"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

Due contributi su Antonio Negri filosofo

Massimo Cacciari

English abstract

§ Vita Cartesii est simplicissima [1970]
§ “È morto un filosofo”. Il pensiero rivoluzionario non può finire [2023]

Nota sulla pubblicazione e sulla riedizione dei testi

a cura di Monica Centanni

Nel 1970, a pochi mesi dall’edizione del Descartes politico di Antonio Negri pubblicato da Feltrinelli, Massimo Cacciari pubblica un denso e consistente contributo in diretto dialogo con il libro di Negri su “Contropiano”, la rivista che era stata fondata nel luglio del 1968 da Alberto Asor Rosa, e dagli stessi Massimo Cacciari e Antonio Negri. Già dal secondo numero, Negri era uscito dalla direzione per una frattura sulla valutazione “dell'ondata di lotte studentesche e operaiste del ’68” (così Negri; sulla fondazione di “Contropiano” e sulla rottura con la direzione della rivista, vedi T. Negri, Storia di un comunista, Firenze 1995, a cura di G. Di Michele, 343-346). Tra gli autori dei 12 numeri della rivista che saranno pubblicati per i tipi della Nuova Italia tra il 1968 e il 1971 si trovano, fra gli altri, Manfredo Tafuri, Mario Tronti, Francesco Dal Co, Marco De Michelis, Rita Di Leo, Giangiorgio Pasqualotto, Alberto Abruzzese (in questa pagina pubblichiamo i sommari dei 12 numeri pubblicati tra il 1968 e il 1971 da La Nuova Italia).

Come è indicato nei riferimenti posti in exergo al suo saggio, Cacciari mette in dialogo la monografia di Negri su Cartesio con alcuni volumi importanti pubblicati in quegli anni nel panorama internazionale: i saggi sulla “linguistica cartesiana” e sulla “teoria delle idee innate” di Noam Chomsky, pubblicati nel 1966 e nel 1967 a New York e tradotti da Bollati Boringhieri nel 1969; gli scritti di Jacques Lacan, pubblicati a Parigi nel 1966; il saggio su Cartesio del filosofo e semiologo Max Bense, pubblicato nel 1960 in Germania. All’interno di questo reticolato di saggi che ruotano, più o meno direttamente, intorno al pensiero di Cartesio, Cacciari propone una lettura critica del lavoro di Negri: il corpo a corpo si fa più stretto e serrato intorno ad alcuni snodi di pensiero, ad esempio intorno all’idea di Rinascimento e del punto – cronologico e culturale – di insorgenza della modernità che Negri riconosce nella rivoluzione cartesiana, una datazione che Cacciari critica, sul piano filosofico e concettuale, appoggiandosi anche sulla grande lezione di storia delle idee, prima che di storia dell’architettura, di Manfredo Tafuri. L’inquadramento della questione allarga la prospettiva alle grandi scritture filosofiche, utopistiche e libertine tra XVII e XVIII secolo. In questa nuova edizione, ripubblichiamo Il saggio di Cacciari con una Bibliografia (che nella versione originale era implicata nelle citazioni infratesto) che permette di ricostruire una costellazione di pensiero e di studi. Nel saggio si possono apprezzare le scintille teoretiche di quegli anni pieni di luce di intelligenze e di energie intellettuali e politiche destinate a polarizzarsi, a incontrarsi e scontrarsi. La severità delle critiche di Cacciari a Negri poggia comunque sulla chiara convinzione che “quello di Negri è il primo tentativo di affrontare da un esplicito punto di vista politico, di classe, la questione delle origini, della fondazione stessa dell’ideologia borghese. In questo senso, il suo lavoro assume una importanza pionieristica. Le sue indicazioni andranno tutte, una ad una, riprese per qualsiasi lavoro di critica dell’ideologia” (Cacciari 1970, a p. 390 dell’edizione originale in “Contropiano”); e che pertanto sarà necessario “d’ora in poi affrontare il problema di questa sintesi [...]. Conoscerla per rovesciarla, saperla per negarla. Ma mai all’indietro”. Nella storia degli studi successivi su Cartesio il “lavoro pioneristico” di Negri non è stato considerato come meritava e le sue tesi non sono state né riprese né discusse “una per una”, come Cacciari – pur criticando rigorosamente Negri – auspicava (sul punto, vedi il contributo di Marco Assennato in questo stesso numero di Engramma).

Tornando a più di trent’anni di distanza sul tema del Descartes politico, Negri – in attrito in particolare con il pensiero di Jean-Luc Marion e con la sua “fondamentale trilogia” su Cartesio pubblicata a Parigi tra il 1981 e il 1993 – così scrive, riprendendo alcuni passaggi del saggio di Cacciari:

“L’analisi filosofica ha negli ultimi decenni tentato, quasi in maniera reattiva, di riportare decisamente il pensiero di Descartes alla tradizione, cioè di normalizzarlo sul terreno della metafisica speculativa – vale a dire di distruggere la stessa possibilità di un’ontologia politica cartesiana [...]. L’Io si dà, nella prospettiva metafisica cartesiana, come una sostanza finita, che si staglia sull’orizzonte di un essere eccedente, e tuttavia caratterizzato dai limiti assoluti dell’ente. L’ontologia cartesiana è grigia, del colore quindi di una sostanza neutralizzata e di una eccedenza finita. La seconda operazione [...] consiste nello ‘sbiancare’ teologicamente l’ontologia di Descartes. È attraverso la teoria delle ‘verità eterne’ che ogni analogico residuo di essere (nei termini della teoria scolastica dell’analogia e del panteismo rinascimentale), ogni rapporto ontologico cioè tra infinitezza divina e finitezza umana sarà sciolto. Il compito della critica diviene a questo punto quello di eliminare (o di rendere liminarmente residuale) ogni imputazione umanistica, ogni tensione dell’Io penso cartesiano in direzione di un essere univocamente produttivo e di una potenza ontologica autonoma. Fra le Regulae e le Meditationes si svolgerebbe interamente questo processo di svuotamento della potenza epistemologica e costruttiva della presa di coscienza cartesiana. Ne viene la sottovalutazione del Discorso sul metodo, laddove il dubbio è semplicemente caratterizzato come apprendimento della finitezza dell’essere. In questa figurazione, Descartes diviene il primo agente di un percorso di esaurimento della metafisica occidentale, il primo autore di una concezione finita dell’essere, che concede alla sempre eccedente deiezione dell’ente un destino assoluto. Questa via condurrà fino all’adesione alla lettura heideggeriana di Nietzsche e della genealogia filosofica del moderno. È chiaro quali possano essere le conseguenze che quest’interpretazione determina per l’analisi dell’ontologia politica di Descartes: come ben vide Massimo Cacciari, ogni tentativo di interpretazione di Descartes termina, su questo terreno, nel riconoscimento dell’insolubilità del problema della metafisica moderna dell’Io – preambolo alla crisi politica della borghesia nascente. Il moderno si presenta univocamente come crisi, ogni alternativa al suo interno è tolta, non c’è speranza (e, nell’interpretazione di Cacciari, neppure potenza)”. 
A. Negri, Descartes politico: metafisica e biopolitica, “Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine” 16/31 (2004), 21-37, pp. 32-33.

  • * * *

Il secondo scritto che qui ripubblichiamo è l’articolo di Massimo Cacciari comparso sulla “Stampa” il 13 dicembre 2023, il giorno dopo la morte di Negri. Il testo porta un titolo che indirizza la lettura della pagina – breve e intenso – sul quotidiano, ma che illumina anche il senso del suo confronto con il pensiero di Negri di molti decenni prima – “È morto un filosofo. Il pensiero rivoluzionario di Negri non può finire”. Lo scritto ruota intorno all’idea che “il pensiero di Toni Negri è prassi [...] il pensiero quanto più è radicale, quanto più esige di procedere al fondo della cosa, tanto più è obbligato a manifestare il proprio punto di vista, la propria parzialità”. L’omaggio al filosofo si concentra, nel finale, su uno scritto apparentemente minore all’interno della sterminata produzione di Negri: le lezioni che nel 2000 Negri “impartisce a se stesso”. È la lezione del materialismo lucreziano – il Lucrezio trascritto materialmente dallo stesso Machiavelli* – che corre in filigrana in tutta l’opera di Negri, e che in Kairos. Alma Venus e Multitudo si incrocia con la figura del “tempo avenire” – così Negri – che proietta luce di immagini, di permanenza, di eternità anche sulla preziosa congiuntura del presente. Come scrive Cacciari: “Physis si esprime nella molteplicità infinita dei viventi, e la moltitudine ne è l’espressione politica. Al politico spinoziano spetterebbe il compito di cogliere il momento opportuno, il Kairos, per renderla vincente. Si può essere disperati intorno a tale possibilità, ma non si può non vedere la forza della sua idea, non coglierne la necessità”.

#*Ne Il Potere costituente, Negri rimanda ai lavori su Machiavelli di Sergio Bertelli e – come evidente anche dalla lettura di Kairos, Alma Venus, Multitudo – ha chiara notizia della scoperta della trascrizione di un manoscritto del De rerum natura da parte dello stesso Machiavelli (si vedano gli scritti di Bertelli del 1961 e del 1964, ripubblicati in Engramma 134, marzo 2016).

Vita Cartesii est simplicissima

Massimo Cacciari [da “Contropiano” 2/1970, 375-399]

§ Antonio Negri, Descartes politico, Feltrinelli, Milano 1970.
§ Max Bense, Ein Geraüsch in der Strasse. Descartes und die Folgen II, Aegis-Verlag, Baden-Baden 1960.
§ N. Chomsky, Cartesian Linguistics. A Chapter in the History of Rationalist Thought [New York 1966]; Recent Contributions to the Theory of Innate Ideas [New York 1967], ora in Saggi linguistici, vol. 3: Filosofia del linguaggio: ricerche teoriche e storiche, Bollati Boringhieri, Torino, 1969.
§ Jacques Lacan, Écrits, Éditions du Seuil, Paris 1966.

I.

Nel De triplici vita (1489) Ficino compie forse il più eroico tentativo di possesso rinascimentale del mondo, la summa della problematica rinascimentale sul rapporto soggetto-oggetto. Ciò che dà la possibilità di “metiri” e “capere” il “mundum universum” – di misurare e comprendere il mondo come cosmo – è lo spiritus, inteso come fondamento materiale di ogni processo di esperienza e, insieme, di ogni elemento naturale:

Soli verum Musarum sacerdotes, soli summi boni veritatisque venatores tam negligentes, pro nefas, tamque infortunati sunt, ut instrumentum illud, quo mundum universum metiri quodammodo et capere possunt, negligere penitus videantur. Instrumentum eiusmodi spiritus ipse est, qui apud medicos vapor quidam sanguinis, purus, subtilis, calidus et lucidus definitur. Atque ab ipso cordis calore ex subtiliori sanguine procreatus volat ad cerebrum, ibique animus ipso ad sensus tam interiores quam exteriores exercendos assidue utitur. Quamobrem sanguis spiritu servit, spiritus sensibus, sensus denique rationi (Marsilio Ficino, De triplici vita I, 2).

Si costruisce così la stessa teoria ficiniana della sensazione: l’organo del senso possiede la stessa sostanza di ciò che è sentito, così nell’occhio c’è “luminosum aliquid”, nell’orecchio “spiritus aereus” e lo spirito in genere è simile alla “quinta essentia” celeste. Mito della consonantia musicale, come espressione della consonantia cosmica: mito che domina la disperata ricerca rinascimentale della sintesi. Ma è mito e speranza. Già Pico dimostra di esserne ormai perfettamente consapevole nella sua critica a Ficino: questa sintesi è magica. Con Pico (e altri, più tardi, nel corso del ’500) la critica della magia cessa di valere semplicemente come apologia del cristianesimo di fronte alla religiosità pagana. È ormai lo sperimentalismo magico a essere colto nella sua intrinseca infondatezza, dal punto di vista scientifico. Magia e scienza si separano teoricamente e storicamente. E la sympatheia universale-cosmica ficiniana degli elementi cessa di valere come ‘progetto’ scientifico, come utopia positiva. Bisogna aver chiara la portata epistemologica di questa separazione: si scopre qui definitivamente che la ‘logica’ ficiniana del rapporto soggetto-oggetto non è una logica che per il dominio, la razionalizzazione del mondo; che il mito, la speranza (certo: mai rinnegati) della sintesi ‘perfetta’ che il rinascimento agita, non potranno mai essere, per gli intrinseci limiti del loro statuto, certezza evidente, effettualità.

D’altronde, la stessa vicenda rinascimentale si fonda su tale contrasto e lo sviluppa, fin dal suo inizio, in ogni direzione. Dov’è l’“universale continuità” di cui parla Negri, a proposito del rinascimento, e ponendo in ciò la cesura con il pensiero cartesiano, nella Cacciata del Masaccio? E prendiamo le utopie urbane di cui anche Negri parla. Tafuri, in alcune pagine fondamentali, mostra, all’opposto, come Brunelleschi usi tutta la propria “assunzione” del classico all’interno di “un rigoroso codice di relazioni artificiali”, dove il rapporto “qualitativo”, il “valore” della sintesi del soggetto con la “cosa” è assolutamente sparito. Di più ancora: è la separazione netta tra intellettuale architetto e produzione collegiale a fondare quella “assunzione”, che diventa, quindi, non strumento sintetico, per la fondazione di un cosmo, ma strumento tecnico, per la razionalizzazione dell’essere, che sta “lì di fronte”, e per l’organizzazione del lavoro di cui “si dispone” (Tafuri 1969, 19-21). La stessa separazione è in Leonardo, la stessa ‘analisi’ degli elementi, la cui sintesi non è affidata, non può più esserlo, da alcuna sympatheia cosmica, ma emerge, in forma assolutamente problematica, dubitativa, dal dualismo tra l’‘occhio’ che calcola, misura, descrive e la ‘cosa’ ancora data. Ficino esprime una speranza che già in quegli stessi anni si andava scontando: la possibilità di togliere questa datità attraverso una unità originaria di soggeto e oggetto. Ma su tale unità non per un attimo si fonda, effettualmente, un progetto di possesso e dominio del mondo – semmai, questo avviene proprio (o si inizia) con la divisione del lavoro che Brunelleschi realizza, con la nuova misurabilità degli spazi, che li rendono comprensibili esattamente nella misura in cui li distinguono dal soggetto, con la critica del pensiero magico, o degli elementi magici del pensiero rinascimentale – critica basata sulla consapevolezza sempre più generale della loro impotenza scientifica

Come ha sottolineato Foucault, la potenza rinascimentale sull’essere si fonda su concetti analogici (Foucault parla di Ressemblance). Questo concetto può andare per Ficino, ma coglie unilateralmente il problema, come abbiamo appena visto. Ad ogni modo, Foucault si avvede benissimo del limite della Ressemblance, e che è esattamente questo limite che dovrà essere superato proprio nella direzione di un possesso effettuale del mondo. La logica della Ressemblance non è “logica di potenza”, è rimando infinito. Essa non potrà mai essere stabile in se stessa. Il cosmo che fonda rompe, certamente, la gerarchia medioevale, ma non misura, non calcola, non domina la nuova dynamis che esplode. Ed ecco, allora, che alla gerarchia statica medioevale se ne sostituirà una analogica, la cui produttività non è, però, in alcun modo quantitativamente organizzabile. Ecco l’impeto borghese non ancora serrato nella manifattura! (Foucault 1966, 32-45).

Il problema del superamento del mito analogico rinascimentale è quindi il problema stesso della fondazione reale della scienza moderna, in quanto progetto di razionalizzazione e dominio del mondo. Non possiamo, quindi, condividere né la periodizzazione né l’analisi dettagliata che Negri conduce. Abbandonare il mito rinascimentale non significa abbandonare la speranza di possesso e dominio, ma, all’opposto, rinnovarla, fondarla su termini logici interamente nuovi, più potenti. Certo, quella speranza esisteva – ma non era, appunto, non poteva essere, teoria, scientificamente controllabile. Si trattava ancora di eidola. E già all’interno stesso dello sviluppo della cultura rinascimentale, come abbiamo visto, la disincantata consapevolezza di ciò si andava facendo luce sempre più irreversibilmente. Tutto il ’500 è impegnato a dividere: ordine sociale da ordine ideale e religioso – il segno dal suo rimando analogico, da ogni Ressemblance – ma, soprattutto, la soggettività dalla sympatheia cosmica ficiniana. La ricerca della soggettività come fondamento, si svolge all’interno di uno statuto di separazione. Ma questa ricerca è tutta nella direzione della nuova logica scientifica, della nuova “com-prehensione” del mondo. Se è l’“universale continuità” a definire l’esperienza umanistica del mondo, ebbene, questa esperienza non c’è mai stata: c’è stato bensì, il continuo, e davvero eroico, tentativo di fondare sulla differenza la sintesi, la ricerca dell’unità nella separazione. Allora, il grande salto che si porrà con Descartes si esprimerà in questo nüchternes Denken: la metafisica della separazione (come dice Negri a proposito del Traité de la Divinité, cfr. Negri 1970, 63), e cioè la separazione assunta ontologicamente, di cui non si ricerca più un qualche analogico superamento, è fondamento del moderno atteggiamento scientifico, è filosofia della scienza, nel senso pieno. Separazione e dominio politico, attraverso la ratio scientifica, sul mondo, non si contraddicono più. La liquidazione del cosmo rinascimentale ficiniano è la possibilità della loro sintesi moderna. Descrivere il rinascimento in termini di “speranza entusiastica ed eroica di possesso e trasformazione del mondo” (Negri 1970, 14) – di generica “passione dell’invenire” (così a pagina 39) – di “grandi speranze capitalistiche del sedicesimo secolo”, che con Descartes crollerebbero (pagina 68) – di verità che vive nel mondo (pagina 89) – per opporgli, poi, un dualismo, una metafisica della separazione che pare impotente ad alcuna sintesi, completamente derealizzata – è ricadere, di fatto, in schemi desanctisiani di interpretazione, in una interpretazione “eroica”, “corposamente unitaria” del rinascimento che è quella classica del “risorgimento” borghese e di cui anche Marx è, in qualche sua pagina, affetto. Ma se si assume questa ‘idea’ del rinascimento come punto di riferimento, allora risulterà compromessa anche l’analisi del pensiero di Descartes: sarà difficile coglierne la specifica renovatio, nei suoi termini positivi; sarà difficile seguirne i tratti per cui esso si pone a fondamento del moderno processo borghese di comprensione totalizzante. Il suo progetto di dominio apparirà come residuo nostalgico. Impossibile: perché anche la nostalgia non avrebbe messo capo a nessuna sintesi effettuale – perché la sintesi è tutta da scoprire, da invenire, secondo nuovi schemi. Superamento del rinascimento è superamento di una sintesi ineffettuale e mai accettazione della sua impossibilità. E del rinascimento non si ha nostalgia, si usa, in modo freddo, geometrico, tutto ciò che, con sempre maggior forza, nel suo sviluppo storico, pone il problema della separazione, del dualismo, della discontinuità, in termini non contraddittori o alternativi, ma funzionali al progetto di dominio scientifico sull’essere. La renovatio non come memoria, né semplice metafora – ma progetto tutto da realizzare, sulla base delle stesse, estreme risultanze dell’aporetica rinascimentale – “rivoluzione” di cui è ancora necessario fondare la possibilità, il senso di origine, così come fissarne le scadenze e, per così dire, i movimenti tattici. Tutto ciò “disingannando” definitivamente sulla Ressemblance rinascimentale – ma anche sull’effettivo potere della semplice analisi o della semplice separazione. Di esse, andrà trovata, andrà inventata la funzione, il positivo. Su di esse andrà posto il discorso, come logica che pone l’essere, come segno che raggiunge e vincola effettualmente il significato, senza “rimandi”, definendo in ogni operazione la propria infinita produttività.

La politicità della separazione è immediata; anzi, la separazione si verifica fino in fondo proprio sul terreno politico-istituzionale. Qui crolla, già nel corso del ’500, ogni Ressemblance, ogni spiritus. La posizione di assoluta trascendenza di Dio in Calvino, e cioè la completa smitizzazione del cristianesimo, fissa una differenza, che, lungi dal chiudere il discorso sull’effettualità della ratio, la esalta: proprio in quanto la trascendenza è data, tutto nel mondo si svolge al di fuori di qualsiasi rimando magico, tutto nel mondo si fonda su rapporti razionali. La differenza razionalizza. La trascendenza è funzionale al dominio della ratio sul mondo. La separazione è politica, è progetto di nuovo Stato. E i grandi temi del calvinismo non rappresentano certo ‘tradimenti’ della grande utopia umanistica: vi ritorna la lotta al concetto medioevale di lavoro; l’ascetismo intramondano che permette l’allargamento della riproduzione, su basi sistematiche; l’etica che ne deriva, tutta interna al progetto globale di un cosmo politico perfettamente razionalizzato. E in questa direzione che appare l’idea, e poi la prassi specifica, dello stato assoluto. Certo, separazione – negazione di qualsiasi utopia ‘armonica’. Ma il tutto teso a funzionalizzare la differenza verso una nuova sintesi, potere come “violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico, e per accorciarne i passaggi” (Marx [1867-1894] 1969, 45 ss.), potere che crea, dalla separazione, le condizioni materiali della “accumulazione primitiva”, che garantisce il processo dell’accumulazione, in una determinata epoca storica, su basi generalizzate. L’assolutismo apparirà, allora, come condizione necessaria dello sviluppo originario di quelle stesse forze che costituiscono l’essenza del discorso utopico rinascimentale, come loro messa in crisi appunto in quanto loro realizzazione.

Lo stesso schema che fonda la funzionalità politica della separazione metafisica tra Dio e mondo, ne fonda anche la funzionalità scientifica, in genere. La “metafisica della separazione” è appunto ciò che ci permette di razionalizzare il rapporto tra soggetto e oggetto, è ciò che garantisce la possibilità stessa della ricerca naturale. Condizione trascendentale, quasi, della nuova scienza: la separazione di soggetto e oggetto, la rottura tragica di ogni continuità. Vediamo come. Anzitutto, è dalla separazione che può maturare la soggettività, che può maturare quel fondamentale rovesciamento dell’hypokeimenon in soggettività che Heidegger ha descritto in modo così formidabile. Nell’analogia rinascimentale ciò non poteva ancora avvenire: lo spiritus conciliante soggetto e natura, manteneva l’unità di origine, manteneva il concetto di sostanza nel suo senso ‘classico’. Se si separa il soggetto da questa unità, divengono le sue forme, i suoi predicati, l’ordine del suo pensiero il proton. Proton, beninteso, che non rivela più un cosmo – ma l’organizzazione logica mediante la quale l’essere è dominabile, in quanto Altro (cfr. Foucault 1966, 65-69). Come dice Heidegger, il Sein diventa pura Position – l’oggetto è reso perfettamente Gegen-stand, è, proprio per questo, il Sein, predicato del/dall’Io, lo pone (Heidegger 1962, II ss.). Gegen-stand significa l’oggetto sia come rappresentazione del soggetto sia come consistenza autonoma. Il dominio sull’oggetto che il Sein come Position garantisce non è, non deve essere, una nuova sintesi come identità, ma un dominio che mantiene la differenza, che è solo grazie alla differenza. Il soggetto domina l’oggetto in quanto l’essere gli appartiene, il predicato dell’essere; insomma: lo domina perché dispone del Grund dell’oggetto (Heidegger 1957, cap. X). La soggettività emerge come organizzazione formale dei predicati mediante i quali è realizzabile una com-prehensione funzionale della natura. Non più processo di identificazione cosmica, non più sympatheia musicale, e nemmeno più adequatio mentis et rei, indefinitamente ripetentesi; non più attenzione alla ‘qualità’ dell’individuum o all’unità del substratum – ma organizzazione delle forme del pensiero capaci di organizzare l’esperienza scientifica del mondo, funzionali a questo dominio. Qualsiasi aderenza, qualsiasi consonantia tra soggetto e mondo viene esclusa – ma proprio per questo si apre la possibilità di una comprensione perfettamente formalizzata della natura, che può dominarne non gli elementi in quanto tali, ma il loro sistema, appunto, la loro Forma.

Finalmente separata dall’oggetto, la soggettività diviene cardine della nuova scienza. Possibilità che Leibniz svilupperà in ogni risvolto. Nessuna separazione, quindi, tra soggettività e scienza. Heidegger distrugge la colossale mistificazione fenomenologica a questo proposito: tutta la soggettività, tutta la sua funzione, si realizza in pieno nel processo della conoscenza scientifica. La scienza non ha per nulla ‘obliato’ le sue ‘origini’, ma le ha realizzate – ha posto in atto il rovesciamento della sostanza nella soggettività, del valore nel valutato, del fare ‘classico’ nella tecnica. Il disvelamento della soggettività che continua per tutto il ’500 e si definisce con Descartes, è il processo stesso attraverso il quale la nuova scienza si consolida, si ‘giustifica’ e si fa ‘metafora’ generale del progetto borghese di dominio globale sul mondo. Già in Montaigne lo skeptisches Geist, di cui parla Horkheimer (Horkheimer [1938] 1968), libera la soggettività dall’‘impegno’ nelle cose. Anche se ancora non sarà soggettività nel senso di attività formante-organizzante l’esperienza, ma in quello limitato di ‘interiorità’ – essa già definisce la separazione nei termini di una riduzione all’Io, come sede e centro di libertà e di ordine, che emancipa definitivamente dalla adaequatio dell’episteme classica, variamente ripresa dalla cultura rinascimentale (magari per saggiarne fino in fondo l’impotenza). Qui inizia la storia del ‘nihilismo’ nel senso heideggeriano; qui l’essere è già “tenuto per nulla”. Ed è su tale base che si costruisce la forma della soggettività, come possibilità e volontà di potere: quando non più interessa, non più serve o è funzionale, la conservazione sostanziale dell’essere come essere in sé (Heidegger [1950] 1968, 243). La soggettività nasce e si sviluppa, quindi, in una esperienza di separazione – ma tale esperienza è tutta positivamente rivolta a fondare e cogliere il metodo specifico della nuova scienza. In quanto separata, la soggettività può cogliere l’oggetto come Gegen-stand, e quindi calcolarlo, misurarlo e dominarlo, comprenderlo nel Sein come Position. In questo senso, essa è anche, direttamente, tecnica, come Bacone e Descartes sapranno bene: non solo comprensione formale della natura data, ma affermazione effettuale del ‘vero’ della soggettività. Il ‘valutato’ si realizza: la soggettività lo realizza. Non più un ‘far apparire’ la verità-sostanza (come ancora è per la sintesi analogica rinascimentale: il rapporto magico con la sostanza unitaria e originaria), ma porla. Ciò che significa lo sprofondamento più completo dell’essere nella soggettività, sotto il dominio della soggettività (Heidegger 1962, 14). La soggettività si spalanca alla Anwendung, al “pensiero produttivo” – la separazione che l’aveva posta e resa possibile, si realizza nella nuova sintesi. Attraverso la mediazione del discorso rivoluzionario sulla soggettività, la separazione esplosa tragicamente all’interno dell’aporetica rinascimentale sviluppa e matura tutta la propria istanza positiva.

E Galileo? Segna forse il momento in cui “la verità non può vivere nel mondo” (Negri 1970, 89)? Segna il momento in cui bisogna finalmente dividere verità e mondo affinché la verità, come soggettività, possa riconquistarselo! In questo senso, Galileo stesso non aveva ‘verità’ con sé, affermava un concetto di verità ancora aderente alla consonantia rinascimentale. Non è la verità che non vive più con Galileo, ma la fine di quella verità, ancora precedente la determinazione formale della soggettività, costretta nella contraddizione tra forma matematica e ragionamento induttivo. Questi limiti intrinseci fanno sì che quella verità sia ineffettuale, che essa non possa più ‘vivere’. È necessario ‘separarsi’ da essa per invenire la possibilità della nuova sintesi tra ragione e mondo. Anche qui: separazione necessaria e positiva.

Ma vediamo come essa ridiventi possesso. Il Dubbio, anzitutto. Attributo essenziale della soggettività, anch’esso era maturato nel skeptische Geist del ’500, come strumento imprescindibile di liberazione dall’essere. Ma, in questo senso, il suo ruolo era ancora ‘conservativo’: preservava la libertà formale dell’idividualità borghese, non la realizzava. Bloccava la separazione. Definiva unicamente l’aporetica della soggettività (Horkheimer [1938] 1968, 238-239). Ma è fondamentale capire che questo suo aspetto negativo di rottura e liquidazione del cosmo rinascimentale, che passa intatto in Descartes, finisce nel Discours e poi, definitivamente, nelle Meditazioni a essere soltanto un elemento, propedeutico, della sua funzione. Il Dubbio non si esaurisce affatto nell’espressione tragica della separazione, nella definizione ‘pura’ dell’isolierte Ich fenomenologico. Nella sua interpretazione, Negri fa propria per intero la tesi husserliana della epoché come analogon del Dubbio (Negri 1970, 93), per cui il Dubbio sospendendo i ‘valutati’ scientifici ridurrebbe alla soggettività pura, assolutamente ‘separata’. Husserl, ovviamente, tendeva con ciò a dimostrare la scindibilità tra soggettività e scienza, il valore della soggettività: extrema philosophia. Negri non è certo interessato alla riduzione eidetica, eppure la sua interpretazione funziona nello stesso verso. Egli è interessato a bloccare il Dubbio nella separazione – a mostrarti l’Ich al quale fa capo, come isolierte Ich, incapace di qualsiasi prassi dominante. Cose molto simili diceva Horkheimer in un suo saggio del 1934, Zum Rationalismusstreit in der gegenwärtigen Philosophie (Horkheimer [1934] 1968, vol. I, 118). E invece quel Dubbio non solo, proprio per la sua radicalità critica, pone la soggettività in tutta la sua pregnanza, ma si svolge secondo una forma che sconvolge tutta la logica rinascimentale, e che sta alla base del metodo della scienza moderna. Per così dire, il Dubbio è una struttura binaria. Senza nostalgie, senza ‘speranze’, esso sviluppa la propria logica attraverso una serie di decisioni radicali. E all’interno di un tale sviluppo, sta, come vedremo meglio a proposito di Bense, tutta la nuova logica di dominio razionale sul mondo, sull’essere. Il Dubbio si situa di fronte a una ‘coppia’ precisa: definizione di una antitesi per la decisione – decisione che è atto mediante il quale il discorso procede oltre, sviluppa la propria razionalità. Al Dubbio non è permesso alcun ondeggiamento; alcun ‘errare’ esiste nella sua ricerca. Dubito: a ciò corrisponde l’antitesi più radicale: essere/non-essere. Se sono, a ciò corrisponderà la coppia: natura corporea/natura spirituale. E se mi definisco essenzialmente nella misura in cui sono res cogitans, dovrà di nuovo definire che cosa penso nei termini dell’antitesi radicale: essere/non-essere: penso di essere/penso di non-essere. Così nella Seconda Meditazione: io so di essere come sostanza che esiste e che pensa. Ebbene, se questo è il movimento del Dubbio, la sua intrinseca logica di sviluppo, esso si collega inscindibilmente al Cogito, ed entrambi, nella loro unità, all’Essere. Nessuna forma pura neo-kantiana, ma tantomeno ‘solitudine’ e ‘crisi’, nel senso di Negri. Ciò che veramente conta è soltanto quello cui Negri accenna quasi di sfuggita: la ricostruzione del progetto di dominio, il nuovo sistema (così a pagina 110). Il Dubbio non ha, in sé, alcun statuto autonomo: esso è fondamento della decisione, della scelta, posizione dell’alternativa. In questo senso, il Cogito appare sempre come un Dubito-Cogito: è possibile pensare, definire la scelta, soltanto in base alla ‘coppia’ che il Dubbio pone – e questo Dubbio, lungi dal rovesciarsi in se stesso, vale soltanto nella misura in cui definisce il materiale del Cogito. Ma ciò che è fondamentale è che questa struttura Dubito-Cogito non si separa affatto dall’essere, non è affatto ‘isolata’ nel senso della ‘solitudine’, non è affatto ‘dualistica’. Tantomeno quello “straripare” del polo soggettivo “dai limiti della sua separazione”, di cui parla Negri (a pagina 140), è “riemergere prepotente della nostalgia umanistica”. Qui, nelle Meditazioni, la soggettività si definisce nei suoi termini puri come fondamento della stessa ‘possibilità di scienza’, e, quindi, non solo in modo radicalmente anti-rinascimentale (sempre se intendiamo rinascimento nei termini estremamente limitativi del Negri), ma, soprattutto, cercando di porre il nuovo rapporto di dominio con l’essere, cercando veramente di teorizzare la funzione positiva della separazione. Ebbene, se ci rifacciamo ancora allo schema del Dubbio appena descritto, il Cogito è preceduto, condizionato, dall’Essere e conclude all’Essere. Soltanto se esisto o sono, sono Cogito – e la prima evidenza del Cogito è che so me stesso come essere, come sostanza che esiste.

Dov’è la ‘derealizzazione’ in questo schema? Il Cogito pone l’essere, nella misura in cui ne è ‘posto’. Questo movimento è esattamente quanto l’interpretazione neo-kantiana non recepisce. La funzione fondamentale del Dubbio è appunto quella di approdare all’essere che fonda il Cogito – prospettiva radicalmente diversa da quella fenomenologica, del Dubbio come epoché, cioè, appunto, sospensione dell’essere. Il Dubbio come sospensione del giudizio per il fondamento ontico, necessario al Cogito – e il Cogito, a sua volta, che non si applica ad altro se non all’evidenza dell’essere, che lo calcola, misura, che se ne impadronisce. Certo, non ha più luogo nessuna identificazione – il soggetto non si immedesima più in alcun modo con l’essere: l’essere diventa soltanto il significato della soggettività: non un posto, un creato, un prodotto della soggettività pura, ma un ordine formale, ideale, che segue non la certezza dell’adequatio ma l’evidenza della regola funzionale. Vedremo meglio, parlando dell’interpretazione lacaniana del Cogito ergo sum, questo discorso. Basti per ora riaffermare che, esattamente come dice Negri “il rapporto fra io e mondo consiste nell’ordine dell’idea, non in quello dell’essere” (Negri 1970, 147) – ma che questo rovesciamento è lungi dal significare ‘perdita’ del dominio sull’essere; esso, all’opposto definisce il modo specifico attraverso il quale la scienza moderna lo comprende e sussume in sé: ponendolo come significato, riducendolo a significato, mediante forme funzionali, superanti qualsiasi adeguazione individualizzata alla qualità o al valore della cosa. Il dominio del Cogito sull’essere si va costruendo ormai come sistema formale, come totalità logica, al di là tanto di ogni spiritus rinascimentale, quanto di ogni isolierte Ich scettico.

Definita questa certezza, è ‘circolo vizioso’ la Terza Meditazione? o è dimostrazione dell’assoluta ‘diabolicità’ del mondo rispetto al soggetto? Certo, è il momento di massima tensione problematica: si tratta di stabilire quel rapporto tra soggetto e oggetto di cui il Dubito-Cogito pone le condizioni soltanto. Che cosa è quell’essere che Dubito-Cogito? Come risulterà possibile, in base a quali condizioni, la sua effettuale comprensione? È il momento dell’effettualità del Cogito: dove la sua certezza introspettiva deve dimostrarsi valida nell’organizzazione delle successioni naturali, fondativa dell’essere in quanto sua razionalizzazione sistematica. Anzitutto, cerchiamo di cogliere l’uso specifico che Descartes fa della prova ontologica: anche qui è il movimento dell’Io che ne pone la certezza o evidenza. Dubito: di essere un essere finito/non-finito – penso: sono un essere finito, quindi non-perfetto. Dubito: l’idea di perfezione proviene da me/non da me – penso: essa non può essere in me soltanto a priori. E, allora, innestando tutto questo ragionamento in quello precedente: il Dubito-Cogito si specifica nel sapere di essere una sostanza finita e quindi nel sapere di avere una idea di Perfezione che non può fondarsi sulla nostra stessa esistenza. Dubito-Cogito: sono un essere finito. Dubito: se sono un essere finito, l’idea di perfezione è da me/da altro da me. Penso: proviene da altro da me — da un’esistenza perfetta. Dunque: Dubito-Cogito: la perfezione esiste. Dio è. Dubito ergo Deus est. E, cioè, esiste una perfezione oggettiva, esiste un ordine perfetto oggettivo, un ordine logico-stabile della natura come totalità – non un cosmo armonico ficiniano, ma un ‘campo’, un sistema di relazioni assolutamente necessario, che dà fondamento eterno alle relazioni formalizzate che l’intelletto pone. Il Cogito giunge fino a porre la necessità dell’esistenza della perfezione. Esistenza che esso non certo produce, come non produce i singoli elementi – ma soltanto l’ordine della loro comprensione, i loro rapporti funzionali. Il Cogito giunge a rivelare, e cioè appunto a porre come verità, la logica necessaria della natura: comprendendone i fondamenti ultimi, esso la domina, se ne impadronisce: l’essere diventa una sua ‘regione’. Il Cogito non conclude così soltanto all’evidenza dell’esistenza dell’Io, dell’Io in quanto essere – ma, da qui, all’esistenza del mondo come ordine stabile, come sistema di relazioni formali, e quindi matematizzabile, e perciò dominabile razionalmente. Momento di massima separazione, dunque, la Terza Meditazione, ma, proprio per questo, proprio per il coraggio che dimostra di assumerla fino in fondo, momento di massima formalizzazione razionale del rapporto soggetto-oggetto, momento di massima verifica del nuovo ordo scientifico, l’essere. Il Dubito ‘soggettivo’, attraverso il suo sviluppo rigidamente binario, si fa rivelazione della ‘perfezione’ fondamentale dell’essere – poiché, e ciò è decisivo, il Dubbio che investe anche la ‘qualità’ di Dio si risolve nell’impossibilità di ‘inganni’, nel superamento di ogni diabolicità. La perfezione è, sì, sistema assoluto – ma nella misura in cui fonda la certezza oggettiva e l’effettualità del Cogito – allo stesso modo in cui l’assolutismo fonda le condizioni storiche dell’accumulazione primitiva. L’ultimo passaggio strappa ogni ‘autonomia’ a Dio. Dubito ergo Deus est: ma se Dio è, inganna/non-inganna? Penso: non-inganna, o altrimenti contraddirebbe la perfezione. L’idea di perfezione, l’ordine delle idee che la pone, impedisce l’arbitrio di Dio. Dio si risolve interamente nella logica razionale di appropriazione ‘eterna’ del mondo. Si fa radicalmente otiosus: certezza di un ordine intoccabile. Esso vale finché garantisce quest’ordine.

Così anche l’assolutismo è vincolato al ‘patto’ di origine, alla razionalità del diritto, insomma: alle forme e alle scadenze della crescita dell’autonomia di classe della ‘ragione borghese’. Nessun circolo vizioso, dunque, e nessuna assolutizzazione della separazione tra soggetto e essere – ma, all’opposto, espansione massima della ‘volontà di dominio’ del Cogito, che si realizza nell’idea di Perfezione, che rivela, in essa, la propria oggettività, il proprio legame all’essere – e rovescia Dio nell’ordine logico della perfezione: uso assolutamente rivoluzionario della prova ontologica, suo completo disincantamento. Ed è ovvio che

[…] solo a questo punto – dopo che l’esistenza di Dio è stata accertata mediante l’esistenza del soggetto pensante, con una dimostrazione razionale, che prescinde totalmente dalla fede nella rivelazione […] – solo a questo punto dunque e su questo fondamento, che supera infinitamente quello iniziale e provvisorio, dell’Io sono e penso, Descartes muove alla ricostruzione scientifica, su base matematica, del mondo della natura, che aveva posto in questione (Löwith 1967, 22). 

Come è possibile, a questo punto, parlare di “etica autonoma”, non scientificamente “soggiogata” (così Negri, alle pagine 198 ss.)? Di un venir meno del “riferimento sistematico” dell’etica (a pagina 199)? Di assumere le passioni dell’anima al di fuori del contesto creato dalla Quarta Meditazione? Il discorso sull’etica dipende da quello sulla volontà – e la volontà è elemento costitutivo della spiegazione cartesiana del processo intellettuale, più ancora: della problematica di tale processo. Il potere di pensare un’idea, l’assoluta libertà dello sviluppo del Dubito-Cogito, è perfettamente analogo al potere di fare o non-fare una cosa. Analogicità di teoria e prassi, non loro unità: questo è il risultato essenziale della Quarta Meditazione. Teoria e prassi vanno distinte proprio se obiettivo della ricerca è l’effettivo dominio razionale sul mondo: dal momento che la volontà ha ‘ampiezza’ maggiore del pensiero, la loro ‘confusione’ porterebbe a uno ‘slancio’ oltre i limiti delle proposizioni scientificamente controllabili, e cioè all’errore. La volontà deve essere tutta intellettualmente controllata, proprio perché la prassi che pone non è identica al pensiero, una con esso. È anche qui dalla e grazie alla separazione, alla differenza di origine, che la prassi può essere prassi razionale, e la ragione pratica, mediata continuamente dalla volontà. Questa volontà che è prassi razionalmente controllata, questa volontà che non eccede il limite del pensiero, che tende a realizzare soltanto quanto il pensiero sa – ebbene, null’altro che ciò è l’etica. Parrebbe quasi inutile mettere in luce il carattere rivoluzionario-disincantato, insieme, di una tale posizione: l’assoluta libertà borghese di pensare-volere ne costituisce la base ma proprio perché una tale libertà possa effettualmente, e cioè non ‘cada in errore’, essa limita la volontà al limite del pensiero, riconosce, cioè, le proprie condizioni storiche, i propri limiti, la propria aporetica – e su ciò definisce il proprio progetto di razionalizzazione globale. Nessun ‘cosmo’ promana da quella libertà – ma, ancor meno, impotenti nostalgie per esso – bensì la consapevolezza che il processo del Dubito-Cogito deve capere per intero la volontà, e quindi anche darsi come etica. E il momento etico esiste effettivamente, per intero, dentro il dispiegamento successivo del Dubito cartesiano, completamente integrato, assolutamente non autonomo: come vedremo meglio parlando di Bense e Lacan, questo momento si rivela nell’ergo del sistema, è interno al legame, non più sillogistico, delle sue parti, al dovere di potere che lo domina, da un capo all’altro. In questo senso, il ‘pubblico’ dei Principia, di cui Negri parla a lungo (alle pagine 178-ss.), non è un elemento che si ‘aggiunge’ al discorso che Descartes ha fin qui condotto: ma costituisce l’orizzonte stesso della Quarta Meditazione, la politicità di fondo dell’intero movimento del Dubito-Cogito. Ovvio che questa dimensione, interna agli elementi costitutivi del pensiero cartesiano, può essere rilevata soltanto se si assume la ‘metafisica della separazione’ come abbiamo fatto, e il riferimento alla cultura rinascimentale nel senso assolutamente critico, che ci è parso quello proprio di Descartes, almeno fin dal Discours.

Il tema della “ragionevole ideologia” assume in questo contesto un peso assai diverso da quello che Negri gli concede nel suo libro. Qui appare quasi come ‘consolazione’ alla rottura del cosmo rinascimentale: essa “distende sullo spazio della crisi del mondo seicentesco, della sfiducia e dello squilibrio dell’epoca, una speranza di ricostruzione. Nostalgia umanistica che si ritrova operante” (così Negri, a pagina 157). Risiamo a uno schema che ci pare fondamentalmente democratico-ottocentesco di interpretazione del rapporto rinascimento/seicento. Primo: ‘sfiducia’ e ‘squilibrio’ sono connotati troppo ‘letterari’ per intendere la crisi dell’epoca – crisi che è esplosione delle contraddizioni storiche di tutto l’universum rinascimentale, in tutte le sue componenti. Secondo: se la crisi è vissuta e saputa in questa direzione, allora la ‘speranza’ non si confonderà in nulla con la ‘nostalgia’: non vi potrà essere nostalgia operante, proprio perché quell’universum si è dimostrato intrinsecamente impotente di fronte ai problemi della ‘nuova sintesi’. E, allora, la “speranza di ricostruzione” si fonderà esattamente sull’iter che abbiamo fin qui percorso: dalla separazione, alla soggettività, al legame formale-ideale-funzionale tra pensiero ed essere, alla stabilità dell’ordo rerum che l’idea di perfezione pare garantire. Ben diversa fondazione da quella della semplice ragionevole ideologia! Ricerca di sintesi e di equilibrio onnicapiente, lì dove proprio tutto il ’500 non portava che alla separazione come assoluto, al rimando infinito di soggetto e oggetto! Cogliere l’‘atteggiamento’ cartesiano nella ‘maschera’ della ragionevole ideologia, nell’apparenza di ‘appaesamento’ della Parte Terza del Discours, è, almeno, fortemente riduttivo. È fondamentale tener ben presente che qui Descartes ragiona in termini provvisori, propedeutici rispetto alla definitiva scoperta della soggettività. La voluta riduzione dell’obbedienza alle leggi e della fede alla religione in questo ambito, lungi dal rappresentare un ‘appaesamento’, è il più completo disincantamento, storicamente realizzabile, della loro validità ‘naturale’, oggettiva. Questa riduzione è completamente nel segno di quella ‘liberazione dall’essere’, con la quale la soggettività inizia la propria rivoluzione. Qui l’obbedienza vien fatta dipendere dal giudizio del soggetto, viene inserita nella Bildung della soggettività. Lungi dal rappresentarne una sconfitta, segna il momento in cui essa si nega come ‘servo’, e riscopre il livello dove nessuna autorità può contare e da dove, quindi, sarà possibile muovere alla riorganizzazione del proprio dominio sul mondo: la libertà del pensiero – e storicamente intesa, nei suoi limiti formali, nel limite del proprio formalismo, che è, come non ci stanchiamo di ripetere, la positiva miseria, senza la quale non sarebbe possibile fondare il nuovo progetto scientifico.

La “ragionevole ideologia” del Discours è, quindi, in questo senso, provvisoria: essa prepara alla fondazione della teoria. Perché, allora, mancherebbe la nuova sistemazione del discorso politico, l’esplicito superamento della Parte Terza del Discours? Ma questa nuova sistemazione non manca affatto! Solo, essa non va cercata in una parte del sistema, ma ne rappresenta, al limite, la prospettiva complessiva, il significato storico. Come quell’‘appaesamento’ sta dentro per intero ai primi movimenti del Dubbio, alla provvisorietà scettica, che e davvero l’unico elemento in positivo che del ’500 Descartes salva, così la dimensione politica della soggettività finalmente fondata è il movimento stesso che quest'ultima esprime: Politica è la definizione razionale del rapporto della volontà al pensiero. Questa definizione è razionalizzazione definitiva del discorso politico in quanto tale – Politica è il nuovo progetto scientifico, in quanto fondato sulla soggettività del Cogito, ma di un Cogito che pone funzionalmente l’essere. La dimensione politica che supera la ragionevole ideologia è il Cogito-Sum: qui progetto di razionalizzazione del mondo, nuova etica razionale e prospettiva politica si fondono inscindibilmente. Non c’è bisogno di alcun discorso ‘specifico’, almeno al livello fondativo nel quale, con Descartes, ci troviamo. Questo esito complica notevolmente il nostro compito critico. Dimostrare l’insostenibilità, l’aporetica, della “ragionevole ideologia”, dimostrare il suo carattere dualistico, la sua impotenza, è semplice. Il fatto è che Descartes è lungi dal bloccarsi a questa ideologia: come ideologia egli stesso, alla fine, la tratta. È la teoria, o la volontà di teoria, che da ciò nasce che va affrontata; è la funzione della teoria, della ricerca fondativa del la comprensione scientifica del mondo che la filosofia qui intraprende, che va mostrata nella sua condizione storica; è il significato del suo progetto che va demistificato; è a questo livello che ne va accertata la ‘tenuta’. Criticare la ‘solitudine’ della soggettività ha, al massimo, un respiro (limitatissimo) storico; quello che conta è la teoria politica che quella soggettività mi pone: fondazione della scienza moderna come razionalizzazione globale del mondo, come dominio politico generale. Ciò che qui si fonda è la proprietà borghese della scienza: la soggettività che la fonda, non è che il devo borghese che se ne impadronisce, per ‘valorizzarsi’: razionalizzazione della ‘natura’ che ne garantisce la possibilità di uso, e razionalizzazione del ‘mondo’ per permetterne la proprietà privata. Il Cogito che ‘funzionalizza’ l’essere ne esprime la riduzione a tecnica, a sistema programmabile di relazioni – si separa dall’essere per poterlo avere come tecnica, come mondo razionalizzato. Sono questi i passaggi, le relazioni, che occorre criticare, perché sono essi a realizzare compiutamente, come strategia, il discorso provvisorio, la tattica, della “ideologia ragionevole”. Politica che va a realizzarsi, e proprio sulla base e all’interno del discorso ‘metafisico’ (l’opposto per Negri, a pagina 117).

Certo, quella cartesiana è una forma della sintesi, e pertanto storicamente limitata. La produttività del soggetto cresce al suo interno nella direzione che abbiamo visto, ma ancora ‘garantita’ dal porsi, assoluto, della Perfezione. È la fase iniziale del maturarsi dell’interesse del civile all’interno dell’assolutismo, che anche Andreae segnava nella sua Christianopolis (Andreae 1619). La soggettività cartesiana è già produttiva fino al punto di comprendere funzionalmente l’essere e di porlo, tecnicamente, in funzione – ma questo suo sviluppo si organizza ancora in un quadro istituzionale fondamentalmente statico. È questa contraddizione che esplode nel corso del ’600 – è il maturarsi dell’autonomia della soggettività, o, meglio, il suo progressivo realizzarsi, che esauriscono la funzione oggettiva e necessaria dell’assolutismo nel processo dell’accumulazione primitiva. La ‘pace sociale’, cioè il compromesso di classe, storicamente inevitabile, che esso permetteva, vengono meno esattamente nella misura in cui la settarietà rivoluzionaria dell’interesse borghese può farsi, da teoria, progetto effettuale di dominio.

Liberarsi dalle interpretazioni ‘quietiste’ dello ius naturale, liberarsi da ogni ‘assoluto’, da ogni ‘perfezione’, da ogni ‘sintesi’ autoritaria – da tutto ciò, insomma, che non si fondi sui reali interessi, scopi, fini della soggettività, della libertà del soggetto, non più ‘di pensiero’ soltanto, ma pratica, nel senso più pieno – ebbene, questo si afferma nell’esaltazione libertina dell’individualità: dietro all’individuo preme la ‘società civile’: autonomia, libertà, spregiudicatezza razionale, esaltazione delle possibilità pratiche del pensiero, della sua faccia tecnica, esaltazione della forza della sua volontà, quando essa sia libera da ogni dogma, da ogni traditum, perfettamente demitizzata e razionale. Ma dov’è in ciò la nostalgia del rinascimento, di cui parla Negri (a pagina 76)? Ma è proprio sulla speranza rinascimentale di sintesi, di ‘pace’ che il libertinismo esercita la sua critica più feroce! Nulla viene tanto criticato come la Ressemblance rinascimentale, come questa utopia armonica. Il libertinismo è ricerca della contraddizione: rafforzamento dell’alternativa alla sintesi nella quale la soggettività borghese non può più oltre svilupparsi. Non c’è nulla di più anti-rinascimentale del suo rifiuto della ‘tradizione’, del suo ritorno costante alle ragioni dell’interesse materiale, settario, corporeo dell’individualità. Non c’è nulla, alla fine, di più anti-libertino, o, meglio, di più ‘altro’ dal discorso libertino, dell’utopia rabelaisiana di Thelème: il ‘fa quello che vuoi’ che vi domina, vale come riconoscimento umanistico, erasmiano quasi, della consonantia universale tra anime sorelle, vale come regola universale di vita, fondamento di una amicitia universale, assolutamente lontana da qualsiasi ‘arbitrio’ dell’individualità. Il ‘fa quello che vuoi’ libertino, all’opposto, fonda la volontà di dominio della soggettività pienamente sviluppata, volontà di usare il prossimo, di ridurlo al proprio fine, negazione radicale di ogni consonantia, amicitia o devozione: riconoscimento dello stato di guerra che domina la società civile, egoismo pratico-mondano che segue e supera l’ascesi intramondana cinquecentesca. Già nel ’500 padovano risuonavano alcuni di questi motivi; ma sarà con la riduzione operata da Giulio Cesare Vanini dell’uomo a meccanica fisica, e con la bestemmia, poderosa, dell’esistenza del Demonio, semmai, ma non certo di Dio (esistenza del principio di separazione, fondante l’egoismo assoluto della soggettività, non certo della Perfezione cartesiana), e poi, con la ‘manipolazione tecnica’ del prossimo, del ‘civile’, da parte dell’individualità libertina, che è teorizzata da Ferrante Pallavicino e da Gregorio Leti, e che troverà in Don Giovanni la sua figura, la sua realizzazione – sarà attraverso tutto intero questo processo che la soggettività andrà riconoscendosi come classe, organizzando il proprio interesse, ponendo le nuove esigenze di potere, di sintesi, che domineranno tutta intera la problematica del ’700. C’è, ad ogni modo, una cesura nettissima tra pensiero libertino e rinascimento. Il primo si sviluppa contro la forma peculiare della ricerca rinascimentale della sintesi: non ha ‘padri’, almeno nella sua forma più elaborata: il suo contesto problematico è unicamente quello segnato dall’incipiente crisi della funzione dello stato assoluto, e, quindi, della ‘collocazione’ cartesiana della soggettività. Dalla soggettività nel sistema, alla soggettività come sistema. La soggettività si riconosce fondativa del sistema: deve e vuole impadronirsene. Qui la ‘nostalgia’ umanistica sarebbe reazionaria e basta. 

II.

Quello di Negri è, almeno a nostra conoscenza, il primo tentativo di affrontare da un esplicito punto di vista politico, di classe, la questione delle origini, della fondazione stessa dell’ideologia borghese. In questo senso, il suo lavoro assume una importanza pionieristica. Le sue indicazioni andranno tutte, una ad una, riprese per qualsiasi lavoro di critica dell’ideologia, nel senso che anche dalle pagine di questa rivista [i.e. “Contropiano”] si è andati chiarendo in questi anni. Resta il fatto che i suoi risultati sono, per noi, fortemente limitati dal modo concreto, dalle analisi specifiche che contiene. Schematizzando e riassumendo molto: qui la critica dell’ideologia non ci pare ancora critica delle fondazioni teoriche della scienza borghese – eppure è questo il tema di Descartes, il senso storico della sua problematica. Per questo, paradossalmente, ci è più utile il riferimento ad autori che cercano esplicitamente di riattivare il discorso cartesiano nella sua globalità e complessità, piuttosto che l’analisi critica, ma fortemente riduttiva, di un lavoro come quello di Negri, con il quale condividiamo in pieno la prospettiva di ricerca, il punto di vista, lo stesso perché, insomma, di un libro su Descartes. Vi sono nella riattivazione contemporanea di Descartes (riattivazione tutta post- e anti-fenomenologica, sia chiaro) alcuni dei problemi centrali del tentativo di costituire a teoria il punto di vista borghese, e quindi del legame tra soggettività e scienza, che sono, a mio giudizio, l’essenza stessa del pensiero cartesiano. Analizzarli brevemente ci permetterà anche di approfondire alcune delle indicazioni date in precedenza.

Max Bense ha dedicato due saggi, riuniti in Ein Geraüsch in der Strasse, al problema-Descartes. In che modo – e cosa significa – essere oggi cartesiani? Il punto di vista è quindi, ovviamente, opposto a quello di Negri (e al mio personale) – ma seguirlo ci permette di mettere in luce la portata teorica complessiva, politica, del pensiero cartesiano. Nel primo saggio, Descartes und die Folgen I, che Negri cita solo di sfuggita, Bense dimostra il carattere binario del Dubbio, e cioè il suo appartenere direttamente alla sfera complessiva del Beweis – della prova, verifica. Il Dubbio non è ‘ambivalenza’, ma fondamento di decisione – procedimento del Beweis (Bense 1960, 10). Dubbio-Decisione-Verifica che significano innere Freiheit, non condizionatezza del pensiero: il che è appunto la forma generale della libertà in Descartes (Bense 1960, 55). Ma è qui che Descartes va ripreso, è da questo momento che il processo della libertà va continuato: e, cioè, esattamente dal punto in cui si pone il problema politico del potere della libertà. La Freiheit non può essere intesa soltanto come libertà di pensare la realtà. La decisione che la realizza, nello stesso atto del Dubito-Cogito, è già una “digitale Struktur” (Bense 1960, 10). Questa indicazione fondamentale non può essere bloccata in una ideologia meramente riflessiva. Alla libertà del pensiero non può corrispondere una Realität, una realtà come dato. La libertà non pone condizioni per la riflessione della realtà – ma per la sua realizzazione. La libertà è condizione della Realisation delle istanze della soggettività che esprime, non della ‘integrazione’ del pensiero nel dato. Realisation che è “Modus eines Prozesses, nicht Modus eines Zustandes” (Bense 1960, 14-15). È fondamentale come Bense veda questa prospettiva della libertà a partire dalle condizioni poste dall’interpretazione cartesiana stessa del Dubbio-Cogito: questa prospettiva urge già all’interno del sistema cartesiano – si tratta di svilupparla, ed esattamente nella direzione già da noi indicata. Infatti, se è ormai soltanto a livello di Realisation che la libertà del pensiero si verifica, ciò comporta la completa liquidazione dell’essere come tale: ad esso subentra la realizzazione della libertà, subentrano i processi di tale realizzazione, E cioè all’essere subentra il Gemächte, il mondo dei fatti, la Tecnica come mondo. Il problema della Tecnica è così strutturalmente collegato alla ‘metafisica’ stessa di Descartes: è la struttura intima del Dubbio che, rivelandosi “digitale Struktur”, pone nella Realisation il suo fine, e quindi si accerta, superandosi, unicamente nel Beweis che la Tecnica, in quanto ormai universale, fornisce. È, inutile aggiungerlo, la più completa demistificazione dell’idea husserliana di un pensiero ‘ridotto’ alla tecnica: all’opposto la Tecnica è, storicamente, l’inveramento più alto e definitivo della soggettività borghese. Ego cartesiano e Tecnica sono una cosa soltanto, assolutamente inscindibile. La libertà è libertà per la Tecnica: si pone come Dubbio per accertarsi-realizzarsi nel Gemächte. Si pone come alternativa-scelta unicamente per decidere il piano più razionale di potere della soggettività sul mondo, di riduzione del mondo a proprio Gemächte. La Tecnica organizza il mondo secondo le regole della libertà della soggettività: solo a questo punto il Cogito pone effettualmente l’essere – nella misura in cui esso steso si è realizzato, si è fatto Realisation. Non c’è ‘scampo’ a tale destino: non c’è altra libertà se non quella che si realizza tecnicamente, che pone le condizioni, materiali ora, del dominio della ratio formale borghese. Se ‘al tempo’ della Realität corrispondeva quello della Schöpfung – nella Zivilisation che la soggettività cartesiana introduce, alla Realisation corrisponde, come categoria produttiva, l’Anwendung (Bense 1960, 56). È un momento decisivo dell’analisi bensiana. La ‘creazione’ non è ancora, necessariamente, applicata – essa si attua in un contesto storico dove l’arretratezza delle forze produttive ne garantisce la ‘purezza’. La ‘scienza’ può essere ‘pura’ unicamente nella misura in cui è arretrato lo sviluppo capitalistico. Lì dove tutto deve essere fatto – lì dove esistono le condizioni materiali della produzione e circolazione dei Gemächte, la ricerca – il Dubbio-Cogito, l’‘esperimento’, lo stesso ‘pensiero’, se si vuole — vale soltanto in quanto vuole applicarsi, in quanto è ricerca d’applicazione. Al rapporto riflessivo statico tra Schöpfung e Realität si sostituisce la dinamica di quello che collega, nello sviluppo, Realisation e Anwendung. E mentre nel primo caso il rapporto può ancora essere individualizzato (la Schöpfung è ancora produzione individuale), nel secondo l’Anwendung necessita di un sistema di produzione, che organizzi ricerca e applicazione della ricerca – Gemächte e circolazione dei Gemächte. Il problema della Anwendung comincia a porsi davvero soltanto con “la filosofia della manifattura” (cfr. Negri 1970, 56). Ebbene, è proprio all’interno di questo processo che ‘esce’, certo, dalla lettera del sistema cartesiano, ma ne riprende le indicazioni sostanziali, che si pone il problema etico. Etica della Realisation, e quindi della Anwendung. Vedere sempre la realtà come Realisation, e cioè sempre come ‘trasformabile’ secondo la prospettiva della Anwendung della ratio scientifica, diventa la suprema norma etica (Bense 1960, 20). Dovere di applicare la ‘libertà del pensiero’. Ma questa ‘nuova etica’ era esattamente il senso che davamo all’ergo cartesiano (come anche Lacan mette in chiaro), soltanto che qui l’essere del Dubbio-Cogito si è svolto fino al Gemächte – e quest'ultimo è divenuto ‘universo’. L’etica non ha alcuna autonomia rispetto al sistema — ma non per questo deve essere ‘soggiogata’. L’alternativa non ha senso: l’etica è il sistema, etico è il sistema che realizza la soggettività, che ne applica la ratio, che fa della ratio dell’oggetto Tecnica strumento universale di comprensione e dominio. Etica è la volontà di imporre il sistema complessivo. Ora, esattamente come non c’è scienza senza applicazione, come non c’è scienza, sulla base del progetto razionale della soggettività, senza merce – così non si dà etica, che non sia etica della realizzazione, dovere del superamento della Realität-Schöpfung, che non sia etica di dominio razionale. Ciò significa che l’etica è completamente riassorbita nel fatto politico, nella prassi che pone la volontà politica come fatto, come sistema realizzato. L’identità funzionale di Teoria ed Etica diviene identità funzionale di Etica e Politica, esattamente nella misura in cui la Teoria, lungi dal chiudersi in un Selbstverständnis, è essenzialmente Selbstverfertigung (Bense 1965, 128-130). Certo, è un processo storico quello che porta dai Grundrisse cartesiani alla totalità tecnologica che Bense descrive come unico ‘orizzonte di senso’ — epperò, è fondamentale comprendere l’unità del suo punto di riferimento: la necessità e l’esigenza di fondare lo sviluppo capitalistico, di comprenderlo e asseverarlo, appunto, come totalità. Il fatto che già in Descartes la soggettività tenti la propria Realisation e si ponga senz’altro come Tecnica, diventa, allora, acquisizione decisiva per tutti gli sviluppi successivi: ciò indica che non solo l’Io deve realizzarsi tecnicamente, ma che, per farlo, esso già in sé deve essere tecnica. Ed è tecnica, infatti, lo sviluppo binario del Dubbio — la divisione delle sostanze, che impone la demitizzazione del mondo e il suo dominio more geometrico. Ma è tecnica, soprattutto, il movimento specifico della coscienza, fondato su due tratti apparentemente contraddittori: intenzionalità e integrazione. L’intenzionalità, che sintetizza finalmente Ethos e Theorie, è vettore della Realisation. Ma, lungi dall’essere ‘libera utopia’, essa va alla integrazione: si realizza come sistema, in una unità sintetica ormai infuggibile di Freiheit e Anwendung. E sarà, dunque, anche questa integrazione, il suo pensiero disincantato, a essere etica – la sua accettazione varrà come suprema norma del Dovere, esattamente come la Realisation. Uso totalizzante della libertà nel sistema – ma in quanto la libertà, in tutti i suoi predicati (dubbio, pensiero, coscienza, intenzionalità) è Tecnica, ab origine (Bense 1965, 126-ss.).

Il limite di questo sistema non sarà certo una contraddizione tra soggettività ed essere, tra Io e Realität, neppure tra coscienza e Realisation e Tecnica: descrivere così il ‘limite’ significa cadere al di qua dello stesso sistema cartesiano – ad ogni modo: significa non sfiorare neppure la ‘riattivazione’ di Descartes, e, quindi, essere irrimediabilmente indietro rispetto alle attuali necessità di critica della teoria del capitale. I ‘canali’ tra coscienza individuale e sociale, tra coscienza e mondo – gli strumenti del dominio politico della soggettività – sono quelli della comunicazione. La razionalizzazione dei Kommunikationskanalen è lo stesso processo della Zivilisation: far abitare l’uomo nella comunicazione: ecco il progetto. Ebbene, i limiti di questo sistema saranno allora i limiti della comunicazione, come Tecnica per eccellenza, in quanto strumento di dominio più raffinato e globale – saranno i limiti della razionalità intrinseca alla comunicazione. E poiché comunicazione diventa informazione, e l’informazione è linguaggio, i limiti del potere della soggettività pienamente sviluppata saranno i limiti del linguaggio (Bense 1965, 123-129).

‘Il limite potrà dunque essere tracciato solo nel linguaggio’, “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo “, “L’enigma non v’è” (Wittgenstein [1921; 1922] 1964, Prefazione e 5.6, 6.5). Il linguaggio domina il mondo, soltanto come insieme di stati di cose. La ‘negazione’ del mondo è per lui “enigma”. Chi agisce tale negazione ‘esce’ dal suo linguaggio. Il linguaggio dirà che non c’è. In effetti, si tratta di una ‘intenzionalità’ non più dominabile. Il processo di Realisation deve limitarsi nel linguaggio per essere matematizzabile – ma il linguaggio può parlare soltanto di stati di cose. Il suo limite è lì dove un processo esiste, eppure non è riducibile al mondo come insieme di stati di cose. Qui il pensiero borghese ‘si angoscia’. Qui l’Heidegger di Sein und Zeit sentiva l’assurdità del ‘possibile’ che si strappava da quel processo di Realisation che Bense descrive, che si strappa dalla mera funzione di antizipierende Bewusstsein (Bense 1965, 128). Qui la teoria borghese comincia a provarsi come un mondo soltanto.

La riduzione a questo mondo, ai suoi canali di comunicazione-informazione, è la ‘filosofia’ della linguistica contemporanea. Ma, all’interno di tale progetto, la radicale ‘chiusura’ wittgensteiniana è sempre più sentita come aporia. La Realisation non può bloccarsi al sistema dell’informazione – il linguaggio allo stato di cose. Certo, il linguaggio deve restare struttura, perfettamente razionalizzabile, ma il suo sistema deve valere come sistema dinamico, le sue leggi devono porre uno sviluppo. Bisogna strappare all’angoscia il possibile. La linguistica strutturale lavora ininterrottamente intorno a questi temi fino a Noam Chomsky (Ruwet 1967, cap. 1). In Chomsky la grammatica non coincide più con un corpus particolare di enunciati, ma genera un corpus infinito di frasi grammaticali. Il parlante, in base a una esperienza finita, è in grado di proiettare questa conoscenza su un insieme infinito di frasi grammaticali diverse.

La grammatica diviene un meccanismo generativo di frasi grammaticali. Beninteso, grammatica non significa dotato di significato; la grammaticalità non è definibile su basi semantiche. La grammatica definisce un insieme strutturale dotato di ‘infinite possibilità di incassamento’ – non uno ‘stato finito’, che descrive ‘prodotti’, ma, appunto, un meccanismo generativo che pone la possibilità di ‘fatti’, che spiega la genesi della frase e tenta di comprenderne le possibilità. Definire la possibilità della frase, la sua ‘forma’, la dinamica che ne pone il carattere innovativo, descrivere le regole che la trasformano – ecco la nuova ‘sintassi’, non più lineare, non più sintagmatica: la legge dinamica del linguaggio, il linguaggio che, restando assolutamente legale, si impadronisce dell’elemento generativo, quindi innovativo, quindi del ‘possibile ’ (per tutto ciò, cfr. Chomsky [1957] 1970).

Ed è ancora su Descartes che questo discorso vuole fondarsi. Quest’opera di riattivazione illumina tutto il senso, la positività, del discorso cartesiano. Essa affronta l’apparente dicotomia di fondo: res cogitans/res extensa. Ebbene: questa separazione viene intesa come il colmo della funzionalità del sistema. È grazie a tale separazione, metafisicamente e quindi necessariamente ed eternamente fondata, che lo spirito si libera da ogni aderenza allo ‘stato di cose’ e giustifica la propria indipendenza e illimitatezza, il proprio Dovere di ciò (Chomsky [1957] 1970, 46-48 e 269). La separazione dalla res extensa, permette al pensiero di liberare il proprio linguaggio. La libertà del linguaggio è la stessa fondazione trascendentale della grammatica generativa. Il linguaggio non è più costretto ad imprigionarsi nello stato di cose per essere razionale – bensì, la sua razionalità di fondo si accerta soltanto quando esso, in quanto libero, definisce le ‘infinite possibilità di incassamento ’ delle proprie strutture. Le sue leggi, soltanto in quanto dinamiche si fanno onni-integranti. L’illimitatezza dell’ambito linguistico si fonda, quindi, su quella distruzione dell’adaequatio scolastica, come della Ressemblance rinascimentale, che abbiamo visto caratterizzare la posizione storica di Descartes. Questa illimitatezza è l’espressione più perfetta della Freiheit des Denkens bensiana, e qui essa rivela il suo carattere di fondo: l’illimitatezza del linguaggio (non romantica, non ‘equivoca’, ma legalmente controllata in tutti i suoi movimenti) è la regola dell’innovazione. Se la Realität si è fatta Realisation, il dato Gemächte, il sistema non potrà che essere dinamico, meglio: il sistema dovrà divenire sviluppo – ma, allora, il suo linguaggio, i suoi Kommunikationskanalen, non potranno più limitarsi a riflettere stati di cose, ma dovranno progettarli – il linguaggio dovrà essere tecnica dell’innovazione. Conservazione della legge nell’innovazione costante: costante conservazione nella continua integrazione di nuovi orizzonti linguistici, di ‘nuove frasi’, di ‘nuovi parlanti’.

È evidente perché qui serva Descartes. Chomsky affronta il passaggio ormai necessario da un tipo di linguistica essenzialmente sincronica (che pareva l’unica in grado di ‘matematizzare’ senza residui il linguaggio) a una dinamica, e, cioè, al linguaggio-sistema è oggi ottenibile soltanto in termini generativo-trasformazionali. Per quanto paradossale possa suonare, un atteggiamento puramente riflessivo è oggi il meno integrabile (ovviamente, proprio in quanto il più inutile, reazionario). Descartes (la metafora Descartes!) pare garantire la unità funzionale tra carattere assolutamente innovativo del linguaggio e necessità del suo centro formale, della sua legge strutturale, e suo ordine sistematico. La definizione della legge nello sviluppo diventa, quindi, il problema. Senza legge, senza ‘punto archimedico’, crolla l’intero sistema, Ma, certo, qualsiasi ilusione sincronica è già storicamente liquidata, si è già piegata in se stessa, nella propria logicità assolutamente tautologica, assolutamente morta, Bisogna raggiungere “principi psicologici a priori” (Chomsky [1957] 1970, 267) in grado di spiegare il carattere e la natura dell’acquisizione e della trasformazione linguistica. La “creatività” deve fondarsi su un “dispositivo per l’acquisizione linguistica” (Chomsky [1957] 1970, 273) assolutamente certo. Il problema è non tanto e non solo il carattere della trasformazione, il ‘salto’, ma la sintesi tra aspetto creativo dell’uso linguistico e “la natura astratta della struttura profonda” e “l’apparente universalità del sistema estremamente speciale di meccanismi ora formalizzanti come grammatica trasformazionale” (Chomsky [1957] 1970, 274).

E nella misura in cui ha trattato di questa sintesi, oggi conta la linguistica cartesiana, la metafora Descartes! Ma come potrà fondarsi questa legge che unisce la matematizzazione attuale dello stato di cose alle possibilità del linguaggio? Dove sta la condizione della unità strutturale tra realizzazione del linguaggio e il suo dominio-possibile, il suo futuribile? Basta la risposta chomskyana, cartesiana davvero, di una struttura profonda, comune a tutte le lingue, che giace nella mente, patrimonio universale apriori dal senso? (Chomsky [1957] 1970, 71-74, 272). Basta questo appello innatistico, questo innatismo è l’estremo tentativo di far riconoscere a priori a ogni possibile la sua appartenenza a una struttura profonda, assolutamente comune, universale, necessaria e perciò incontestabile. Il linguaggio non riflette più, certo, lo stato di cose del sistema, ma la sua genesi, le sue trasformazioni e le sue possibilità. Ma se spezziamo qualsiasi rapporto statico, come costringere a quella unità strutturale di fondo ogni ‘atto’? Come costringere ogni effetto del carattere innovativo del sistema, che finalmente si riconosce, a una identità legale che lo trascende? Il sistema spezza ogni rapporto statico, è costretto a innovare e trasformare: ma con ciò stesso non nega sempre più la possibilità di fare effettualmente vincolante la propria legge? Il riconoscimento della legge, e anche della propria genesi dalla legge, non è necessariamente accettazione – la propria ‘innata’ condizionatezza non è necessariamente giustificazione del sistema, dell’identità del sistema in tutte le sue trasformazioni. A questo punto, l’accettazione di quella ‘struttura profonda’ dovrà rovesciarsi di nuovo in fatto etico, in imperativo. La trasformazione andrà repressa alla propria unità. Ancora una volta, è nella teoria come etica che il pensiero, che la soggettività ‘matura’, può dominare l’essere. La mediazione tra sviluppo e legge si rivela definitivamente come progetto pratico-politico. Ed è a questo livello che tutto Descartes, che tutta la metafora cartesiana, si invera. Questi passaggi (la mediazione che si realizza nel linguaggio, il linguaggio che si fa Tecnica, nel senso più ampio) sono spiegati da Lacan in modo formidabile.

La linguistica è scienza della prassi del sapere, lo schema che permette al sapere di farsi potere. Ma tale schema è già leggibile all’interno del movimento fondamentale (e rivoluzionario) del pensiero cartesiano. Il Cogito ergo sum, lungi dall’essere interpretato come ‘ragionamento’ interno alla struttura meramente logico-tautologica della ‘teoria’ (Io so che Io sono), va così letto – cogito: ‘ergo sum’. Il sum è parola del Cogito. L’essere si pone nel sapere, nel soggetto di sapere, unicamente nella misura in cui viene detto. “Il pensiero non fonda l’essere che legandosi alla parola” (Lacan 1966, 865). Il sum ‘espande’ il Cogito nella ‘regione dell’essere’ – il sum ‘innova’, ‘trasforma’ il cogito, in quanto ne fa un linguaggio – e quindi davvero, finalmente, una strategia politica. Tra Cogito e sum c’è l’insorgenza rivoluzionaria della parola, della digitale Struktur bensiana – per questo la separazione diventa funzionale – e per questo il movimento della proposizione fondamentale non è tautologico, non è puramente riflessivo: insomma, non è semplice “ragionevole ideologia”, ma progetto di teoria totalizzante – Ethos der Theorie. Per questo il giudizio è sintetico. E questa innovatività del giudizio viene rafforzata dall’ergo. L’ergo inizia la parola. Il linguaggio esordisce con esso. L’ergo non è parola, ma atto. All’origine del linguaggio, dell’emergere della parola che ci l’essere, sta un’azione, una struttura digitale, appunto. Una volontà politica. Cogito: ‘debbo essere’: dico la mia volontà di essere come un Dovere assoluto; affermo nel linguaggio la mia volontà di essere come suprema norma etica. Ma volontà di essere, è volontà di impadronirmi dell’essere, è volontà di porre la Tecnica come essenza, come nuovo hypokeimenon. La Tecnica realizza l’atto dell’insorgenza del linguaggio in termini universali: fa del linguaggio una Zivilisation. Ciò significa che il cogito: ‘debbo essere’ implica un “imperativo che mi preme ad assumere la mia propria causalità” (Lacan 1966, 865). Se penso, debbo porre l’essere; o, meglio, penso ‘debbo porre l’essere come tecnica’, ‘ debbo parlare l’essere’ – qui, finalmente, Descartes è ‘compreso’.

Altrove, Lacan chiarisce quale interpretazione generale del pensiero cartesiano sostenga questa riduzione politica, assolutamente disincantata, del Cogito. Qui incontriamo alcune delle ragioni di fondo che ci hanno convinto nella nostra critica al libro di Negri. A priori, la certezza cartesiana, le regole della razionalità cartesiana, non escludono, non si separano assolutamente, ma bensì implicano l’essere: “il primo giudizio di certezza che Descartes fonda sulla coscienza che il pensiero ha di se stesso, è un puro giudizio di esistenza: Cogito ergo sum” (Lacan 1966, 158). L’essere è nel Cogito. La separazione tra pensiero ed essere è tutta e soltanto funzionale, è una “distinzione di dominio”. Per essere ‘provincia’ del Cogito, l’essere va separato dal pensiero. Abbiamo appena visto attraverso quali distinzioni e passaggi il pensiero giunga a porre l’essere, e come questa sua Position vada intesa. Sta di fatto, che il Cogito è fin dall’inizio mosso all’essere, e non conta senza questa sua interna dinamica. La soggettività moderna pone, sì, una Spaltung tra sapere e mondo, tra coscienza ed essere, ma questa differenza è fondamentale per qualsiasi progetto scientifico. Bisogna dominare l’oggetto, non identificarvisi. E, quindi, bisogna ridursi al Cogito per dover essere. Ciò comporta un totale rigetto di ogni ideologia umanistica, il rigetto dell’Uomo, in quanto tale. Esso non conta se non come Soggetto, struttura linguistica costitutiva del discorso scientifico-tecnico. Anche Bense intuisce come il soggetto cartesiano sia la più formidabile riduzione dell’ideale umanistico, Typus della lotta contro l’ottimismo escatologico, riflesso della condanna borghese alla razionalità tecnica. Lacan porta questa analisi alle sue conseguenze radicali: è possibile sapere soltanto nella misura in cui il Cogito-Coscienza si fa atto, si fa Dovere, e, infine, potere. Ma è possibile potere, soltanto nella misura in cui si assume radicalmente la sparizione dell’Uomo che Descartes intuisce.

Quindi: non c’è scienza umana – così come non c’è scienza sull’Uomo. C’è scienza del Soggetto e scienza sull’essere ‘espanso’ a Tecnica. “Non c’è scienza umana (scienza dell’uomo), allo stesso modo che non ci sono piccole economie” (Lacan 1966, 859) Qui sembra davvero che abbiamo raggiunto il punto. L’ambivalenza tra Uomo e Soggetto può ancora valere nel periodo della manifattura; ma il Soggetto come unico ‘valore’ si impone già con la rivoluzione industriale. Questo Soggeto, unico agente del processo di razionalizzazione, si afferma politicamente nel corso del ’800. Ponendosi come causalità, come Tecnica, in ogni campo, esso diviene sistema economico-politico – e qui realizza l’ergo che aveva mosso il Cogito cartesiano. Questo ‘discours’ definisce una totalità, indubbiamente. Inutile, assurdo (e reazionario) cercare in essa crepe o incertezze. Questa totalità esiste, oggettivamente. E non ammette contro-poteri al suo interno, se non nella misura in cui essi rendano più dialettico il suo impianto. Ma ammette uno sviluppo, anzi: deve ammetterlo. E qui conta il Müssen altrettanto, almeno altrettanto, del Sollen. E il momento della trasformazione-innovazione è altrettanto totalizzante: afferra tutto il sistema, in tutte le sue leggi. In questa necessità strutturale dello sviluppo, ci sono le condizioni e le forze, le contraddizioni e i soggetti, che possono segnare una alternativa al sistema, altrettanto generale, totale, altrettanto assoluta della posizione di quest'ultimo. Qui la critica dell’ideologia si arresta davvero, di fronte alla critica dello stato capitalistico complessivo. Ma ritrova, anche, il suo oggetto completamente dentro questo stato, articolazione essenziale di quest'ultimo. E il problema di questa sintesi che bisognerà d’ora in poi affrontare. Conoscerla per rovesciarla, saperla per negarla. Ma mai all’indietro.

Riferimenti bibliografici
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È morto un filosofo. Il pensiero rivoluzionario non può finire

Massimo Cacciari [da “La Stampa” del 17 dicembre 2023]

È morto un filosofo di rilievo internazionale, uno dei pochissimi italiani contemporanei a esserlo, amico e collaboratore dei Deleuze, dei Matheron, dei Guattari, autore di opere che hanno segnato la discussione politica come Empire, pubblicato con Hardt dalla Cambridge University Press nel 2000 e tradotto in tutte le lingue (in Italia per Bur con il titolo Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione). Augurabile che tutti coloro che vorranno parlare della scomparsa di Toni Negri lo sappiano e lo ricordino, augurabile che gli interventi sulla sua fine non si riducano alla miserabile misura delle cronache nostrane. Se si dovrà, come anche si dovrà, parlare della sua storia politica, che ciò avvenga all’altezza delle tragedie dell’epoca che ha, e abbiamo, attraversato tra anni Sessanta e Ottanta, senza tirare ancora in ballo le follie giuridico-storiografiche di chi lo indicò come ispiratore, se non addirittura “grande vecchio”, del terrorismo brigatista. Follie che gli costarono anni di galera e di esilio – e ad altri anche peggio.

Il pensiero è prassi

Certo, il pensiero di Toni Negri è prassi. Ma nel senso profondo che il pensiero quanto più è radicale, quanto più esige di procedere al fondo della cosa, tanto più è obbligato a manifestare il proprio punto di vista, la propria parzialità. Non esiste obbiettività astratta, forse nemmeno nelle scienze ‘pure’ – impossibile là dove il proprio oggetto siano le forme di vita, il multiverso dell’agire umano, delle sue intenzioni, dei suoi desideri. Vivendo al loro interno per conoscerle tu sei chiamato a deciderti – a decidere da che parte stare, quali di essi, e portati da quali soggetti, vuoi difendere, promuovere, rendere potenti. Era l’atteggiamento fondamentale, e che appartiene per me all’autentica filosofia, proprio di Negri, del tutto analogo a quello di coloro con i quali, tra anni Cinquanta e Sessanta, iniziò la sua esperienza teorica e politica, da Alberto Asor Rosa a Mario Tronti, che l’hanno preceduto di pochi mesi nel transito. Sì, dico transito, perché per uno spinoziano come Negri tutto si trasforma, tutto si rigenera e nulla crepa.
 

Il pensiero è pensiero critico

Il pensiero, se è, è critico nella sua essenza. E cioè sta per natura dalla parte del “potere costituente” (Il potere costituente 1992), del potere che eccede ogni status quo, ogni determinazione statuale-istituzionale. Il concetto di democrazia vive soltanto se connesso a questa dimensione del potere, se mantiene viva, aperta la dialettica tra il sistema “costituito” e il movimento creativo e imprevedibile che incalza dalla moltitudine. Moltitudine si intitola il libro con Hardt che segue Empire nel 2004. Moltitudine viene qui chiamato il proteiforme soggetto, il demos globale che l’Impero espropria di ogni ‘bene comune’, imprigiona nelle ‘leggi’ dello scambio e del mercato, ma che tuttavia manifesta, per Negri, reali potenzialità rivoluzionarie, non solo capacità di mobilitazione (di “sommossa” avrebbe detto Marx). Soggetto del ‘potere costituente’ era la classe operaia, che si organizza ‘eccedendo’ il suo essere forza-lavoro, per l’operaismo degli anni Sessanta, il cui capolavoro fu Operai e capitale di Mario Tronti. Stagione chiusa con la grande trasformazione organizzativa, tecnologica, politica del capitalismo globale, dopo la fine della Guerra fredda. Compimento di cui sono testimonianza le ingloriose fini delle socialdemocrazie europee. Il soggetto rivoluzionario tramonta, allora, per sempre o ne muta la figura?
 

“L’idea di democrazia e quella di eternità si toccano, si misurano l’un l’altra”

Il pensiero rivoluzionario è destinato a divenire puramente escatologico, oppure è ancora in grado di informare di sé un potere costituente reale? Impossibile, risponde Negri, che possa finire. E qui si rivela il suo essere filosofo – impossibile perché appartiene alla nostra natura volere, volere inesauribilmente soddisfare il conatus che ci agita sempre (malgrado tutti i tentativi di metterlo a tacere): essere attivi, agire incondizionati, o condizionati soltanto dal nostro amore per l’altro, lavorare nel senso del creare, considerando la natura e i prodotti del nostro lavoro come beni comuni. Il filosofo di questa idea radicale di democrazia è Spinoza – ma non solo lo Spinoza sovversivo del libro del 1981 (Anomalia selvaggia, Feltrinelli), anche quello della Parte V dell’Ethica, dell’amor intellectualis di Dio, dell’eternità, che Negri affronta in saggi successivi. Così scrive in una delle sue pagine più intense, del 1993: “L’idea di democrazia e quella di eternità si toccano, si misurano l’un l’altra”. Sì, ne sono certo, è qui il punto in cui si deciderà (o già è tutto deciso?) se globalizzazione può significare soltanto la religione dell’indefinito progresso da scopo a scopo, l’Impero delle grandi potenze economico-finanziarie fagocitante in sé ogni altra sovranità, oppure se invece dal suo stesso interno possono determinarsi contraddizioni tali da produrre nuovi soggetti e nuove prassi rivoluzionarie all’altezza della ‘rivoluzione’ in atto nei rapporti sociali e di produzione. Se questi nuovi soggetti emergeranno, il loro pensiero non potrà che muoversi in quel solco: concepire la democrazia come quel potere sempre costituente che vuol dar ragione dell’affermazione del valore eterno del nostro esserci.

Alma Venus lucreziana e Kairos

All’alma Venus lucreziana Negri ha dedicato un saggio del 2000. Il grande studioso di Cartesio e Spinoza, di Hegel e di Dilthey, attinge la sua fiducia da Lucrezio, e cioè dal più rivoluzionario dei classici: la Natura, la physis dei Greci, è generazione ininterrotta, in nessun stato potrà arrestarsi. Physis si esprime nella molteplicità infinita dei viventi, e la moltitudine ne è l’espressione politica. Al politico spinoziano spetterebbe il compito di cogliere il momento opportuno, il Kairos, per renderla vincente. Si può essere disperati intorno a tale possibilità, ma non si può non vedere la forza della sua idea, non coglierne la necessità, direi, rispetto a quelle che corrono per i mercati. Essa ha in sé, certamente, tutta la carica del negativo – ma l’uomo non nasce libero e la libertà si afferma soltanto nella lotta contro l’esigenza di ogni “potere costituito” ad apparire legge di natura o destino cui ci sarebbe dato soltanto di obbedire.

English abstract

We are republishing here two texts by Massimo Cacciari on the philosophy of Antonio Negri. The first, written in 1970, is a long essay inspired by the publication a few months earlier of Negri’s book Descartes politico: it is a harsh and direct comparison with Negri’s thoughts on the idea of modernity, based on the assumption that “Negri’s is the first attempt to address the question of origins, the very foundation of bourgeois ideology, from an explicitly political and class point of view. In this sense, his work is pioneering. His indications are taken up, one by one, in every work of ideological critique”. An indication of the value of Negri’s work and the fact that it should have been a point of reference in subsequent studies, which has been largely ignored in the history of studies on Descartes. The second contribution is a tribute to Negri’s philosophical stature, published in the Italian newspaper “La Stampa” the day after Negri’s death in December 2023. The tribute to the philosopher ends up focusing on a seemingly minor work by Negri, Kairos. Alma Venus e Multitudo, the lessons that the philosopher “gave himself”, written in 2000. It is the lesson of Lucretius’ materialism that runs like a filigree through Negri's work, intersecting with the figure of Kairos – the ‘to-come time’, according to Negri – which projects the light of permanence, of eternity, even onto the precious juncture of the present time.

keywords | Descartes; Negri’s philosophy; Lucretian Materialism; Kairos.

questo numero di Engramma è a invito: la responsabilità della selezione e della revisione dei contributi è dei curatori e del comitato editoriale della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Cacciari, Due contributi su Antonio Negri filosofo, con una Nota sulla pubblicazione e sulla riedizione dei testi di M. Centanni, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025. Per i due scritti di Cacciari: M. Cacciari, Vita Cartesii est simplicissima, già in “Contropiano” 2/1970, 375-399, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025; M. Cacciari, È morto un filosofo. Il pensiero rivoluzionario non può finire, già in “La Stampa”, 17 dicembre 2023,  “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025. 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.221.0001