"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

Un saggio di Realpolitik materialista

Descartes politico di Antonio Negri

Marco Assennato

English abstract
I. Del metodo

Descartes politico è, tra i lavori che Toni Negri ha pubblicato negli anni Settanta, quello che ha circolato meno nell’immaginario collettivo. Eppure, come ha spiegato lo stesso autore, da qui derivano i suoi testi più celebri: lo Spinoza, Il Potere Costituente e Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione. Si tratta insomma di “un libro di metodo” (Negri 2004, 37), nel quale il paradigma della ricerca futura viene tutto intero anticipato. Ma che metodo? Per incamminarci su quale strada? Vi troviamo regole per la ricerca filosofica o un paradigma per la pratica politica? Certo: siamo di fronte ad una posizione intellettuale che vuole “mordere l’ontologia politica con i denti dell’antropologia filosofica e della storiografia” (Negri 2004, 37). Immediatamente dopo la pubblicazione della prima edizione, fu Massimo Cacciari – in una recensione, d’altra parte, assai polemica – a riconoscere sulle pagine di “Contropiano” “l’importanza pioneristica” di uno studio che presentava “il primo tentativo di affrontare da un punto di vista politico, di classe, la questione delle origini dell’ideologia borghese” (Cacciari 1970, 390). È vero.

Tuttavia questo “libro di metodo” non si limita a criticare origini e strutture dell’ideologia borghese. Una solida piattaforma modernista sostiene l’architettura della ricerca: Descartes è sciolto dai fantasmi della scolastica post-tridentina e interamente dedotto dall’atmosfera della Rinascenza, la cui eredità egli congiunge alla scienza galileiana, mentre il Seicento guarda in avanti fino alla Rivoluzione Francese. Il quadro dell’interpretazione di Negri si basa sulle lezioni di tre maestri della cultura italiana: Federico Chabod, Delio Cantimori ed Eugenio Garin[1]Il debito intellettuale è qui tanto evidente quanto esplicito. Eppure su questa prima base opera subito un secondo movimento, dedotto dal lavoro che Lucien Goldmann aveva condotto su Pascal e Racine (Goldmann 1959). Impariamo così a muoverci tra gli strati, le contraddizioni, le “grandi alternative” e “le disperate tensioni progressiste” (Negri 2004, 30) che animano, sin dall’inizio, l’ordine del discorso moderno. Modernismo inquieto, allora: Negri cerca, nell’ideologia borghese, tanto le faglie quanto la forza. O meglio, cerca l’efficacia nei salti e nelle faglie del discorso. È una genealogia, quella che leggiamo. Una genealogia “che ci permette di debellare ogni archeologia reazionaria” (Negri 2004, 37) e si distende in una interpretazione immanente delle alternative interne al “divenire soggettivo della modernità” (Negri 2004, 24).

Il problema che Negri analizza attraverso Descartes è quello di una congiuntura di crisi, letta dal punto di vista della critica. Il riconoscimento e la polemica di Cacciari non sono, dunque, casuali. “Contropiano”, è noto, fu la rivista nella quale una parte del collettivo di ricercatori proveniente da precedenti esperienze operaiste tentò di piegare nell’orizzonte della Krisis le risultanti antagonistiche dell’accumulo di conoscenze e idee che gli anni Sessanta avevano prodotto (vedi in “Engramma” i Sommari dei 12 numeri della rivista pubblicati tra il 1968 e il 1971). La polemica contro ogni ipotesi affermativa andava quindi condotta colpo a colpo. Lo schema è noto. Per i pensatori della crisi il moderno divide et impera. Divide “ordine sociale da ordine ideale e religioso, soggettività da simpatia cosmica” (Cacciari 1970, 377-378) ed è questa separazione che, determinando perfettamente i limiti dei linguaggi formali, si traduce in potere di manipolazione tecnica del mondo. 

Dualismo. Il reale è scisso. Nessuna pienezza d’essere. Nessuna immanenza. Proprio su questo piano allora, attorno al Descartes, si anticipano i termini di una discussione che attraverserà la filosofia italiana degli anni Settanta, come il dibattito sulle grandi lotte metropolitane del decennio 1968-1977[2]Perché la ragionevole ideologia resiste al pensiero negativo: Simplex sigillum veri. Contro ogni deriva formalista, Negri stringe i linguaggi metafisici del cartesianesimo in un rimando continuo tra teoria e prassi, astratto e concreto. All’ipotesi tragica risponde con un costruttivismo sempre tutto dispiegato in termini politici. Solo così le aporie all’interno delle quali la macchina moderna determina il suo dispositivo di soggettivazione, possono essere individuate con chiarezza.

Dietro la filosofia c’è la storia della borghesia: della sua rivoluzione umanistica, della sua sconfitta cinquecentesca; c’è la congiuntura degli anni attorno al 1620 e la drammatica connotazione che essa residua nello spirito di un’epoca; c’è una classe sociale che, pur sconfitta, pur isolata dal potere politico, tuttavia esiste e cresce, condannata alla guerra di posizione ma consapevole dell’ineliminabilità della propria emergenza. A ben guardare questa situazione rappresenta addirittura un elemento fondamentale della definizione storica della borghesia come classe: classe per sempre separata dalla capacità di essere rivoluzionaria (…) e fissata in una esistenza che è tuttavia perenne indefinito tentativo di riconquista dell’unità. In questa situazione si stabilisce il pensiero cartesiano (Negri 1970a, 133).

Da questa intuizione inizia la ricerca di Negri: il cartesianesimo è al contempo la trama ideologica fondamentale e una delle alternative teoriche (accanto al giansenismo, al libertinismo, al meccanicismo) – ma quanto più potente delle altre! – che serve alla noblesse de robe (ovvero allo strato borghese che risulta dalla prima rivoluzione manifatturiera) per interpretare l’amas de contradictions que nous sommes. E l’intuizione di Negri verrà confermata nel tempo dai maggiori studi sulla filosofia che dal Grand Siècle arriva alla Rivoluzione del 1789[3]. Bene.

II. Del Realismo politico

Mi sembra che in questo libro ci sia di più che una semplice ricerca accademica, per quanto critica. Lo sguardo procede immediatamente oltre, verso il reale. Il metodo di questo Descartes è, invero, immediatamente politico. Nel rapporto tra filosofia, storia, classi sociali, leggiamo una splendida lezione di Realpolitik materialista. Questo è, innanzitutto, la ragionevole ideologia: affermazione assoluta dell’autonomia di classe; disincantato riconoscimento dei rapporti di forza; tensione tra questi due estremi; produzione di conoscenza capace di saltare – in tendenza – oltre la crisi; ricerca di alleanze e accordi (Negri 1970a, 166-203). Il pensiero si immerge nel reale e a questo reale piega tutto, anche le più astratte peregrinazioni logico-metafisiche. “Vivere si deve!” e perciò occorre “mostrare come la ragionevole ideologia fosse una via percorribile. La spontaneità dell’emergenza borghese doveva cercare dei nuclei di organizzazione” (Negri 1970a, 178). Secondo carattere del metodo di Negri, dunque – accanto al modernismo inquieto (contro ogni nostomania) – un radicale realismo politico (contro gli abbagli del potere). 

Riassumiamo: teoria e pratica, pensiero e realtà storica non possono separarsi. Impossibile è decidersi, per l’una o per l’altra. L’ideologia tragica – tanto quella del circolo di Port-Royal, quanto l’altra, dei castelli libertini – che contro la restaurazione assolutista afferma l’impossibilità radicale di una vita sensata nel mondo, non basta più. Come non basta, dentro alle lotte degli anni Sessanta, il rifugio nella crisi del pensiero negativo. Vivere si deve! La filosofia acciuffa la carne della vita, investe i sensi, chiede un uso immediato, concreto, dei concetti che fabbrica:

Descartes come Hobbes, Spinoza come Leibniz, Kant come Hegel non sono fantasmi del pensiero (…) ma alternative concrete nella realtà di epoche storiche singolari. Perciò li amiamo o li odiamo, li consideriamo carne della vita oppure, di contro, scheletri che impacciano il nostro pensiero – in un’alternativa che è significativa delle diverse virtualità di cui è capace, e in cui consiste, la potenza del processo storico (Negri 2004, 24).

Diciamolo meglio, ancora con le parole di Negri: la metafisica di Descartes è (come ogni metafisica) “una ontologia politica” tesa alla costruzione dell’egemonia di una classe sociale, in un contesto segnato dalla vertigine barocca. Qui i princìpi della vera filosofia, pur nell’infinito riproporsi di maschere e trappole, illusioni ed errori, si verificano sempre ed essenzialmente rispetto al piano storico-temporale. Descartes fondatore dell’epistemologia moderna? Si, ma egli procede in ordine: pensiero, mondo, conoscenza, storia. Questa è la sequenza corretta. Ed è grazie a questa sequenza se il discorso di Descartes dura attraverso i secoli: la sua formidabile tempra teorica è confitta nel “dispositivo politico implicito” che dalle Règles, a la Méthode, attraverso le Méditations e fino ai Principes, si approfondisce in un progressivo gioco di tensioni critiche e innovazioni radicali che indirizzano tutte a rompere la malìa del potere.

Ora, noi conosciamo la minuzia con la quale la filosofia contemporanea ha lavorato per allontanare la filosofia cartesiana dal mondo. Un Descartes ri-spiritualizzato, con un piede incastrato nel vicolo cieco dell’idealismo e l’altro infangato dalla critica heideggeriana, è quello che ci viene consegnato tanto dai sacerdoti del pensiero negativo quanto dagli apologeti delle verità eterne. Qui l’emergenza dell’Ego si da esclusivamente come negazione della consistenza del mondo – e dunque suo dominio. Il lavoro del Cogito, limitato alla definizione di dati certi perché astratti in serie logiche, si rovescia nel più arido feticismo scientista. Le poderose tensioni del razionalismo nascente si appiattiscono nel più bieco dualismo meccanicista. Cartesio come Hobbes, come Port-Royal. Questa universale equivalenza schiaccia in un doppio movimento ogni alternativa: retroattivamente, tutto l’umanesimo si fa mero anticipo dello spirito scientifico; mentre con boria anacronistica il moderno è proiettato su uno dei suoi esiti e ridotto alla caricatura di un sinistro positivismo ottocentesco. Dunque: ogni alternativa è tolta. Il razionalismo muore nella separazione tra intelletto e natura o si rovescia in una fredda apologia dell’effettuale.

Attenzione però: oggi questo discorso non abita solo le ciniche prediche dei pragmatici difensori dell’ordine stabilito, esso contamina, rovesciato, anche buona parte dello sguardo che si vorrebbe antagonista. Non è in nome di questa medesima immagine del razionalismo – immagine ignorante quanto reazionaria – che oggi i settori più volgari della critica-critica antimoderna condannano Cartesio e sbandierano l’urgenza di reincantare il mondo? Eppure noi sappiamo cosa significa tutto ciò: il mondo incantato è il Kosmos gerarchico dei teologi e dei monarchi, ieri. Poi ancora: incantato è il potere assoluto del Leviatano, che ne eredita la funzione. Oggi: incanto sono le frottole dei tecnocrati e degli apocalittici. Descartes, in questo quadro, è giovane anima travagliata. Realista che ci libera da ogni sortilegio e fonda la critica. Negri, suo lettore, prepara così il terreno per le selvagge alternative del moderno, che descriverà a partire da Machiavelli e Spinoza – e tiene lo sguardo della critica aperto sulla prassi, sull’invenzione istituzionale, sulla politica.

Critica contro Krisis, abbiamo detto. Non solo: questo metodo innova anche la critica. In effetti, il realismo materialista di Negri spiazza la tradizione marxista. Descartes politico è, come ha scritto Timothy S. Murphy, il capitolo centrale di quella genealogia dello stato moderno in reverse chronological order che Negri conduce in una serie di testi pubblicati tra il 1958 e il 1970 e dedicati a Hegel, allo storicismo tedesco, poi a Kant e al formalismo giuridico, fino a Weber (Murphy 2012, 24-64)[4]Si illustra in queste pagine un originalissimo “concetto di materialismo storico, anti-deterministico, biografico e agonistico” (Murphy 2012, 24).

Non a caso Mimmo Sersante (Sersante 2012, 71), lega questo Descartes ai due saggi sul ciclo e la crisi in Keynes e Marx, che Negri pubblica su “Contropiano”, nel 1968, prima di lasciare la rivista (Negri 1968a e Negri 1968b). Sviluppo e crisi dunque: l’intuizione è giusta. Perché in effetti, da una parte, anche nella ragionevole ideologia si tratta di individuare linee progressive dentro il generale orizzonte di crisi che la Guerra dei Trent’anni e la pesantissima restaurazione del sovranismo assolutista impongono alla borghesia nascente; e d’altra parte tanto in Descartes quanto, trecento anni dopo, in Keynes si avverte la tensione verso “un progetto aperto e riformista” che permetta alla borghesia di inserirsi all’interno delle nuove strutture dello Stato. Descartes e Keynes come teorici (il primo e l’ultimo) del rapporto tra borghesia e Stato moderno, quindi. Entrambi marcati da una pesantissima ambiguità, dacché al taglio progressivo consegue sempre la chiusura opportunistica di classe, l’accordo con il sovrano e la difesa contro le rivolte delle moltitudini proletarie. Ma entrambi aperti alla critica dello sviluppo politico del capitalismo (manifatturiero per Descartes, industriale per Keynes).

III. Del tempo

La “ragionevole ideologia” è allora una delle risposte possibili al tema della collocazione dei robins nelle strutture dello Stato Assoluto. Risposta coeva e polemica rispetto al libertinismo e al giansenismo, speculari strategie di ritiro dal mondo, e al dualismo meccanicistico che, con Hobbes, sposa per intero le conseguenze della reazione cristallizzando la separazione tra società civile e potere politico, in un patto che arma il diritto sovrano contro la potenza dei sudditi. Ora, in tutte queste ipotesi il moderno si da come separazione tra cogito fable, ragione e storia, verità ed esperienza, sapere e potere. Così è anche in Descartes, la sua crisi è crisi del secolo: “un fantasma, su cui incombe la volontà incomprensibile del sovrano, questo è il mondo (…). L’arbitrio del sovrano si stende sopra le cose, il potere si burla della natura” (Negri 1970a, 67). E seppure il Cogito emerge qui come punto di resistenza – autonomia di classe – di fronte a una realtà estraniata, subito un genium aliquem malignum viene a minacciarne le certezze. La scienza del Metodo calcola “un mondo stregato, di puri rapporti di grandezza, senza corpo” (Negri 1970a, 104), nel quale ci si può muovere solo per paradossi, falsa pro veris

Il dualismo vede una potenza che si concentra tutta nel Cogito, ma successivamente la piega al dispotismo delle aristocrazie regnanti e alla continuità dell’ordine regale e carismatico. L’io borghese pare condannato a chiudersi nella “forma sociale della propria esistenza – esistenza manifatturiera, metodicamente articolata” (Negri 1970a, 96). È, questa, una classe sconfitta nella congiuntura. La filosofia della manifattura resta presa in profundo gurgite. Essa sa misurare, dominare gli oggetti, produrre innovazione tecnologica e scientifica, ma non riesce ad uscire dalla positiva miseria del tempo. “Isteresi dello sviluppo” (Negri 1997, 160) che non riesce più a leggere il presente come passaggio. Tempo in bilico. Peggio: il tempo è fermo. “Ma alla consapevolezza della sconfitta s’aggiunge una certezza insopprimibile: che tutto il valore, che tutto l’essere che vale risiedono lì, in quell’essere separato” (Negri 1970a, 157).

Qui l’immobilismo del tempo si frattura. Il continuum salta. L’anello pare spezzato. Il cartesianesimo non è semplice meccanicismo. Troppa metafisica ne muove il dualismo[5]. Perciò le metafore meccaniche della ragionevole ideologia non sono barocche. Il tempo vi si fa memoria della rivoluzione umanistica. Qui è il punto: il monismo rinascimentale aveva immerso l’umanità nel mondo, distruggendo tutte le soggezioni metafisiche che il medioevo aveva imposto. Concretezza e libertà da allora non possono essere scisse. Il mondo è produzione, la ragione è storia, la verità si costruisce come immanenza. Così è ancora in Descartes: “lo schema matematico è la realtà stessa nella misura in cui la si possiede; e viceversa la realtà posseduta tecnicamente è dominata nella contemplazione della necessità che ne è stata così discoperta ed esaltata” (Negri 1970a, 38).

La scientia penitus nova è allora progetto sociale e politico di ricostruzione: la rivoluzione scientifica erode le basi statiche della società, genera poteri tecnici capaci di una inaudita accumulazione di ricchezza comune, permette di “faciliter tous les arts et diminuer le travail des hommes” (Descartes [1637] 1953, 129). Il riverbero della potenza costruttivista scoperta dall’umanesimo accompagna tutto il percorso cartesiano (come memoria, nostalgia, volontà, speranza) rovesciando sempre il dubbio – ragionevole – in nuova fondazione. La dimensione politica sta nel fatto che la differenza – tra essenza ed esistenza; soggetto e mondo; ragione e storia; individuo e Stato – non è una ipostasi metafisica, neppure una dialettica, ma una tensione sempre di nuovo aperta. Nel Gran teatro del mundo vanno in scena ruoli fissi, che si ripetono eternamente? Ma questo mondo è favola! Descartes, perciò, lo mette in tensione con l’Ego e squassa, così, la scena barocca. Il dualismo, di conseguenza, non è statico, non è quieto, si sporge sulla sua implosione: “superare l’incidentalità metafisica dell’io”, significa “far esplodere il dualismo dall’interno, conservandolo ma negandolo” (Negri 1970a, 132). Il cammino che si intraprende riconosce le ragioni dell’Aufhebung meccanicista, ma “rifiuta di sottostarvi”:

È contraddittoria la contemporanea affermazione di sconfitta e di rinascita, di dualismo e di tensione al superamento? Certo che sì. Eppure la specificità del pensiero cartesiano viene da questa contraddizione: tanto più si approfondisce il dualismo, tanto più si organizza la tensione al superamento (Negri 1970a, 133).

4. Fabula

Il Barocco è epoca di movimento. Antiche sovranità andavano in frantumi, nuovi soggetti si esprimevano sulla scena, vecchi ordini resistevano in reazioni politiche violente: la guerra, la ri-feudalizzazione della proprietà, la restaurazione teologica ne caratterizzano l’orizzonte congiunturale. Ma la congiuntura è dura. Il compromesso della ragionevole ideologia allora, deve farsi “guerra di posizione”, poi mediazione tra le istanze del moderno, infine accumulo di forza, riserva di tempo, traduzione della memoria in esistenza concreta. Morale provvisoria. Descartes, per questa via, cerca una realistica alleanza tra nuove forme della composizione sociale, forze produttive e i settori meno retrogradi del potere e dell’accademia. Ci prova. E perde.

Quid rides? mutato nomine, de te fabula narratur. Ha ragione Toni Negri quando ci ricorda che, oggi come allora, siamo dentro a una crisi del processo rivoluzionario: la guerra globale permanente (e il ritorno della guerra in Europa) disegna i perimetri di un ordine multipolare instabile; la privatizzazione dei beni comuni si scatena contro l’emergere del General Intellect; il fascismo e l’ipotesi autoritaria strozzano le nuove forme della soggettivazione; la crisi climatica avvelena il mondo. La fabula parla di noi. Confitti dentro una “risposta capitalistica di stabilizzazione regressiva” della crisi, dobbiamo allora domandarci: tiene ancora, oggi, il metodo della ragionevole ideologia? È percorribile, realisticamente, l’ipotesi di un’alleanza tra nuovi strati del lavoro intellettuale moltitudinario e vecchie forze borghesi del potere?

Difficile rispondere positivamente. Non solo perché pare saltato lo spazio della mediazione: chi può pretendere oggi ad un progetto capace di superare lo scontro tra poteri e interessi contrastanti, interpretandone le istanze in modo dinamico? Lo stato nazione? E quale classe, o quali alleanze di classe, dentro lo stato? Non solo perché l’incertezza e il dubbio attraversano tutte le scale della congiuntura politica: dove sta la decisione? Nella governance globale? E quali tecniche permettono alla potenza moltitudinaria dentro alla macchina del governo, di darsi come democrazia? Sono tutte questioni sensate. Ma, in fin dei conti, a queste domande potremmo rispondere fingendo ipotesi: ciò che in Descartes era surplus della cooperazione e del sapere borghese, oggi è definito ontologicamente come base di ogni costituzione futura. Potremmo dire: c’è davanti a noi, dispiegata, tutta la materia, manca la forma. Oppure ancora: possiamo sperimentalmente pensare questa poderosa base materiale come materia formata, terza natura. Proiettarne l’immagine nel tempo. Funziona? Solo la prassi può sciogliere questo nodo. Intanto, torna il dubbio: forse non è questo il livello corretto del problema, oggi. La ragionevole ideologia non funziona perché, più profondamente, il Barocco di Descartes era una “crisi di crescita” (Negri 1970a, 69), mentre le lotte nelle quali siamo immersi oggi sembrano accompagnare catastrofi.

Eppure giunti a questa infinita distanza, ecco che ritroviamo ‘un’ Metodo. Di nuovo, in effetti, è come se un genio maligno ci impedisse di rompere l’incantesimo dello squilibrio tra sapere e potere, tra la potenza comune – come proprietà dell’agire combinato uomo-macchina – e la ricchezza reale. Una poderosa e socializzata ricchezza viene separata dalle capacità incorporate dagli individui e dal lavoro. Come connettere questi livelli? Come ricomporre tecnica e politica? Oggi, come allora, la fattura maligna del Sovrano, ci preclude il futuro. Al posto delle maschere barocche emergono orrende immagini retrotopiche (Bauman 2017), con le quali si piega all’indietro il collo della speranza: stanche (e ormai ciniche ed esangui) danze libertine o all’opposto austeri, miserabili ripiegamenti neo-giansenisti. Fughe dal mondo: teorie della de-connessione, appelli a fermare la macchina produttiva, Arcadie sognate, lontane dal cuore pulsante della metropoli globale. Il comune esiste solo rovesciato, come esternalità negativa. Allora, in profundo gurgite, emerge l’importanza del Descrates politico. È contraddittoria questa contemporanea distanza che genera prossimità, tra Descartes e noi? Di nuovo: certo che sì. Ma apprendere a stare nella contraddizione, conoscerne e praticarne la fecondità, è la lezione più preziosa di questo libro. Almeno per chi trovi la forza, di fronte alle sfide del tempo, di dire “je ne veux pas être de ces petits artisans, qui ne s’emploient qu’à raccomoder les vieux ouvrages, pour ce qu’ils se sentent incapables d’en entreprendre de nouveaux” (Descartes [1684] 1953, 888).

Note

[1] Il debito verso Chabod è evidente in una precedente ricerca di Negri (Negri 1967a), che tuttavia di questo Descartes costituisce una premessa fondamentale. Di Cantimori e Garin si vedano almeno: Garin 1952, Garin 1965, Garin 1950, Cantimori 1959, in particolare le pp. 340-366. 

[2] Il dibattito sulla rivista “Aut Aut”, a partire dalla pubblicazione di Cacciari (Cacciari 1976), riprende gli stessi termini attorno ai quali si era concentrata la critica al Descartes Politico di Negri (Negri 1970): forme della ragione, ideologia e autonomia dei soggetti, organizzazione politica, rapporto tra sapere e potere, tensione critica e ripiegamenti tragici etc. Questa volta è Negri ad aprire la discussione: cf. Negri 1976, seguito da Vigorelli 1976 e Rovatti 1976. Cf. anche Rella 1977,  Fistetti 1977, Scaramuzza 1977 e Pasqualotto 1977.

[3] Cf. Azouvi 2001, Van Damme 2003 e poi ovviamente almeno Israel 2000.

[4] Si tratta in particolare di Negri 1958, Negri 1959, Negri 1962, Negri 1967a, Negri 1967b, Negri 1970b.

[5] Sulla questione del dualismo e sulle sue tensioni si veda adesso Gillot 2007, 25 e ss., che legge il dualismo come “théorie de l’union psychophysique (…) union qui se dit dans les termes de la substantialité”; per delle considerazioni su dualismo e neuroscienze attuali che vanno nella stessa direzione si veda Damasio 1995; sulla concettualizzazione del soggetto, con le ambiguità e le “eresie” che lo attraversano si veda Balibar 2011.

Riferimenti bibliografici
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  • Sersante 2012
    M. Sersante, Il ritmo delle lotte. La pratica teorica di Antonio Negri (1958-1979), Verona 2012.
  • Van Damme 2003
    S. Van Damme, Descartes: Essai d’histoire culturelle d’une grandeur philosophique, Paris 2003.
  • Vigorelli 1976
    A. Vigorelli,  Noi, i soggetti e il politico. A proposito di bisogni e teoria, “aut aut” 155-156 (1976), 196-203.
English abstract

This essay analyses and updates Negri’s interpretation – undertaken in one of his first monographs – of René Descartes’ thought. It contains an unprecedented hypothesis of political realism (revealed in its limits); a critical hypothesis with regard to the emergence of modern (and bourgeois) political science; a profound meditation that crosses knowledge and power, science and revolution. Against this background, radical differences with other hypotheses in Italian thought are exposed.

keywords | Realpolitik; Modernism; Baroque; Bourgeoisie; Revolution; Time.

questo numero di Engramma è a invito: la responsabilità della selezione e della revisione dei contributi è dei curatori e del comitato editoriale della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Assennato, Un saggio di Realpolitik materialista, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.221.0003