"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

La rinascita del costituzionalismo europeo 

Seminario alla Fondazione Basso del 23 febbraio 2004

Giacomo Marramao, Antonio Negri

§ Appendice | Intervento di Giacomo Marramao al Seminario della Fondazione Basso del 22 marzo 2004 “La concezione del biopotere in Foucault”

English abstract

Nota introduttiva a cura di Maurizio Locusta*

Il seminario, ospitato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso il 23 febbraio del 2004, nasce dalla necessità di affrontare lo stallo della costituzionalizzazione europea e il ruolo dei movimenti sociali nella costruzione di un’Europa politica più democratica. Giacomo Marramao evidenzia l’urgenza di superare il provincialismo del dibattito italiano, aprendo a una riflessione più ampia sulle trasformazioni globali. L’Europa politica viene analizzata come un progetto ancora incompiuto, che va ripensato oltre la logica sovranista. Marramao la vede come un’associazione politica inedita, in cui il diritto è parte di una dinamica politica più ampia e la società civile il suo motore principale. Toni Negri sottolinea l’importanza della congiuntura geopolitica: il declino dell’unilateralismo americano, la crescita della Cina e le dinamiche sudamericane richiedono un ripensamento radicale dell’Europa. I movimenti sociali devono giocare un ruolo attivo in questa trasformazione. Il seminario esplora anche il rapporto tra movimenti e istituzioni. Se i movimenti spesso hanno assunto posizioni sovraniste o oppositive, emerge invece la necessità di un nuovo modello di rappresentanza capace di integrare le istanze dal basso. Marramao propone l’idea di un’“Europa come esodo dallo Stato”, fondata sulla pluralità delle esperienze. Infine, si discute la ridefinizione del concetto di bene pubblico nell’era globale, valorizzando saperi, informazione e reti di comunicazione come elementi centrali per una nuova cittadinanza. L’Europa non può nascere solo dalle istituzioni, ma deve essere il frutto di un processo collettivo in cui i movimenti siano attori costituenti di una nuova forma democratica. Il seminario rappresenta un momento di confronto per delineare le traiettorie future di un’Europa che sia spazio di resistenza e innovazione, capace di sfidare i modelli egemonici esistenti. Alla discussione hanno partecipato tra gli altri: Giuseppe Allegri, Beppe Caccia, Monica Frassoni, Mauro Palma, Giuseppe Papi Bronzini, Francesco Raparelli, Eligio Resta, Franco Russo, Paolo Vernaglione. La registrazione completa del seminario è disponibile a questo link. In Appendice pubblichiamo un estratto dall’intervento di Giacomo Marramao a un secondo seminario con Negri, che si è tenuto il mese successivo, sul biopotere in Foucault.

*responsabile della Biblioteca della Fondazione Lelio e Lisli Basso

Giacomo Marramao | Una prima informazione sulla genesi, sull’origine di questa iniziativa. Nasce da una proposta che Toni Negri mi ha fatto un mese fa circa, di valutare insieme l’attuale fase di stallo dell’Europa, cercando di fare il punto su cosa può essere oggi il rapporto tra l’Europa politica e i nuovi movimenti, in una prospettiva di forze che ritengono l’Europa l’unica dimensione possibile per un allargamento del processo democratico […].

Io intendo questa iniziativa come una rottura del provincialismo del dibattito politico italiano. Il primo tema che vorrei che si affrontasse in questa sede è quello dell’Europa politica, appunto l’Europa politica come l’impensato del dibattito pubblico odierno; e, del resto, questo era lo spirito sia delle iniziative che abbiamo fatto all’interno della fondazione Basso a partire dal 2000 – prima, diciamo, della Carta di Nizza – sia degli importanti volumi collettanei che sono usciti presso manifestolibri sull’Europa politica e i nuovi movimenti […]. A questo vuoto, a questo impensato abbiamo tentato di reagire attivamente e propositivamente d’ambo i lati, direi, cercando di centrare radicalmente, con uno spirito radicale, la crucialità del processo di costituzionalizzazione.

Qui il mio caro amico Étienne Balibar, in un testo recente, riprendendo tesi sia di Toni che mie, ha fatto a noi obiezioni diverse: a me ha fatto l’obiezione di dare troppa importanza al momento della costituzionalizzazione per quanto riguarda la faccia propriamente giuridica. Io risponderei, risponderò in sede diciamo poi pubblica anche a Étienne su questo punto, ma il modo in cui almeno nelle intenzioni in cui noi all’interno della Fondazione Basso abbiamo fatto una serie di seminari sul processo di costituzionalizzazione… il diritto non era altro che una variabile della dinamica politica, almeno nella nostra intenzione. E, dunque, la necessità di fissare una serie di punti giuridicamente rilevanti non escludeva, anzi implicava, l’adesione a processi appunto sociali, a una società civile europea, alla formazione di una società civile europea, di una sfera pubblica europea fatta non soltanto, ovviamente, di esponenti del ceto politico istituzionale (mi pare ovvio), ma soprattutto fatta di movimenti e di esperienze, di esperienze di movimento. E certamente la nostra insistenza sulla crucialità del processo di costituzionalizzazione europeo, con gli stalli abbastanza clamorosi che ha avuto, ci portava a individuare nell’originale disegno istituzionale (e qui naturalmente il rapporto con Papi Bronzini è stato un rapporto molto fecondo), nell’originale impianto istituzionale dell’Unione europea, i profili di una forma di associazione politica assolutamente inedita, non comparabile a nessuna delle forme politiche del passato e neanche delle forme democratiche radicali del passato. In secondo luogo, era importante nel nostro lavoro insistere sul carattere processuale della costituzione, cioè la costituzione non è un qualcosa che si compia in una carta ma è un processo. Il che significa, naturalmente, (qui credo che [sia evidente] la convergenza con il lavoro svolto dai compagni che hanno poi dato luogo ai volumi collettanei del manifestolibri)... Il che significa che l’Europa politica non può nascere attorno a una ipotesi sovranista […], cosa che non è assolutamente ovvia rispetto al dibattito politico italiano, dove le posizioni sovraniste sono posizioni assolutamente trasversali, vanno dalla destra della sinistra (la sinistra più moderata) alla sinistra (anche la sinistra radicale). Andare al di là dell’ipotesi sovranista significa rifiutare qualunque prospettiva […]: la logica dello Stato-nazione con il suo blocco storico strutturale (stato, costituzione, popolo) non soltanto non ci serve più, ma è l’ostacolo del quale ci dobbiamo liberare e il blocco di cui ci dobbiamo liberare. Dunque, l’Europa politica deve collocarsi nel quadro di una inedita costellazione globale. In che cosa consiste questa inedita costellazione globale? Qui è quell’altro punto che vorrei si discutesse oggi in sede seminariale. Io credo che per definire i caratteri, le prospettive dell’Europa politica sia necessario attivare un doppio versante del confronto. E questo mi pare un altro punto di convergenza da segnalare. Per un verso, un confronto con l’egemonia del capitalismo nordamericano, del capitalismo neoliberale e neoliberista. Per l’altro verso, con quella che i volumi del manifestolibri definiscono la drammatica transizione russa, ma direi – allargando lo scenario – anche con l’altra globalizzazione, con la globalizzazione alternativa delineata dal colosso asiatico, e in particolare dalla Cina. Questa inedita costellazione globale – e qui è un altro punto – apre la prospettiva (dal mio punto di vista, ma credo che sia un punto di vista appunto che possa essere condiviso da alcuni qui oggi) di vie alternative alla modernità nel globale: di vie alternative. Non esiste un’unica via, ma ci sono più vie, e queste vie alternative alla modernità si evidenziano soprattutto nell’era postcoloniale e, se volete, nell’era post-fordista; l’era post-fordista io la definirei dal punto di vista strutturale come un’era dominata per un verso da quello che Toni chiama il proletariato immateriale, la forza lavoro immateriale, il lavoro immateriale e la forza lavoro che opera sull’immateriale, per altro verso dominata dall’overlapping tra conflitti di classe e conflitti identitari, che mi pare un altro punto che dobbiamo cercare di affrontare; e, per altro verso, dominata dal corto circuito, come noto, di globalismi e localismi, dove […] è il paradosso potenzialmente politico che dobbiamo cercare di visualizzare. Non è il paradosso di cui parla Beck o di cui parla anche il pur meritevole Bauman, il paradosso del cosmopolitismo o del globalismo dell’élite della finanza globale, mentre invece i poveri e gli emarginati sarebbero relegati nei loro luoghi. È esattamente il contrario: il paradosso è esattamente all’inverso. Se fosse in quei termini, non sarebbe affatto un paradosso: se i ricchi fossero globali e gli emarginati poveri fossero invece locali non si darebbe. Il paradosso invece è esattamente il contrario: il paradosso potenzialmente politico con cui abbiamo a che fare di petto è l’universalismo, il cosmopolitismo dei soggetti emarginati o nomadi o che fanno esodo, quindi il cosmopolitismo del lavoro immateriale è localismo, invece dell’élite finanziaria. Tant’è vero che le politiche di devolution sono tanto più intense laddove le regioni sono dominate da capitale finanziario o da multinazionali particolarmente influenti.

Qui si apre un’altra dimensione che vorrei soltanto nominare per ragioni di tempo, la dimensione determinata dal contrasto tra le nuove sfide globali e la miseria della politica europea – altro che deficit democratico, proprio il deficit politico europeo, e una miseria politica che nel caso del governo italiano è addirittura caricaturale e che si è dimostrata non soltanto con gli esiti della conferenza intergovernativa di Roma e della chiusura del semestre italiano in Europa, ma si è manifestata soprattutto con la clamorosa emarginazione dell’Italia dal vertice europeo, che è una delle più gravi sconfitte e una delle più gravi umiliazioni che la politica estera italiana abbia avuto nel corso del regime repubblicano, una delle più clamorose umiliazioni.

Vengo molto rapidamente all’ultima parte di questa di questa introduzione, e cioè: come è possibile oggi immaginare un lavoro funzionale alla costruzione di un’Europa politica partendo dalle dinamiche sociali? Quindi vengo al versante, come dire, soggettivo del nostro problema. Io sono convinto che dobbiamo compiere uno sforzo – questa volta sì inedito, inedito per la storia, inedito anche per le culture, per tutte le culture della sinistra – per tenere insieme i due lati dei nuovi movimenti sociali. Io sono convinto che il movimento dei movimenti non sia il movimento per la pace, ma piuttosto il movimento no global o il movimento new global. Il movimento per la pace non è altro che un’implicazione, un derivato, e comunque sia non può essere considerato di per sé la panacea politica di tutti i mali, quindi per un verso il movimento no global o new global, l’“arcipelago” dei movimenti (per usare l’espressione del vostro amico Cacciari); e per l’altro verso, la cultura del costituzionalismo. Cioè, tenere insieme questi due lati: questa mi pare la sintesi capace di riaprire la dinamica politica. E, naturalmente, io ho un sogno, cioè il sogno che si smetta di parlare di sinistre al plurale come fanno tutti, da Fassino a Bertinotti, perché è troppo comodo parlare di sinistre. Il mio sogno sarebbe potere parlare di culture della sinistra, di culture che convergono dentro un progetto politico della sinistra, e non di sinistre; e cioè, di culture che in qualche modo poi convergono in una costituzione plurale della soggettività, che sia in grado di tenere insieme i due lati di cui prima parlavo, e che sia in grado di realizzare un circolo virtuoso tra una unificazione della dimensione soggettiva e una esaltazione dell’elemento della pluralità interna, e dunque una sinistra in cui il momento dell’unità non sia in contraddizione con il dispiegamento del più ampio confronto democratico interno tra le culture all’interno dell’organizzazione. Sempre nei progetti della sinistra, l’appello all’unità ha coinciso con la mortificazione del confronto interno, del dibattito interno, e dunque con una amputazione dei processi democratici. Io credo – almeno credo – di essere in convergenza con Toni nel dire che le forme di vita, le forme di sperimentazione, le forme di esperienza che si esprimono oggi nei movimenti sociali – in tutte le issues, in tutte quante le tematiche, gli obiettivi che li caratterizzano, dall’obiettivo no global, l’obiettivo ambientalista, all’obiettivo funzionale a una nuova forma di associazione politica democratica post-statuale – tutte queste forme di vita devono avere una loro legittimità all’interno del processo di unificazione. Ecco, qui naturalmente, per poter fare questo, io credo che dobbiamo in qualche modo individuare quali sono le culture, quali sono gli slogan culturali che dobbiamo cercare appunto di battere all’interno di questa nuova prospettiva. Io credo che non esistono due sinistre, se non nell’alibi del ceto politico dirigente della sinistra che rifiuta l’unificazione della sinistra a partire dall’apertura della dinamica democratica, dall’apertura alla pluralità delle esperienze. Io credo invece che esistano, e questo è un dato strutturale, credo invece che esistano (e qui si apre – credo – la possibilità di una pratica politica alternativa) due destre fra loro inconciliabili, o conciliabili soltanto mostruosamente come sta accadendo in Italia: c’è una destra neoliberista e mercatista, e una destra statalista e autoritaria. Certamente implicate e complici fra loro, e tuttavia due destre fra loro in contraddizione. E io credo che questa contraddizione possa essere giocata. Io credo che la sinistra sia stata incapace di operare su questa contraddizione, in quanto la cultura che ha dominato il ceto politico della sinistra in Italia e in Europa è stato fondamentalmente irretita da due parole chiave che io trovo micidiali e pericolosissime: innovazione e flessibilità. Ma riflettete un attimo, quando Massimo D’Alema dice ‘finalmente Berlusconi è costretto ad inseguire noi sul terreno dell’innovazione’, bel lapsus! Negli anni precedenti, vuol dire che è stato lui a inseguire Berlusconi sul terreno dell’innovazione. È un bel lapsus questo qua, significa naturalmente che l’innovazione viene assunta di per sé come un fatto, diciamo, taumaturgicamente rilevante. Idem vale per il discorso intorno alla flessibilità. Ora, flessibilità e innovazione sono stati, per l’appunto, i cunei divisori della sinistra: le chimere economico-politiche che la sinistra ha portato avanti e che hanno determinato una sorta di politica necessitata. Cioè, la sinistra che ha giocato la propria politica all’interno di schemi rigidamente necessitati. È qualcosa di ancora più profondo, poi, di quella che noi abbiamo anche denunciato come l’ossessione della sicurezza. Ma l’ossessione della sicurezza non è che il derivato di una politica della sinistra, che è stata bloccata proprio dalla logica necessitante della flessibilità e dell’innovazione. Ecco, io credo che su questo punto si debba un attimo, in qualche modo, riflettere. È curioso notare come giorni fa, in una nota trasmissione televisiva, il direttore del “Riformista”, nel criticare il rappresentante di Forza Italia, non trovasse nulla di meglio che insegnargli come si fa una politica di destra efficace. E gli diceva: ‘avete fatto male ad iniziare con l’articolo 18 e ad affrontare troppo tardi il tema delle pensioni. Occorreva fare esattamente all’inverso’. Dico: ‘ma perché non avete iniziato subito con il colpo alle pensioni e poi dall’articolo 18?’ Cioè, la sinistra in qualche modo non trova altri argomenti, se non, appunto, insegnare al governo di centrodestra come si fa un governo di centrodestra. Ora, io credo che la rottura di questo schema, di questo pattern politico che è stato fino ad oggi dominante della sinistra, non possa aver luogo senza un ricambio con le esperienze di ricerca collettiva. E quando dico ‘esperienze di ricerca collettiva’, io credo che si debba resistere alla tentazione di pensare alla unificazione dei movimenti come una mera unificazione di sigle: cioè, unificare i movimenti non significa sommare delle sigle. Ed è, tra l’altro, ciò che sia Toni che io abbiamo criticato nel progetto del partito della sinistra europea, che è stato in larga parte un’operazione, per come dire, di maquillage del ceto politico, cioè un’operazione in qualche modo che assumeva come punto di partenza delle sigle già consolidate. Le esperienze vanno ricomposte dopo che noi abbiamo identificato i luoghi di sperimentazione. Ciò che è esattamente il contrario della formula dell’innovazione: cioè, la sperimentazione del nuovo avviene spesse volte al di là e al di fuori delle sigle consolidate. Se noi ci limitiamo a sommare sigle già consolidate, credo che non faremo poi molti passi avanti. Non faremo altro che mettere in gioco nuova carne da mobilitare all’interno dei giochi di negoziazione politica, per accaparrarci magari una fetta un po’ più ampia di elettorato. Ma non credo che faremo molto di più di questo.

E, tuttavia, è qui il punto che si apre, e quindi vengo alla fine. La pluralità delle esperienze di movimento senza uno sbocco politico sicuramente rischia di rifluire. Questo è un altro punto che non possiamo non porci. Cioè, le esperienze di movimento non hanno la possibilità poi di reggere a lungo se non hanno uno sbocco anche organizzativo. Naturalmente, qui il problema che si pone è il famoso tema del dualismo tra movimenti e partito. Ecco, io credo che quella cosa che un tempo veniva chiamata partito non possa essere in nessun caso più concepita secondo il modello del vertice e del centro, ma deve essere inteso esattamente come un modello reticolare, che debba rispondere a due logiche, fondamentalmente – e qui chiudo. La prima di queste logiche deve essere la capacità di individuare i punti di contraddizione politico-strutturale che oggi si danno, nell’Europa, nella sinistra e nel processo di globalizzazione. In altre parole, è assolutamente indispensabile che l’Europa politica venga collocata dentro il processo di globalizzazione. Cioè, il tema, fondamentalmente, è quello appunto, il tema di Global Europe, no? Noi dobbiamo pensare appunto all’Europa come attore politico globale, e quindi, da un lato, dobbiamo avere una attenzione estrema, intensa, ai luoghi dove affiorano – ripeto – sperimentazioni nuove al di fuori delle sigle consolidate. In secondo luogo, un’attenzione alle contraddizioni che si determinano anche sul piano istituzionale. La politica altrimenti non si può fare, non si può praticare, se non abbiamo anche questa attenzione al piano istituzionale. E dobbiamo avere anche un’attenzione alle contraddizioni che si aprono all’interno della dinamica della globalizzazione proprio nelle aree di mercato regionali, cioè le contraddizioni macro-regionali, le configurazioni macro-regionali che la dinamica della globalizzazione – o se preferite, della glocalizzazione – induce. Queste configurazioni macro-regionali non vanno minimamente sottovalutate. Ora, con questo non sto a fare un discorso che dovrebbe essere molto più dettagliato e nel merito tra un confronto tra il forum di Porto Alegre e il forum di São Paulo. Però, il fatto che una serie di stati, di governi del Mercosur si organizzino, ipotizzando con Lula un modello sociale ed economico completamente diverso, alternativo rispetto a quello nordamericano, è una contraddizione che non può essere affatto sottovalutata. E quindi non dobbiamo assolutamente sottovalutare le spinte a un modello alternativo che si determinano all’interno del processo di globalizzazione. Più in generale, io ho la sensazione che una prospettiva della sinistra per la costruzione di un’Europa politica debba essere una prospettiva, al tempo stesso, post-socialista e post-democratica. Anzi, se volete una sintesi, una prospettiva post-social-democratica. Questo mi pare un punto molto importante. E qui credo che dobbiamo avere ben chiara l’onda lunga, non soltanto l’onda corta, le microonde. Cioè, la sinistra si è fermata molto alla logica delle microonde, no? Tra l’altro, ha cucinato le coalizioni sulla base di microonde, della tecnologia delle microonde, no? Io credo che alle microonde vada preferita l’onda lunga, e io ho pensato anche in altri miei scritti a qualcosa di simile alle cose che ha detto Toni nei suoi lavori sull’Europa e l’Impero, o altre cose. Cioè, noi abbiamo avuto due grandi momenti di organizzazione della soggettività politica in Europa, nel corso della storia tardo-medievale e moderna. Abbiamo avuto la forma politica e soggettiva corrispondente alla Res publica Cristiana, all’Europa Cristiana, al Sacro Urbano Impero, che era la Chiesa. Cioè, la Chiesa è stata un fattore strutturante, organizzatore della soggettività, delle soggettività in Europa in tutta quanta l’epoca che precede la rottura delle guerre di religione, poi l’ordinamento moderno degli stati che, come è noto, va dal 1647-1648, dai trattati di pace di Westfalia, fino, diciamo pure, al 1713, alla pace di Utrecht. Con la pace di Utrecht abbiamo il Settecento e si chiude il sistema europeo degli stati. La seconda organizzazione della soggettività è quella che corrisponde allo Stato, ed è stata il partito. Toni dice addirittura ‘dai Ghibellini ai Bolscevichi, passando per i Giacobini’. Dai Ghibellini ai Bolscevichi passando per i Giacobini, la organizzazione della soggettività è stata il partito, che era poi il corrispettivo soggettivo dello Stato, così come la Chiesa era il corrispettivo soggettivo della Repubblica Cristiana. E oggi? Oggi, al mondo della rete globale, qual è la forma di organizzazione della soggettività più congrua? Questo direi è quello che voi, Toni, voi altri, chiamate il posse, il momento del posse. Ma dobbiamo trovare una forma di organizzazione della soggettività che sia in grado di salvare la differenza e al tempo stesso sia in grado di raccogliere le spinte universalizzanti post-statuali che si sprigionano dalle nuove esperienze di movimento. E, allora, una tale organizzazione non può essere che plurale. Deve superare la logica del vertice e del centro. Deve assumere la differenza come criterio compositivo delle esperienze singolari. Deve partire dai luoghi di sperimentazione dei movimenti per esaltarne non soltanto il carattere di opposizione. Guardate bene, questo è un limite della sinistra tradizionale anche nella sua versione pseudo-radicale. Anche la sinistra bertinottiana assume i movimenti come un’opposizione più larga, cioè i movimenti sono un no più largo. Mentre invece io credo che dobbiamo cogliere nei movimenti l’elemento del sì, anche l’elemento propositivo, cioè l’elemento, diciamo, che non si limita a dire no, ad opporsi, ma che indica nuove strade. Altrimenti, da questa situazione – scusate – non ne usciamo. Dallo stallo attuale non usciamo se nei movimenti vediamo unicamente un no: no ai vincoli, no ai sacrosanti; no ai vincoli, no alle compatibilità, no alle politiche necessitate, no al saccheggio ambientale. Ma il problema è individuare i sì, le esperienze creative nuove che si danno. Ed ecco, io credo allora che la forma politica, democratica, non possa essere più quella sovranista, in qualche modo, quella della tradizione che va da Bodin a Hobbes, ma piuttosto – se volete – quella della tradizione che va da Machiavelli attraverso Spinoza a Marx. Di questo sono convinto. Quella che rifiuta sia la reductio ad unum della sovranità, sia la reductio ad unum del popolo. Del popolo come un soggetto omogeneo. E sostituisce al popolo la pluralità dei soggetti e delle esperienze di movimento, quindi che rifiuta la reductio ad unum su entrambi i versanti, e non soltanto sul versante della sovranità. Bene, io credo che in un certo senso è possibile, proprio alla luce della tradizione Machiavelli-Spinoza-Marx, rivalutare anche oggi il tema del costituzionalismo. Penso alla bella frase di Machiavelli quando dice che dobbiamo costruire un ordine che sia intanto un ordine che si alimenta attraverso il conflitto, che lo legittimi, che lo includa in sé: un ordine dinamico in cui l’una potenza guarda l’altra. E non è un guardare chiaramente contemplativo quello a cui pensava Machiavelli. Cioè, un potere equilibra l’altro e lo limita in un equilibrio dinamico di forze fecondo che non chiude mai la prospettiva degli ospiti inattesi che possono entrare dentro l’associazione politica democratica. E quindi vi è qui, naturalmente, l’idea del carattere insopprimibilmente plurale dell’istanza democratica post-leviatanica, post-statuale. Io penso, ad esempio, a un ordine molto simile all’istituto dell’eforato di Althusser, in cui proprio il diritto di resistenza viene in qualche modo legittimato all’interno dello stesso ordinamento, e in cui il diritto, i diritti non provengono dal gelido mostro, non provengono dal centro sovrano, ma provengono invece dalla dinamica effettiva delle esperienze. Cioè, in altri termini, dobbiamo cercare di superare nella cultura della sinistra quella visione sovranista – ripeto – sia nel senso del vertice, sia nel senso dell’appello al popolo che reca in sé, per dirla con Walter Benjamin, lo stigma inconfondibile della mitologia e della giurisprudenza del vincitore. Cioè, dobbiamo superare quelle visioni che hanno in sé lo stigma proprio della mitologia e della giurisprudenza del vincitore e cercare di pensare a un ordine che sia in grado di tenere insieme la spinta universalista e il criterio della pluralità e della differenza. Mi fermo qui, l’ho fatta troppo lunga, ora do la parola a Toni e poi si cerca di avviare un po’ di discussione.

Toni Negri | Io cercherò di essere non solo molto breve ma anche molto schematico, ecco, in modo che così si determinino alcuni punti precisi a partire dai quali la discussione possa svilupparsi. Devo dire che Giacomo ha già praticamente introdotto un po’ tutti i temi di cui dovevamo, possiamo discutere. E quindi, veramente vorrei ripetere un po’ lo schemino che mi ero segnato, in maniera da concentrarmi, ma non credo di aggiungere molto veramente a quello che tu hai detto.

Il primo punto è la condizione geopolitica che sembra assolutamente centrale oggi in quelle che sono le valutazioni che possiamo dare dello sviluppo della costituzionalizzazione europea e del suo rapporto con i movimenti. È chiaro che ci sono almeno un paio di condizioni assolutamente centrali che si verificano oggi nell’ambito della globalizzazione e delle forme politiche che essa viene assumendo. Il primo è il fatto che l’unilateralismo americano rivela segni di crisi. Il fatto che l’unilateralismo americano riveli segni di crisi è naturalmente legato all’infausto, dal punto di vista americano, svolgimento delle guerre mediorientali. È legato […] a quella che è l’impossibilità del gendarme mondiale – o del monarca – di funzionare al di fuori dell’accordo con le altre potenze continentali. Da questo punto, gli spazi delle altre potenze continentali, delle altre eventuali potenze continentali, si è, per così dire, allargato e in qualche modo consolidato. È chiaro che l’esempio va immediatamente alla Cina e a quello che è l’enorme spazio geopolitico che lo sviluppo cinese sta facendo. Lo sta assumendo, non solo evidentemente dal punto di vista interno, ma dal punto di vista della compenetrazione con l’ordine mondiale. Praticamente, oggi è doppio il filo che lega il mercato cinese a quello americano e, diciamo, la relativa indipendenza – o comunque la rottura di ogni tipo di dipendenza pesante – da parte appunto del continente cinese è data. Altrettanto si potrebbe dire, per quanto riguarda l’America Latina: come diceva già Giacomo, ci sono appunto, in questa fase, nella rottura dell’unilateralismo, anche tendenze a quella che è la rottura della dipendenza. Quindi, la creazione di un orizzonte di interdipendenza che diventa sempre più importante. Le operazioni del Mercosur e, in generale, la presa di posizione della politica brasiliana ed argentina stanno determinando condizioni del tutto nuove, che danno all’attuale situazione non solo il quadro di uno sviluppo ulteriore, di un’articolazione ulteriore della globalizzazione, ma danno il quadro di occasioni di organizzazione continentale come elemento dell’organizzazione, ma anche come contrafforte dell’unilateralismo e dell’unità del mercato capitalistico. Da questo punto di vista, esiste un’occasione Europa come mai forse si era data. Un’occasione Europa che è corrispondente dell’occasione che si presenta sul livello globale su altri punti continentali.

L’altra cosa che va sottolineata, sempre su questo terreno, è invece l’accentuarsi sempre più sistematicamente legato, non più semplicemente alle forze politiche che dominano a Washington, ma a una sorta di interesse profondo della nazione americana, della struttura amministrativa della grande potenza, della superpotenza americana, un interesse che in Europa non esiste come elemento politico. Quindi, da un lato si presenta un’occasione europea fortissima, dall’altra parte si presenta un blocco che è sempre più accentuato, un blocco che gioca evidentemente forze interne capitalistiche contro l’Europa: l’allargamento, evidentemente, ai paesi dell’ex area sovietica e il gioco pesante contro l’euro non vanno che a aumentare sistematicamente la drammatizzazione della rottura attorno all’Iraq, non vanno che a aumentare quello che è un gioco pesante che d’altra parte è completamente tradizionale. La politica americana si potrebbe risalire alla crisi della Comunità Europea di Difesa nel 1953 e venir su attraverso tutta una serie di episodi che hanno caratterizzato questo tipo di sistematica opposizione al costituirsi in Europa politica. La costituzione di un grande mercato europeo è evidentemente vista con molto favore, ma niente al di là di questo.

Il secondo elemento sul quale vorrei insistere è la modificazione dei comportamenti politici delle forze interne all’Europa riguardo al problema europeo. Nel giro di questi dieci anni, praticamente dal principio degli anni ’90, noi abbiamo assistito a un modificarsi in senso euroscettico pesantissimo delle forze politiche, politico-industriali, politico-economiche europee. Al principio degli anni ’90, noi potevamo sottolineare una sorta di rifiuto dell’Europa politica che era legato ai gruppi industriali subappaltatori dell’interesse nazionale, a questo legame veramente alla Polanyi tra gruppi industriali e sviluppo delle forme statali, che si opponevano allo sviluppo europeo. Potevamo sottolineare come tutta una serie di forze sindacali fortemente corporative e legate a forme di sviluppo di welfare fossero contrarie alla Costituzione europea. D’altra parte, potevamo segnalare come, ad esempio, strati estremamente ampi di quella che era la borghesia funzionaria di certe élite legate a funzioni fondamentali – pensiamo solamente al tipo di istituzioni finanziarie legate alle banche nazionali – fossero effettivamente, invece, fortemente favorevoli all’Europa. Ricordiamo quello che è stato, soprattutto per le industrie che in quel momento sviluppavano nuove tecnologie, l’enorme importanza che si è legata al piano ESPRIT [il Programma europeo di ricerca e sviluppo nel settore delle tecnologie dell'informazione ‘European Strategic Programme on Research in Information Technology’, in acronimo ESPRIT, un'iniziativa dell’Unione europea gestita dalla Direzione generale per l'industria della Commissione europea, nel periodo 1994-1998), alla politica di Delors a livello europeo.

Quindi esistevano, nell’ambito stesso dell’organizzazione industriale europea, forze che spingevano sia a livello statale, sia per non essere isolate come élite burocratiche, sia per interessi di fondo (essenzialmente rivelandosi sul piano finanziario e monetario), sia dal punto di vista delle nuove tecnologie verso questo tipo di sviluppo. In più, è fuori dubbio che i nuovi strati della forza lavoro, quelli più immediatamente legati alle trasformazioni post-fordiste, vedessero nella nuova organizzazione del mercato del lavoro, sul livello europeo, notevoli possibilità di apertura, notevoli possibilità di gioco, diciamo così, a quello che era evidentemente il rialzo del costo della forza lavoro e alla liberazione di quella che era la forza-intenzione, la forza-ricerca. A metà del 2004, da quello che riusciamo a capire, dal punto di vista industriale e finanziario siamo completamente in panne. È fuori dubbio che nessun capo di industria ha sostenuto il processo Giscard in termini, diciamo, pesanti. I dati che abbiamo sulla integrazione economico-mondiale dei grandi gruppi finanziari mostrano che ormai le quote di mercato europee stanno diminuendo – stanno andando tutte verso il 30% – mentre le quote di mercato americano o mondiale stanno aumentando ampiamente. Il livello di integrazione finanziaria a livello mondiale sta diventando sempre più alto, in particolare per le industrie europee. C’erano una serie di documentazioni fatte ultimamente proprio su “Le Monde” che davano questa situazione come una situazione ormai definita e irreversibile. Dal punto di vista dei ceti politici… su questo torniamo dopo; dal punto di vista delle forze materiali, per chiamarle così, evidentemente risalta invece quella che è una relativa modificazione dei grandi sindacati e delle corporazioni operaie. Una relativa modificazione che riguarda, da un lato, la consapevolezza sempre più ampia che la resistenza al neoliberalismo non può che darsi su un piano di relativo allargamento di quella che è la capacità di sviluppare questa resistenza, mentre, dal punto di vista della nuova forza lavoro europea, l’apertura del mercato della forza lavoro è stata relativamente efficace, ma comunque non è che abbia sottolineato profonde modificazioni nei comportamenti. Quindi: una crescita sostanziale di euroscetticismo, o comunque un indebolimento di quelle che sono le forze economiche reali che potevano essere viste nella prospettiva di un sostegno del processo di costituzionalizzazione dell’Unione Europea.

Terzo punto: le forze politiche e le élite politiche. È chiaro che le élite politiche hanno portato avanti gli schemi di un vecchio federalismo di Stati e Nazioni. Non si sono se non molto timidamente staccate da quello che era il fondamentale impianto sovranista della loro concezione dell’azione politica, e sono a questo punto andate, quasi inevitabilmente, alla sconfitta della Costituzione Europea. In generale, hanno rivelato una volta di più la loro inadeguatezza a determinare un salto al di là della forma sovrana e della concezione dello Stato-nazione in generale, di essere totalmente incapaci ad aderire – diciamo così – all’immaginazione, o a farsi prendere dall’immaginazione di un’azione costituente. Da questo punto di vista, basta che consideriamo quello che è lo sviluppo della lotta politica oggi attorno alle grandi scadenze elettorali sia in Francia che in Germania che in Italia, per trovarci veramente nel vuoto totale di un discorso europeo, neppure davanti appunto, per parlare della sinistra italiana, a quello che è evidentemente il sabotaggio della Costituzione Europea, e comunque di ogni processo di unità europea che si è condotto dalla destra berlusconiana; neppure in questo caso, la sinistra italiana ha avuto la capacità o nemmeno l’immaginazione, appunto, di proporre un terreno forte di contrasto su questo terreno, su questo piano. Questo punto è maledettamente importante perché secondo me, riprendendo appunto altre considerazioni fatte già da Giacomo, attorno a questa questione si rivela la completa impermeabilità dei meccanismi di rappresentanza. I meccanismi di rappresentanza all’interno degli Stati-nazione, così come sono interpretati dalle élite attuali con le quali abbiamo a che fare, sono assolutamente impermeabili persino agli shock esterni negativi. Da questo punto di vista, è evidente che un processo costituzionale europeo in rapporto ai movimenti, in rapporto a quelle che sono le questioni che emergono, non può assolutamente darsi se non si confonde con quello che è la concezione, o l’apertura, di un dibattito sulla nuova rappresentanza. La crisi europea oggi, come sta avvenendo, nelle forme politiche in cui sta avvenendo, non è semplicemente un problema che apre all’interno dell’Europa tematiche di nuova rappresentanza; le pone anche all’interno dei singoli Stati europei così come sono.

Quarto tema, o quarto problema: che cosa può significare un nuovo processo costituzionale sul livello europeo ma che abbia anche la capacità di ridondare ovviamente all’interno delle situazioni nazionali? Evidentemente, si tratta di riuscire a capire che cosa possa essere un nuovo federalismo, un federalismo dunque che non è il federalismo degli Stati-nazione, ma un federalismo che si costruisce… si dice ‘multilivelli’, ma io non so bene questa storia dei multilivelli, mi ha sempre un po’ imbarazzato, nel senso che i multilivelli erano quelli del Sacro Romano Impero: erano forze statiche che bloccavano, che rappresentavano ma bloccavano, e i multilivelli hanno sempre significato una struttura corporativa in realtà, la struttura dello standard stand, la classica struttura che ha indubbiamente una capacità di rappresentazione forte ma, d’altra parte, è anche completamente statica. Che cosa vuol dire una struttura multilivelli, quando la si mette in rete, per esempio, quando si assuma come altro modello assolutamente presente quella che è la reticolarità dei vari livelli? Che cosa significa una concezione multilivelli che non sia vista semplicemente in termini di rinvio tra le varie corti europee, di integrazione o anche, certe volte, quando va bene, di ibridazione tra varie giurisprudenze? Che cosa significa, cioè, porre il problema della reticolarità e della molteplicità di livelli quando questo tipo di problematica viene riferita a forze sociali prime e non semplicemente a quella che è la fissazione, quando venga cioè messa in processo, quando venga messa al lavoro? E questa è una domanda che si pone inevitabilmente qualora si voglia superare l’impasse attuale della Costituzione, del blocco costituzionale. Ora – guardate bene – io non è che mi strappo i capelli o protesto perché la Costituzione di Giscard non è stata approvata. Io credo che effettivamente la Costituzione di Giscard potesse essere comunque un passo in avanti. Penso che anche formule di piccola Europa, qualora ricostruiscano un processo, qualora siano capaci di spingere avanti un processo costituente – i dubbi sono infiniti – possano essere utili. Io penso che effettivamente il problema non è questo. Il problema è che se noi non abbiamo la capacità di cominciare ad immaginare nuove forme di federalismo in senso proprio, non riusciremo effettivamente a ricomporre alcuna possibilità, alcuna forza, che possa andare nel senso dell’Europa.

Quinto punto. Evidentemente, tutto questo discorso diventa estremamente astratto se non identifica soggetti che si muovano su questo terreno. Soprattutto dopo che avevamo detto che, da un lato, le forze del grande capitale si sono abbastanza, diciamo così, allontanate dalla condizione di sviluppo che esse stesse avevano inizialmente promosso. Credo che il problema sia quello di riuscire a comprendere quali possono essere le forme nelle quali nuovi processi di mobilitazione si danno nel senso dell’Europa. Da questo punto di vista, è fuori dubbio che ci vengano alcune indicazioni, da un lato, non solo dai municipi, da quella che è la realtà municipale, da quella che è la ripresa dal basso di un discorso europeo. L’altro elemento sul quale probabilmente dovremmo fare attenzione è evidentemente quello che è il rinnovamento dei processi sindacali a livello europeo. È chiaro che non sono i sindacati nella loro forma attuale corporativa che possono, dico così, darci una mano sul livello europeo. Ma quello che probabilmente invece potrà avvenire è che anche il rinnovamento del sindacato a quella che è una dimensione sempre più sociale di interpretazione dell’interesse del proletariato, della gente che lavora, si articoli veramente al progetto europeo. In terzo luogo, è chiaro che ormai comincia a identificarsi: estremamente importante il documento apparso in Francia alcuni giorni fa, il documento contro il governo Raffarin firmato prima da 8.000, ormai sono più di 30.000 persone che lavorano nelle professioni intellettuali, e che cominciano a costituire, se non una forma sindacale, se non una forma politica, certo una lobby che comincia a proporre il problema del lavoro intellettuale, e quindi il problema della sua rilevanza oggi nella propria organizzazione generale e nella messa al lavoro della società […]. Esistono poi evidentemente i problemi dell’immigrazione e altro. Ora, come si fa a ri-declinare il problema della rappresentanza in termini di partecipazione e diritti nella prospettiva, appunto, europea? Quali sono i luoghi di sperimentazione, per riprendere il tema di Giacomo, che potrebbero, dico così, servire come snodi di questa tematica?

Ultimo problema: e i movimenti, i movimenti come tali? È fuori dubbio che la battaglia nei movimenti per riproporre una tematica europea va aperta, perché non si tratta di riattivarla, ma si tratta di aprirla. I movimenti sono movimenti che si sono collocati su questa prospettiva antiglobale in generale, che hanno evidentemente trovato delle scadenze continentali, per esempio in America Latina, senz’altro rilevanti per quanto riguarda il sostegno: quello che è il tentativo, appunto, di queste nuove dirigenze americano-latine, di agire nell’interdipendenza globale. Ma è fuori dubbio che in Europa i movimenti non hanno posto questo problema in maniera chiara, in nessun senso; anzi, se hanno avuto dei momenti di subordinazione alla vecchia struttura partitica, questi momenti di subordinazione si sono soprattutto espressi a proposito di questa faccenda europea. Ci sono forze che agiscono all’interno dei movimenti globali che sono forze decisamente sovraniste, e la stessa interpretazione della ‘Tobin tax’ ha spessissimo insistito su quelli che erano gli elementi sovranisti nell’intermediazione, no? Ora, il problema è quello di che fare a livello di movimenti, e credo che da questa riunione si debba soprattutto uscire con una, diciamo così, prima iniziativa che porti all’interno dei movimenti una parola d’ordine proprio così precisa e continua a proposito di un lavoro da fare sull’Europa, sulla costituzionalizzazione dell’Europa nei termini che si diceva prima: di nuova rappresentanza, di riarticolazione dei soggetti dal basso che costituiscano questa Europa, perché altrimenti, con tutta probabilità, questa cosa non avverrà. Io sono, credo, da questo punto di vista, molto scettico nei confronti di quelle che sono, per esempio, le posizioni che sono state fatte da Balibar sull’Europa evanescente, sull’Europa di una anti-strategia, sull’Europa dell’impotenza. Io sono molto più d’accordo, diciamo, su quelle che erano le cose che dicevi anche tu un momento fa, insomma. Paradossalmente, è possibile mediare Lenin con Madison, è possibile mediare il movimento e la forza del movimento con le forme costituzionali, che possono, a un certo momento, regolare... È possibile prendere questo problema dall’alto e dal basso. Io credo che, per esempio, tutta una serie di esperienze che si sono fatte a livello di municipio, o che stanno per avvenire anche sul livello sindacale, possono essere paradigmatiche: i rapporti, in fondo, tra spontaneità sindacale, centrali sindacali… […]. Su questi terreni, ecco che si trovano mediazioni molto difficili, ma reali.

T.N. | Sul problema partiti/movimenti: in questa fase la mia preoccupazione è quella di far passare all’interno dei movimenti una presa di coscienza politica, e non più semplicemente orizzontale e un po’ epidermica, dell’importanza di questi passaggi verso l’Europa. A me sembra che, effettivamente, quello che è importante è veramente far venire fuori un soggetto politico; non lo so se un soggetto politico può essere tante cose, insomma può essere un soggetto politico come un’associazione, che è importantissimo far nascere, o un soggetto politico inteso in termini generali, che è invece altra cosa. A me sembra che quello che sia importante è una soggettività politica dei movimenti; e questo significa per esempio, evidentemente, anche una serie di prese di posizioni polemiche e di forte capacità, di forte livello di discussione con le forze politiche che cercano praticamente di fare quello che… le forze partitiche fanno quello che hanno sempre fatto, insomma il tentativo di rimangiarsi i movimenti, uno dopo l’altro. Stabilire questo punto, invece, di rapporto fortemente propositivo nei confronti delle strutture, ecco, questo mi sembra importante. E quindi io direi che, anche se facciamo un’associazione, il nostro argomento fondamentale dovrebbero essere i movimenti. E poi, conseguentemente, è chiaro che si apre una discussione con quelle che sono le forze rappresentative, e questo ha i suoi aspetti, contro i quali si tratta di polemizzare, che sono questi rapporti antropofagi che le strutture partitiche tendono ad avere. Dall’altra parte, però, ci può essere anche uno sforzo di cambiare sponda. Si diceva in maniera, certe volte, anche un po’ contraddittoria sull’esistenza dei movimenti, con tutto questo richiamo alla sponda. Ecco, la sponda varrebbe la pena di qualificarla per quello che è, insomma: sono le istituzioni. E sono le istituzioni anche partitiche – e, anzi, spesso solo partitiche. Quindi […], pensare che queste sponde esistono e nei loro confronti va esercitata una pressione, una pressione continua, sistematica e certe volte addirittura scandalosa. A me sembra che, per esempio, proprio oggi come oggi, sia nei confronti dei movimenti che nei confronti dell’andamento della campagna elettorale in Italia rispetto all’Europa, varrebbe la pena forse di cominciare a pensare a un’emergenza dell’associazione che rappresenti un po’ questa rottura che vogliamo nel ciclo: una rottura che, ovviamente, non potrebbe che essere – quando lo decidessimo e credo che non succederà perché non abbiamo il tempo, perché non abbiamo la forza – ma, se ne avessimo il tempo e la forza, si tratterebbe di fare una rottura che mostrasse un po’ che il movimento non ci sta, se loro vanno avanti così. Quindi direi così, in parole filosofiche che non sono solo mie, direi: ecco, assumere l’Europa come un elemento dell’esodo, con tutta la forza che può avere questo discorso […]. Noi tutti abbiamo vissuto in questi due o tre anni di movimento forte dopo Genova il sentimento che l’Europa fosse veramente qualche cosa che non c’entrava. Non c’entrava dentro una fossilizzazione, appunto, delle strutture di partito che restano fondamentalmente dei partiti costituzionali, dei partiti in quanto tali, in quanto agenti fondamentali delle istituzioni sovrane. Ecco, abbiamo sentito tutti di come c’era questo elemento, questo elemento di rifiuto alla funzione. E abbiamo sentito anche quanta ipocrisia, ogni volta che si parlava di Europa, questi tiravano dentro. Ogni volta l’Europa era sempre subordinata a qualche cosa d’altro. E spesso con ragione, perché in effetti l’Europa così com’è, è chiaro che non è che soddisfi alcuno. E, però, l’elemento ipocrita era evidentemente molto, molto forte in ogni caso. Quindi, io ho l’impressione che il nostro problema sarebbe quello veramente di riuscire a cominciare a far fare delle manifestazioni in favore dell’Europa. E non credo che sia impossibile, badate bene […]. Ci voleva, in fondo, una ripresa della battaglia federalista. La ripresa della battaglia federalista a livello di movimento non può essere immaginata se non, appunto, come mobilitazione.

G.M. | Mi pare molto, molto importante la formula dell’Europa come esodo dallo Stato. Mi pare anche una formula, diciamo, che va adottata. La natura dell’associazione… io credo che debba essere un foedus, proprio nel senso di un patto, un foedus, un patto, cioè un legame fiduciario, se vogliamo dire: un luogo di sperimentazione, di pratiche nuove, di amicizia politica. Poi dirò anche qual è la mia, come dire, condivisione parziale delle formule di Étienne Balibar, ma anche per altri versi di Nancy. E, naturalmente, come è stato detto da molti: laboratorio, luogo di confronto, diciamo, capace di produrre proprio delle sperimentazioni federali. E, naturalmente, il tema della natura non puramente oppositiva dei movimenti, il carattere costituente è tema che io condivido profondamente […]. Si è detto: ‘l’Europa così non ci va’, dunque blocchiamo il processo costituente europeo – blocchiamolo, freniamolo, in attesa di quella che in filosofia si chiama l’aiòn mellon, il nuovo Evo, che deve arrivare e che arriverà un giorno. Questa è la posizione, secondo me, che va proprio rigorosamente evitata, per una ragione che non è soltanto volontaristica – sono d’accordo con Toni, il problema fondamentale non è tanto quello del soggetto, ma della soggettività – ma c’è anche un dato strutturale: l’ordine post-hobbesiano è un dato di fatto. Volenti o nolenti, è un dato di fatto […]. Come diceva quel tale: ducunt volentem fata, nolentem trahunt. O noi accettiamo questa situazione, cerchiamo di entrare dentro questa nuova condizione, giocando le carte della politica dentro questo nuovo contesto, dentro questa nuova costellazione post-leviatanica, o siamo tagliati fuori. Ed è del tutto evidente: qualunque sinistra che pretenda di fare altrimenti è tagliata fuori. Ecco, quindi, l’altro aspetto che a me pare molto importante: l’Europa come spazio pubblico di soggetti migranti. Sempre, nel corso della storia, grandi trasformazioni della forma politica, della struttura politica, sono state precedute da grandi migrazioni. I fenomeni migratori sono sempre stati i fenomeni che hanno preparato, anticipato un mutamento radicale della forma politica. E, quindi, io credo che la nostra attenzione debba andare ai soggetti migranti con quella che, mi pare, sia venuta fuori dal dibattito come una doppia focalizzazione: da un lato, mettere a fuoco i nodi della rete globale, i nodi di intersezione della rete globale, o della rete glocale – dove globale e locale si intrecciano, e dunque la questione del municipalismo è una questione tutt’altro che indifferente alle sfide globali e via dicendo; quindi, il tema del quotidiano, cioè l’esperienza quotidiana dei nodi della rete globale. Per l’altro verso, però, mettere a fuoco i punti di condensazione, cioè gli eventi. Io credo che si debba cercare un po’ di fare entrambe le cose.

L’Europa, secondo me, volenti o nolenti, è davanti alla sfida di due colossi dell’età globale, che sono il colosso americano e il colosso asiatico. È inutile che cerchiamo di sviare: questo è un nodo che dobbiamo affrontare. Quello che è stato detto anche stamane tra Oriente e Occidente, tra il modello nordamericano di globalizzazione e il modello asiatico di globalizzazione, il modello individualistico, possessivo, competitivo, di globalizzazione neoliberale, e il modello, invece, produttivistico, autoritario, paternalistico, cioè ‘comunitario’ nel senso organico della parola – che è quello poi fondamentalmente asiatico, cinese.

E qui l’Europa deve dire la sua, ridefinendo – io credo – entrambi i termini della coppia. Tanto il termine ‘individuo’ quanto il termine ‘comunità’. Cioè dobbiamo dire che cosa è per noi l’individuo, la singolarità, cosa è per noi comunità: dire qualcosa che non sia schiacciabile su uno dei due poli, e tanto meno su una sorta di terza via che sia una ibridazione di questi due poli. Naturalmente, dire che l’Europa deve fronteggiare i due colossi dell’età globale non significa che deve costituirsi come potenza. Qui ogni tanto il nostro amico Massimo Cacciari ha la tentazione di dire questo, che l’Europa deve costituirsi come un attore che sfida. Io sono invece di nuovo in sintonia con Étienne su questo: è evidente che non possiamo ragionare nei termini dell’amico-nemico. Dobbiamo invece insistere sul modello sociale, appunto, europeo, nel senso di una nuova forma democratica post-statuale, fino alla linea d’ombra, diciamo, al concetto marginale, al concetto limite che indicavo all’inizio. L’amicizia politica come schema in grado di rompere l’overlapping perverso di pubblico e privato. E questo è il punto fondamentale. Noi viviamo in un mondo in cui le funzioni del dominio sono cortocircuitate ormai. Privato e pubblico, sono, come dire, compulsivamente intrecciati in una nuova forma di dominio. Ecco, io credo che questo tema limite, questo tema di confine della politica dell’amicizia – anche nel senso di Derrida – vada riproposto come modo di uscire dall’impolitico. Ecco, questa è la cosa. Io credo che il tema dell’amicizia politica è il modo di politicizzare una esigenza nobile di politica, pure presente nella linea che va da Nancy, in parte anche Giorgio Agamben, Roberto Esposito e gli amici che in qualche modo li seguono. Cosa significa? Io credo che nella nostra associazione si debba cominciare anche a ridefinire la nozione di bene pubblico. Che diavolo è oggi bene pubblico? Allora, bene pubblico oggi è qualcosa che va al di là dei beni pensati dal welfare. Cioè, io sono d’accordo sul modello sociale, del senso del welfare su scala europea e non più nazionale. Però io credo che si debba superare il paradigma del welfare, perché comunque è l’ultimo paradigma industrialista. Nel Novecento, oggi in crisi… questa crisi credo sia strutturale, credo sia una crisi storica, epocale, come volete chiamarla, per la semplice ragione che i beni pubblici non sono più soltanto quelli ipotizzati dallo stato del welfare. Sono altri, sono i beni immateriali: l’informazione, il modo di comunicare, i luoghi della comunicazione, i trasporti, i luoghi comuni che veicolano le migrazioni e le esperienze dei soggetti, il sapere, le diverse forme del sapere che oggi vengono privatizzate, quindi, proprio l’idea di public good, oppure di common good, cioè di bene comune. Stamattina, prima del seminario, si discuteva sulla... sulla legittimità dell’uso dell’-‘ismo’ comunista. Io credo che forse, anche alla luce delle cose che abbiamo detto oggi (ed è uno dei temi dell’Associazione), io personalmente ritengo che il comunismo crollato come Wille zum Staat, come volontà di Stato, come socialismo, comunismo reale, debba essere, appunto, recuperato come processo molecolare e come processo diffusivo, dove l’elemento foucaultiano del sapere-potere è intrecciato alle varie forme di dominio sulla vita, alle varie forme di articolazione dell’intelletto generale, del general intellect, ma […] – questo è il punto fondamentale – io penso all’‘ismo’ del comunismo, in qualche modo, come un qualcosa di molto simile a quello che fu il cristianesimo nella fase dissolutiva dell’Impero romano, cioè una sorta di processo molecolare che destituiva di legittimità motivazionale i fondamenti dell’Impero, dell’ordine imperiale. Esattamente come il cristianesimo ha sgretolato le basi motivazionali su cui l’Impero romano si reggeva. In questo modo io penso, in fondo, il comunismo.

Se vediamo quello che sta accadendo oggi, le forme distruttive che il governo – anzi, la governance imperiale – sta determinando, stanno colpendo esattamente quei luoghi dove si possono determinare i coaguli propositivi. Da questo punto di vista, per me ha un valore simbolico la distruzione cui oggi va incontro, in Occidente – in tutto l’Occidente – del luogo, ma anche dell’idea stessa di universitas studiorum, di una università intesa come luogo in cui i saperi comunicano trasversalmente e producono la possibilità di quello che un tempo era la critica, e di quello che è oggi è il sapere in grado di trasformare – il sapere che un tempo era quello rivoluzionario, che è poi il sapere libero. Ecco, io ho l’impressione che noi abbiamo sottovalutato molto la portata politica della distruzione dei luoghi in cui oggi i saperi possono coagularsi e comunicare. E credo che forse l’Associazione debba porre al centro dell’attenzione esattamente questo nodo, a mio avviso politicamente cruciale.

La concezione del biopotere in Foucault

Intervento di Giacomo Marramao al Seminario della Fondazione Basso del 22 marzo 2004

In data 22 marzo 2004 si è svolto, presso la Fondazione Basso, un seminario sul tema del biopotere in Michel Foucault; l’organizzazione dei lavori è stata curata da Giacomo Marramao ed Antonio Negri e, tra gli altri, sono intervenuti Giorgio Agamben, Massimo De Carolis, Ida Dominijanni, Emanuela Fornari, Antonella Moscati, Elettra Stimilli, Mario Tronti e Paolo Virno. Si riporta, di seguito, l’intervento introduttivo di Giacomo Marramao.

Questa dedicata al biopotere è la seconda seduta seminariale che la Fondazione Basso ha organizzato su diretto suggerimento di Antonio Negri; è nostra intenzione, come Fondazione, moltiplicare occasioni di questo genere perché questi incontri seminariali, a mio avviso, sono un modo molto proficuo di mettere a confronto, non soltanto i diversi punti di vista, ma anche le ricerche in corso di ciascuno di noi, cercando di evidenziare quelli che possono essere sia i punti di convergenza che quelli di divergenza, di frizione, ma comunque attorno a un comune interesse. La ragione per la quale abbiamo deciso, con Negri, di concentrarci sulla questione, sulla categoria di biopotere è perché questa categoria ha una doppia rilevanza: ha una rilevanza di tipo concettuale, ma anche una rilevanza pratica e, naturalmente, scopo di questi seminari è cercare d’individuare dei concetti ponte che siano dei concetti forti anche dal punto di vista della riflessione teorica e che rimandino a “costellazioni di esperienza”, quindi a costellazioni pratiche. La ragione, inoltre, per la quale ci siamo concentrati sulla categoria di biopotere è perché abbiamo avuto la sensazione, Negri ed io, che vi fossero ormai accezioni varie, o addirittura, una accezione ambivalente del termine della categoria di biopolitica, se volete, un’accezione che può essere ben rappresentata per un verso dalla ricerca di Agamben, che è un’accezione, se volete, negativa, cioè la biopolitica come dimensione legata al potere sovrano, a uno stato di eccezione globale e via dicendo, o un’accezione latu sensu positiva, che è quella di Negri.

Ora, quest’accezione ambivalente potrebbe essere a rigore ricondotta a una distinzione tra biopotere sovrano e biopolitica tendenzialmente agita da movimenti costituenti, sta di fatto che in Foucault, anche alla luce dei corsi ancora inediti in Francia, resta indecisa la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità, che è un rapporto cruciale a partire dal XVIII sec. Per Foucault, il XVIII secolo, e qui cito proprio una frase molto plastica de La volontà di sapere, segna proprio “l’ingresso della vita nella storia”. Prima di allora, “il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile” (questa non è un’espressione di Foucault, ma un’espressione di Braudel); prima del Settecento “il sistema del vivente era racchiuso in un cerchio invalicabile”. Quindi come si pone la questione del rapporto tra biopolitica e sovranità in Foucault? In Foucault, sovranità, ovviamente questo si sa, è un potere meramente negativo-repressivo il cui esercizio ha luogo solo nella forma della sottrazione, sulla base di quello che Foucault chiama “il puro diritto di prelievo”, una sorta di vampirismo, cioè la sovranità è sostanzialmente una prestazione vampiresca, quindi ha la forma della sottrazione e del prelievo di beni, servizi e sangue dei sudditi, mentre la dimensione biopolitica si traduce, dice Foucault, in “una relazione di cura, tutela, crescita, potenziamento della vita”. Una impostazione di questo genere chiama in causa perlomeno l’esistenza di un “campo di tensione” tra una concezione negativa e quella che potremmo chiamare una concezione produttiva o generativa del potere, questo è uno dei motivi classici di tutte le interpretazioni dell’opera foucaultiana, ma in ogni caso il trait d’union tra questa due concezioni, tra una concezione negativo-repressiva e una concezione produttivo-generativa del potere, sembra essere per Foucault il potere specificamente moderno, inteso come controllo della pulsione di morte. Da questo punto di vista, Foucault, attraverso percorsi ben diversi, ci dice una cosa analoga a quella che ci aveva detto Weber: il potere moderno, la sovranità moderna hobbesiana e post-hobbesiana, condivide con la sua religione la prerogativa del controllo della pulsione di morte; cioè il potere è potere di vita e di morte, o meglio potere di vita/morte, la barra è decisiva in quanto non dimentichiamo che per Foucault il gesto fondamentale del potere sovrano è la separazione tra vita e morte, alla lettera “la decisione tra vita e morte”, la linea di divisione, la decisione tra vita e morte, questa è la decisione ultima. A rigore si dovrebbe dunque parlare di “bio-thanato-politica”: la thanato-politica è, in altri termini, l’altra faccia o, come io preferisco dire, l’interfaccia della biopolitica, come del resto lo stesso Foucault esplicitamente dichiara, e qui cito un brano di Foucault tratto dal volume Tecnologie del sé, uscito per Bollati almeno una decina d’anni fa: “Poiché la popolazione non è altro che ciò di cui lo Stato si prende cura a proprio vantaggio, è naturale che esso sia autorizzato anche a portarla al massacro, se necessario, il reciproco della biopolitica è la thanatopolitica”; questa è una formula foucoultiana estremamente icastica.

Il biopotere si trova così situato al punto di confluenza, o al punto d’incrocio, di due vettori, tra due linee apparentemente divergenti: il far vivere e il far morire. Ma, per Foucault, si tratta di un passaggio non soltanto storico, ma costitutivo della struttura epistemica, della struttura teorico-pratica del biopotere, cioè il passaggio dal sovrano Ancien régime, interpretato da Foucault come potere di far morire e di lasciar vivere, al potere propriamente moderno che è quello di far vivere e di lasciar morire. Si delinea di qui quella che potremmo chiamare la linea d’ombra della politicizzazione della vita, la linea d’ombra che separa la comunità totalitaria dalla comunità dell’umanità redenta e, non a caso, il totalitarismo è definito da Foucault come la forma di potere in cui la generalizzazione del diritto sovrano di uccidere viene a coincidere con la generalizzazione del meccanismo del biopotere. Ma per afferrare il senso di questo esito dobbiamo mettere a fuoco, anche criticamente credo, (almeno è anche questo il compito di questo seminario: partire da Foucault per andare oltre) il modo in cui Foucault introduce quella che lui chiama la “soglia di modernità biologica”, questa soglia è segnata dall’apparire dell’uomo, come è noto, quest’allotropo empirico-trascendentale, l’uomo che è un prodotto dell’Illuminismo, nel senso scientifico-positivistico del termine, ma è anche un prodotto di Kant. È un prodotto dell’Illuminismo, diciamo, della ragione scientifica illuministica ma anche della ragione etica illuministica, nel senso che Kant rientra perfettamente in questa idea foucoultiana di apparire dell’umano, di quest’allotropo empirico-trascendentale, ma il clou è determinato dal fatto che l’uomo, prodotto tipico della modernità, prende il posto del re, cosa comporta questo? Comporta, per Foucault, un nesso paradossale tra finitudine e movimento infinito, tra la finitudine della condizione umana e biologica e il movimento infinito asintotico del progresso, proprio così come lo intende Kant, cioè il progresso come un indeterminato procedere verso il meglio e voi sapete qual è il giudizio che Foucault dà di quest’idea di progresso: l’involucro è il progresso, il nocciolo è la decadenza, nietzscheanamente. Si ricordi quel passo celebre in cui Foucault dice: “prima della fine del XVIII sec. – cioè il periodo appunto degli scritti di Kant sulla storia e la politica, che poi il Foucault ultimo valorizzerà, quelli dell’ontologia dell’attualità – l’uomo non esisteva, come non esistevano – badate bene – la potenza della vita, la fecondità del lavoro e lo spessore storico del linguaggio”. Vita, lavoro e linguaggio, che sono gli indicatori della finitudine, con l’avvento della storia prendono il posto del re. Noi abbiamo in questa fase l’emergere, ed è qui che matura il concetto di biopolitica, di nuove tecnologie di potere connesse con la dimensione reattiva dei nuovi diritti; cioè, per Foucault, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, quella delle Nazioni Unite, noi non abbiamo altro che la “interfaccia reattiva” della biopolitica, cioè abbiamo il diritto alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, cioè abbiamo una dimensione nuova del diritto incomprensibile per il sistema giuridico classico.

Foucault interpreta la nuova dimensione del diritto come la replica politica a tutte queste nuove procedure del potere che non partecipano del diritto tradizionale alla sovranità. Si aprono qui, a mio avviso, tre questioni dirimenti che restano indecise in Foucault, in quanto egli adotta spesso formule oscillanti; le espongo velocemente.

In primo luogo, prima questione dirimente, le politiche di massa degli ultimi due secoli, dalle guerre napoleoniche fino al nazismo e fino a oggi, dopo Foucault, queste politiche di massa, che la storiografia aveva individuato come crescita della vita materiale, crescita esponenziale della vita materiale, avvengono all’insegna del ritorno dell’ordine sovrano o del suo definitivo tramonto?

Secondo problema: che relazione intercorre, quanto al tema del biopotere, tra il prima e il dopo il Leviatano? Tra il prima dello Stato e il dopo lo Stato? La mia tesi è che il biopotere non coincide con la statalizzazione della vita biologica, ma piuttosto con il controllo deterritorializzato (questo è il tema che Negri ed Hardt hanno affrontato in Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione) della vita in tutte le sue declinazioni biometriche, bioetiche, biotecnologiche, dove lo stato d’eccezione è sostituito dalla normalizzazione del controllo capillare. In altri termini, lo stato d’eccezione è tanto più significativo quanto più produce forme di controllo normali.

Terzo punto: si tratta qui della questione relativa a quella che io ritengo essere l’indeterminazione del concetto di vita, ad onta della proliferazione del concetto di vita nel dibattito odierno, e mi piace molto citare spesso la formula di Barbara Duden dell’abuso del concetto di vita. Io credo che il paradigma immunologico, da questo punto di vista legato al concetto di vita, se non vuole volatilizzarsi in una flebile metafora deve fare i conti con l’autoreferenza e i suoi paradossi, da Luhmann e Hofstätter in giù (temi cari a Massimo De Carolis in particolare) il che significa ripensare la questione del biopotere nel suo intreccio con la questione dell’identità, argomento di cui mi sono interessato anche nel mio ultimo libro, cioè il tema del biopotere visto, diciamo, con la logica dell’identità, e pensare questo nesso di potere e identità, biopotere e identità, in una fase segnata da una effrazione, da una esplosione di tutti i paradigmi classici di politica, cioè in un’epoca segnata dallo spostamento continuo della linea di confine tra natura e artificio e, con essa, della frontiera tra visibile e invisibile, tra possibile e impossibile. Questo è, credo, per larghe linee, lo scenario che Negri e io avevamo pensato come scena influente del confronto tra di noi oggi.

English abstract

We publish here the texts of the speeches delivered by Giacomo Marramao and Antonio Negri at the Seminar organised by the Lelio and Lisli Basso Foundation on 23 February 2004 on the subject of the stalemate in European constitutionalisation and the role of social movements in the construction of a more democratic political Europe. Giacomo Marramao stressed the urgency of overcoming tthe Italian debate’s provincialism and opening up a broader reflection on global transformations; he proposed the idea of a “Europe as an exodus from the state” based on the plurality of experiences. Finally, he discussed the redefinition of the concept of “public good” in the global era, highlighting knowledge, information and communication networks as central elements of a new citizenship. Political Europe is analysed as an unfinished project that needs to be rethought beyond the logic of sovereignty. Toni Negri stressed the importance of the geopolitical situation: the decline of American unilateralism, the growth of China and the dynamism of South America require a radical rethinking of Europe. Social movements must play an active role in this transformation. The Seminar also explored the relationship between movements and institutions. While movements have often taken a sovereign or oppositional stance, there is a clear need for a new model of representation capable of integrating demands from below. Europe cannot emerge from institutions alone, but must be the result of a collective process in which movements are constitutive actors of a new democratic form. The 2004 Seminar was an opportunity for discussion to outline the future trajectory of Europe as a space of resistance and innovation capable of challenging existing hegemonic models. In the Appendix we publish an extract from Giacomo Marramao’s speech at a second seminar with Negri, held the following month, on 22 March 2004, on “Biopower in Foucault”.

keywords | Antonio Negri; European Constitution; Decline of Europe; Movements; Foucault’s Biopower.

questo numero di Engramma è a invito: la responsabilità della selezione e della revisione dei contributi è dei curatori e del comitato editoriale della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Marramao, A. Negri, La rinascita del costituzionalismo europeo, Seminario alla Fondazione Basso del 23 febbraio 2004. In Appendice, Intervento di G. Marramao al Seminario della Fondazione Basso del 22 marzo 2004 “La concezione del biopotere in Foucault”. Nota introduttiva a cura di M. Locusta, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/.221.0002