno può esimersi. A prescindere dalle colpe, che non ci è dato sapere, e che Giandomenico si guarda bene dal dirci, Pulcinella deve rispondere al giudice come l’imputato di Kafka. È giusto che il giudizio si compia e venga onorato e Pulcinella, come Socrate, non vi si sottrae. A chi gli implorava di salvarsi, Socrate aveva risposto che se lo avesse fatto a nulla sarebbero servite le sue lezioni nella quali aveva insegnato che si deve rispettare il verdetto. Pulcinella diventa, così, alla fine della sua esistenza, il testimone di quella Ragione che per tutto il corso della vita aveva apparentemente irriso essendosi concesso alla oscura attrazione del magico. Ecco perché possiamo ritenere la maschera umanizzata da Giandomenico il simbolo di una disperata presa di coscienza sulla pericolosità dei giochi, che, se accettati in toto, finirebbero di passare anche negli atti e nei trattati.
Concludo con accorata condivisione un pensiero di Agamben:
Pulcinella […] annuncia ed esige un’altra politica, che non ha più luogo nell’azione, ma mostra che cosa può un corpo quando ogni azione è diventata impossibile. Di qui la sua attualità, ogni volta che la politica attraversa una crisi decisiva – per Giandomenico, la fine dell’indipendenza di Venezia nel 1797, per noi, l’eclissi della politica e il regno dell’economia planetaria. Mettendo in questione il primato della prassi, Pulcinella ricorda che vi è ancora politica al di qua e al di là dell’azione [23].
Note
[1] La vita di Solone, a cura di Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, Fondazione Lorenzo Valla, 2011, 90-91. La traduzione risolve il termine greco Συμβόλαιοis con contratti, ma la parola racchiude più significati: atti, contratti, documenti. Per cui svolgerei meglio con “atti pubblici e trattati”, cogliendo l’estensione semantica del termine.
[2]M. Heidegger, Perché i poeti (1926), in Sentieri interrotti (1950), Firenze 1984.
[3]L. Wittgenstein, Quaderni 1914 – 1916, Torino 1964, 189.
[4]G.W.F. Hegel, Estetica, III, in T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna (1949). Con un saggio introduttivo di Luigi Rognoni, Torino 1959.
[5]Non a caso: il libro di Herman Hesse, Il giuoco delle perle di vetro, in cui un gruppo di intellettuali si riunisce nella utopistica regione di Castalia, alla ricerca di una comune e profonda conoscenza intellettuale, venne scritto nel 1943, in un tempo di guerra e in una temperie di paura come quella che stiamo in questo momento attraversando.
[6]Il riferimento è al testo di H. Bey, T.A.Z. Zone Temporaneamente Autonome (1985, 1991), Milano 1993.
[7]Wolfgang Goethe, Faust, vol. 1 (1808), Milano, 21.
[8]M. Cacciari, Krisis. Saggio sul pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Milano 1976, 164 sgg.
[9]”Alfabeta2”, n 18. Maurizio Lazzarato, La guerra feroce del capitalismo impantanato, aprile 2012. In particolare F. Rastier, Neologismi e neonazismo; P. Fabbri, Il testo postfascista; E. Toniolatti, Uno spettro si aggira per la Germania; G. Marrone, Apoteosi del burino; P. Del Giudice, Sarajevo, Il libro dell’assedio.
[10]E. L. Francalanci, Estetica del potere, Mimesis, 2014.
[11]Quali erano stati, per esempio, il modello di razionalità epistemologica del Circolo di Vienna, del neopositivismo logico, del falsificazionismo popperiano, della semantica su base naturalistica di Willard Van Orman Quine, della semantica formale dell’interpretazione radicale di Donald Davidson, e, infine, della teoria referenzialista e realista dei mondi possibili di Saul Kripke. Si veda A.G. Gargani, Crisi della ragione, voce, Treccani, 2009.
[12]Nella cultura moderna fondamentale era stata la distinzione tra essenza e apparenza, tra vero e falso, tra realtà e simulazione, tra autentico e inautentico, tra originale e imitazione, tra unicità e copia. Nella postmodernità tali contrapposizioni sono venute progressivamente scomparendo e le conseguenze le stiamo pagando oggi. È emerso il predominio del significante sul significato, del mutante sul tipo, del processo sul finito, dell’imperfetto sul perfetto, della performance sull’opera, della combinazione sulla selezione, dell’artificiale sul naturale e, infine, del simulato sul reale, con conseguenze devastanti nel campo politico, culturale e artistico.
[13]G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, ristampa 2008.
[14]Sappiamo comunque che Giambattista definiva con il termine onnicomprensivo di Capricci ambedue le serie, i 10 Capricci e i 23 Scherzi. Il terminus ante quem per i Capricci è 1742, il 1757 per gli Scherzi. I 10 Capricci vengono realizzati dall’artista su richiesta del bibliotecario, erudito e critico d’arte Anton Maria Zanetti il Vecchio (1689-1767), il quale – già famoso per aver stampato altri libri di incisioni -, li pubblica nel 1751, intitolandoli Raccolta di stampe a chiaroscuro, tratte da disegni originali di Francesco Mazzuola, detto il Parmigianino, e altri insigni autori.
[15]Bisognerà arrivare ai nostri tempi, che si comprenderà, ma non da molti, Pallucchini, Mariuz, Pavanello, Pedrocco, Santifaller, Aikema – che, come sintetizza Calasso, nel suo fondamentale Rosa Tiepolo (2006) – ognuno di questi fogli è un romanzo noir, in cui il sentimento più costante che essi incutono non può che essere il terrore o un malessere che è arduo superare. R. Calasso, Il rosa Tiepolo, Milano, 2006.
[16]Del ludico, come condizione di coscienza politica della fine dei giochi, mi sono espresso in più occasioni, E.L. Francalanci, Del ludico, Milano, 1982. Id., Ludico, opere fragili da maneggiare con cura, Biennale internazionale della piccola scultura, Padova, 1991. Il ludico assume statuto giuridico all’atto della sua invenzione, un giorno di aprile 1981: un numero di fuoriusciti, ex autonomi, ex anarchici, ex pci, si ricompose nel tragitto che univa accademiche lezioni veneziane a seminari patavini, residuali di poetiche politiche di N memorie, necessariamente recuperando la pratica del gruppo in movimento. E dandosi come nome Tata, per fare il verso a Dada con accento dentale più esplosivo, evento voluto da Ennio Chiggio, assieme agli architetti Baruffi, De Santi, Rigo, Pavan, Zambon, agli artisti Garner, Pardini e al critico Ernesto L. Francalanci. Il ludico è un movimento artistico e filosofico che nasce a partire dal superamento di ogni gioco che non sia del linguaggio: quello che nel linguaggio pone relazioni tra gli uomini, tra le cose, tra le parole e tra le parole e le cose. È soprattutto di questo foucaultiana dimensione che il ludico si occupa.
[17]La figura dell’artista come equilibrista e funambolo, ovvero come figura sempre in bilico tra tradizione e invenzione, tra memoria e preveggenza, tra pensiero e istinto, tra visibile e invisibile, è presente in molti autori quali Goya, Manet, Klee, che al Funambolo dedica una fondamentale attenzione, Picasso, e sarà motivo di una pagina memorabile dei racconti di Kafka. In uno di questi, Primo dolore, il trapezista vive unicamente per il suo trapezio, per lo strumento pericoloso che lo tiene sollevato da terra, sospeso nel vuoto, lontano dalla folla: ma è per la folla, per ognuno di noi, che la sua acrobazia disegna nell’aria infinite figure d’invenzione. I racconti di Kafka, scritti tra il 1922 e il 1924, saranno raccolti nell’ultimo libro, uscito postumo, Un artista del digiuno. In un passo del racconto citato è sintetizzata idealmente l’intera poetica di Kafka: l’artista non può avere in mente che l’arte, e null’altro. L’artista obbedisce solo all’arte, per istinto.
[18]Commissione dei lavori 1749, realizzazione 1751-1754. È un momento particolarmente complesso che riguarda la questione politica poco indagata dei rapporti tra la Chiesa il potere politico e le associazioni segrete massoniche presenti sia a Würzburg sia a Venezia, con il loro carattere antireligioso, e anticristiano, scomunicate da Benedetto XIV proprio nel 1851.
[19]Tra quei personaggi dei Capricci e degli Scherzi che vengono chiamati “gli Orientali” non ci possono forse essere immagini di antichi ebrei, ripresi in momenti di interrogazione e di grave concentrazione, e che nessuno ha voluto rilevare? Si aprirebbe una pagina nuova nella interpretazione di queste opere al nero.
[20]La cosiddetta Polemica Diabolica.
[21]Nel 1749 (siamo proprio negli anni dei Capricci) viene pubblicato un libro fondamentale, scritto dal roveretano Girolamo Tartarotti, Del congresso nottturno delle lammie (…). L’argomento era di cogente attualità, al centro di dispute non solo teologiche, ma anche culturali. La magia è una cosa seria, a differenza della stregoneria. Questa la tesi. Vi si contrappone un’opera erudita, l’Arte magica annichilata di Scipione Maffei (1754), ed è subito polemica.
[22]Gli affreschi vengono realizzati tra il 1793, l’anno in cui Goya inizia a incidere i Caprichos, e il 1797, l’anno fatale della caduta di Venezia. Le opere, staccate, sono oraesposte al Museo di Ca’ Rezzonico a Venezia.
[23]G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nuova versione accresciuta, Milano 2016.
“In the time of war is it still possible to make art’? Paradoxically, the main function of art should be to make war itself, in its function as a vigilant and critical vanguard on the ‘state of things’.” Starting from these considerations referring to both the current political situation and Western history, the author reflects on the condition of art and artists in postmodern society, connoted by performative, artificial, simulated features. Using as compasses basic figures and texts of Western philosophical thought and literature (from Plutarch to Goethe, Wittgenstein, Kafka), he devotes an intense analysis to Venice in the age of Giambattista and Giandomenico Tiepolo, a place where carnivalesque masks as Pulcinella and devices as magic lantern meet, recombining reality and persuasive spectacle.
keywords | Art; War; Politics; Reality; Fiction; Spectacle; Mask; Tiepolo; Pulcinella.
Per citare questo articolo / To cite this article: E.L. Francalanci, Masca eris et ridebis semper, “La rivista di Engramma”, n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 375-386 | PDF