"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

Niccolò Machiavelli e Antonio Negri. Vite parallele?

Peppe Nanni

English abstract
Il corpo conteso

Quando Patroclo, rivestito dalle armi di Achille, muore in battaglia, si accende immediatamente una mischia furibonda tra Troiani e Achei, che si contendono il suo corpo: i primi per fare della sua testa un trofeo da esporre in Città, gli altri per celebrarlo come campione rappresentativo ed esempio motivante della loro impresa. La lotta occupa un intero libro, il XVII, dell’Iliade, che termina con il verso “E la battaglia non aveva tregua” (XVII, 761). Un’altra disputa di dimensioni omeriche dura, ininterrotta, da cinquecento anni: è la contesa sul corpo vivo delle opere di Machiavelli, anch’esso “tirato all’estremo come la pelle di un toro” (XVII, 389-394). È un conflitto nel quale i contendenti rivelano se stessi. Con le parole di Miguel Abensour: “Dimmi qual è la tua interpretazione di Machiavelli e ti dirò qual è la tua concezione della politica” (Abensour [2009] 2011, 9). Da un lato la messa all’Indice di Niccolò si intreccerà ben presto con la sua perdurante canonizzazione a Consigliere del Principe per antonomasia, maestro di un preteso “realismo politico” che, dietro una patina di conclamata razionalità, nasconde immancabilmente la sindrome di un pessimismo patologicamente rinunciatario e servilmente furbesco, perturbato dall’ossessiva e onirica convinzione dell’immodificabilità di una struttura sociale, politica e gnoseologica eternamente uguale a se stessa. Dall’altro lato, con nel mezzo mille sfumature e una sterminata bibliografia, il campo dei ricercatori che intuiscono nell’opera e più ancora nell’atteggiamento intellettuale ed esistenziale di Niccolò un punto di leva energetica moltiplicatoria: non per risalire con svagata curiosità archeologica il fiume della storia, quanto invece per attivare un flusso genealogico capace di alimentare la consistenza ontologica, il peso specifico, la materiata irruenza di un desiderio, al tempo stesso politico ed intellettuale, proteso a mutare “lo stato presente delle cose”.

È sulla frontiera di questo ben diverso e rivoluzionario realismo che Toni Negri incontra il quondam segretario e davvero Negri mette “le mani su Machiavelli”, come titola, scandalizzato, un rancoroso libello (Portinaro 2018) – ma per strappare Niccolò da quella mortifera fossa interpretativa nella quale si vorrebbe seppellirlo dopo averlo disarmato, nella speranza che il suo spettro non torni a turbare il sonno accademico dei “Savi del nostro tempo” e il quieto dominio dei governanti. Il riferimento bibliografico è naturalmente a quel secondo capitolo, Virtù e fortuna. Il paradigma machiavellico, che costituisce un asse portante di un libro imprescindibile nella prolifera produzione di Negri: Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (Negri 1992).

Il rapporto con Machiavelli si irradia costantemente sulla scrittura negriana e travalica il ristretto ambito speculativo per esibire, tra i due, marcati tratti di affinità: nella vicenda biografica, nel sentire politico, negli inattesi modi d’uso della tradizione classica, nell’atteggiamento esistenziale e, più ancora, nel continuo avvitamento tra questi mille piani. Una fredda autopsia delle opere di entrambi, se trattate con distacco, come cadaveri da dissezionare, risulterebbe vana e ineffettuale, perché inetta a registrare quel punto di incrocio tra esattezza geometrica e furore immaginativo, tra produttività ontologica e passione politica, tra aderenza puntuale alla congiuntura e profondità sovversiva dell’analisi storico-prospettica che il Machiavelli di Negri esibisce e che il Negri insufflato da Machiavelli rilancia. Una lezione di metodo che provoca un guadagno epistemologico, un avanzamento nella conoscenza, ottenuto necessariamente dall’esposizione di sé al rischio dell’esperimento, del fallimento, del conflitto in sfavorevole rapporto di forze. Del resto, Luciano Canfora ci ha ricordato che quello del filosofo è sempre stato “un mestiere pericoloso” (Canfora 2000), a meno di dichiarare la desistenza teoretica e consegnarsi alla consulenza filosofica aziendale o, come dice Negri, alla “filosofia tiepida”, per esempio quella di Jürgen Habermas. Incandescente invece è l’indagine introduttiva del potere costituente, che conduce poi a Machiavelli.

Il potere costituente

Il paradigma del potere costituente è quello di una forza che irrompe, spacca, interrompe, scardina ogni equilibrio preesistente e ogni possibile continuità. Il potere costituente è legato all’idea di democrazia come potere assoluto. E quindi, quello del potere costituente come forza irruente ed espansiva, un concetto legato alla precostituzione sociale della totalità democratica. Questa dimensione, preformativa e immaginaria, si scontra con il costituzionalismo in maniera precisa, forte e duratura […]. Nel concetto di potere costituente c’è dunque l’idea che il passato non spiega più il presente ma che solo il futuro potrà farlo […]. Il potere costituente non solo non è (com’è ovvio) un’emanazione di quello costituito, ma neppure l’istituzione del potere costituito: esso è l’atto della scelta, la determinazione puntuale che apre un orizzonte, il dispositivo radicale di qualcosa che non esiste ancora e le cui condizioni di esistenza prevedono che l’atto creativo non perda nella creazione le sue caratteristiche (Negri 1992, 19, 31).

Alla ricerca delle “alternative del moderno”, come dichiara esplicitamente il sottotitolo programmatico del Potere costituente, e quindi per iniziare a costruire un dispositivo strategico all’altezza dei tempi, Negri parte all’attacco del formalismo giuridico e del costituzionalismo, la teoria e la pratica filiate da una tradizione ormai classica del diritto, che hanno il mandato di neutralizzare i conflitti sociali e politici attraverso la macchina procedurale: una progressione di astrazioni che filtra le polarità oppositive confezionando l’identificazione fittizia tra istanza costituente e rigido assetto del potere costituito. Per fare un esempio, basta ricordare l’incipit della Costituzione italiana, che si preoccupa di limitare la sovranità popolare nel momento stesso che la proclama, mentre l’ambiguità irrimediabile delle nozioni di ‘sovranità’ e di ‘popolo’ non vale a giustificare la diffidenza perdurante verso ogni configurazione democratica che non sia diluita dal meccanismo della rappresentanza. In realtà il potere costituente resta la bestia nera del costituzionalismo, che tende a ridurlo a mitologica premessa dell’ordinamento classista vigente e a confonderlo con quest’ultimo:

Questo sofisma, ovvero quest’agro pensiero, quest’edipica conseguenza dell’apologo di Menenio Agrippa, tolgono, nell’ambito del pensiero del costituzionalismo, la stessa possibilità di procedere nella determinazione del potere costituente (Negri 1992, 18).

Il potere costituente, per un errore indotto dolosamente dalle scienze giuridiche e politiche, viene considerato in “naturale” relazione con la weberiana “gabbia d’acciaio” della Rationalisierung capitalista e del costituzionalismo che lo imprigiona e cerca di neutralizzare la sua forza espansiva. Ma proprio nell’attrito conflittuale con le forme giuridiche e politiche dominanti, il potere costituente trae la forza che lo alimenta e lo configura:

Il limite è posto contro un’illimitabile volontà di potenza della moltitudine: in questo rapporto esso diviene ostacolo. Ed è approfondendosi su questo terreno del negativo, che lo scontro e le contraddizioni si fanno attive: il limite non chiude ma libera la prassi (Negri 1992, 363).

Il potere costituente delinea una procedura democratica absoluta, completamente svincolata dai lacci di continuità con i quali la macchina di cattura del costituzionalismo e del formalismo giuridico cerca di imbrigliare questa energia sorgiva in una prospettiva storica illusoria che non conosce fratture, procede per insignificanti innovazioni interstiziali, tende geneticamente – o tutt’al più dialetticamente – a sventare qualsiasi irruzione del novum.

Il problema del formalismo giuridico è quello di elaborare una struttura logica capace di sussumere al proprio interno il materiale empirico, traducendo il vivo linguaggio del mondo nell’algido lessico della legge. Si tratta di un problema analogo a quello con cui polemizza Carl Schmitt nel saggio sul Concetto di ‘politico’, vale a dire l’espulsione dalla dottrina del diritto di ciò che non è formalizzabile (Farina 2024).

La traduzione della realtà attraverso le griglie selettive, le algide “fattispecie” del linguaggio giuridico e costituzionale, filtra la materia sociale, smorza le spinte trasformative e neutralizza la carica politica delle continue insorgenze. Una strozzatura sistemica unificante che tenta di nascondere le irriducibili eccedenze e differenze antagonistiche normalizzandole attraverso le procedure amministrative che riducono la cosa pubblica a governance: “norme senza enormità”, direbbe James Hillman (Hillman [1974] 1991, 13).

Ecco perché la presa di posizione di Toni Negri enuncia qui tutta la sua portata metagiuridica e filosofica: per contrastare le forme dominanti del politico contemporaneo serve solo una trivellazione in profondità che raggiunga le falde ontologiche, costitutive di un principio di realtà davvero irriducibile all’ordine sociale, alle gabbie gerarchiche, alle morfologie valoriali e al sistema produttivo che strutturano la sagoma attuale della convivenza umana. Un assetto costituito, quello del “realismo capitalista”, che predica l’impossibilità di ogni alternativa e tende a rappresentarsi come dato naturale, ormai accettato acriticamente come presupposto, monopolizzando tanto la concreta realtà sociale quanto le capacità immaginative individuali e collettive e provocando così la completa evaporazione di tutte le distinzioni ideologiche.

Ma Negri, forse più di ogni altro, si è sottratto al ripiegamento nel lamento impotente e ha portato la sfida all’altezza dell’unico livello praticabile, quello della produzione ontologica di uno strato di realtà capace di entrare in attrito – e incrinare – la sedimentata compattezza dell’esistente. Per produrre questo indispensabile “supplemento d’essere“, occorreva un’operazione di radicale materialismo alchemico, distante da romantiche declamazioni utopistiche almeno quanto da illuse tentazioni riformiste – tanto da un infondato volontarismo quanto dalle eterne dilazioni della dialettica conciliativa. Gioca invece la tessitura farmacologicamente misurata tra molti ingredienti.

Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre. Questo mi sembra che sia proprio l’ABC del Machiavelli, del “Bignami” Machiavelli (Negri 2000).

Machiavelli e la differenza italiana

Machiavelli, dunque, e non sembra casuale anche il riferimento al “vissuto rivoluzionario”, comune a entrambi, perché la tensione esistenziale, la passione politica e la sperimentazione antagonistica sul campo si possono distinguere dall’impegno intellettuale solo per un breve momento di chiarificazione euristica ma in realtà sono tutti elementi che agiscono in indistinguibile intreccio, costituendo quella presa di partito, quella partecipazione conflittuale, quella spinta energetica che aprono alla possibilità di guadagnare in conoscenza, con buona pace della mistica della avalutatività epistemologica. Anche la concezione del tempo, qualitativo e contratto, nel potere costituente si oppone alla lentezza inerziale del tempo nel potere costituito, come Negri ci ricorda, in una pagina di sapore machiavelliano:

Il potere costituente ha sempre, con il tempo, un rapporto singolare. Infatti, il potere costituente è da un lato una volontà assoluta che determina il suo proprio tempo […]. Il potere diviene una dimensione immanente alla storia, dunque, un orizzonte temporale in senso proprio: la rottura con la tradizione teologica è completa. Ma non basta: il potere costituente rappresenta anche una straordinaria accelerazione del tempo. La storia viene concentrata in un presente che si sviluppa irruente, le possibilità vengono strette in un fortissimo nucleo di produzione immediata. Da questo punto di vista il potere costituente si lega strettamente al concetto di rivoluzione. E poiché esso è già collegato a quello di democrazia, eccolo ora presentarsi nelle vesti di motore o di espressione cardinale della rivoluzione democratica. E noi lo vediamo vivere la sistole e la diastole, talora violentissime, che battono nella rivoluzione democratica, fra l’uno e i molti, fra potere e moltitudine, in un tempo che raggiunge sempre concentrazioni fortissime, spesso spasmi (Negri 1992, 19).

E ancora, sul soggetto che opera nella struttura costituente, nel nesso imprescindibile tra forma strutturale, soggettività agente e qualità dei tempi:

Quel nostro soggetto è dunque, e non può che essere, un soggetto temporale, una potenza costitutiva temporale. Ciò detto, di nuovo si aprono due linee davanti a noi – ché, da un Iato, la temporalità è ricondotta a e confusa nell’essere, svuotata degli enti che la costituiscono e perciò ridotta al mistico, insomma necessariamente radicata in un “principio fermissimo” che è la relazione dell’essere con se stesso. Su un altro lato, invece, la temporalità può essere radicata nella capacità produttiva dell’uomo, nell’ontologia del suo divenire – una temporalità aperta, assolutamente costitutiva, che non rivela l’essere ma produce gli enti […]. La relazione che stringe la temporalità costitutiva del potere costituente a un soggetto adeguato e quella che pone l’assolutezza del nesso soggetto-struttura al centro del processo creativo del politico (Negri 1992, 41, 46).

Non una temporalità astratta, sempre uguale a se stessa, deferente verso un Essere immutabile ma – dice Negri in evidente polemica con Heidegger – una congiuntura storica singolarissima “che non rivela l’essere ma produce gli enti”, che propizia il sorgere di una particolare soggettività agente. E infatti Toni situa Machiavelli al bivio che si presenta nel momento pre-aurorale della Modernità. La crisi esplosiva dell’esperimento rinascimentale, che resta senza sbocco, non trovando un soggetto capace di incarnarlo adeguatamente all’altezza di quella irripetibile situazione – questo il rovello di Niccolò – lascerà campo libero al diverso assetto sociale, culturale e produttivo sintetizzato giuridicamente nella formula dello Stato dell’assolutismo monarchico e della favola del contratto hobbesiano. Allora anche il baricentro della vita politica ed economica europea si sposta dall’Italia ai Paesi del nord, favoriti dal crescente accumulo di capitali finanziari nella cornice ideologica della Riforma, almeno secondo lo schema ricostruttivo di Weber. La questione nazionale non è importante in sé, quanto per il modo politico con cui si svolge. La tendenza epocale è un’occasione di sviluppo antagonistico, di lotta tra Stato antipolitico (“l’Età della neutralizzazione”, nella definizione schmittiana) ed esperimento di riappropriazione popolare della res publica: consolidamento monarchico o espansione repubblicana.

La partita di Machiavelli è il tentativo di affermare la via di una modernità alternativa, in una situazione geopolitica più complessa di quella francese (non a caso Giulio II inveisce contro “i barbari”). “L’Italia è più moderna della Francia”, scrive Negri, perché non affetta da antiche tradizioni monarchiche, più ricca di innervature rizomatiche, costitutivamente plurale. Il processo di unificazione potrebbe svolgersi solo in una dimensione eccedente il semplice assemblaggio, in chiave sovranista, di territori privi di striature originali e di forti connotazioni; quindi, non può accadere con le modalità di formazione degli altri Stati nazionali europei. La “materia italiana” (Althusser) è troppo avanzata per essere unificata nei termini elementari che segnano la morfologia di crescita degli Stati nazione. La complessità italiana eccede il quadro semplice dello spazio liscio francese o spagnolo, dove l’arretratezza storica consente l’unificazione intorno a una capitale, una logica, un modello. Qui si vuole fare una nuova Roma a Venezia, a Milano, a Firenze ma anche a Ferrara, Mantova, Rimini, Urbino. La particolarità del caso italiano è costituita dalla sua articolazione complessa, esito del sofisticato esperimento rinascimentale, culturale e politico. È una paradossale crisi di crescita che provoca la catastrofe, propiziata da una classe dirigente corrotta e inadeguata alla situazione. Un deperimento di potenza che si manifesta anche nell’assoluta debolezza militare, della quale l’autore dell’Arte della guerra era ben consapevole. Le frastagliate differenze della società italiana non possono subire reductio ad unum. Ecco perché confligge con il progetto di Stato hobbesiano e la normalizzazione dell’assolutismo monarchico non può attecchire. La res publica non sta dentro le forme dello Stato nazione. Anche la geografia congiura in una figura eccentrica rispetto all’Europa continentale: l’Italia si propende sul mare, i suoi sensori sono sparsi nelle basi mediterranee (non nel cattivo infinito oceanico), le linee politiche del pensiero italiano conoscono attraversamenti di frontiera continui.

Non c’è spazio per pregiudiziali etnonazionaliste ma continuo movimento vitale. La formula ‘un territorio, una lingua, un re’ è troppo rozza per funzionare, l’ordine non può mai essere definitivo né totale, la società è multiversa e attraversata da inquietudini storicamente sedimentate che impediscono l’omogenizzazione. E infatti l’Italia non diventa Stato nazione se non tardi, per opera opportunistica di una classe politica con mediocri ambizioni. Ma questa accidentata e irrisolta anomalia italiana ha probabilmente contribuito a fare della penisola un luogo privilegiato come crocevia di sperimentazione politica e oggi, quale prolungamento carsico di una genealogia storica diversa e, da ultimo, del “Lungo Sessantotto”, un pensiero irrequieto e armato d’immaginazione può suggerire le prospettive per concertare il ribaltamento di un‘Europa male assemblata, senza narrazione storica, paralizzata dai dogmi liberisti, dalla diseguaglianza sociale, dalla sudditanza atlantista e, di nuovo, da una classe dirigente mediocre e priva di progettualità politica. L’Europa di oggi come l’Italia del Cinquecento. Altro motivo di analogia biografica tra Negri e Machiavelli. Che prende corpo nell’intreccio della tensione interiore di un pensiero che concresce nella lotta, poi nel girone infernale della tortura, della prigionia e dell’esilio dalla vita activa che destituisce il fondamento e le condizioni di possibilità di quel pensare attraverso l’agire – perché le astrazioni contemplative di troppa parte dell’Umanesimo hanno costituito solo la copertura della desistenza intellettuale.

Ma gli “scrittori politici”, contro i riti esausti degli uomini di cultura, invertono la polarità valoriale del vuoto e costruiscono il novum sulla propria condizione tragica e nella tempesta delle sconfitte, che servono, sia pur dolorosamente, a ripulire la prospettiva dalle nebbie della dialettica e dai relitti ingombranti delle mediazioni compromissorie. Per trarsi d’impaccio, il loro irriducibile istinto usa tutto, anche la disperazione dell’analisi, come combustibile con cui si alimenta una passione instancabilmente rivolta a individuare un varco e rovesciare “lo stato presente delle cose”:

Nella miseria di San Casciano Machiavelli rimedita la sconfitta. Già in una lettera al Soderini, nel settembre 1512 (subito dopo che l’amico e Signore era partito per l’esilio), Machiavelli s’era ripiegato sulla riflessione del nesso fra destini individuali e “i tempi e l’ordine delle cose”. Ora, questo nesso è disperato, il conflitto insolubile, e la virtù, se nasce, è figlia di una natura avara, è il ripiegamento dell’anima sul nulla dei significati della storia. Qui si forma una specie di calvinistica ascesi del politico, ma impiantata sull’ordito della casualità che è tessuto materialistico e ateo. Il principio costitutivo è qui dunque la potenza che si esprime su quest’incrocio di limiti oggettivi e di soggettiva, singolare disperazione. Esso è un principio costitutivo in assenza di fondazione, un principio eroico in un mondo senza divinità (Negri 1992, 62).

Negri conclude, con una considerazione che merita di essere evidenziata, sia perché caratterizza l’irriducibile ottimismo tragico della sua postura esistenziale, sia perché suona come una raccomandazione per l’oggi:

Se il tempo storico della mutazione è definitivamente svuotato di significato, nello stesso tempo esso è interiorizzato all’intensità del tempo antropologico e su questo nesso si pone la possibilità dell’ipotesi costitutiva (Negri 1992, 62).

Una “mostruosa” lotta di classi(ci)

Negri passa ai raggi X il percorso interiore di Machiavelli mentre inizia i Discorsi sopra la prima deca, la cui stesura – sostiene Toni – si interrompe intorno ai capitoli 16-18, smette di ragionare sulla libertà come potenza già dispiegata del nuovo inizio e si concentra, nel Principe, sulla precondizione di potenza di questa stessa libertà generativa: il congegno del potere costituente, la struttura che dovrà armare il nuovo soggetto politico. La tensione interiore di Niccolò doveva aver raggiunto un apice drammatico, che si riflette per contrasto nella forma controllata, fino a un certo punto controllata e sorvegliata, dell’opera. Ma nel testo le intenzioni si sovrappongono in contorsione e si contendono i significati: principe e principiare hanno un andamento semantico fluttuante, Machiavelli si incaglia nelle aporie – probabilmente necessitate dalle premesse oggettive dalle quali quel tentativo di “mutazione” si dispiega, non trovando un soggetto all’altezza del progetto. Infatti, gli interessano solo Principi nuovi, per cui il catalogo è progressivamente selettivo e dopo la caduta del Valentino la casella del Principe resta vuota. Ma già l’incipit principesco apre sul vuoto un’impresa nuova, pensabile solo in Italia, dove non hanno attecchito tradizioni monarchiche altrove sedimentate – e torna ai Discorsi, mettendo a frutto quella sconfitta teorica. Cambia anche il cielo di Niccolò, che trae forza da un nuovo tessuto relazionale, perché la creazione intellettuale non è un frutto solitario, un prodotto solipsistico di stampo alfieriano ma si nutre, spinozianamente, dell’energia scaturita da incontri felici: per Machiavelli, tornato a Firenze, l’assidua frequentazione del giardino degli Orti Oricellari, animati da un gruppo di colti giovani repubblicani che lo accolgono come primus inter pares (al riguardo, rimando a Nanni 2016 e, più in generale, a tutto il numero 134 di Engramma dedicato a Machiavelli: un uso sovversivo della tradizione classica: Centanni, Nanni 2016).

Vale la pena di ricordare il tono della dedica a quel gruppo di “letteratissimi giovani”: non solo per sottolineare lo stacco rispetto alla faticosissima e non sentita dedicatoria del Principe all’uno o all’altro dei potenti del tempo ma anche perché quel tono si accorda in significativa assonanza con le infaticabili frequentazioni di tante assemblee di giovani da parte di Toni Negri, anche lui reduce da esilio e persecuzioni:

Non so quale di noi si abbia ad essere meno obligato all’altro: o io a voi, che mi avete forzato a scrivere quello che io mai per memedesimo non arei scritto; o voi a me, quando, scrivendo non vi abbi sodisfatto [corsivo mio]. Pigliate, adunque, questo in quello modo che si pigliano tutte le cose degli amici; dove si considera più sempre la intenzione di chi manda, che le qualità della cosa che è mandata. E crediate che in questo io ho una sola satisfazione, quando io penso che, sebbene io mi fussi ingannato in molte sue circunstanzie, in questa sola so ch’io non ho preso errore, di avere eletto voi, ai quali, sopra ogni altri, questi mia Discorsi indirizzi.

Non è difficile intuire che Machiavelli, nel passo sopra citato della dedica dei Discorsi, non ammannisce ai suoi giovani amici gli stessi sermoni edificanti che esaltavano il mito del Buongoverno nelle opere degli umanisti di corte, ricoperti di un ruolo che, come dice efficacemente Foucault, li onora mentre li disarma. Se ne accorge anche il suo amico Guicciardini che, da bravo conservatore, osserva come Machiavelli sia “ut plurimum extravagante di opinione dalle commune et inventore di cose nuove et insolite”. Le citazioni di Niccolò dal repertorio classico sono sempre tendenziose e, per quanto discretamente dissimulata, la violenza maieutica di Machiavelli costringe gli autori antichi a dire cose che, nei termini usati, non avrebbero facilmente ammesso:

Il commentario umanistico delle opere antiche è lettura di ontologie regionali nelle quali parimenti si iscrivono il sapere e l’agire. In Machiavelli la tradizione umanistica è straordinariamente maturata, le posizioni scientifiche già dislocate […]. La retorica e l’esemplarismo sono strappati alla tradizione ficiniana – il nuovo, l’evento, il principe sono ormai cifra di originalità (Negri 1992, 99).

Spezzare, per esempio, il cerchio deterministico della storiografia ciclica di Polibio, dapprima assecondandone la curvatura per poi partire per la tangente: uno schema – vede bene Negri – che Machiavelli segue con metodo, usando gli autori antichi per mettere l’auctoritas delle loro opere, spesso intrise di sottintese intenzioni conservatrici, in una prospettiva inedita e spiazzante: come direbbe Gilles Deleuze, per “costringerli a partorire figli mostruosi”, una imprevista discendenza concettuale che piega il DNA culturale verso esiti rivoluzionari e sovversivi. Uscendo dalle lezioni di Deleuze, gli studenti del Sessantotto ci renderanno la traduzione in colorito volgare di questo guadagno speculativo, scrivendo sui muri di Parigi: “Spinoza incula Hegel”. Occorre valutare appieno la portata, non solo provocatoria ma anche innovativa di questo serio ludere, vocato a introdurre concretissimi effetti di rottura e ricomposizione nella realtà effettuale:

Da questa prospettiva il concetto di mostro non definisce più soltanto ciò che stupisce e spaventa, ma è piuttosto ciò che mostra, appunto, i processi materiali a partire dai quali o contro i quali la normalità viene sia costruita che disfatta, per orientare l’azione politica nel senso dell’innovazione o della normalizzazione, in una battaglia cui prende necessariamente parte la filosofia con le sue armi intellettuali (Bardin, Del Lucchese 2017, 11).

Anche il ricorso a figure ancipiti come quella del Centauro enfatizza la figura di una soggettività agente che fuoriesce dalle raffigurazioni consolidate in un quadro politicamente pacificato e filosoficamente sedato, a sottolineare l’insorgere di un potere, quello costituente, che non rientra nei parametri tradizionali e non cerca legittimazioni eteronome ma produce il suo proprio inizio, un “principiare” che solo su di sé si struttura, agito, nei Discorsi, da una moltitudine dichiaratamente “tumultuaria”. Davanti agli occhi dei “più degli scrittori” si presenta così una imprevista filiazione del testo di Livio, una sporgenza davvero “mostruosa”. Alla diade mostri-maestri si apre oggi – come augura Toni Negri – la prospettiva orizzontale della proliferazione democratica.

Di quale cattivo maestro abbiamo bisogno oggi? Probabilmente di molti. Che si sia entrati in un mondo nuovo, infatti, nessuno dubita più. Non ci basteranno dunque tutti i cattivi maestri insieme ad orientarci, socratici, machiavellici, spinozisti, nietzscheani… No, non basta. Questa volta i cattivi maestri devono diventare moltitudine. Nessuno ha mai provato a confrontarsi con una moltitudine di uomini liberi, ed eguali, capaci di amore e forti! Noi dobbiamo provarci. Questa moltitudine di cattivi maestri è la carne del mondo che viene, è l’accesso a un’età di mostri. L’indignazione, ovvero, come si disse di Socrate, la corruzione dei giovani, sono il nostro ideale morale (Negri 2003b, 15).

Nello stesso testo, Toni insiste sull’attitudine incandescente, sul daimon di Niccolò, che i mille distinguo dell’interpretazione scolastica in chiave realistico conservatrice non riescono a esorcizzare:

Machiavelli è indignato contro gli utopisti e contro i tiranni. Anch’egli risponde alla voce di un demone, del demone repubblicano e democratico. Mentre scrive i Discorsi sulle Deche di Tito Livio, commentando le regole del comando sovrano, raccontando l’autonomia del politico, egli avverte come dietro la sovranità ed il politico si annidi l’odio della moltitudine: ecco dunque, allora, la scoperta del soggetto politico, dell’evento demoniaco. Sono i Ciompi, il proletariato fiorentino, che insegnano come il potere si fa, senza ordine, contro l’ordine, inseguendo la volontà e la gioia dei singoli. Questa è la Repubblica (Negri 2003b, 12).

Qualcuno potrebbe ritenere eccessivamente tranchant la descrizione di un Machiavelli animato da spirito rivoluzionario. Il dubbio è subito fugato dalla ricostruzione della parabola intellettuale e biografica del quondam segretario che Negri, nel Potere costituente, disegna con minuziosa acribia e con dettagliato scavo filologico sull’intera produzione machiavelliana, comprese le opere minori e d’occasione e il vastissimo epistolario. Molti altri intellettuali hanno pregevolmente lavorato nella stessa direzione, raggiungendo risultati non dissimili. Ma una paradossale conferma, casomai occorresse, arriva proprio dall’autore del già citato pamphlet di invettive contro “la filosofia attualista” di Negri, che in un successivo intervento – dopo aver accusato di correità Foucault e persino Arendt – ha concluso con questa lapidaria “avvertenza”:

Molto spesso queste letture attualizzanti del Machiavelli teorico della Repubblica romana prendono un po’ troppo per buona anche l’immagine della storia romana che Machiavelli ci trasmette e che gli storici antichisti hanno profondamente corretto; quindi, bisognerebbe sempre fare anche questa operazione di cautela (Portinaro 2019).

Una considerazione singolare, di tenore confessorio, perché la giudiziosa e giudiziaria “misura cautelare” consiste, una volta accusato Toni di stravolgere il senso della lezione machiavelliana, nel prendere le distanze – dopo aver consultato gli anonimi aruspici antichisti – dall’inaffidabile Niccolò che ha, anche lui, altrettanto stravolto il marmoreo dettato di Livio e degli altri scrittori dell’epoca romana. Tanto più – aggiunge – che medicine per la nostra crisi “Machiavelli certamente non ce le può offrire”. La conclusione sembra indicare che il compito della cultura consista nel riconoscersi nella rassegnazione all’“ineffettuale” incapacità di agire: un’ideologia davvero “ragionevole”. Difficile fornire una prova più ampia a favore di Toni Negri e della fondatezza della sua consonante ripresa di Machiavelli come spinta energetica per il nostro presente. Che non è una riesumazione cimiteriale e neppure un’asettica interpretazione, perché, dice Negri, “il passato non lo si interpreta ma lo si esperimenta”.

Machiavelli, quindi, è un punto di leva e una lezione di metodo che devono essere considerati dentro la prospettiva che attraversa la riflessione complessiva sul potere costituente, vedendo in connessione tutti gli episodi di eruzione politica e di insorgenza filosofica nei quali si rapprende ed emerge, con andamento carsico, “l’altra modernità”, in attrito con la linea vincente dello sviluppo imperniato sul contrattualismo hobbesiano, sul legittimismo, sulla sovranità dello Stato, sulla forma capitalista della produzione materiale e immateriale. Così Negri con Hardt:

Questa la linea che, nell’età moderna, va da Machiavelli e Spinoza fino a Marx, e nel periodo contemporaneo da Nietzsche fino a Foucault e Deleuze. Non è in questione un riferimento filologico ma l’affermazione di un terreno di critica e di pensiero costitutivo (Hardt, Negri [1994] 1995, 28).

Tenendo a mente l’ammonimento di Michel Foucault: il sapere non serve alla conoscenza ma a prendere posizione (Foucault 1971, 43). Negri interpella gli autori che costituiscono la costellazione sovversiva, tra gli altri Lucrezio, Machiavelli, Spinoza e Marx: questo è noto e non occorre qui soffermarsi sul punto ma è utile sottolineare che la convocazione degli autori nominati non costituisce una tradizione di segno rovesciato, il negativo che si ricalca semplicemente sulla linea Hobbes, Rousseau, Hegel e Heidegger mimandone la compattezza cementificata e la postura canonica, quanto un assembramento filosofico mai uguale a se stesso e sempre diversamente ricomposto e atteggiato al mutarsi delle situazioni concrete, in stretta aderenza alle eruzioni storiche e politiche, al modificarsi dei rapporti di forza, al variare della composizione sociale, alle differenti combinazioni dell’immaginario.

Non ci interessa l’archeologia del potere costituente, c’interessa un’ermeneutica che al di là delle parole, ed attraverso di esse, sappia cogliere la vita, le alternative, la crisi e il ricomporsi, la costruzione e la creazione, di una facoltà del genere umano: quella di costruire ordinamento politico. Che cos’hanno dunque a che fare assieme la virtus del popolo in armi di Machiavelli o la scoperta delle determinazioni materiali dei rapporti di potere in Harrington? E in che cosa si incrociano il rinnovamento americano del costituzionalismo classico e la singolarissima ideologia francese dell’emancipazione sociale? Come drammaticamente convivono la spinta egalitaria del comunismo e lo spirito d’impresa dei bolscevichi? È evidente che ciascuna di queste imprese scoprirà il suo senso all’interno dell’insieme di eventi che singolarmente le forma (Negri 1992, 47).

L’indagine si dirama in opposte e complementari direzioni. Da un lato, occorre mettere insieme le tessere, dal profilo sconnesso, di un mosaico in continua formazione, per ottenere una visione dall’alto del processo storico non lineare, per balzi, dell’alternativa al moderno; dall’altro, è necessario auscultare, in interiore homine, la frequenza del battito rivoluzionario modificata dal progressivo deposito memoriale degli eventi passati:

Ma è altrettanto vero che il significato di questi eventi sta iscritto nella coscienza di tutti noi. Che esso è inciso nel nostro essere perché lo ha in qualche modo determinato. Quegli eventi hanno per noi significato, ed è legittimo interrogarli, perché hanno costruito nuovi orizzonti della ragione e hanno proposto nuove dimensioni dell’essere storico. Il viaggio che proponiamo non concluderà a sintesi ideologiche né si compiacerà dell’evoluzione del concetto; cercherà invece di condurci all’analisi della potenza dell’uomo contemporaneo. Comprendere il nostro desiderio attraverso le mille stratificazioni che lo sottendono, questa è la sola via percorribile se vogliamo comprendere il concetto. Un concetto, questo di potere costituente, che sta al centro dell’ontologia politica (Negri 1992, 47).

Mnemosyne in rivoluzione

Potere costituente e ontologia politica: l’insistenza di Negri su questi nodi indica l’intenzione di portarsi all’altezza dove si gioca la partita. L’onnipervasività dei dispositivi di dominio innescati dalle forme attuali del realismo capitalista ha colonizzato l’immaginario sociale, rendendo di fatto impensabile e comunque inesprimibile ogni ipotesi di massiccio conflitto sociale e trasformativo. Il concetto stesso di opposizione si è dileguato, lo spazio pubblico è geometricamente svanito mentre la macchina (anti)politica della rappresentanza garantisce l’assorbimento – per tattiche dilatorie, per avvitamenti repessivi e per corruzioni e cooptazione – degli effimeri involucri elettorali nei quali le fisiologiche quote di protesta generica vengono convogliate e dissipate. Il miserabile ricatto delle campagne di austerità finanziaria e l’ininterrotto spot a favore del governo (di qualsiasi, intercambiabile governo) da parte dell’apparato mediatico, la privatizzazione e riduzione a scuole di docile garzonato dei sistemi educativi completano l’opera di desertificazione. Alle poche eccezioni, i movimenti più consapevoli, viene impedito, con un ampio ventaglio di modalità, il raggiungimento di un livello di massa critica sufficiente per entrare in gioco … Ma è vero? È tutto vero e solo questo è vero? Credo si possa dire che il nome di Toni Negri sia l’indicatore sintetico del tentativo più radicale di smontare questo racconto depressivo, di ridurne il volume tumorale, di opporgli sia materiali di contrasto che soprattutto gli elementi di una diversa realtà, altrettanto concreta e consistente. In termini presi in prestito da Foucault, si tratta di modificare il regime di visibilità e dicibilità del tempo presente. Un presente che deve essere affrontato, per destrutturarlo, arrivando a ritroso nel suo luogo d’origine e attaccarlo di sorpresa.

La sola via d’uscita sembra essere quella alle nostre spalle: procedere a ritroso, nell’esperienza e nella storia, per affrontare il passato al suo apparire. Assalirlo nel suo cuore, nel suo rapporto con l’immediatezza, giudicare il valore di quella accumulazione (Colli 1982, 272).

“Aggredire il passato alle spalle” diceva Giorgio Colli, cioè risalire nel punto in cui una tradizione si coagula e quindi si consolida, annegando, nella suggestione mortifera di una durata storica omogenea e senza increspature, anche la minima possibilità di osservare e denunciare i momenti di crisi, di rottura, di insorgenza:

È quanto avviene nella tradizione classica, dove il tempo è l’immagine mobile dell’immobilità dell’essere. In questa tradizione il tempo è dunque una modalità estrinseca: esso si presenta come illusione o come misura, mai come evento, mai come il questo qui (Negri 2003a, 21).

Accanto al potere costituente come struttura e alla moltitudine come soggetto che lo agisce, la qualità del tempo è il terzo elemento della costellazione rivoluzionaria. La censura storiografica contro il Novecento, la calunnia del “secolo breve”, museo degli orrori, ha la funzione di far interiorizzare l’impossibilità di un rivolgimento radicale, di certificare con monumentale retorica la fine dell’epoca delle rivoluzioni, associate immancabilmente a esiti sanguinari, inducendo un riflesso pavloviano di ripulsa e dissecando la facoltà di immaginazione politica. Per quanto l’argomento sia logoro e smentito dai fatti – la prima proclamazione dell’esaurimento delle rivoluzioni risale alla Parigi del 1830 – viviamo la completa dimenticanza di cosa sia davvero il sentimento rivoluzionario, anche perché non basta una semplice dimostrazione razionale della sua necessità per riattivare la percezione memoriale se il “seme del memorabile” appare come un fantasma privo di reale consistenza e non trova nell’immaginazione le figure energetiche e i modi di far presa su Mnemosyne:

Si presentano a noi – scriveva Giordano Bruno nel Sigillus sigillorum ad omnes animi dispositiones comparandas (1583) – cose, segni, immagini, spettri, ovvero fantasmi […]. Non senza motivo Socrate definì l’oblio come una perdita di percezione; ma se per la stessa ragione avesse definito anche il seme del memorabile sparso e non concepito dalla memoria, egli avrebbe certo indagato il tema più in profondità. Se infatti la fantasia non bussa con vivacità sufficiente avvalendosi di immagini sensibili, la facoltà cogitativa non apre le porte e, se la facoltà cogitativa che è la custode non apre la porta, la madre delle Muse, sprezzando simili immagini non le accoglierà.

È un congegno di riattivazione della memoria, una macchina di trasmissione del DNA politico che funziona riconoscendo la tramatura di inquete suggestioni e di movimenti emozionali (ma anche di concreti interessi) che attraversa sotterraneamente la tradizione classica, dietro la crosta retoricamente esibita di un’estetica che si pretende pacata e apollinea. Da parte sua, Toni Negri ha, in un certo senso, intensificato la posizione rinascimentale bruniana:

Il senso della storia è il controluce della sua normale mancanza di significato. Certo, la serie degli eventi assoluti e delle insurrezioni del senso si consolida sulla base ontologica dello sviluppo delle coscienze e dei concetti. Ma questo sfondo e deposito ontologici sono attivi solo nel rapporto sempre nuovo di potenza e di moltitudine e diventano di nuovo effettuali solo reincontrando l’evento singolare. Il potere costituente descrive la sua continuità ontologica (e dà luogo ad una memoria) solo se l’evento assoluto le attivizza. Fra gli eventi non c’è piatta continuità, e a dirlo propriamente non c’è neppure memoria. Continuità e memoria competono solamente all’evento. La memoria è un prodotto del potere costituente in atto, non è continuità ma innovazione (Negri 1992, 367).

Di eccezionale rilevanza è l’osservazione che solo guardando dalla prospettiva di una intenzione rivoluzionaria in atto, solo calandosi in una posizione intellettuale determinata alla rottura trasformativa della realtà, e quindi solo nella congiunzione nervosa di ragione e passione, le reliquie del passato cessano di ingombrare il deposito di ricordi inerti e si riattivano come materiali irradianti, sprigionando l’energia memoriale che certifica la possibilità di aprire un varco nel presente, perché quest’evento è già stato sul punto di succedere, perché è già successo, perché quel passato succede ora. Su questo presupposto, Negri incrementa la dote di senso della raccomandazione machiavelliana: in una repubblica è necessario spesso “ricapitolare i principi”, non solo per scrollarsi di dosso il calcare della corruzione, etica e materiale ma soprattutto per rinverdire la sensazione di freschezza del momento fondativo, l’entusiasmo politico che inaugura il progetto condiviso. L’assunto negriano autorizza un pensiero rigenerante, nell’urgenza di provocare una totale inversione della psicologia individuale e collettiva: non solo l’epoca delle rivoluzioni non è finita ma finora abbiamo visto solo il prologo in cielo delle “mutazioni”, assaggi preliminari significativi ma ancora inficiati da troppi errori e ingenuità, da un immediato ricomporsi del “vecchio” dentro le forme del “nuovo”, avendo trascurato – osserva Miguel Abensour nel suo La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano – che la lotta è sempre su due fronti (Abensour [1997] 2008). Ma la riflessione di Toni non nasconde e anzi pone esplicitamente i problemi formidabili che si trova ad affrontare ora: come intensificare la percezione delle condizioni di possibilità dell’evento costituente, come organizzarlo – se “organizzazione”, con tutto il suo implicito portato di verticalizzazione gerarchica, è ancora una parola spendibile (Antonio Negri e Michael Hardt hanno affrontato la questione in Assemblea) – come sviluppare la consistenza ontologica e costruire l’evidenza veritativa della struttura costituente? (Hardt, Negri [2017] 2018).

Kairos. Prima che il varco si richiuda

Negri a questo punto si ingaggia in una ripida scalata filosofica che parte dalle sue riflessioni su Lucrezio. Ancora una volta, riprende un gesto di Machiavelli che – come ha definitivamente mostrato Sergio Bertelli (Bertelli [1961] 2016 e Id. [1964] 2016) – si era impegnato nella lettura e nella trascrizione del De rerum natura traendone – letteralmente – l’ispirazione a percorrere avia loca, “l’impervia via ancora da alcuno trita”. Mentre si trova nuovamente in carcere, Toni reagisce alla pressione ambientale alzando il tiro e scrivendo le Nove lezioni impartite a me stesso: Kairos, Alma Venus, Multitudo. Qui Negri “ricapitola i principi” del materialismo come filosofia immediatamente sovversiva, ripulendola dalle “caricature” del Diamat, il rudimentale materialismo dialettico staliniano, ma anche cercando di superare i limiti e gli errori che, da Epicuro a Spinoza, ne avevano attenuato la carica dirompente, la capacità di produzione ontologica, l’attitudine a nominare l’evento, a chiamarlo a consistere sul piano d’immanenza nella piega del tempo opportuno:

La costituzione del nome si compie nel concreto dell’esperienza medesima, laddove la nostra temporalità (kairos) e quella della cosa, incontrandosi, chiamano ad essere un concretissimo essere […]. Kairos è la modalità del tempo attraverso cui l’essere si apre, attratto dal vuoto che sta al limite del tempo, e così decide di riempire quel vuoto. Può dirsi che, nel kairos, nominare e cosa nominata giungano, “in un medesimo tempo”, all’esistenza, e che siano dunque proprio “questo qui”? […]. Se la coscienza percepisce kairos ambiguamente, come l’“essere in bilico”, come “una lama di rasoio”, ovvero come l’attimo nel quale “l’arciere scocca la freccia”, kairos sarà allora l’inquietudine della temporalità – il nome che volevamo per quell’esperienza. Ma se è così, potremo allora chiederci in secondo luogo, se kairos non sia anche l’insistenza reale su quel punto del tempo, e quindi l’atto dello sporgersi dell’essere sul vuoto del tempo avenire, ovvero l’avventura oltre l’orlo del tempo […]. Dovrò dimostrare anche che kairos è costituente, nel momento stesso in cui lo sguardo si fissa nel vuoto; che kairos e generare, è einai nella forma del gignetai […]. Attraverso kairos l’affermazione ontologica del nome non può dunque intendersi che come decisione di nuovo essere […]. La cosa, posta sul bordo dell’essere, chiama il nominare ad incrementare l’essere, così come il nome chiama la cosa ad una nuova singolare esistenza. Kairos e ora la freccia che è stata scoccata (Negri 2003a, 23-28).

Il tempo è politica, dunque, il tempo cairologico dell’Occasione da acciuffare per i capelli, centrale nell’”estetica energetica” della Imprese artistiche rinascimentali e nella ricostruzione cadenzata che Machiavelli ci rende dell’azione del Valentino: nella fase ascendente della sua parabola, procede con ritmo incalzante senza concedere quartiere ai nemici, afflitti invece da “tardità”. La stessa potenza costitutiva del vero funziona nella decisione di Lenin all’altezza delle Tesi di aprile nel 1917, quando Vladimir Il’ič Ul’janov intravede un varco per la rivoluzione nel vuoto istituzionale e gioca d’anticipo, prima che il tempo ordinario del potere riorganizzi le strutture governative e accada in Russia quello che era già successo in Germania, con l’assorbimento del partito socialdemocratico, neutralizzato dalle dinamiche parlamentari. Se Lenin, restando fermo in ossequio alle tendenze gradualiste del marxismo ortodosso, non avesse organizzato immediatamente l’insurrezione, il varco temporale si sarebbe richiuso e la storiografia successiva avrebbe sentenziato, con miope sguardo retrospettivo, che la rivoluzione era ontologicamente un’ipotesi irrealistica per assenza dei presupposti oggettivi. L’azione rivoluzionaria del 1917 assume quindi valenza filosofica esemplare perché produttiva di un supplemento di verità e di un incremento d’essere, modificando e ampliando la percezione di ciò che è possibile. Da questo punto di vista è irrilevante quel che è accaduto dopo la rivoluzione, oggetto di serrata critica anche da parte di Negri. Perché ha ragione Deleuze: non bisogna confondere il “divenire rivoluzionari delle persone con l’esito delle rivoluzioni”. Sono due piani diversi. Quello che conta è la produzione di una nuova realtà:

Già prima di Marx, Machiavelli aveva considerato la “prassi del vero” come potenza di far sorgere, dall’occasione temporale, la virtù costitutiva del politico. E in questa duplice prospettiva che noi definiamo la prassi del vero come sviluppo della forza del kairos (Negri 2003a, 38).

Uno “stacco creativo”: nominare la rivoluzione

Kairos. Alma Venus, Multitudo è un’opera costruita su una serrata concatenazione di concetti che sottolinea, come abbiamo visto, l’importanza dell’imputazione nominalistica nel tentativo di realizzare un atto di creazione politica, quasi a riprendere l’ipotesi di Benjamin circa la formazione di una soggettività plurale per incarnare “l’eros di coloro che creano”, che lui aveva individuato nella comunità studentesca. Quando Negri, sempre sulle orme di Machiavelli e di Spinoza, “nomina” la moltitudine per designare il soggetto portatore del potere costituente, compie un gesto coerente con la sua costruzione filosofica: è una chiamata certo arrischiata (e proprio per questo intimamente politica) ma ineludibile: occorre suscitare un soggetto agente che corrisponda alla vocazione rivoluzionaria dopo il tramonto della realtà di fabbrica:

Anche il nome “classe operaia” può venir meno: non perché la struttura antagonista della classe operaia si sia dissolta ma perché le forme in cui essa produce e lotta si sono trasformate. Proletariato, classe operaia, moltitudine: non rappresentano figure oppositive, rappresentano facce variabili ma omogenee di una composizione di resistenze e di lotta in movimento (Negri 2016).

La presentazione in scena della multitudo come protagonista della nuova fase costituente è uno dei punti più criticati della produzione negriana. Senza entrare in argomento (ma rimando al riguardo almeno a Elia Zaru, Marx nel Seicento? Negri e il ‘labirinto’ della prima modernità, in questo stesso numero di Engramma: Zaru 2025) si può comunque ricordare che quando Engels nominò la classe operaia “erede della filosofia classica tedesca” probabilmente molti avranno reagito con lo stesso scetticismo. Ma in questa sede importa sottolineare la portata filosofica del gesto negriano. La configurazione della società contemporanea, il suo molecolare pluralismo costitutivo, rendono impossibile la ricompattazione di una semplice ontologia sociale (l’utopia regressiva dell’ultimo Lukács, rilevata a suo tempo da Massimo Cacciari), dove le classi in contrapposizione siano nitidamente localizzabili su un piano geometrico. La pluralità costitutiva della compagine moltitudinaria promette di configurarsi come la forza antagonista capace di ambientarsi nel nuovo campo di lotta. Ma l’intuizione di Negri va oltre, perché è soprattutto rivolta a propiziare una soggettività che si riconosca in un compito che non si esaurisce nel programma minimo dell’equa allocazione delle risorse ma che invece consideri la giustizia sociale il presupposto per realizzare una produzione gioiosa di livelli di convivenza sempre più intensi, una raffinazione continua di senso nell’esistenza in comune.

L’eros politico di Toni si espone apertamente ma non si riduce mai a una vaga speranza. Consapevole che “i profeti disarmati ruinarono”, Negri costruisce un’armatura filosofica congegnata per un’impresa che tasta i limiti del possibile: verificare, nel senso di rendere vera e percepibile, la produzione sorgiva di elementi di realtà in grado di trasformare l’esistente, scovandone i punti di fragilità e indicando i varchi di passaggio. Una declinazione quasi fisica, tattile dell’indagine filosofica, sostenuta da “quella strana dura positività del solo pensiero coerentemente immanentista e materialista che fin qui abbiamo ripercorso” (Negri 2005, 28). Nell’arsenale negriano, anche le parole del lessico speculativo vengono piegate a designare indirizzi inediti: potere costituente, discontinuità materialista, metafisica, ontologia, produttività, contesto biopolitico, assemblea-assemblare, così come gli imprestiti machiavelliani e spinoziani come mutazione, multitudo, cupiditas, conatus, formano una costellazione di rimandi che eccedono la significazione consueta e rilucono di una nuova intenzionalità espressiva. Non si crea così un circuito gergale chiuso ma al contrario un apparato di cattura dotato di notevole attitudine espansiva. Infatti, la strategia metodologica di Negri

[…] consiste non solo nel tracciare linee di demarcazione rispetto alla tradizione idealistica, alla tradizione del potere, ma anche nello strapparne brandelli per risemantizzarli dentro una machina materialista capace di produrre effetti di liberazione. Troviamo nella costruzione teorica negriana termini provenienti da campi e tradizioni differenti: l’”innovazione” di Schumpeter, la “decisione” di Schmitt, la “povertà” e l’”amore” della tradizione cristiana, l’”eternità” e la “creazione continua” della tradizione teologica, la “monade” leibniziana, la “metamorfosi” goethiana, la nietzscheana “trasvalutazione”, il “kairos” e il “fato” greci, persino la “teleologia”. Per leggere Negri, come per leggere il suo maestro Spinoza, non ci si può abbandonare alla memoria semantica dei termini, farsi attrarre dalla loro forza evocativa; è necessario invece ripercorrere i nessi che egli istituisce all’interno del suo sistema, risemantizzando profondamente ciascuno di questi termini, per metterli al servizio della ridefinizione “ontologica” di un concetto-chiave del pensiero di Marx, quello di “lavoro vivo” (Morfino 2018, 104-105).

Lo stesso impianto marxiano inizia così a liberarsi dalle secche in cui si era incagliato, soprattutto – ma non solo – a causa dell’illegittima ipoteca iscritta dal socialismo reale e dal suo fallimentare esito e viene reimmesso nel corso fluido della potenza costituente. Ma il richiamo al lavoro vivo induce anche a chiedersi, conclusivamente: qual è la chiave per comprendere la potenza produttiva e l’inesauribile, vivente fertilità dell’opera di Toni Negri?

“Mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”

L’espressione di Machiavelli, contenuta nella celebre lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, con la quale annunciava il progetto del Principe, denuncia la fame politica di Niccolò, esiliato in Val di Pesa e l’impossibilità di privarsi di quel “vivere politico” che costituiva la ragion d’essere della sua esistenza, come traluce da tutti i suoi scritti:

Parlare, discorrere, disputare di politica sono atti a cui non si può rinunciare perché appartengono alla sfera delle necessità. E verrebbe da dire che Machiavelli di politica avrebbe voluto continuare a ragionare anche dopo la morte; anzi verrebbe da dire che, pur di proseguire le sue conversazioni politiche sarebbe volentieri andato all’inferno, popolato da “uomini da bene” (Figorilli 2014, 162-163).

 E di fame parla anche Artaud presentando Il teatro della crudeltà:

La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre, da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame (Artaud [1932] 1968, 127).

Niente di meno retorico potrebbe richiamare la cupiditas intellettuale e la fame politica, quasi fisicamente avvertita, “la forza di vita” di Toni Negri. Qualche anno fa, un manifesto attaccato dalle parti dell’università di Pisa assicurava: “È impossibile che la rivoluzione sia impossibile, perché noi, per vivere, abbiamo bisogno di farla”.

Riferimenti bibliografici
English abstract

Following Plutarch’s formula, the article poses a question: is it possible to speak of “parallel lives” for Machiavelli and Negri? The argument focuses, above all, on the radical nature of their political proposals, on the use of the legacy of the Classical tradition to express new and unprecedented meanings, on the qualitative and contracted conception of the time factor in the unfolding of revolutionary events. Negri liberates Machiavelli from the conservative interpretations of his thought and presents him as the first of a series of authors (Spinoza and Marx, but also others) who discover the “potere costituente” (“constituent power”) – the democratic power of the “multitudo” in opposition to the established order – which always escapes the constitutional and juridical forms where it might be to neutralised. Inspired by Machiavelli, Negri constructs a philosophical machine aimed at challenging the political, social, and cultural structures that have prevailed in modernity and the present. But there are also strong similarities between the biographies of the two authors: both suffered imprisonment and exile for their political commitment, both took an active stance, and both learned from their defeats without ever resigning. Negri as a reader of Machiavelli, but also the “parallel lives” of Machiavelli and Negri: the intensity of their political passion was so compelling that it involved them not only on an intellectual level, but also on an existential and even biological level, both physically experiencing the hunger for politics: “quel cibum che solum è mio” (“the only food that is mine”), as Machiavelli said.

keywords | Antonio Negri; Niccolò Machiavelli; Plutarchus’ Parallel Lives.

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Per citare questo articolo / To cite this article: P. Nanni, Niccolò Machiavelli e Antonio Negri. Vite parallele?, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.221.0006