"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

Lo squarcio dei classici

Antonio Negri: Machiavelli, Spinoza, Marx

Giacomo Marramao

English abstract

Per il contributo Lo squarcio dei classici. Antonio Negri: Machiavelli, Spinoza, Marx l’Autore ha preso spunto, rielaborando e integrando il testo in modo importante, dal suo intervento alla Fondazione Basso il 22 gennaio 2025; la giornata di studi, coordinata da Nicolas Martino, è stata introdotta da Maurizio Locusta, responsabile della Biblioteca della Fondazione Lelio e Lisli Basso (il video completo del Seminario è a questo link).

Il compito che mi sono assunto in questo nostro incontro su “Antonio Negri e i classici” è di parlare dei tre autori lato sensu classici che erano al centro dell’attenzione di Toni: Machiavelli, Spinoza e Marx.

Con una premessa. Toni aveva una straordinaria capacità di operare degli squarci nella logica dei classici, allo scopo di enuclearne il nucleo politico. Squarciava i classici. E questo rendeva la sua chiave di lettura sempre maledettamente perspicua e fecondamente sconvolgente. Al punto da fare emergere la dimensione politica anche in un autore come Cartesio. Abbiamo tutti presente Descartes politico, o della ragionevole ideologia: un libro del 1970 (Negri 1970) su cui ebbi modo di discutere all’Università di Firenze con uno storico della filosofia severo ed esperto del tema come Eugenio Garin, che lo giudicò molto positivamente. Era, in effetti, un libro per molti aspetti sorprendente: uno squarcio operato su un classico del razionalismo moderno, e su quel testo Negri tornò molti anni dopo con un saggio dal titolo di stampo foucaultiano che ne smorzava l’impatto: Descartes politico: metafisica e biopolitica (Negri 2004).

Ma lo squarcio più significativo viene operato da Toni all’interno dei classici a lui cari. Andiamo a vedere come lui legge questi autori. Incominciamo da Machiavelli, partendo dal tema del conflitto. Dire conflitto vuol dire molto poco. L’abbiamo detto in tanti, dalle prospettive più diverse. Il conflitto in sé non significa niente. Toni diceva un’altra cosa. Il tema del conflitto in Machiavelli è uno squarcio. Uno squarcio operato sulla koiné rinascimentale fiorentina da un materialismo di origine atomistica e lucreziana. Tema di cruciale importanza. Appena trasferito a Roma dopo una mia lunga permanenza all’Università di Francoforte, mi sono trovato in casa quasi ogni settimana Sergio Bertelli, mio caro amico e grande storico, il quale aveva per l’appunto documentato che Machiavelli aveva ricopiato interamente il De rerum natura di Lucrezio. Si tratta di un nodo molto importante e di una storia lunga, rigorosamente documentata da Monica Centanni su Engramma nei termini che seguono:

Nei primi decenni del ’400 gli umanisti italiani sono impegnati in un ludus collettivo, intricato e appassionante: l’esplorazione delle biblioteche – italiane, bizantine, tedesche, francesi, fino all’Inghilterra e all’Europa del nord – alla ricerca di opere perdute di autori antichi. Memorabile la “partita di caccia” promossa da Poggio Bracciolini, segretario papale, nelle more del Concilio di Costanza (1414-1418): nel corso delle avventurose esplorazioni nei monasteri di area germanica (in cui sarà recuperata fra l’altro l’Institutio Oratoria di Quintiliano) Poggio Bracciolini rintraccia, nel 1417, in un monastero dell’Alsazia, un manoscritto contenente il De rerum natura di Lucrezio. In una lettera all’amico veneziano Francesco Barbaro, Poggio scrive: “Lucretius mihi nondum redditus est, cum sit scriptus. Locus est satis longiquus, neque unde aliqui veniant. Itaque expectabo quoad aliqui accedant qui illum deferant: sin autem nulli venient, non praeponam publica privatis”.

Dall’epistola si deduce che Poggio ne praeponeret publica privatis non si trattenne nel convento per leggere e copiare personalmente il testo, ma affidò il compito a un copista locale. Appena avuto l’esemplare, lo aveva mandato a Niccolò Niccoli ché provvedesse a trascriverlo. In tre lettere datate alla primavera del 1425, e poi di nuovo nel settembre 1426, e ancora nel 1429, Poggio richiede insistentemente a Niccoli la restituzione dell’esemplare, reclamando il “suo” Lucrezio e rimproverando all’amico di averlo trattenuto per ben dodici anni (in un passaggio esagera e scrive “quattuordecim”) senza dargli neppure il tempo per finirne la lettura. Non è chiaro se Niccoli avesse restituito una prima volta il prezioso esemplare a Poggio (che poi gliel’avrebbe prestato di nuovo), o se lo avesse trattenuto presso di sé per tutti quei lunghi anni. Sta di fatto che le notizie che ricaviamo dalla corrispondenza con gli amici umanisti ci consentono di ricostruire le vicende della prima circolazione dell’opera lucreziana, paradigmatiche per le modalità della comunicazione sui testi ritrovati, della copiatura e della circolazione degli esemplari, della bella gara fra gli studiosi in concorrenza fra loro per recuperare, prima degli altri, la propria copia e poi metterla a disposizione degli amici corrispondenti. L’esemplare trascritto per Poggio è perduto, ma dalla copia del Niccoli, ora conservata alla Biblioteca Laurenziana di Firenze (Laur. XXV, 30) deriva tutta la famiglia dei codici Italici, uno dei due rami in cui è divisa la tradizione del testo di Lucrezio. [...] In una prima fase l’opera di Lucrezio è oggetto, da parte degli umanisti, di un entusiasmo squisitamente letterario ed erudito; in parallelo va il successo della riscoperta della filosofia epicurea, anche grazie al recupero da Costantinopoli di un manoscritto delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio (che contiene anche la Vita di Epicuro), già nel 1433 tradotte in latino da Ambrogio Traversari, in una versione che, a contare il numero di copie superstiti, ebbe una notevole diffusione. Per quanto riguarda il ruolo del De rerum natura nella cultura del Rinascimento fiorentino, dobbiamo a un recente studio di Alison Brown la sottolineatura dell’importanza dell’opera, in un senso tutto particolare. A Firenze, a cavallo tra XV e XVI secolo, il pensiero di Lucrezio, recepito e promosso grazie all’opera pionieristica di Marsilio Ficino e poi di Bartolomeo Scala [...], è rivalutato non tanto per l’eccezionale qualità letteraria dell’opera e neppure per l’aspetto strettamente filosofico dei suoi contenuti, quanto piuttosto per la novità e il significato sovversivo delle sue idee. In questo senso, Lucrezio a partire dal 1494, è al centro dell’“interesse di giovani fiorentini che, appartenenti a famiglie inimicatesi ai Medici, trovarono [in questo autore] una voce per esprimere il proprio anti autoritarismo”. E, al centro di questo circolo di intellettuali, c’è una figura tutta da studiare sotto questo rispetto: “Lorenzo [di Pierfrancesco] e il fratello Giovanni [che] promisero una cultura alternativa al fine di rimpiazzare l’idealismo platonizzante degli spodestati cugini” (Brown [2010] 2013, 14; 18). È in questa cornice che va inscritta l’importantissima scoperta di Sergio Bertelli che nel 1961 riconobbe la grafia di Machiavelli in un codice che contiene una trascrizione del De rerum natura, ora conservato presso la Biblioteca Vaticana. Si tratta del Rossianus 884 che contiene, oltre all’opera di Lucrezio, una trascrizione dell’Eunuchus di Terenzio (Centanni 2016, 99-100).

Andiamo allora a vedere, alla luce di questa ricostruzione, in cosa consiste lo squarcio operato da Toni su Machiavelli: non solo il conflitto come tale, ma un conflitto radicato in un materialismo di origine atomistica e lucreziana. Attenzione, questo è già un primo squarcio. Non c’era prima di allora, non c’era nell’accademia precedente. Non era stata mai visualizzata una cosa del genere. L’ho discusso a lungo a Parigi, questo tema, con Fournel e Zancarini, i due curatori dell’opera di Machiavelli in Francia. E poi ho avuto un intenso scambio con il compianto Jean-Luc Nancy e Étienne Balibar, dove Nancy diceva una cosa foucaultiana completamente sbagliata, e cioè che Machiavelli sarebbe all’origine del concetto moderno di sovranità: una totale falsità. Mentre invece Étienne era d’accordo con la mia tesi, che Machiavelli non c’entra nulla col tema della sovranità, e vedremo per quale ragione. 

Altro aspetto nodale che Toni aveva messo in evidenza riguarda la teoria degli umori in Machiavelli. Attenzione, anche questo è un tema che è stato varie volte ripreso o vagamente menzionato, ma mai attentamente considerato. Gli umori sono di due tipi, e in controluce con le parole di Machiavelli sembra di vedere anche la democrazia dei nostri tempi. Gli umori del popolo o gli umori dei grandi. Gli umori dei grandi: aristocratici, potenti, ricchi, come vogliamo chiamarli, eccetera. Da questi umori nascono due effetti: l’effetto di libertà o l’effetto del principato. Su questo punto, libertà o principato, occorrerà ritornare. Ma il punto saliente che vediamo qui emergere in Machiavelli è una discontinuità radicale rispetto alla tradizione umanistica rinascimentale. Qualcosa di più e di altro da quello che io e Massimo Cacciari abbiamo definito “umanesimo tragico”.

Aveva ragione Toni, non è neanche quello il punto fondamentale. Qui siamo in presenza di un nuovo scenario: di una vera e propria frattura rispetto alla tradizione umanistica rinascimentale. Una rottura della tradizione, della concordia ordinum. Per istituire invece – secondo quello che Monica Centanni e Peppe Nanni hanno efficacemente definito “uso sovversivo della tradizione classica” (Centanni, Nanni 2016) – un vincolo tra tumulti e prosperità. Ancora una volta, quindi, se vogliamo porre in evidenza un rapporto stretto tra la dimensione del conflitto e il suo radicamento materialistico, dobbiamo chiamare in causa l’idea della “repubblica ardente”. Fantastica espressione di Machiavelli, che fa pensare ai suoi incontri con i giovani degli Orti Oricellari.

Andiamo ancora avanti. Uno dei nodi cruciali, sine quibus non, è rappresentato dalla rottura di Machiavelli con l’idea per cui al centro della politica vadano poste le idee di unità e la stabilità. Sembra qui di sentire i nostri politici: di destra, sinistra, centro, sopra, sotto, chiamateli come volete. Tutti irretiti dalla taumaturgia dell’Uno, dell’Unità ad ogni costo. Tutti convinti che il problema fondamentale della democrazia sarebbe quello di garantire unità e stabilità. Perché questi sarebbero i fondamenti di uno Stato solido. Ebbene, Machiavelli dice l’esatto contrario: uno Stato solido si regge sul movimento e sul conflitto. Questo è il punto. E, guardando indietro a Roma, la libertà può essere garantita soltanto dal contrasto tra plebe e Senato. Quando nel Senato si allenta il contrasto, viene meno anche il fondamento stesso della libertà e la società vede sgretolarsi il suo stesso impianto strutturale.

Ma, procedendo lungo questa traiettoria, non è forse vero che Machiavelli è il primo in Occidente a introdurre il neologismo ‘stato’ nello splendido incipit del Principe? Rileggiamolo nella bellissima macchina linguistica del fiorentino, in procinto di diventare lingua nazionale:

Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati (Il Principe I, 1-2).

Attenzione, anche qui c’è uno squarcio. Anzi: assistiamo a un duplice squarcio. In primo luogo, ‘stato’ – termine destinato a diventare uno dei concetti-chiave della politica moderna (basti pensare che nel Leviatano Hobbes lo introduce come sinonimo dell’inglese Commonwealth e del latino civitas) – è inteso da Machiavelli in ogni caso come la sintesi di status reipublicae. E poi, appunto, ancora uno squarcio: repubblica o principato? Attenzione, non più la pluralità delle forme di governo degli antichi: monarchia, aristocrazia, democrazia, con i loro rovesci negativi. No, non più quello. Ma due sono nella modernità le soluzioni. O principato o repubblica, altre non ce ne sono. Non più le classiche forme di governo di Aristotele e Polibio, non più la triade monarchia-aristocrazia-democrazia con le sue forme “difettive e corrotte” (tirannide-oligarchia-oclocrazia). E soprattuto non più assumibili come un ritmo regolare di successioni.

A tale riguardo Machiavelli introduce nei Discorsi un altro tema molto importante: l’elemento lucreziano della contingenza. Il circolo lungo il quale, cito a memoria, le repubbliche girano, dice nei Discorsi, “accade a caso intra gli uomini”. A caso. Non secondo la classica scansione, la φύσεως ἀνάνχη, la necessità naturale che faceva succedere le forme di governo secondo un ciclo regolare destinato a ripetersi quasi aritmeticamente. Non vi è più nessuna possibilità di fondarsi su una regolarità della successione. Le forme di governo accadono, si scompaginano e intrecciano le une con le altre. In un mio libro recente mi capitato di definire Machiavelli come il primo teorico della “congiuntura”: anticipatore, in questo, della vera Scienza Nuova della modernità, l’economia politica (cfr. Marramao 2004, parte II, Dante e Machiavelli, 66-ss.).

Ma è proprio in questo emergere della contingenza nella dimensione della politica che vediamo già affacciarsi Spinoza e Marx. I temi della immanenza e dell’insorgenza, sono categorie senza le quali non si comprende il senso della lettura negriana di Machiavelli, ma neppure, lo vedremo tra poco, la sua lettura di Spinoza, imperniata sulla centralità del posse: del tema non del potere, ma della potenza. La libertà non viene dal potere, viene dalla potenza, dalla potenza di ciascuno di noi, e questo è il posse, il tema fondamentale. E lì, quindi, l’interpretazione che Toni dà di Machiavelli, e poi anche di Spinoza in rapporto con questo tema della potenza e del posse, è una lettura radicalmente lontana dalle tesi di Quentin Skinner (ci ho litigato tanti anni fa a New York su questa, come dire, riduzione banalmente neo-repubblicana delle tesi di Machiavelli), così come da quella di John Pocock. Per Machiavelli, il problema della “repubblica ardente” e il problema del principato nuovo nella interpretazione di Toni sono due facce della stessa medaglia. Perché il Principato Nuovo, secondo Machiavelli, si identifica alla fine con il popolo. E c’è quella dedicatoria a Lorenzino dei Medici, il nipote di Lorenzo dei Medici, nel Principe in cui Machiavelli dice, in sostanza: ottima è quella repubblica nella quale un principe vede le cose dal punto di vista del popolo e il popolo dal punto di vista di chi deve governare. Esattamente il contrario di quello che accade nelle nostre democrazie. Dove abbiamo un vero marchingegno dell’ingovernabilità. Dove chi critica non ha un’idea di come si governa e chi governa non possiede alcuna conoscenza effettiva delle forme di vita e dei bisogni del popolo. In quelle scarne parole Machiavelli pone in evidenza qual è il vero problema del governo. E, grazie a questa drastica e illuminante analisi, il Segretario Fiorentino ci ha fornito una chiave per afferrare i problemi delle democrazie contemporanee.

Andiamo a Spinoza. Con Spinoza – dice Toni – l’idea di multitudo trasforma il potenziale rinascimentale utopico e ambiguo da cui è caratterizzato in progetto e in genealogia del collettivo. Questa è la sua affascinante tesi. Solo così la metafisica in Spinoza può diventare ontologia politica. Vedete come qui si annodano i fili. Ma se non c’era un cervello come quello di Toni per annodarli tutti insieme non avremmo potuto coglierli nella fecondità delle loro intersezioni.

Prendiamo ad esempio il termine ‘istituzione’, ritornato da qualche anno al centro di alcune disquisizioni filosofiche. È un bel problema. Ma per Toni, come per Spinoza, c’è soltanto una possibile istituzione: l’istituzionalizzazione del comune. Ogni altra istituzione è un sovraccarico. Se non si afferra questo, non si capisce proprio niente. Ma è proprio su questo punto, a guardar bene, che Machiavelli e Spinoza stanno insieme: proprio perché entrambi determinano una frattura enorme rispetto al repubblicanesimo di accademici anglosassoni come Quentin Skinner. Provate a pensare allo Spinoza del Trattato politico quando dice io non c’entro niente con Thomas Hobbes. Non c’entro niente con i seguaci del Leviatano, del gelido mostro. Non c’entro niente con quella tradizione. Mi schiero piuttosto dalla parte di Machiavelli, dice, non nel Trattato teologico-politico, ma nell’opera più tarda, il Trattato politico: sono a favore dell’“acutissimus Machiavellus”, pensatore della libertà e della vita, mentre Hobbes è pensatore della paura e della morte. Più netto di così!

È da qui, osserva Toni, che dobbiamo partire. Nella sua prospettiva, la metafisica diviene ontologia politica e questo è il primo aspetto che mi pare importante. Per questa via egli riesce a introdurre il Politico con una sorta di movimento sagittale in qualunque autore. E questo modo di leggere i classici ha fatto di lui uno dei più grandi teorici della politica che ci siano stati al mondo: tanto è vero che Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, il libro scritto insieme da Negri e Hardt, ha tenuto la cima delle classifiche negli Stati Uniti per mesi e mesi.

Ma è proprio in questa importante opera che Toni opera uno squarcio sul terzo dei suoi grandi classici di riferimento: Karl Marx. Il punto di partenza della sua argomentazione tiene insieme i suoi tre classici di riferimento in un’asserzione quasi programmatica: “La libertà machiavelliana, il desiderio spinoziano e il lavoro vivo di Marx sono concetti che possiedono un indubbio potere di trasformazione” (Hardt, Negri [2000] 2001, 177). E tuttavia…

E tuttavia il mondo dell’Impero non è più quello delineato da Marx nel Capitale: il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale problematizza l’unidimensionalità della descrizione di Marx, non solo per la sussunzione del sistema culturale nella logica industriale (evidenziata a suo tempo da teorici francofortesi come Adorno e Horkheimer), ma per l’assorbimento dell’intera società civile dentro i meccanismi della dominazione. Il concetto di Impero istituisce pertanto un “nuovo paradigma del potere” che mette in crisi le vecchie teorie del diritto internazionale (Hardt, Negri [2000] 2001, 41). Una diagnosi ancora oggi in grado di gettare luce sulle logiche costitutive del potere globale e sui modi in cui è possibile contrastarle e sovvertirle.

Da ultimo. Toni che è quello che ha posto al centro un tema secondo me decisivo: quello del rapporto con la memoria, con il passato. Qui il tema del politico si intreccia con il concetto di poiesis. È la conclusione del mio libretto Modernità di Dante: “Le poetiche anticipano sempre le politiche” (Marramao 2024, 77-79). Le poetiche in senso lato, non solo la poesia, ma l’arte, il teatro, il cinema, qualunque forma di espressione della poiesis anticipa le politiche. Avete mai visto una rivoluzione politica prima di una rivoluzione dei linguaggi? Io non l’ho mai vista. Ogni rivoluzione è anticipata da altri fenomeni capaci di dar luogo a radicali cambiamenti delle forme di vita. Toni questo lo sapeva. Non era semplicemente quello che si dice totus politicus alla maniera di Mario Tronti – anche se Tronti è stato grandioso da quel punto di vista e negli ultimi anni è venuto arricchendo la politica con la dimensione teologica. Ma in Toni c’è una pulsione poetica molto forte che si manifesta non solo nella sua passione per Leopardi ma si ritrova nella parte finale della postfazione all’edizione inglese del mio libro Passaggio a Occidente. Bisogna pensare – scrive Negri – all’umanità del Tremila come una moltitudine di donne e uomini capaci di riprendere il meglio dei movimenti poetici del passato (Negri 2012, 245).

Riferimenti bibliografici
English abstract

This paper is a version, expanded by the author, of his lecture given at the Seminar at the Fondazione Basso (Rome) on 22 January 2025, introduced by Maurizio Locusta and coordinated by Nicolas Martino. At the heart of Giacomo Marramao’s talk are three classics, three themes: Machiavelli and the theme of conflict; Spinoza and the theme of power; Marx and the theme of insurrection - seen from the perspective of the cut, the wound that Negri makes in order to extract the core of the political from the body of the classics.

keywords | Antonio Negri; Classics; Machiavelli; Spinoza; Marx

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Marramao, Lo squarcio dei classici. Antonio Negri: Machiavelli, Spinoza, Marx, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.

questo numero di Engramma è a invito: la responsabilità della selezione e della revisione dei contributi è dei curatori e del comitato editoriale della rivista

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.221.0011