“Mixed up in this amazing fecundity”
Persistenze ecosistemiche e vitalistico-ancestrali in Gardening in the Tropics di Olive Senior
Laura Giovannelli
English abstract
La risonanza internazionale che, ormai da vari anni, contrassegna il percorso di Olive Marjorie Senior (Trelawny, Giamaica, 1941―) testimonia lo spessore culturale e le qualità distintive di un’artista poliedrica, stilisticamente e dialetticamente affinata e capace di misurarsi con temi nevralgici, soprattutto in un contesto globalizzato come quello contemporaneo. Autrice caraibica naturalizzata canadese, Senior si è conquistata uno spazio importante nell’ambito della letteratura anglofona di taglio postcoloniale e nel terreno transnazionale della World Literature. Ad attestarlo non è solo la vasta circolazione delle sue opere – premiate, antologizzate e tradotte in varie lingue (italiano, francese, tedesco, olandese, spagnolo, russo) – ma anche pubblicazioni recenti come Pandemic Poems: First Wave (2021), una raccolta di poesie strutturate in base a un corpus lessicale e una sequenza alfabetica che rimandano al repertorio terminologico della prima ondata della pandemia di COVID-19. Ogni poesia si sviluppa come un riff che prende spunto da un lessema o un’espressione entrati nell’‘enciclopedia comune’ e ora consegnati pure alla memoria letteraria. Si tratta di un’interessante operazione di ostranenie che invita il lettore a (ri)considerare la drammatica portata dell’evento del 2020 in una dimensione che avvalora e, nel contempo, trascende la contingenza storica e i confini nazionali per dare spazio a una voce corale e a una gamma di sentimenti e reazioni umane. In senso più generale, come osserva Hyacinth M. Simpson,
[Senior’s] probing into individual lives effectively opens up a window not only into the larger society but also into the recesses of human nature. Her examination of human nature, whatever the specific locality of the people she writes about, is always marked by clear-eyed compassion for, rather than judgment of, her subjects. It is partly for this reason—and also because of Senior’s consummate skill as a writer—that her work resonates with readers across cultures and generations (Simpson 2012).
Non solo poetessa, ma anche autrice di narrativa, libri per bambini e opere saggistiche, Senior si rivolge dunque a una platea globale, offrendo al tempo stesso un esempio magistrale di come la sua voce autoriale “constructs and mediates Caribbean culture even as the development of Caribbean literary discourse itself illuminates wider, more global movements” (Lalla, D’Costa, Pollard 2014, 1). Nella maggior parte dei suoi scritti, infatti, permane un’impronta che ‘localizza’ il perimetro di riferimento, la sintassi dell’immaginario e il background antropologico-culturale nell’alveo caraibico, meglio ancora giamaicano. Lo suggeriscono in maniera esplicita i titoli di suoi studi di impianto enciclopedico quali A-Z of Jamaican Heritage (1983), dove un palinsesto alfabetico presiede di nuovo all’organizzazione dei contenuti, e la versione più estesa Encyclopedia of Jamaican Heritage (2004), cui si accompagna un’incursione nella manualistica per bambini con Pop Story Gi Mi (1973), una serie di volumetti destinati all’adozione nelle scuole e miranti a familiarizzare il piccolo lettore con alcuni fondamenti della storia e dei costumi della Giamaica. Questo tipo di retroterra, le cui radici affondano nell’etno-storiografia e nel folklore, nella sociologia e nella geografia (fisica, politica, economica), è un ambito che Senior ha affinato nel corso della sua formazione e delle sue esperienze professionali, promuovendosi a “cultural archivist” e assertrice di un “concept of ‘reading’ [which] might provide a bridge between the worlds of oral and scribal cultures” (deCaires Narain 2011, 122, 131).
Settima di dieci figli di una famiglia contadina proveniente dall’area rurale interna della Giamaica nord-occidentale, nell’aspra zona montana di Cockpit Country – un tempo rifugio degli schiavi neri fuggiaschi (“Maroons”) scampati agli ingranaggi stritolanti della plantocrazia coloniale europea – Senior è cresciuta presso una famiglia adottiva del Westmoreland imparentata con la sua per il ramo materno, ma più abbiente e in grado di garantirle un percorso di istruzione. Negli anni Sessanta, prima di dedicarsi alla carriera letteraria e alla scrittura creativa, l’autrice si è specializzata in giornalismo alla Carleton University di Ottawa. Nel ventennio successivo ha operato su più fronti, dall’editoria alle public relations e ai rapporti con la Camera di Commercio e il Governo della Giamaica, conducendo disamine sul contesto socio-economico antillano grazie a collaborazioni con il Social and Economic Studies (University of the West Indies), il Jamaica Journal (Institute of Jamaica) e lo storico Gleaner, per la cui redazione aveva già lavorato come reporter ai tempi della scuola. A questo si sono affiancati numerosi soggiorni all’estero – in Canada, Nordamerica, Europa – dopodiché, a partire dal 1992, Senior ha scelto Toronto come sua residenza principale (sulle origini familiari e il profilo biografico e formativo dell’autrice, v. Giovannelli 2018, 151-155).
Eppure, come si è anticipato, la condizione di ‘intellettuale migrante’ non l’ha automaticamente convertita in soggetto déraciné, né incanalata nelle strettoie di una lacerante diaspora culturale. Per riprendere alcune riflessioni di Michael A. Bucknor e Daniel Coleman sul ruolo che le radici etniche rivestono per un altro artista contemporaneo caraibico-canadese, Roger Ferreira, è fondamentale in questi casi tener conto dell’equilibrio sincretistico che finisce per subentrare nel rapporto tra ethnic roots e cultural routes: tra la ‘fissità’ delle radici e il ‘dinamismo relazionale’ informante i percorsi di evoluzione e i flussi rizomatici di un io (individuale e collettivo) in divenire. È significativo che i due critici si appellino qui a Paul Gilroy, storico e sociologo britannico anglo-guineano, e al suo Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness (1993), pietra miliare nel settore degli studi sulla diaspora africana e portavoce di una visione anti-essenzialistica, trasversale e prismatica della black identity:
[T]hese routes, far from tracing back to some kind of pure origin, are inevitably layered and endlessly dispersed […] instead of emphasizing roots, Gilroy calls attention to routes, to the process of cultural movement and exchange, and he therefore mobilizes the central image of the slave ship as a figure for the remarkable productivity of international black culture, from Africa to the Americas and from the Caribbean to Europe, that has arisen in the very processes of traumatic and ongoing displacements. […] We can witness this kind of rerouting in Roger Ferreira’s emphasis on the importance of nurturing one’s Trinidadian roots as part of the project of “laying down a new road” in Canada, as well as in Jordan Stouck’s discussion of the ways in which Olive Senior’s poems in Gardening in the Tropics highlight the importance of cultural roots even as they demonstrate that identities do not root wholly in one national landscape or another, but that in both the Caribbean and Canada, more rhizome-like, multiple, and shifting connections are made to landscape and nation (Bucknor, Coleman 2005, ii, vi).
I paradigmi dell’ibrido, del creolizzato e della pluralità – dalle logiche meticce al border crossing, da una fucina di combinazioni complesse al multilinguismo e a un processo continuo di scambio, dislocazione e contaminazione – sono elementi connaturati alla realtà antillana e alle sfaccettature multietniche delle sue (ri)costruzioni identitarie. Basti pensare al nutrito coro di voci che hanno affrontato l’argomento, sulla scia delle teorizzazioni di Édouard Glissant (in Le discours antillais, 1981 e Poétique de la Relation, 1990), degli studi culturali di Stuart Hall e degli apporti illuminanti di Wilson Harris, Derek Walcott, Edward Kamau Brathwaite, V.S. Naipaul e Velma Pollard, per menzionarne solo alcuni. Nelle loro riflessioni affiorano spesso i motivi della relazionalità e di un’‘opacità creativa’, dei crocevia e degli infiniti filamenti che si intrecciano nei fondali oceanici e accomunano i peoples of the sea, in un arcipelago decentrato e altresì foriero di possibilità, nonostante i terribili trascorsi di violenza e depredazione che, come è noto, hanno vessato la regione caraibica per secoli. Nuove e antiche mappature prendono forma in un terreno poroso, nel quale il retaggio di vari ceppi etnici (amerindi e africani, europei e asiatici) ha dato origine a un ricchissimo sostrato espressivo che mal si presta a letture di carattere monologico o convenzionalmente ‘nazionalistico’. Il senso di appartenenza non può qui che rivelarsi cross-cultural e multidirezionale, frutto di una tensione dialettica tra i codici dell’episteme occidentale e un crogiolo di saperi, credenze e costumi indigeni.
È esattamente questo richiamo a persistenze vitalistico-ancestrali che innerva molte delle poesie raccolte in Gardening in the Tropics (1994), opera vincitrice dell’F.G. Bressani Literary Prize for Poetry nel 1995 e seconda silloge di Senior tanto in senso cronologico, quanto per linee tematiche [Fig. 1]. Essa segue infatti Talking of Trees (1986), il cui titolo associa in maniera analoga un’attività umana – sia essa il coltivare o l’interagire verbalmente – alla presenza altrettanto rilevante di forme di vita vegetale. Un binomio che esce evidentemente rafforzato dalla consapevolezza che “there is probably no other region in the world that has been more radically altered in terms of human and botanic migration, transplantation, and settlement than the Caribbean”, luogo dove, per dirla con Glissant, “landscape is its own monument […]. It is all history” (DeLoughrey, Gosson, Handley 2005, 1). Se è vero che, nel territorio caraibico, l’immaginazione poetica è simultaneamente orientata “towards the racial and biotic history of displacement” (DeLoughrey, Gosson, Handley 2005, 4), i versi di Senior offrono spunti illuminanti in questa direzione. Insieme a una parte consistente della sua narrativa, essi “chart the impact of History on place: in a sense, they anchor history in geography” (deCaires Narain 2011, 135) nonché nelle pratiche, nelle usanze e nei gesti quotidiani della popolazione che con quella geografia falcidiata dalla storia deve interfacciarsi (su questo aspetto, e sui tratti complessi della ‘post-nazionalità’ in Senior, si veda anche Jordan Stouck, secondo il quale il Canada, la terra di adozione dell’autrice, “cannot be fully articulated or claimed in these poems as an alternative, identity-conferring space. Jamaica may be a remembered space of complex identifications and denials, but Canada is an incomplete present, a place for reflection and a refuge that lacks identity of its own”. v. Stouck 2005, 26).
Non c’è dubbio che la terra delle isole caraibiche – il suolo, i tratti paesaggistici, le colture e le varietà botaniche stesse – si erga a testimone muto dei traumi della conquista e della schiavitù, delle cicatrici impresse da un’economia di piantagione e dal capitalismo coloniale, ma anche di un’ulteriore e pervasiva metamorfosi ambientale che è proseguita in epoca post- e neo-coloniale (complice, tra i vari fattori, l’industria del turismo). Questa terra si tramuta dunque in una cartografia emblematica, in un archivio saturo di tracce, frammenti e presenze che sollecitano lo scrittore/archeologo a compiere una paziente operazione di scavo. È interessante ricordare che, commentando Gardening in the Tropics nel corso di un’intervista, Senior ha significativamente attinto all’idea del digging in chiave duplice, letterale e metaforica, tornando a sottolineare l’indissolubilità delle intersezioni bioculturali che si manifestano tra dimensione antropica e universo vegetale: “I believe that like everything else, plants have the power to heal and destroy. I suppose I take a sort of Zen approach to plants – that they are alive, that they and I share the same world […]. To plant, you first have to dig, and who knows what you will unearth?” (Binder 1995, 112). Di qui, nel titolo del mio contributo, la scelta di integrare il sintagma “persistenze vitalistico-ancestrali” con l’aggettivo “ecosistemiche”, termine divenuto ormai più che familiare nel settore degli studi letterari grazie agli orientamenti teorici ed esegetici dell’Ecocritica e, in generale, delle Environmental Humanities. Nel volume di Senior la lucida contezza delle ferite inferte al territorio trova difatti un contraltare nelle dinamiche dell’interconnessione, nelle interazioni sinergiche tra componenti biotiche e abiotiche e nella fenomenologia del mutual entanglement o, per meglio dire, dei “chaotic entanglements” (deCaires Narain 2011, 87).
Malgrado i dissesti, le ripetute ondate migratorie e le conseguenti ri-localizzazioni umane e botaniche cui si è accennato sopra, la voce essenzialmente corale – schietta e ironica, assennata e sagace – che enuclea il punto di vista in Gardening in the Tropics agisce per contro da ‘collante epistemico’. Ricorrendo a un socioletto nel quale Standard English e Creolo giamaicano si alternano con estrema fluidità, questa istanza suona etnicamente stratificata: il suo Creole flavour, il timbro e i codici espressivi colloquiali e imbevuti di oralità la apparentano alla saggezza popolare antillana senza che, però, vengano meno echi e contaminazioni riconducibili all’esperienza della colonizzazione e all’onda lunga dei suoi (contro-)effetti. Lontane da atmosfere struggenti, vagheggiamenti utopici e celebrazioni di uno stato di innocenza prelapsaria, le poesie di Senior tracciano cultural routes che, per citare Serenella Iovino, incorporano ‘strategie di sopravvivenza’ e, soprattutto, si rapportano al territorio tentando di valorizzare “a balance of nature and culture stratified through centuries of mutual adaptation”, ossia percependolo nei termini di “a ‘warehouse’ of common memories to humanity and nature, in which human and natural life are dialectically interlaced in the form of a co-presence” (Iovino 2010, 31).
A dispetto dell’ironia provocatoria sottesa al titolo del volume, attraverso il quale Senior sembra ammiccare a una serie di cliché occidentali – distrarsi piacevolmente con il giardinaggio, concedersi una parentesi esotica in un paradiso tropicale – si deduce facilmente come in questi testi il gardening non sia da intendersi in senso estetico, ovvero come cura ornamentale del verde, tecnica di composizione/distribuzione architettonica di esemplari botanici e design paesaggistico, ma piuttosto come sinonimo di growing e nurturing. Il ‘giardino’ corrisponde insomma alla terra stessa e ai suoi frutti, a un patrimonio vegetale che deve essere coltivato e custodito nel rispetto della sua varietà ibrida. Tra i vari studi interdisciplinari degli ultimi decenni sul topos e le accezioni semantiche del giardino – dalla sua materialità alle significazioni metaforiche e figurali – quello di Mark Francis e Randolph T. Hester mette a fuoco una prospettiva per noi cruciale quando sottolinea che, oltre a radicarsi in un luogo fisico e acquisire coloriture concettuali, esso:
is also a source of action requiring intimate and direct involvement. We cannot dig, plant, trim, water, or harvest with detached passivity. Gardening can hardly be done without getting hands dirty and, in most cases, getting earth under fingernails and blisters on palms […]. With control comes responsibility, commitment to stewardship of the earth. We observe, sense, and participate directly in natural processes. Through gardening, we are reconnected to “mother earth” and to the larger ecology of the world in which we live (Francis, Hester 1990, 6).
Alle politiche di dominazione coloniale sette-ottocentesche, quando varie zone equatoriali e tropicali fungevano da ‘succursali’ sia per le monocolture (di canna da zucchero, caffè, cacao, banane, cotone), sia per l’installazione di giardini/osservatori botanici utili per la raccolta e la tassonomizzazione di piante rare provenienti da altre aree geografiche, in una sorta di iper-spettacolarizzazione dell’esotico, Senior contrappone un paradigma più antico e universale. Questo paradigma si coniuga con i fondamenti di una coscienza etico-ambientale ed elegge il giardino ad archetipo delle relazioni tra agente umano e habitat naturale, nonché a ricettacolo di simboli che ben si incardinano in una “restorative agenda” di marca politico-culturale (Rahim 1999, 72). Riallacciandoci al passo dell’intervista del 1995, in cui l’autrice definiva le piante come esseri viventi che condividono il nostro stesso mondo ed hanno potenzialità taumaturgiche quanto distruttive, si osserva come la semiosi di Gardening in the Tropics graviti anche intorno ad assiologie di tipo animistico e panteistico, a palinsesti atavici legati alle cosmologie africane e amerinde. La sensibilità ambientale si sposa dunque, nei componimenti, con una visione olistica e magico-spirituale.
Questa angolatura risalta nell’ultima delle quattro macrosezioni in cui è suddiviso il volume, ossia Mystery: African Gods in the New World, composta da dodici poesie dedicate a divinità della mitologia dei popoli dell’Africa occidentale e, prima ancora, dei Taino, emigrati dal Sudamerica verso le isole caraibiche da tempi immemori. Queste divinità, maschili e femminili, sono a loro volta le ‘derivanti’ di un corteo sacro che è andato acquisendo una fisionomia propria nel Nuovo Mondo. Senior le invoca omaggiandole ed esaltandone le qualità precipue, da Marassa, coppia di divinità speculari, a Obatala, Padre della Saggezza, e Osanyin, Padre della Fitoterapia; da Babalu, Dio della Terra, a Oya, Dea del Vento; da Yemoja, Madre delle Acque, a Guédé, il Dio dei Morti che, nel Vodou haitiano, presiede al limes di congiunzione/distacco tra i vivi e le anime degli antenati. Occorre tuttavia precisare che Mystery chiude emblematicamente un cerchio aperto da Gourd, pattern poem inserito all’inizio della raccolta a mo’ di intercapedine epigrafica, amuleto e formula ritualistico-propiziatoria (come sintetizza efficacemente Jennifer Rahim, questa poesia di apertura “operates as a counteractive ado or charm, neutralizing the ‘bad eye’ of the colonial gaze which saw the tropics as inferior ‘other.’ Second, the gourd, in its capacity as an invocatory instrument, functions as a communal summons to engage in the sacred rite of ‘re/membering’”. v. Rahim 1999, 70). Come preannuncia il titolo, questo calligramma [Fig. 2] ha una disposizione tipografica che ricalca la forma della Lagenaria siceraria o ‘zucca a fiasco’, frutto di un viticcio di origini antichissime e già in uso presso gli egizi, gli etruschi e le civiltà greco-romane. Il riferimento è però qui, più specificamente, alla variante nativa delle Indie Occidentali, ovvero l’‘albero di Calabash’ (Crescentia cujete), pianta nazionale dell’isola di Saint Lucia e uno dei simboli iconici dell’identità caraibica. La polpa del frutto del Calabash possiede proprietà curative, mentre il guscio viene tradizionalmente impiegato per realizzare recipienti, ciotole, oggetti di arredo e perfino strumenti musicali. La sua straordinaria resistenza e versatilità ha fatto sì che, nel tempo, a questa zucca fossero attribuite valenze magico-sacrali associate al rinnovarsi dei cicli vitali – la sua forma stondata, colma d’acqua, allegorizza il grembo preistorico dell’Utero cosmico, inizio e fine del Tutto, convergenza di womb e tomb, in un’eco dei miti cosmognici dei Taino – ma anche alla memoria culturale, all’immaginazione creativa e alla comunicazione con la dimensione oltremondana, in virtù delle sonorità esoteriche e dei ritmi arcani prodotti dai sassolini, grani duri o semi riposti al suo interno.
Collocando Gourd in posizione incipitale e dando spessore figurale alla consistenza materica del frutto a livello sia visivo (con il calligramma), sia sonoro (mediante un ricorso marcato all’onomatopea, a termini creoli e a un vocabolario ritualistico afro-amerindo e haitiano), Senior pare fendere le risacche del tempo e calarsi nel ruolo dell’artista-shamano che, agitando il suo asson o maraka (il ‘sonaglio sacro’ dei riti divinatori e dell’invocazione degli spiriti), cattura l’attenzione dei lettori iniziandoli al viaggio testuale. Un viaggio di ricognizione memoriale grazie al quale un passato segnato da lacerazioni violente, ma pure da un coacervo vitale di scambi, contaminazioni e mitografie, viene re-membered, ricordato e virtualmente ricostruito portandone in salvo i disiecta membra. Su un fronte parallelo, la fluidità del ‘discorso antillano’ rende qui permeabili gli argini cronologici, dando a chi legge l’impressione che il passato si innesti in maniera naturale nel presente – e viceversa – in una trama speculare di rispondenze simultanee tra mythos e chronos, pensiero magico e pragmatico, momenti della storia pre- e post-colombiana, arcaica e contemporanea, coloniale e postcoloniale. L’andamento circolare del percorso è nuovamente suggerito, con un effetto di mise en abyme metaletteraria, dalla strutturazione verbale e plastica di Gourd, i cui versi di apertura e chiusura sono sostanzialmente sovrapponibili: “hollowed dried / calabash humble took-took / how simple you look”; “hollowed / dried / calabash / humble / took-took / how simple / you look” (Gourd, 6-8, 39-45, in Senior [1994] 2005, 7).
L’aspetto ingannevolmente innocuo del “took-took”, una delle denominazioni colloquiali della zucca Calabash, cela in realtà una fucina magico-affabulatoria che attende di essere riesumata, in primis attraverso il gesto invocatorio di Senior e poi grazie all’ascolto e alla partecipazione empatica dei destinatari dell’opera, sui quali le altre cinquanta poesie che compongono il volume dovrebbero agire come i semi che picchiettano dal “crusty exterior” (9) del frutto essiccato, catalizzando il processo esegetico. Mano a mano che, dall’estremità superiore del gambo di questo carme figurato, si procede nella lettura e si penetra nel cuore della zucca, ci troviamo metaforicamente immersi nel ‘liquido amniotico’ delle origini e del “first Flood” (16), tra le pareti incantate di un “cosmic / container” (11-12) visitato da Orehu, lo Spirito dell’Acqua e forgiatore del “Mbaraká”, il sacro crepitio primordiale. Mentre proseguiamo il viaggio verso il peduncolo della zucca, ecco che “we’ve walked / far from that water, from those mystical shores” (28-29) e in prossimità delle sponde secolari della “maracca” (32), o “maraca”, lo strumento musicale con il quale ci si augura sia ancora possibile risvegliare le voci della memoria ancestrale annidate nell’incavo del frutto.
Il tessuto di interrelazioni osmotiche e cronotopiche che si snoda all’interno di Gardening in the Tropics coinvolge dunque anche le altre tre macrosezioni – nell’ordine, Travellers’ Tales, Nature Studies e l’omonima Gardening in the Tropics – in cui trova conferma il valore di compendio dell’opera, testimonianza di una conoscenza diretta e profonda di vicissitudini storiche, saperi e pratiche comuni, tradizioni folkloriche e peculiarità della vegetazione nel microcosmo tropicale caraibico. Il filo rosso dei dodici testi costituenti l’ossatura di Travellers’ Tales è deducibilmente il tema del viaggio, o meglio di esperienze e narrazioni di viaggi che si situano però agli antipodi rispetto al resoconto documentale ed etno-antropologico del pioniere occidentale approdato nel Nuovo Mondo. L’‘odeporica alternativa’ di Senior include traiettorie che toccano una molteplicità di mete – dalle città europee alle coste africane, dagli Stati Uniti alla Costa Rica e a Cuba – ma il vero baricentro topografico resta l’arcipelago caraibico, scenario delle peripezie, dell’attitudine resiliente e delle survival narratives di pellegrini per i quali la dislocazione, la fatica e la perdita sono all’ordine del giorno. Essi tuttavia non desistono, reagendo con una stoica presenza sul territorio (“Like limpets we cling / on craft that ply / in these waters / where our dreams lie”, Caribbean Basin Initiative, 1-4, in Senior [1994] 2005, 29), o comunque coltivando la speranza di un rientro e un ricongiungimento con la comunità. Ben quattro poesie rievocano le conseguenze drammatiche dei cicloni che nel corso del Novecento si sono abbattuti sul Mar dei Caraibi, da quello del 1903 fino al gigantesco uragano Gilbert del settembre 1988 (Hurricane Story, 1903; Hurricane Story, 1944; Hurricane Story, 1951; Hurricane Story, 1988), con un riferimento di chiusura a un’altra terribile tempesta tropicale, il San Felipe Segundo, nel settembre 1928 (All Clear, 1928). Facendo tesoro di conoscenze e accortezze tramandate nell’arco di generazioni, gli isolani hanno imparato a “shor[e] up / their lives against improvidence”, forti del fatto che “my grandfather had learnt / from his father and his father before him / all the ways of orchestrating disaster” (Hurricane Story, 1903, 3-4, 43-45, in Senior [1994] 2005, 19, 20).
Il pezzo più memorabile di questa macrosezione, e probabilmente dell’intera raccolta, è Meditation on Yellow, epitome e sorta di cartina al tornasole delle marche ideologico-discorsive, del punto di vista corale-ancestrale, delle coloriture timbriche e della permeabilità delle barriere diacroniche che contraddistinguono i versi di Senior. Se la bipartizione tipografica del testo rimanda a istanze enunciatrici diverse – presumibilmente un soggetto di etnia Taino e un’inserviente caraibica (una cameriera o una domestica) della nostra contemporaneità – le prospettive finiscono per fondersi e confluire in una ‘visione nativa’ transtorica che, con pacata ma impietosa fermezza, smantella le impalcature residue di narrazioni egemoniche filo-colonialiste. Come argomenta con sottigliezza Michael A. Bucknor, la ‘turbolenza tonale’ e il ritmo sincopato di questa “cunning tongue”, con il suo “quietly scandalized tone of the cunny-Jamma-oman”, riproducono l’impianto performativo di rituali antillani correlati al dissenso e alla rivolta e sono recepibili a un orecchio attento “as a chant of implicit judgement against Babylon” (Bucknor 2009, 61, 65), una litania di biasimo intorno al materialismo affaristico e predatorio dell’Occidente ‘evoluto’. Inoltre, questa voce seraficamente corrosiva, una e molteplice, articola una “body-memory poetics of revolution” che risulta “wily, crafty, Anancy-esque” (Bucknor 2009, 55), in un’imprescindibile omologia con la figura archetipica del trickster Anancy, ragno antropomorfo, maestro in astuzia, dissimulazione e resilienza e pietra angolare della mitopoiesi afro-caraibica.
Il giallo che è qui oggetto di meditazione corrisponde da un lato al colore del metallo prezioso – con affondi che chiamano in causa la caccia a El Dorado e la ‘febbre dell’oro’ – e dall’altro alle gradazioni naturali della solarità tropicale, dall’intensità della luce alle qualità cromatiche della vegetazione e al suolo stesso. Nella prima parte della poesia la voce più strettamente ancorata al passato coloniale smaschera il vile inganno dei conquistadores, rimarcando con un frasario asciutto e velatamente sprezzante che “we were peaceful then / child-like in the yellow dawn of our innocence / so in exchange for a string of islands / and two continents / you gave us a string of beads / and some hawk’s bells” (Meditation on Yellow, 8-13, in Senior [1994] 2005, 11).
Come si diceva, però, questo è anche un io collettivo capace di sorvolare i bastioni del tempo e tramutarsi in osservatore critico di dinamiche storiche ultrasecolari: “But it was gold / on your mind / […] / the golden altar / (which I saw in Seville / five hundred years after)” (Meditation on Yellow, 55-56, 66-68, in Senior [1994] 2005, 13). Di converso, l’istanza che gli si affianca nella seconda parte si posiziona nella cornice novecentesca di un consumismo occidentale avente come perno il turismo d’élite e il monopolio economico delle oasi vacanziere. Essa si esprime in modo analogo, attraverso un susseguirsi di enunciati constativi che additano politiche pervicaci di sfruttamento, per poi estendere il campo solcando a ritroso i flutti dell’‘Atlantico nero’ e cinquecento anni di cattività:
[…] I’ve been travelling long
cross the sea in the sun-hot
I’ve been slaving in the cane rows
for your sugar
I’ve been ripening coffee beans
for your morning break
I’ve been dallying on the docks
loading your bananas […]
And just when I thought
I could rest […]
a new set of people
arrive
to lie bare-assed in the sun
wanting gold on their bodies (Meditation on Yellow, 93-100, 109-110, 117-120, in Senior [1994] 2005, 14-15)
Nei versi conclusivi di Meditation on Yellow i toni si fanno più assertivi, a segnale di una precisa volontà di spezzare definitivamente le catene del capitalismo eurocentrico e reclamare un’inalienabile appartenenza etnico-identitaria: “You cannot reverse / Bob Marley wailing / making me feel / so mellow / in that Caribbean yellow” (Meditation on Yellow, 203-207, in Senior [1994] 2005, 18).
Questo progetto di riscatto e, per così dire, ‘ritenzione culturale’ si estende anche a realtà botaniche territoriali o bioregionali, in un abbraccio interspecista che, in qualche modo, getta le premesse di una contro-tassonomia in grado di fare ulteriormente luce su persistenze ecosistemiche. Ciò emerge nella stessa Meditation on Yellow, in cui la voce novecentesca menziona per esempio la “Yellow Macca” (la Maca, pianta erbacea), la “Allamanda” (pianta sempreverde rampicante), la “Cassia” (famiglia delle Fabacee) e la “Poui” o Jacaranda mimosifolia. Più eloquenti sono altre poesie del volume, segnatamente la macrosezione Nature Studies. Plants, il primo dei quattordici testi in cui si articola questa parte, riprende il motivo animistico e del mutual entanglement e, giocando sul filo della provocazione, gli conferisce venature politiche nonché un’aggressività erotico-pulsionale sottolineando come, “from the way they [plants] breed (excuse me!) / and twine, from their exhibitionist / and rather prolific nature, we must infer / a sinister not to say imperialistic / grand design” (Plants, 5-9, in Senior [1994] 2005, 63). Senza necessariamente scivolare in facili sovrapposizioni con la libido possidendi, l’individualismo competitivo e le brame imperialistiche umane, queste poesie sollecitano riflessioni sull’energia attanziale e autotelica delle piante, anch’esse protagoniste di un vasto ‘programma cosmico’ che le dota di un’intenzionalità riproduttiva.
La ‘persistenza vegetale’ sembra qui materializzarsi su due assi. Da un lato, l’io poetico compie un’operazione di indigenization e (ri)alfabetizzazione botanico-ambientale che ci rammenta come le Indie Occidentali vantassero una flora autoctona anteriore alle massicce alterazioni degli equilibri e dell’habitat causate dalle piantumazioni invasive, sull’onda degli investimenti e delle reti di smercio europee. I componimenti intitolati Starapple e Madam Fate recuperano virtualmente due tasselli dell’areale storico caraibico, valorizzando rispettivamente le cifre indigene dell’albero di Melastella o Cainetta (Chrysophyllum cainito) e della Stella di Betlemme (Hippobroma longiflora), pianta erbacea perenne nota per i suoi micidiali effetti intossicanti: “notorious / Madam Fate, / her poison / as potent / as his [Lucifer’s] / last / drop” (Madam Fate, 13-19, in Senior [1994] 2005, 68). Pregnanti sono poi i riferimenti agli endemizzati Anatto e Guinep (in Guinep e Anatto and Guinep): sia il primo (Bixa orellana), sia il secondo (Mamoncillo o Melicoccus bijugatus) producono frutti con un pigmento particolarmente intenso che oscilla tra il rosso, l’arancione e il giallo. Se gli estratti dell’Anatto sono ad oggi utilizzati come coloranti naturali per alimenti e tessuti, in tempi antichi, commenta la voce corale-ancestrale, questi arbusti erano avvolti in un’aura nobile e godevano di pieno diritto di cittadinanza nello scacchiere comunitario:
No one today regards anatto and guinep
as anything special. […]
Well, with the Arawaks and others who were
here before us
it wasn’t so. Nothing could happen without
anatto paste
or guinep stain to paint their bodies
with. (Anatto and Guinep, 1-2, 15-20, in Senior [1994] 2005, 76)
Dall’altro lato, Nature Studies non dimentica le specie alloctone che, importate da luoghi disparati (Brasile, Perù, Messico, Bolivia e così via), sono ormai naturalizzate nella regione caraibica. Tra queste, troviamo l’Ananas o yayama (in Pineapple), il Guava (in Guava e Guava/2), l’Asimina (in Pawpaw) e il Bambù (in Bamboo). Di ciascun esemplare vengono messe in rilievo alcune caratteristiche distintive e, di riflesso, la fisionomia intrinseca nel quadro ontologico del vivente. Nel complesso, questi testi di Senior potrebbero essere esaminati alla luce di una nuova pedagogia della ‘guida orticolturale’, attraverso cui l’autrice “attempts to destabilize […] colonizing discourse through a counter-process of remembering and recounting original name and original function – re-personalizing and re-politicizing the complex storyed relationship between plant, w/Word and community” (Collett 1998, 87). Come ribadisce Anne Collett, nella silloge “[p]lants representative of greed of empire – sugar cane, coffee, bananas, oranges, ginger, cocoa – are replaced by the native plants of resistance and rebellion” (Collett 1998, 100).
Nelle dodici poesie della macrosezione Gardening in the Tropics, Senior riavvolge le fila argomentative riguardanti fenomenologie antropologiche, dinamiche storiche e situatedness ambientale, dall’arte del sopravvivere al disastro (ad esempio in My Father’s Blue Plantation e The Immovable Tenant) alla mitografia della simbiosi con il territorio (in The Colours of Birds, The Tree of Life, Amazon Women e Advice and Devices). Non sorprende che a intensificare la vis dialettica siano alcuni strali lanciati contro un’ipoteca coloniale che, nonostante tutto, non riesce ad affossare il carapace antillano e la memoria storica del marronage:
You might kill me but you’ll never
bury me. Forever I’ll walk all
over the pages of your history. […]
[…] I who
spent so many years in disquiet,
living in fear of discovery,
am amazed to discover, Colonist,
it was you who feared me (Gardening on the Run, 72-74, 115-119, in Senior [1994] 2005, 109-110).
In breve, il paesaggio evocato trasuda “visceral energies which are recovered poetically in service for the affirmative articulations of Caribbean lives […]. Caribbean landscape is probed not only as a site of historical trauma but also as a space of agency, sustenance and continuity” (Regis 2020, 153). Ed è passando il testimone alle istanze enunciatrici di questi messaggi – non solo testuali – che vorrei concludere l’excursus analitico fin qui condotto, con una chiosa sui paradigmi dei “chaotic entanglements”, della contaminazione feconda e di ciò che oggi chiameremmo ‘impronta ambientale’:
Gardening in the Tropics,
you’ll find things that don’t
belong together often intertwine
all mixed up in this amazing fecundity.
We grow as convoluted as the vine (The Knot Garden, 1-5, in Senior [1994] 2005, 88, corsivi miei) .
Gardening in the Tropics nowadays means
letting in light: they’ve brought in machines
that can lay waste hundreds of hectares
in one day, […]
[…] We made the tiniest scratch
on Mother Earth (begging her pardon). When we moved
on, the jungle easily closed over that scar again.
We never took more than we needed (Seeing the Light, 1-4, 18-21, in Senior [1994] 2005, 95).
Riferimenti bibliografici
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English abstract
This paper focuses on Gardening in the Tropics (1994), the second poetry collection by Olive Senior, a contemporary Jamaican-born Canadian author. Taking its cue from the volume’s provocative title, my analysis begins by considering the meanings that should be attributed to the notion of ‘gardening’ and its historical phenomenology in the Caribbean region, in connection with both European colonization and West Indian ancestral heritage. Subsequently, attention is drawn to the ways the poems’ Creolized voices, imagery and discursive tools succeed in foregrounding the axiology, cultural roots/routes, resistance and survival strategies of Caribbean peoples. Space is also devoted to the motifs of conservation, horticulture and the ecosystem, including references to a number of indigenous or nativized plants, which Senior significantly recollects by retrieving their original (pre-Linnaean) names.
keywords | Olive Senior; Gardening in the Tropics; Caribbean environment; Biocultural interconnections; Human and vegetal life.
Per citare questo articolo/ To cite this article: L. Giovannelli, “Mixed up in this amazing fecundity” Persistenze ecosistemiche e vitalistico-ancestrali in Gardening in the Tropics di Olive Senior, ”La rivista di Engramma” n.200, v.1, marzo 2023, pp. 405-418 | PDF