"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Quando fare festa è politico: βωμολοχία, ebbrezza e vita inimitabile in Marco Antonio

Barbara Biscotti

English abstract

[…] καὶ γὰρ συνεκύβευε καὶ συνέπινε καὶ συνεθήρευε καὶ γυμναζόμενον ἐν ὅπλοις ἐθεᾶτο, καὶ νύκτωρ προσισταμένῳ θύραις καὶ θυρίσι δημοτῶν καὶ σκώπτοντι τοὺς ἔνδον συνεπλανᾶτο καὶ συνήλυε, θεραπαινιδίου στολὴν λαμβάνουσα. καὶ γὰρ ἐκεῖνος οὕτως ἐπειρᾶτο σκευάζειν ἑαυτόν. ὅθεν ἀεὶ σκωμμάτων, πολλάκις δὲ καὶ πληγῶν ἀπολαύσας ἐπανήρχετο· τοῖς δὲ πλείστοις ἦν δι' ὑπονοίας. οὐ μὴν ἀλλὰ προσέχαιρον αὐτοῦ τῇ βωμολοχίᾳ καὶ συνέπαιζον οὐκ ἀρρύθμως οὐδ' ἀμούσως οἱ Ἀλεξανδρεῖς, ἀγαπῶντες καὶ λέγοντες ὡς τῷ τραγικῷ πρὸς τοὺς Ῥωμαίους χρῆται προσώπῳ, τῷ δὲ κωμικῷ πρὸς αὐτούς.
(Plut. Antonius XXIX, 2-5)

Calice in vetro dipinto, I secolo a.C. Collezione Cohn, Los Angeles County Museum of Art.

Datato al tardo I secolo a.C. e di provenienza non certa, ma quasi sicuramente egizia – sappiamo infatti che Alessandria era il principale centro di produzione di tale genere di raffinati oggetti –, un raro e bellissimo esempio di vetro dipinto a smalto si nasconde nella collezione Cohn del LACMA, il Los Angeles County Museum of Art. Si tratta di un calice di grande pregio, chiaramente destinato a impreziosire le tavole dell’élite, sul quale sono ritratti un uomo e una donna, chiaramente due simposiasti, dal momento che recano sul capo le tipiche corone di fiori. L’uomo tiene una mano sulla spalla della donna, il cui braccio destro ha una curvatura e una postura della mano che comunicano instabilità, quella che anche in altre rappresentazioni note corrisponde a uno stato di ebbrezza del personaggio, sicché non è escluso che la figura maschile sorregga per la spalla quella femminile che vacilla. I due protagonisti della scena, che guardano entrambi all’indietro, non senza una certa aria di divertita apprensione, verso un altro personaggio maschile, presentano una torsione del busto e una direzione del passo opposta a quella dello sguardo, che conferiscono una particolare leggerezza al loro movimento, un forte ma spensierato dinamismo al momento che i due stanno vivendo. Gli stessi protagonisti sembrano allontanarsi da una porta chiusa, vicino alla quale sosta un giovinetto, certamente uno schiavo, che – come sembra fare anche la seconda figura maschile, peraltro – reca in mano una lanterna, sicché è chiaro che la scena si svolge di notte.

Le ipotesi sull’interpretazione di tali immagini, in ogni caso di chiara matrice ellenistica, sono diverse, e tutte destinate a restare tali nel frustrante mutismo di un’iscrizione in lingua greca che pure riempiva gli spazi tra le figure, ma che ora risulta in gran parte erosa o danneggiata. Vi è chi ha visto riprodotta sul pregevole manufatto una scena chiave di una commedia, i cui protagonisti si troverebbero a vivere una situazione di festa, e chi, invece, ha colto nei gesti dei personaggi e nelle poche parole leggibili (didrachmos, pappa, kyrios) gli elementi di un incontro in un bordello, forse anch’esso comunque da collocarsi nel contesto di un’azione teatrale. Tuttavia, ad oggi di quelle parole dell’iscrizione che è stato possibile decifrare non è stato trovato riscontro in alcuna delle commedie conosciute. Una terza via interpretativa, dunque, è stata proposta. Pur sempre considerando l’atteggiamento dei due protagonisti – nonché il modo in cui essi sono abbigliati – come riconducibile a una situazione en travesti, infatti, è stata avanzata l’idea che sul bicchiere non siano rappresentati personaggi immaginari, bensì persone reali, senz’altro appartenenti a un ambiente altolocato, alle quali la coppa poteva essere stata dedicata e forse anche offerta in dono.

Ecco, dunque, che, considerata l’epoca e la presumibile collocazione geografica del prezioso reperto, nonché – e non da ultimo – le caratteristiche fisiche della coppia ritratta – decisamente ben piazzato, prestante e dall’aria militare lui, sottile e delicata lei, ma con uno sguardo penetrante, il viso ovale, il mento pronunciato e un naso dal profilo deciso e importante – il pensiero corre inevitabilmente al passaggio plutarcheo della Vita di Antonio riportato come incipit di questo breve scritto. In esso l’autore, dopo aver sottolineato come Cleopatra ad Alessandria si adoperasse per deliziare notte e giorno Antonio con sempre nuove distrazioni che le consentissero di tenerlo al guinzaglio, narra come il principale divertimento notturno dei due, che essi erano soliti condividere con amici altrettanto gaudenti, consistesse nel folleggiare per le strade della città dissimulando il proprio aspetto con travestimenti e andando alle porte o sotto le finestre delle case di persone comuni per fare scherzi e prendersi gioco di coloro che nelle loro abitazioni stavano dormendo. Plutarco ha cura di precisare che, come conseguenza di questi ‘divertimenti’, i due spesso si prendevano un sacco di insulti e a volte Antonio anche le percosse. E ciò – e qui inizia la parte più interessante del testo – “anche se la maggior parte della gente sospettava di chi si trattasse”.

A Plutarco, dunque, il quale pure, da bravo e convinto ‘neocittadino’ della giovane Roma imperiale, non rinuncia a seguire la vulgata diffusa dalla propaganda augustea, densa di riprovazione per la dissolutezza di Cleopatra e la succube remissività del rammollito Antonio, scappa un dettaglio curioso: la gente di Alessandria, in linea di massima, sa chi sono quei molesti ubriaconi, quegli impuniti disturbatori notturni. Ma tra gli uni e gli altri sembra essersi stabilito un tacito accordo: i primi fingono di non conoscere la reale identità dei crapuloni e bene o male ne sopportano gli eccessi, e i secondi, in totale adesione alla parte che si divertono tanto a recitare e rinunciando in toto per tale ragione alla loro condizione di privilegio e di potere, accettano di buon grado le contumelie e persino le botte per restare fedeli al loro ruolo. Infatti, prosegue lo storico di Cheronea, “gli alessandrini si dilettavano della sua [di Antonio, NdA] teatrale ribalderia [βωμολοχία] e stavano allo scherzo non senza grazia e gusto”. Anzi, i mondani cittadini della capitale d’Egitto “lo amavano e dicevano che egli usava il volto tragico nei confronti dei romani, e quello comico con loro”.

Non è un caso che Plutarco utilizzi qui il termine βωμολοχία per indicare le bravate di Antonio, la sua inclinazione e il suo godimento da eterno Peter Pan nel giocare tiri alle persone e nell’esperire tutto il possibile nel campo del buffonesco e della teatralità, la sua tendenza insomma – sua e di Cleopatra, invero – all’eccesso come stile di vita. Termine originariamente proprio del teatro comico greco, infatti, la βωμολοχία è attributo caratteristico del βωμολόχος, vera e propria figura prototipica della commedia, che si affianca alla centralità complessa del protagonista facendosi portatrice di un’ambigua comicità, insistente al limite del fastidioso, che nelle occorrenze aristofanee tende a sconfinare nella trivialità e nell’inclinazione all’inganno. Dal linguaggio comico, il concetto, però, è stato mutuato nella riflessione etica e filosofica e applicato in una prospettiva politica a figure di sovrani e tiranni dalla condotta spregiudicata. E proprio Plutarco, nell’unitarietà che si intesse tra i Moralia e le Vite – mi riferisco al Solone e al Licurgo in particolare – sembra utilizzarlo sempre in tale prospettiva giudicante, in chiave denigratoria, destinando con esso ad Antonio – ma non solo a lui, poiché, tra gli altri, è interessante notare come riferisca il termine anche a Cesare, le cui accuse Catone avrebbe definito appunto come esercizio di βωμολοχία – un biasimo di natura non solo etica, bensì propriamente politica.

In proposito, tuttavia, va ricordato come la seconda metà del I secolo a.C. avesse rappresentato a Roma il terreno di scontro tra due opposte visioni. Filodemo di Gadara, grande diffusore dell’epicureismo nell’Urbe, dove era divenuto intimo di Lucio Calpurnio Pisone, essendo anche da lui ospitato nella celebre Villa dei Papiri di Ercolano, aveva offerto nel suo De bono rege all’ospite e amico, nonché a tutta l’alta società romana che ruotava intorno al suo circolo, uno speculum principis, una parenesi etico-politica in cui, muovendo da un’accurata esegesi omerica, sebbene raccomandasse al sovrano ideale di astenersi dalla αἰσχρολογία (il linguaggio volgare) e dalla βωμολοχία tipica dei giovani, individuava nella dimensione simposiastica, caratterizzata dal riso, dalla musica e dalle danze, favoriti dalla fondamentale presenza del vino, uno dei momenti più alti nei quali un regnante potesse realizzare quell’ideale κοινωνία di cui doveva essere sommo rappresentante.

D’altra parte, proprio contro Pisone e i suoi sodali al contempo si indirizzavano i velenosi strali di Cicerone, il quale, definendo puntualmente e dispregiativamente il suocero di Cesare – sulle nefaste sorti del quale ultimo, si ricordi, secondo alcuni avrebbe gravato anche l’accusa di epicureismo – come barbarus epicureus e politico vaecors e amens, ne stigmatizzava recisamente le epulae, individuando in lui, affogato “in suorum Graecorum foetore atque vino”, la degenerazione e l’antitesi dell’homo bonus romano:

Quid ego illorum dierum epulas, quid laetitiam et gratulationem tuam, quid cum tuis sordidissimis gregibus intemperantissimas perpotationes praedicem? Quis te illis diebus sobrium, quis agentem aliquid quod esset libero dignum, quis denique in publico vidit?
(Cic. In Pisonem X, 22-26)

Quella che Plutarco definisce criticamente come βωμολοχία in Marco Antonio, dunque, assume alla luce di questa contestualizzazione storica in un momento di profonda crisi culturale di Roma, che potrebbe forse essere ancor più efficacemente descritta come vero e proprio dilemma, un significato politico preciso, da collocarsi in un quadro complessivo cui sono ascrivibili anche la stesura da parte sua del noto, ma purtroppo non pervenutoci, scritto De sua ebrietate, nonché la costituzione, insieme a Cleopatra, del sodalizio degli amimetobioi. A proposito del pamphlet perduto “sulla propria ubriachezza”, redatto poco prima della battaglia di Azio in risposta all’accusa di alcolismo mossagli nell’ambito della pesante campagna propagandistica promossa contro di lui da Ottaviano, molti hanno ipotizzato si trattasse di un tentativo di difesa rispetto a tale taccia. Un’ipotesi influenzata dalla narrativa dispregiativa propalata dal futuro vincitore, la quale emerge anche nell’unica testimonianza che fornisca qualche notizia a proposito di tale scritto, offerta da Plinio nel contesto di un discorso dai toni moralistici sugli effetti perniciosi dell’ubriachezza e sul malcostume di coloro che ne sono adepti (tra i quali, paradossalmente, viene menzionato come campione proprio il figlio di Cicerone), di sfidarsi in solenni bevute a chi resista di più:

Tergilla Ciceronem M. F. binos congios simul haurire solitum ipsi obicit Marcoque Agrippae a temulento scyphum inpactum. Etenim haec sunt ebrietatis opera, sed nimirum hanc gloriam auferre Cicero voluit interfectori patris sui M. Antonio. Is enim ante eum avidissime apprehenderat hanc palmam, edito etiam volumine de sua ebrietate, quo patrocinari sibi ausus approbavit plane, ut equidem arbitror, quanta mala per temulentiam terrarum orbi intulisset. Exiguo tempore proelium Actiacum id volumen evomuit, quo facile intellegatur ebrius iam sanguine civium et tanto magis eum sitiens.
(Plin. Nat. hist. XIV 28, 147-148)

Tuttavia, quello che Plinio descrive come un patrocinari sibi da parte di Antonio, cioè appunto un tentativo di difesa dall’addebito mossogli, dal tenore dello stesso testo pliniano, viceversa, risulta essere piuttosto un’apologia compiuta dallo stesso della propria capacità di bere, di cui egli, afferma l’autore, menava vanto. E del resto, anche nella cornice complessiva delle azioni intraprese e della condotta tenuta da Antonio, nonché della posizione ormai da lui definitivamente assunta al tempo della battaglia di Azio, il De sua ebrietate non potrebbe essere interpretato altrimenti che come una rivendicazione da parte sua di quell’attributo proprio di Dioniso, con il quale il mondo orientale cui ormai apparteneva lo identificava, di una qualità che lo rendeva degno di incarnare quella forza vitalistica essenziale in un sovrano, quella resistenza fisica che si mostrava tanto nella prestanza atletica quanto nella capacità di reggere il vino, la quale vantava una lunga tradizione come attributo virile sia nella cultura greca che in quella latina, come Plinio stesso ricorda. Nella medesima prospettiva simbolica e culturale va poi collocata l’istituzione da parte di Cleopatra e Antonio di quella compagnia di persone “dalla vita inimitabile”, quel σύνοδος ἀμιμητοβίων, nel cui nome stesso arte (mimesis) e vita (bios) si univano in quella sintesi così efficacemente evocata dall’epigramma di Aristofane di Bisanzio proprio in relazione alla finzione scenica: “O Menandro e vita, chi di voi ha imitato l’altro?”. Lo scopo di quel sodalizio consisteva, infatti, nel coltivare, esattamente all’interno della dimensione del simposio, di cui il vino, il cibo, la musica, la danza, il teatro, lo scherzo costituivano l’ossatura, quella jouissance da sempre messa in scena dai potenti pubblicamente ad Alessandria, con grande sfarzo e impiego di mezzi, per il godimento del popolo, che in essa, elevandosi al di sopra delle miserie quotidiane, vedeva anche la propria gloria. Proprio in quella τρῦφή, nella rappresentazione pubblica del gusto per il lusso, i sovrani tolemaici, sviluppando una tradizione ellenistica ibridatasi con quella egizia, avevano da sempre incarnato il potere: dall’‘Erotico’ al ‘Pancione’, sino all’‘Aulete’ padre di Cleopatra, i Tolomei, non diversamente peraltro dagli altri monarchi ellenistici, si erano, infatti, fregiati di epiteti che elevavano a segno di regalità e diritto a governare quell’inclinazione alla celebrazione e al godimento dell’esistenza che nella sobria cultura romana dei boni mores maiorum che Cicerone e Ottaviano volevano restaurare veniva deprecata.

Di qui una verità scomoda che, nonostante il tono dispregiativo dei licenziosi costumi di Antonio e Cleopatra, Plutarco si lascia sfuggire: il popolo di Alessandria ama Antonio. Ama quelle sue scorribande, quel suo essere βωμολόχος, quel suo vivere al di sopra delle righe, in una dimensione sempre teatrale. Poiché questo è ciò che ci si aspetta da un sovrano. Poiché, come scrive sempre Plutarco, egli possiede il doppio volto proprio del re, la maschera tragica e quella comica, e gli alessandrini vanno fieri del fatto che egli dedichi ai romani la prima, e a loro riservi quella comica, espressione di una bonomia che, in chi è al comando, è indice di prosperità e letizia.

Lo scontro che si gioca nella contesa tra Ottaviano e Antonio, dunque, non è solo militare e nemmeno esclusivamente politico, bensì più ampiamente culturale. Nel corso dello svolgersi di esso, infatti, si fronteggiano due antitetiche visioni dell’esistenza e dei valori cui la stessa deve essere improntata, dei quali il detentore del potere deve essere il campione. Il confronto tra di loro rappresenta il punto di arrivo di un conflitto culturale che, avviatosi nel II secolo a.C. con la Graecia capta di oraziana memoria, è ormai giunto a maturazione ed esige una soluzione radicale. Il ‘gladiatore’ Antonio – come con sprezzo lo definiva Cicerone – a causa della sua passione per le occupazioni atletiche era criticato dall’Arpinate, ma per la stessa ragione corrispondeva appieno all’ideale del βασιλεύς propugnato da Filodemo sempre nel De bono rege (PHerc. 1507, col. XXII 18-27 Fish). Colui che al cospetto di Cesare, nel febbraio del 44 a.C., correva nei Lupercalia sudato ed ebbro, acclamato dal popolo romano che ne avrebbe altrettanto apprezzato le capacità oratorie davanti al feretro del dittatore assassinato, era già il protagonista del dionisismo alessandrino che poi avrebbe abbracciato, facendone un programma politico. Così come il cauto e frugale Ottaviano, che si sarebbe vantato di indossare solo vesti modeste che le donne della famiglia avevano tessuto con le loro mani, era già l’apollineo difensore della ‘purezza’ romana, il conservatore di una tradizione patriarcale che mal sopportava l’idea di una donna sul trono e che avrebbe trovato in seguito una continuità secolare nel suo incontro con l’ideologia giudaico-cristiana. La Storia avrebbe preferito la seconda via. E non possiamo sapere, né immaginare, come sarebbe stato il mondo se invece avesse scelto l’altra, se le sorti dello stesso fossero state consegnate nelle mani di coloro che avevano eretto il divertimento, il riso, l’ebbrezza, la teatralità a strategia di governo. In ogni caso, è suggestivo pensare che essi siano immortalati lì, su quel bellissimo, delicato bicchiere smaltato finito in un museo dall’altra parte del globo, proprio mentre, ebbri e ancora felici, non ancora vinti, erano intenti a godersi la vita e a fare festa.

Bibliografia essenziale
  • Caciagli, Corradi, Regali 2016
    S. Caciagli, M. Corradi, M. Regali, Buffoni e ‘bomolochoi’, “Lessico del Comico. Le parole della commedia greca tra ricezione antica e riprese contemporanee” 1 (2016), 135-154.
  • De Sanctis 2007
    D. De Sanctis, Il sovrano a banchetto: prassi del simposio e etica dell’equilibrio nel De bono rege (PHerc. 1507, coll. xvi-xxi Dorandi), “Cronache ercolanesi” 37 (2007), 49-65.
  • Frontisi-Ducroux 1984
    F. Frontisi-Ducroux, La bomolochia. Autour de l’embuscade à l’autel, in Recherches sur les cultes grecs et l’occident, Napoli 1984.
  • Mannsperger 1973
    D. Mannsperger, Apollon gegen Dionysos, “Gymnasium” 80 (1973), 381-404.
  • Marasco 1992
    G. Marasco, Aspetti della politica di Marco Antonio in Oriente, Firenze 1987, in Id., Marco Antonio “Nuovo Dioniso” e il De sua ebrietate, “Latomus” 51 (1992), 538-548.
  • Price 1988
    L. Price, Masterpieces from the Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles 1988.
  • von Saldern 1980
    A. von Saldern, Glass 500 B.C. to A.D. 1900: The Hans Cohn Collection, Mainz 1980.
  • Scott 1929
    K. Scott, Octavian’s Propaganda and Antony’s De sua ebrietate, “Classical Philology” 24 (1929), 133-141.
  • Weitzmann, Turner 1981
    K. Weitzmann, E.G. Turner, An Enamelled Glass Beaker with a Scene from New Comedy, “Antike Kunst” 24 (1981), 39-65.
English abstract

The text describes a rare and beautiful example of enamel-painted glass, dating back to the late 1st century BC and likely of Egyptian origin. The glass is a precious cup portraying a man and a woman, both crowned with flowers and in a somewhat unstable position, as if inebriated. They are looking back towards another male figure while walking away from a closed door. A young boy, possibly a slave, stands near the door with a lantern. The painting is surrounded by Greek inscriptions that are mostly damaged, leaving room for interpretation of the scene. Some believe it to be a depiction of a comedic play, while others see it as a scenario of a night-time encounter in a brothel. There is also a possibility that the couple in the painting were real people, possibly from a high-ranking family, to whom the cup may have been dedicated or gifted. The physical features of the man and woman depicted, as well as the historical context, suggest a connection to the story of Cleopatra and Mark Antony, who were known for their nocturnal escapades disguised in costumes.*

*The English abstract above was written by ChatGPT and strictly unedited by the editors of this issue (> Editoriale). This sentence itself was automatically translated with DeepL.

keywords | Ancient Glassware; Hellenistic Art; Egyptian Artifacts; Gender and Identity in Art; Interpretation of Classical Imagery.

Per citare questo articolo / To cite this article: B.Biscotti, Quando fare festa è politico: βωμολοχία, ebbrezza e vita inimitabile in Marco Antonio ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 95-102 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0092