Monica Centanni
Luce rara. Una lettura politica di Come le lucciole di Georges Didi-Huberman
[Si tratta di] guarire dal pregiudizio che la politica sia una necessità inalienabile
e sia esistita sempre e dovunque. Necessario, sia nel senso di un bisogno inalienabile
della natura umana al pari della fame e dell’amore che in quello di un indispensabile ingrediente
della convivenza umana, il politico non lo è affatto. Anzi, esso comincia proprio dove termina
il dominio dei bisogni materiali e quello della violenza fisica. Il politico in quanto tale è esistito
così poco sempre e dovunque che in termini storici solo poche epoche l’hanno conosciuto e realizzato.
Ma questi pochi grandi casi fortunati della storia sono decisivi: soltanto lì il senso della politica,
l’avventura e la sventura del politico, si rivelano appieno.
Hannah Arendt, Che cos’è la politica
Patologie della luce
Buio fitto o luce accecante: gli spazi pubblici della nostra vita activa, così come gli spazi di contemplazione in cui abita il nostro immaginario, individuale e collettivo, sono afflitti da una cattiva illuminazione. Eccesso di buio o eccesso di luce producono sull’azione e sul pensiero i medesimi effetti atrofizzanti: difetto di percezione dei contorni, imprecisione nelle definizioni, menomazione delle sensibilità ai colori del mondo. Deficienza della percezione, dunque, ma non è tanto e soltanto un problema estetico: la questione è tutta politica. Tutta politica è, fin dal sottotitolo, una delle linee-guida del bel saggio Come le lucciole. Per una politica delle sopravvivenze di Georges Didi-Huberman: un piccolo libro, importante e coraggioso, che con la sua intensa frequenza linguistica e concettuale richiede, provoca, una sollecita corresponsione.
Chiamati in causa, come testimoni e insieme come imputati del processo ermeneutico che l’autore inscena, sono due attori importanti del pensiero contemporaneo, non solo italiano, Pier Paolo Pasolini e Giorgio Agamben. Lo spunto per il tema, e per il titolo e le immagini, del saggio di Didi-Huberman è il famoso articolo di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole del 1975. Ma che il tema non sia, soltanto, un raffinato e ardito esercizio di lettura filosofico-letteraria, ma che riguardi noi, il nostro tempo, lo afferma espressamente lo stesso autore:
Non è tanto Pier Paolo Pasolini di per sé che ardo dal desiderio di capire meglio, quanto un certo discorso […] che oggi si mantiene sulla sua scorta, e che vuole avere un senso per noi, per la nostra situazione contemporanea (Come le lucciole, p. 38).
I riferimenti espliciti alla situazione politica attuale, in particolar modo italiana (“mentre scrivo Silvio Berlusconi continua a pavoneggiarsi sotto i riflettori, la Lega nord si muove con efficacia e i rom vengono schedati”, Come le lucciole, p. 31), conferiscono al ragionamento di Didi-Huberman una particolare urgenza, non soltanto ermeneutica.
Già Pasolini, con le sue ipersensibili antenne sismografiche, denunciava che la patologia dell’illuminazione che pregiudicava e pregiudica l’ambiente della nostra vita activa e della nostra vita contemplativa altro non che è un effettaccio dell’esercizio del potere autocratico. Tempi troppo bui o troppo illuminati dai “feroci riflettori del potere” (l’espressione è dello stesso Pasolini) annegano i colori del mondo in una luce crudele e panoptica che minaccia l’esercizio della discrezione e, più in generale, mette alla prova la tenuta dei sensi e la pratica dell’intelligenza. Luce indiscreta, neon freddo che fa di ogni luogo non una stanza della vita e del pensiero ma una morgue orrida perché impietosa, gelida, indifferente alle pieghe dell’intelletto e alle passioni vitali. E la patologia della luce provoca un grave danneggiamento ai sensori nervosi, una atrofia dell’intelligenza sensoriale che di percezioni nutre l’animo e la mente.
La condizione in cui viviamo è un presente impoliticamente totalitario e politicamente inerte, in cui tutto sembra lecito e possibile ma nulla accade: disattivate le polarità dialettiche, neutralizzato ogni attrito, non sprizza alcuna scintilla. Un tempo scarico di energia in cui, abolita la fecondità dialettica del conflitto, il sentimento di perdita di senso del mondo ripiega nella percezione diffusa di una “apocalissi latente”: un tempo in cui “nulla sembra più in conflitto ma la distruzione opera ugualmente le sue devastazioni nei corpi e negli spiriti di ciascuno” (Come le lucciole, p. 46).
Sintassi dei tempi
La risposta alla defaillance estetica dell’intellettuale rispetto al buio o all’eccesso di illuminazione, è l’agorafobia, il ripiegamento luttuoso e depressivo, il rinvio a un orizzonte apocalittico. La melancholia che dovrebbe dare linfa alla “sacra insoddisfazione” dell’intellettuale (la bella formula è di Gertrud Bing in riferimento ad Aby Warburg), piega verso i vizi opposti che già Dante considera come derive complementari della stessa distorsione spirituale: l’ira e l’accidia. La cultura contemporanea è inzeppata di invettive irose e roventi contro il tempo, o di accenti nostalgici che inclinano verso quella “freddura” accidiosa che ci trascina “senza misura / posta ‘n estrema paura / con la mente alienata” (Jacopone da Todi): deliri che trascinano lo spirito troppo infiammato o troppo raggelato alla deriva della mancanza di cura, del fastidio e dispregio del proprio tempo, e che finiscono col condurre al blocco della capacità intellettiva e alla impotenza delle funzioni di interazione con il mondo, fino alla paralisi totale che l’“accidioso fummo” induce nell’attività e nel pensiero. L’effetto è, comunque, il disimpegno, l’isolamento, l’alienazione dal mondo.
La riflessione si appunta sulla qualità e l’orientamento dello sguardo dell’intellettuale sul tempo: sul presente, sul passato e sul futuro. Già Ludwig Binswanger, nel descrivere lo stato di mania e di malinconia, riconosceva come indicatorie di questa patologia un rapporto disturbato con l’“essere nel mondo” rispetto al tempo: una relazione squilibrata e insoddisfacente con la praesentatio, l’“esserci nel presente” (che lo stesso Binswanger mette al centro della sua Daseinpsychologie), che inclina verso la protentio, che sposta la presa sul futuro, o verso la retentio, che ripiega sul passato (vedi in “Engramma” la lettura di Bilderatlas Mnemosyne, Tavola 53; il saggio e la Tavola tematica ex Mnemosyne Figure del dolore e della meditazione; il saggio e la Tavola warburghiana De melancholia).
Si tratta dunque di un ordine, nella grammatica dei tempi, che dovrebbe garantire un’armonica sintassi e che invece risulta patologicamente impostato sull’ipotassi obbligata del presente rispetto alla nostalgia del passato e all’orizzonte del futuro. Ma se il tempo (e il sentimento del tempo) è politica, il problema della sintassi dei tempi, e più specificamente la postura dell’intellettuale rispetto al proprio tempo, diventa immediatamente una questione di grande momento politico.
Amicizie stellari
E proprio in questo senso, di Pier Paolo Pasolini e di Giorgio Agamben Didi-Huberman processa specificamente la postura rispetto al tempo: come si ordina, nei due pensatori, il sentimento del presente rispetto al passato e al futuro. I due testimoni eccellenti sono prescelti da Didi-Huberman per dialogare sul filo di una indiscussa stima intellettuale, sulla frequenza di una nietzscheana ‘amicizia stellare’: sono due autori che per pensiero e per passione del proprio tempo sono da considerare esemplari in quanto provano “una grande impazienza sul presente” ma sempre in relazione a una “infinita pazienza sul passato”. Ed è proprio per questo – afferma il filosofo – che tuttora “abbiamo bisogno di loro” (Come le lucciole, p. 65). A ognuno dei due ‘amici’ Didi-Huberman regala un dittico: per ciascuno due capitoli che presentano la lettura critica di testi scritti da Pasolini e da Agamben a distanza di molti anni.
È così che il ripiegamento sulla nostalgia dell’ultimo Pasolini dell’articolo delle lucciole (1975), e l’investimento sull’orizzonte apocalittico dell’ultimo Agamben de Il Regno e la Gloria (2007), risultano tra loro consonanti nel segno della disperazione del presente. Ed è questo il mood prevalente nelle parole di tanta filosofia contemporanea, in cui si riscontra quello stesso “tono cupo, grigio acciaio, di una coscienza infelice, condannata al proprio orizzonte, alla propria chiusura” (Come le lucciole, p. 63) che Didi-Huberman rileva come intonazione propria di entrambe le profezie apocalittiche, la profezia del passato di Pasolini e la profezia messianica di Agamben.
Rispetto all’attesa dell’ultimo, totale, disvelamento che l’apocalissi minaccia e insieme promette attraverso le parole dei più sensibili critici del nostro tempo, la disperazione del presente cerca un riscatto in un altrove temporale che nega qualità al tempo immanente, al nostro qui ed ora: o è fede dolorosa e nostalgica del passato, o è speranza dilatoria nell’orizzonte del futuro.
Il genocidio impossibile
Ma, ci chiediamo con Didi-Huberman, è poi vero che le lucciole sono scomparse? Si è davvero consumato, materialmente e simbolicamente, quel “genocidio delle lucciole” che Pasolini denunciava trentacinque anni fa? No: non è vero che sia accaduto realmente – annuncia Didi-Huberman testimoniando la sua diretta esperienza di un incontro con uno sciame di lucciole nel pieno centro di Roma alla fine degli anni ’90. Non è vero in pratica e non è vero neppure, simbolicamente, in teoria. Vero è che di fatto l’autocrazia imperante, e in Italia in modo più smascherato che altrove, prevede, più o meno programmaticamente, l’eliminazione materiale e simbolica di tutto quanto ha a che fare con le zone chiaroscurali dell’immaginario, con tutto quanto è faglia critica, è luminescenza: l’abolizione di fatto, per incompatibilità genetica, di tutto quanto è sfumatura e non tinta chiassosa, bagliore e non luminaria abbagliante, parola e non schiamazzo. Ma non è detto che il piano sia riuscito, o che riesca vincente senza trovare resistenza. Bene nota Didi-Huberman:
Un conto è puntare il dito contro la macchina totalitaria, un altro accordarle così rapidamente una vittoria definitiva e senza riserve […]. Dar credito a ciò che la macchina vuol farci credere significa far vedere solo il buio fitto o la luce accecante dei riflettori, significa agire da sconfitti… significa vedere solo il tutto. Non vedere dunque lo spazio – magari interstiziale, magari intermittente, nomade, collocato in maniera improbabile – delle aperture, dei possibili, dei bagliori, del malgrado tutto (Come le lucciole, pp. 27-28).
Perché ogni ‘soluzione finale’, ogni utopia di genocidio – frutto di una concezione totalitaria del controllo e del potere, in quanto tale antiumana e antipolitica – non è soltanto moralmente deprecabile ed esteticamente orrenda. Può essere devastante e distruttiva per l’esistenza di singoli individui e di milioni di persone, ma è, di fatto, una immaginazione psichica paranoica, destinata felicemente al fallimento, banalmente inefficace rispetto al suo obiettivo primario. Persino al programma di sterminio nazionalsocialista sono sopravissuti non soltanto corpi, che con la lingua franta e balbettante di chi ritorna dall’Ade e non ha più voce, non ha più parole per dire e per dirsi, comunque hanno dato testimonianza. Sono sopravissute anche alcune, rare e preziosissime proprio perché non retoriche, parziali, flebili, immagini (e a questi fotogrammi ‘resistenti’ Didi-Huberman ha dedicato qualche anno fa un altro suo saggio importante e coraggioso, Immagini malgrado tutto).
Certo:
L’immagine è poca cosa: un resto o un’incrinatura. Un accidente del tempo che lo rende momentaneamente visibile o leggibile. Mentre l’orizzonte ci promette il tutto, costantemente celato dietro la sua grande ‘linea’ di fuga […] Agamben cerca l’orizzonte dietro ad ogni immagine (Come le lucciole, p. 53).
“Io […] darei tutta la Montedison per una lucciola” concludeva Pasolini il suo scritto del 1975, siglando precocemente l’irresponsabilità dell’intellettuale rispetto non solo alla politica ma alla stessa società. Ma sta al pensiero politico, rispondiamo con Didi-Huberman, non lasciare “al proprio nemico la definizione e il controllo dei concetti fondamentali”, non perdere le chiavi delle parole e delle immagini.
Orizzonte dell’apocalissi
Il potere autocratico conosce solo l’eccesso di buio e l’eccesso di luce. E se dalla spessa opacità del buio può emergere qualche frammento di autenticità, in figura di immagine effimera, i riflettori sono più pericolosi perché accecano con la luce: il cono dei fari cercapersone insegue, fruga, caccia, stana, poi circoscrive e infine uccide ogni desiderio di vita e ogni amor di conoscenza. Ma non per questo dobbiamo credere alla irreversibilità dei processi, a una cupa tempestas che incomberebbe sul presente e ne oscurerebbe completamente il cielo. Quando la prospettiva si allunga, su quell’orizzonte l’apocalissi si ripropone, etimologicamente, come ultima rivelazione, ultimo disvelamento. Quell’orizzonte che definisce la prospettiva della salvezza del mondo separa nettamente il presente, su cui incombono le tenebre, dal tempo futuro che inizierà con l’avvento della luce. Ai “barlumi di verità” delle lucciole, fatalmente intermittenti, fragili, discordanti “il tono apocalittico dei filosofi sembra preferire la grande ‘luce di verità’ che si rivela in una trascendente luce sulla luce”.
Nell’apocalissi, minacciata o agognata che sia, c’è ancora un troppo di luce: la luce, altrettanto accecante e spaventosa, che sfolgora sulla fine dei tempi. Ma: “una ‘politica delle sopravvivenze’ per definizione fa volentieri a meno – fa a meno per forza – della fine dei tempi” (Come le lucciole, pp. 49-51).
Comunque si tratta di una caduta dell’investimento nel proprio tempo. Ma altrettanto temibile, anche se condita dalla “dolcezza della poesia” è la paralisi luttuosa e nostalgica del pensiero, il moto retrospettivo dello sguardo che impronta una postura politicamente reazionaria, e che scivola inevitabilmente verso radicalizzazione della più totale “disperazione politica”. Perché non sono le lucciole ad essere scomparse, per genocidio o per estinzione, è il desiderio di vedere le lucciole che è venuto meno:
Non sono le lucciole a essere state distrutte: è piuttosto qualcosa di essenziale nel desiderio di vedere – nel desiderio in generale, e dunque nelle speranze politiche – di Pasolini. Pasolini aveva perduto la speranza nel suo tempo (donde di conseguenza… tutte le sue posizioni reazionarie…) (Come le lucciole, p. 38).
Desistenza del desiderio
La lettura incrociata che Didi-Huberman propone del mutato sentimento del tempo in Pasolini e in Agamben suggerisce anche un’ulteriore considerazione: la marca disperatamente misoneista che si evince dallo scritto di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole (1975) è accostabile alla tonalità del saggio di Agamben Il Regno e la Gloria (2007) anche in ragione della misura della spaziatura cronologica – trent’anni o poco più – che intercorre tra questi testi ‘ultimi’ e gli scritti giovanili dei due pensatori in cui il sentimento e la sintassi relativa del tempo sono tutt’altri: la Lettera di Pasolini all’amico Franco Farolfi (1941), e i primi saggi importanti di Agamben, fra cui si segnala Stanze (1979), a cui possiamo accostare anche l’illuminante saggio sulla ‘scienza senza nome’ di Aby Warburg (1975).
Non sarà, dunque, anche una questione anagrafica? Non sarà un declino del desiderio, e quindi anche dell’investimento carnale nella propria breve tempestas, nell’istantaneo kairós che è la vita mortale? Si tratta forse di quel “disseccamento degli spiriti vitali” che è un sintomo certo di insenilimento del corpo e dello spirito; dell’indebolimento degli organi “per i quali l’anima opera le sue virtù”; della “nubilosa e turbida tristizia” che rende “insipido e freddo” ogni piacere, cosi come descrive magistralmente Baldesar Castiglione nella famosa pagina del Cortegiano, che vale la pena di rileggere quasi per intero:
Non senza maraviglia ho piú volte considerato onde nasca un errore, il quale, perciò che universalmente ne' vecchi si vede, creder si po che ad essi sia proprio e naturale; e questo è che quasi tutti laudano i tempi passati e biasmano i presenti, vituperando le azioni e i modi nostri e tutto quello che essi nella lor gioventú non facevano; affermando ancor ogni bon costume e bona maniera di vivere, ogni virtú, in somma ogni cosa, andar sempre di mal in peggio. E veramente par cosa molto aliena dalla ragione e degna di maraviglia che la età matura, la qual con la lunga esperienzia suol far nel resto il giudicio degli omini piú perfetto, in questo lo corrompa tanto, che non si avveggano che, se 'l mondo sempre andasse peggiorando e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto prima che ora saremmo giunti a quest'ultimo grado di male, che peggiorar non po. […] La causa adunque di questa falsa opinione nei vecchi estimo io per me ch'ella sia perché gli anni fuggendo se ne portan seco molte commodità, e tra l'altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la complession si muta e divengono debili gli organi, per i quali l'anima opera le sue virtú. Però dei cori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi, caggiono i suavi fiori di contento e nel loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e turbida tristizia, di mille calamità compagnata, di modo che non solamente il corpo, ma l'animo ancora è infermo; né dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria e la imagine di quel caro tempo della tenera età, nella quale quando ci ritrovamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intorno agli occhi nostri, e nel pensiero come in un delizioso e vago giardino fiorisca la dolce primavera d'allegrezza. […] Ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual però non manca il desiderio, paiono i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che già provati aver si ricordano, benché i piaceri in sé siano li medesimi; però sentendosene privi, si dolgono e biasmano il tempo presente come malo, non discernendo che quella mutazione da sé e non dal tempo procede; e, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e però lo laudano come bono perché pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiamo quando era presente (Il libro del Cortegiano, II, 1).
Certo, nell’intonazione pasoliniana non viene mai meno quella “lancinante inquietudine”, quella passione fisica del proprio tempo, e quella vibrante istanza di liberare “il pensiero politico dalla sua ganga discorsiva e di raggiungere quel luogo cruciale in cui la politica si incarnerebbe nei corpi, nei gesti, nei desideri di ciascuno” (Come le lucciole, p. 18). Ma viene meno, si sperde e si opacizza, lo sguardo immaginante e desiderante:
Così facendo Pasolini non fece altro che smarrire, in fine, il gioco dialettico dello sguardo e dell’immaginazione. A essere scomparsa in lui era la capacità di vedere – nel buio o sotto la luce feroce dei riflettori – […] ciò che appare malgrado tutto come novità reminiscente, come novità ‘innocente’ (Come le lucciole, p. 41).
La risposta responsabile dell’intellettuale, che non abbia isterilite le fonti del proprio desiderio, sarà la proposizione di una nuova grammatica del tempo, un nuovo impegno a cogliere i “momenti inestimabili che sopravvivono, che resistono… facendo esplodere l’organizzazione dei valori in momenti di sorpresa” (Come le lucciole, p. 76). È il continuo esercizio di salvare nell’anima il puer dal gelo figurale del senex:
Il puer personifica quella scintilla umida all'interno di qualsiasi atteggiamento che è l'originario seme dinamico dello spirito. […] Il puer offre un contatto diretto con lo spirito. Se si rompe questa connessione diretta, il puer cade con le ali spezzate. E quando cade noi perdiamo il senso urgente, bruciante del nostro scopo e cominciamo invece la lunga marcia processionale attraverso i palazzi del potere, verso il Vecchio Re malato e dal cuore indurito, che spesso si traveste ed è indistinguibile da un Vecchio saggio infermo (James Hillman, Senex et Puer, p. 103).
Allora l’allenamento, faticoso e a volte doloroso degli organi del senso e del desiderio, non produrrà più un umor nero che sfoga vanamente nell’iracondia, o intorpidisce lo spirito nel triste e spesso fumo dell’acedia, ma, all’opposto, la stessa melancholia indurrà alla cura di quel thaumazesthai da cui scaturisce – insegna Aristotele – ogni amor di conoscenza, ogni poesia, ogni filosofia.
Risorse del declino
Ma alla disperazione apocalittica di Agamben, Didi-Huberman risponde anche con una diversa lectio del lascito di Walter Benjamin, di cui Agamben stesso è stato, e non solo in ambito italiano, tra i primi e migliori lettori.
Il dispregio dell’esperienza trova appoggio nel noto aforisma benjaminiano: Die Erfahrung ist im Kurse gefallen, le quotazioni dell’esperienza sono crollate. Ma, nota Didi-Huberman a proposito del lessico del ‘crollo’, “si tratta pur sempre di un movimento” in cui Benjamin adotta un “vocabolario processuale” non statico. E se il verbo fallen designa anche il cedimento all’amore, il ‘cadere innamorati’, anche il crollo dell’esperienza sarà da intendersi come un cedimento dinamico, non necessariamente distruttivo: si tratterà piuttosto di “un declino in tutte le sue armoniche, in tutte le sue risorse”. A suffragare l’accezione dinamica, potenzialmente fruttifera, del ‘crollo’ Didi-Huberman convoca il modello cosmologico lucreziano come figura antidoto alla desolazione della caduta:
Gli atomi ‘declinano’ ininterrottamente ma la loro caduta, in questo clinamen infinito, ammette eccezioni dalle conseguenze incredibili. È sufficiente che un atomo compia una leggera deviazione dalla propria traiettoria parallela perché entri in collisione con gli altri, dando origine a un mondo (Come le lucciole, p. 74).
E a seguire, questa la suggestiva conclusione sul punto: “Le quotazioni dell’esperienza sono crollate, è vero. Ma sta solo a noi decidere di non giocare in borsa”. Se è vero però che il ritmo imprevedibile del clinamen lucreziano prefigura una essenziale “risorsa del declino”, se è vero che la forza dinamica sprigionata dal crollo può essere virata in energia produttiva, fino alla configurazione di un’altra declinazione del mondo, si tratterà invece di giocare sì, ma puntando sul movimento. Giocare sì, ma stabilendo le regole di un altro serissimo gioco.
Zum Bild das Wort
Il serio ludere del nuovo mondo dovrà fare i conti con l’andata ‘fuori corso’ dei valori dell’esperienza e con la conseguente prospettiva pessimista, ma, esattamente come accadde nel Rinascimento italiano del XV secolo, avrà recuperato come contrappeso l’invenzione di nuove forme, l’apertura di nuovi spazi per l’immaginazione:
Sta a noi elevare la caduta alla dignità, alla nuova bellezza di una coreografia, di una invenzione di forme. […] L’affermazione di Walter Benjamin che riprendiamo qui è 'organizzare il pessimismo'… nel mondo storico, scoprendo uno 'spazio per le immagini' nel cuore stesso del nostro 'agire politico' (Come le lucciole, p. 76).
Spazio per le immagini, nuove figure per il pensiero: queste le precondizioni per riscattare opacità e cecità del tempo. L’immagine è poca cosa, certo: è solo un’incrinatura, “un accidente del tempo che lo rende momentaneamente visibile e leggibile”. Ma è il balenare dell’immagine che, con Benjamin, consente che “il tempo si faccia visibile, e la storia stessa appaia in un lampo passeggero”:
La famosa ‘piccola porta’ di Benjamin si apre '‘solo un secondo’. Più o meno il tempo che serve a una lucciola per illuminare – per richiamare – le sue congeneri prima che l’oscurità abbia la meglio (Come le lucciole, p. 52).
Zum Bild das Wort – secondo il motto warburghiano la parola spetta all’immagine, anche la parola politica, dal momento che, ci ricorda Didi-Huberman, Aby Warburg ha dimostrato “non solo il ruolo costitutivo delle sopravvivenze nella dinamica stessa dell’immaginazione occidentale, ma anche le funzioni politiche di cui le loro concatenazioni memoriali si rivelano portatrici” (Come le lucciole, p. 39). Potenza politica dell’immagine che, sulla scorta di Warburg e Benjamin, sta sul crinale tra il passato e il futuro:
L’immagine è un operatore temporale di sopravvivenze – foriera a questo titolo di una potenza politica relativa al nostro passato così come alla nostra ‘attualità integrale’ e dunque al nostro futuro (Come le lucciole, p. 71).
La forza diagonale tra passato e futuro
Alla borsa del tempo, nella nuova sintassi tutta da inventare, il presente può essere quotato dunque come un titolo di pregio per il valore che gli deriva non solo dall’inestimabile eredità del passato, ma anche dalla sua stessa energia intrinseca, dal suo poter essere, sempre, embrione totipotente, punto nascente di una nuova origine.
Con Hannah Arendt, Didi-Huberman ricorda che il presente si qualifica come “punto di cozzo tra le due forze contrastanti” del passato e del futuro, due linee che non hanno un principio conosciuto, e sono quindi “illimitate nel senso dell’origine, in quanto provenienti una da un passato infinito, l’altra da un infinito futuro ma hanno un termine certo nel punto in cui si scontrano”. La “risultante diagonale” invece ha un limite nel senso dell’origine “ma è illimitata nel senso opposto, essendo la risultante di due forze dall’origine infinita”. Ed è proprio la forza diagonale del presente che, “avendo un’origine nota, una direzione determinata dal passato e dal futuro, ma un termine illimitato, è l’immagine perfetta dell’attività del pensiero” (Tra passato e futuro, p. 16). E in questo presente, diagonale e dinamico, si cela “quel tesoro antichissimo che appare all’improvviso nelle circostanze più diverse e quindi scompare di nuovo celandosi sotto i più svariati travestimenti” (Come le lucciole, p. 91).
Un andamento carsico e irregolare, di cui le immagini restituiscono a volte l’impronta, che accede alla visibilità solo quando è, con Arendt e con Benjamin, suscettibile di narrazione, quando si fa materia di storia e di memoria. Si tratta allora di riconoscere pur dolorosamente, ma non più tristemente, nel punto di cozzo del nostro tempo, l’occasione istantanea di una possibile nuova origine, il cui verso è determinato dall’equazione delle linee passato/futuro, ma la cui proiezione geometrica è potenzialmente illimitata. E si tratta di aprire spazi per le immagini, di dare parole a un racconto. Il compito, ricorda Didi-Huberman riprendendo un pensiero arendtiano, richiede coraggio – virtù politica per eccellenza; ma richiede anche poesia che, per dirla con Agamben, “è l’arte di fratturare il linguaggio, di infrangere le apparenze, di smontare l’unità di tempo” (Come le lucciole, p. 43).
Occhi per le lucciole
L’essenza delle lucciole è “la materia sopravvivente – luminescente ma pallida, flebile e spesso verdastra dei fantasmi”. Fantasmi, dunque, le lucciole, nel senso doppio, semantico ed etimologico: forme umbratili di èidola, sopravvivenze formali che dell’èidos conservano un trasparente ricordo, ma anche phantasmata, proiezioni di phantasia, l’attività immaginativa della memoria, che incarnano in corpi sottili il desiderio di vita e di luce – un desiderio che sta più negli occhi di chi guarda che nelle loro stesse, fragili e istantanee, apparizioni. Le lucciole emettono una luce discreta che però si lascia scorgere anche nei tempi dell’orrore e delle apocalissi latenti o conclamate. È solo questione di sensibilità al loro “bagliore innocente”, di disponibilità all’epifania. Per il filosofo e per il poeta è l’esercizio del thaumazesthai che diviene anche “necessità fotografica di fare immagine”:
Per conoscere le lucciole bisogna vederle nel presente della loro sopravvivenza: bisogna vederle danzare vive nel cuore della notte, anche se quella notte viene spazzata via da qualche feroce riflettore (Come le lucciole, p. 33).
Ma per rivedere le lucciole dovremo anche recuperare dal giovane Pasolini, un’invidia – ma un’invidia positiva e vitale – per la danza delle lucciole che si amano:
Abbiamo visto – aveva affermato in una lettera a Franco Farolfi del 1 febbraio 1941 – una quantità immensa di lucciole che facevano boschetti di fuoco dentro boschetti di cespugli, e le invidiavamo perché si amavano, perché si cercavano con amorosi voli e luci.
Le piccole lucciole che “danno forma e chiarore alla nostra fragile immanenza” non sono messaggeri, sono esse stesse messaggio. Non alludono a una trascendenza ma squarciano il velo opaco del troppo reale e fanno vedere lo sfondo di pienezza immanente (non lontano e trascendente) che sta sotto alla realtà, non altrove: quello sfondo grazie al quale il nostro tempo ha un valore unico e prezioso.
Credere alla danza delle lucciole, invidiarle per amore, significa reinventare la grazia ad ogni movimento nuova che è la loro grazia, e recuperare così, fisicamente, una risorsa di desiderio da spendere anche nel campo dell’impegno intellettuale, cioè culturale e politico, pur ricordando che, come ci insegna Hannah Arendt, la politica è merce rara nella storia dell’umanità. Credere al bagliore erratico delle lucciole significa accordare fiducia al proprio tempo e alla possibile epifania dell’immagine che è sempre “apparizione unica e preziosa anche quando è ben poca cosa, cosa che brucia, cosa che cade”. Ma è l’epifania dell’immagine che rivela che il tempo che ci tocca in sorte è l’arena, l’unica arena, della nostra effimera, baluginante, esperienza di vita. Uno squarcio a termine, la vita mortale, nella indifferente, indiscreta (e poco invidiabile) continuità dell’essere.
Sta a noi non vedere scomparire le lucciole […] acquisendo libertà di movimento, il ritirarsi che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà di far apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi stare in disparte rispetto al regno e alla gloria, nella lacuna aperta tra il passato e il futuro, […] trasformarci in lucciole e riformare noi stessi una comunità del desiderio, comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi (Come le lucciole, p. 92).
La luce rara delle lucciole ci ricorda l’impegno e la gioia del coltivare, malgrado tutto, uno sguardo non distratto sul nostro tempo, non sclerotizzato nella disperazione; ci insegna a risvegliare i sensi dall’ipnotico incantesimo che ha raggelato il mondo, perché sta solo a noi di provare a reincantarlo, questo nostro mondo. Le lucciole fanno segno di sé nella notte. Per vedere le lucciole-segno bisogna ritrovare e indossare quello “sguardo scintillante e turbato” che Pasolini stesso aveva esattamente trentaquattro anni prima di annunciarne il genocidio, in quella notte tra il 31 gennaio e il 1 febbraio 1941 quando a Bologna con i compagni di università aveva visto la danza delle lucciole innamorate.
Cogliendo le tracce dei loro istantanei ed effimeri scintillii possiamo, forse dobbiamo, inventare il disegno di una nuova costellazione per questo nostro tempo. Imparare dalle lucciole a fare segno per tornare ad abitare, come uomini degni di questo nome, sotto un cielo in cui siano possibili epifanie e non apocalissi, in cui la nostra azione e il nostro pensiero siano scrivibili e leggibili in forma di racconto: sotto un cielo politico.
Riferimenti bibliografici
Giorgio Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, già in "Settanta", luglio-settembre 1975, ripubblicato in "Aut-Aut", gennaio-aprile 1984, pp. 51-66
Giorgio Agamben, Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino, Einaudi 1978
Giorgio Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino, Einaudi 1979
Giorgio Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Homo sacer 2.2, Neri Pozza, Venezia 2007
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