"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

221 | febbraio 2025

97888948401

Antonio Negri e Machiavelli

Il realismo politico tra modernità e postmodernità

Tania Rispoli

English abstract

L’ultimo libro della quadrilogia a quattro mani che Antonio Negri ha scritto con Michael Hardt, Assemblea, si chiude con un appello che gli autori definiscono, sulla scorta di Niccolò Machiavelli, “esortazione alla virtù” (Hardt, Negri [2017] 2018, 375). Il riferimento è all’exhortatio che chiude Il Principe, vale a dire il capitolo XXVI, in cui Machiavelli, utilizzando un genere conclamato in epoca rinascimentale, quello degli specula principis, si rivolge ai Medici (nella veste secolare di Lorenzo e in quella religiosa di Giovanni di Lorenzo de’ Medici, allora Leone X) per “liberare la Italia da’ barbari” (Il Principe, ed. Martelli [1971] 2018, 901). La penisola, infatti, si trovava “senza capo, senz’ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa” e aveva, persino, “sopportato d’ogni sorta ruine” (Il Principe, ed. Martelli  [1971] 2018, 701). Così, proprio lì, dove massima è la “difficoltà” e dunque la “disposizione” alla pratica della virtù appariva a Machiavelli possibile creare degli “ordini” nuovi, di tipo civile-giuridico e militare, per limitare l’intrusione delle guerre continue che attraversavano il territorio, spesso alimentate dai nascenti Stati-nazione, più organizzati dal punto di vista burocratico oppure militare. Hardt e Negri traducono questo passaggio che spesso è stato letto sotto il segno del patriottismo e del nazionalismo come un’esortazione a una virtù nuova, di tipo moltitudinario. Con la fervida preoccupazione di identificare delle possibilità rivoluzionarie e trasformatrici, dopo lo scioglimento della Rivoluzione russa del 1917 nell’ipotesi sovietica e poi la sconfitta delle rivoluzioni degli anni 1960-1970, i due autori negli ultimi venticinque anni si sono occupati di diagnosticare e teorizzare il futuro di quella che una volta veniva definita lotta di classe, nel contesto della rinascita dei movimenti sociali globali. L’esortazione alla virtù, dunque, non è più la chiamata a un Principe individuale, a un principio di sovranità o di politica tradizionale, ma a un conflitto spesso disseminato e carsico che però organizza dei modelli politici nuovi. Si tratta di un appello, al contempo, all’assemblaggio – la dinamica reticolare che connette forme di produzione e riproduzione sociale – e all’assemblea, intesa come spazio temporaneo di concentrazione, all’interno del quale sperimentare nuove pratiche politiche e istituzioni del comune.

Pur partendo dalla fine del suo lascito scritto, ciò che in questo articolo voglio mostrare è come e quanto – all’interno di un tessuto di riferimenti filosofici complessi che va da Baruch Spinoza a Michel Foucault, da Karl Marx a Gilles Deleuze – Machiavelli sia stato essenziale per la costituzione e lo sviluppo del pensiero politico di Antonio Negri. Al Segretario fiorentino, Negri è sempre tornato per via non solo di quello stile che lo storico americano Felix Gilbert considerava “repellente o profetico, sconcertante o rivelatore”, ma in quanto pensatore che viene considerato fondamento della teoria politica moderna come tale (Gilbert [1965] 2012, 137). Machiavelli, inoltre, ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo storico di quella stessa teoria perché era stato, già quasi immediatamente post-mortem, oggetto di feroci controversie. Siamo nel 1530 quando Reginald Pole lo accusa di immoralismo corrotto fino a definirlo disumano. Il Principe viene bandito e inserito nell’Indice dei Libri Proibiti nel 1559, in quanto libro inaccettabile per la dottrina della Chiesa cattolica. E, tuttavia, non va meglio in ambiente protestante, al punto che persino Shakespeare, nell’Enrico VI, riconosce di Machiavelli il tratto omicida. La storia dell’anti-machiavellismo raggiungerà almeno tutto il XVIII secolo, travolgendo anche le mire illuministiche (e assolutistiche) di Federico II di Prussia, nonché Voltaire e Denis Diderot: una storia fatta di accuse di immoralismo, irreligiosità, disumanità, contrarietà alla formazione universalistica e razionale del pensiero europeo occidentale. Ma, all’interno della stessa tradizione del machiavellismo (con il che intendo l’uso di Machiavelli come fonte), il Segretario fiorentino ha ispirato pensatori, teorie ed esperienze politiche ben diverse tra loro – si pensi alla ripartizione interna alle teorie del contratto con Thomas Hobbes da una parte a rappresentare l’assolutismo e Baruch Spinoza dall’altra a prefigurare un’ipotesi di democrazia assoluta. Negri, di queste letture rivali che poi si traducevano in veri e propri usi di Machiavelli nella prassi politica, è non solo ben consapevole, come emerge già nel testo capitale del 1992 in cui si confronta con l’opera del Segretario – Il Potere costituente: saggio sulle alternative del moderno –, ma a sua volta offre una lettura che utilizza quegli scritti in modo molto specifico. Se nella storia del pensiero di Machiavelli non si può che sempre includere la storia della ricezione che della sua opera si è fatta, l’interpretazione di Negri, proprio per la sua specialità segna un punto di svolta nella afterlife di quella esegesi (l’esempio più di rilievo di quel che ha ispirato l’interpretazione di Negri nella rilettura di Machiavelli è Del Lucchese 2004, 2015). 

La scuola storica italiana di stampo idealistico rimodernato, già a partire dagli Scritti su Machiavelli e Scritti sul Rinascimento di Federico Chabod e i saggi di Delio Cantimori, si era sempre cimentata con la ricostruzione del pensiero di Machiavelli. La riprova si trovava stampata in una delle opere capitali di Gennaro Sasso, Il Pensiero politico di Niccolò Machiavelli del 1964, con ristampa in due volumi nel 1993 (Sasso [1964] 1993). All’Istituto italiano per gli studi storici, allora diretto da Federico Chabod, Negri fu uno dei borsisti nel 1956, subito dopo aver discusso la sua tesi di laurea Saggio sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke. Il suo avvicinamento a Machiavelli, dunque, avviene più per via tedesca, sotto il segno dello storicismo, che per via italiana, dunque idealistica (con l’eccezione dell’influenza di Chabod), dal momento che proprio Wilhelm Dilthey e Friedrich Meinecke ne erano stati interpreti di rilievo. Secondo Dilthey, Machiavelli aveva rivitalizzato il “pensiero romano del dominio”, proponendo così una versione immanente e secolarizzata “dell’esperienza religiosa” (Negri 1959, 113-114). Per Meinecke, invece, rappresentava il prodromo della teoria della ragion di Stato, che doveva essere soprattutto esaminata nella sua genesi storiografica. In altre parole, per comprendere lo sviluppo della modernità del potere, per come esso si presenta, occorre rintracciarne la formazione causale nel corso del tempo. Non è quello di Meinecke, secondo Negri, un Machiavelli tratteggiato come “melanconico segretario” ma “rassomiglia piuttosto a una [dirompente] forza vitale”, perché accanto alla disamina del potere (del fatto oggettivo del potere) vi è anche quella della dialettica tra virtù e fortuna (la soggettività degli attori in gioco) che contribuisce a complicare il quadro del rapporto tra oggettivo e soggettivo persino nel cuore dello sviluppo della modernità politica (Negri 1959, 237). Con le parole di Negri in riferimento a Meinecke:

Su tale base concettuale l’idea della ragion di stato è scoperta, e d’allora la formulazione del realismo machiavellico permane come sfondo inquietante in tutta la speculazione politica. Seguire lo sviluppo dell’idea diviene perciò un indefinito muoversi attorno a questo magnete, un succedersi di azioni e reazioni, di accettazioni e resistenze (Negri 1959, 237).

Lo storicismo, dunque, mette in crisi la costituzione dell’idea stessa dello Stato proprio perché assume, realisticamente, a partire da Machiavelli, quello scontro tra forze oggettive e soggettive che è anche alla base del pensiero marxista. Questi primi studi, dunque, si incontrano proficuamente con l’esperienza politica diretta, a partire almeno dal 1962, con i nuclei operai delle fabbriche in rivolta a Marghera e a Torino, e con l’espansione di quelle lotte agli studenti e poi alle donne dei circoli femministi. L’idea, come ha sostenuto di recente Sandro Chignola, che “non [sia] possibile fare la storia dello Stato moderno senza fare anche la storia della società civile”, nasce al crocevia tra studio dello storicismo, del conflitto tra formalismo e materialismo giuridico e l’esperienza di prima mano dell’Autonomia (Chignola 2024). Come emerge già da quel primo libro sullo storicismo tedesco, per comprendere storicamente lo sviluppo della modernità, tuttavia, bisogna rivolgersi alla sua strutturale dualità, sia essa tra idea e storia, oppure tra soggettivo e oggettivo, così che la scienza politica possa essere intesa, contro la visione allora dominante che essa sia anzitutto scienza dello Stato e del potere, sotto il segno della sua strutturale instabilità. Il conflitto sociale e politico anima le maglie della strutturazione del potere e persino della sua apparente stabilizzazione giuridica nella forma della costituzione.

Questo problema, che costituisce l’obiettivo di fondo del Potere Costituente, ovvero leggere la modernità sotto il segno del dualismo, viene anticipato da Negri nell’edizione del 1981 dell’Anomalia Selvaggia, il libro scritto in carcere, dedicato allo studio dell’opera spinoziana. Ispirato dalle mediazioni francesi della fine degli anni Sessanta di Gilles Deleuze e Alexandre Matheron, Negri si interessa all’olandese in quanto rappresentante di una filosofia dell’immanenza, di una nuova etica pratica centrata sulla coincidenza tra atto e potenza e di una politica orientata alla democrazia assoluta. Lì comincia a prendere forma l’idea che si possa pensare a “un’ontologia positiva” che faccia da contraltare alla “linea sovrana Hobbes-Rousseau-Hegel”, da una parte, e a quella “fine della storia” promossa dalle ideologie neoliberali degli anni Ottanta e non contrastate in ambito filosofico dai post-modernismi deboli di Lyotard e Baudrillard, dall’altra (Negri [1998] 2006, 392-396, in particolare 394-395). Lo stesso Gilles Deleuze riconoscerà questo intento quando scriverà, a proposito dello Spinoza di Negri, “che esso si inserisce in una tradizione antigiuridica che passa da Machiavelli e approda a Marx” (Deleuze 2006, 6). L’ontologia si oppone al diritto nel quadro rivoluzionario di una “filosofia dell’avvenire” (Deleuze 2006, 9). Già nell’Anomalia selvaggia, dunque, si pone la necessità, secondo le parole dello stesso Negri, di “scendere alle origini di un’alternativa di pensiero (quella della rivoluzione rispetto alla genesi dell’ordinamento capitalistico)”, ricostruendo quel “travaglio antagonistico del pensiero innovativo dell’età moderna” al cui centro ci sono, sì, Spinoza e il repubblicanesimo rivoluzionario inglese, ma al suo termine ideale Marx e, nelle sue premesse, Machiavelli (Negri 2006, 26). Non si tratta solo del fatto bibliograficamente accertato che il Segretario fiorentino avesse fatto parte della “biblioteca di Spinoza” (accanto ai testi della tradizione ebraica, scolastica e cartesiana), ma della simmetria dei contenuti per cui la costituzione è l’effetto di una potentia e non di una potestas – un tumulto o una forma di resistenza prima e oltre l’insorgere della sovranità (Negri 2006, 37, 153-154).

All’interno del Potere costituente, che è l’opera in cui Machiavelli viene da Negri più compiutamente trattato, tuttavia, non confluisce soltanto l’interesse storicistico ma anche quello materialistico per la storia, e neppure lo studio di Spinoza degli anni Ottanta. C’è una terza linea che è quella dello studio della filosofia del diritto e del problema della costituzione in quanto tale dentro e oltre lo Stato. Tra il 1962 e il 1964, Negri pubblica e redige Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani tra il 1789 e il 1802, Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Scritti di filosofia del diritto, e il saggio “Il lavoro nella costituzione” poi pubblicato nel 1977 all’interno del volume La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione. Non solo la forma giuridica, come la costituzione italiana del 1948, fondata sul lavoro, trova un punto di attrito nella continua riemersione del conflitto sociale, ma quella stessa costituzione, da un lato, informa, letteralmente dà forma ai rapporti di produzione sottostanti e, dall’altro, viene di volta in volta messa in crisi, se non stravolta da quegli stessi rapporti, per esempio nella tendenziale privatizzazione delle funzioni pubbliche (Chignola 2024). Tutti temi che si ritroveranno anche in saggi più tardivi, quali Crisi dello Stato-piano. Comunismo e organizzazione rivoluzionaria del 1974, poi confluiti nei cosiddetti Libri del rogo (Negri [1974] 2006, 19-64).

Notando il limite della formalizzazione giuridica del potere costituente, in quanto esso si presenta nella forma rivoluzionaria che per sua natura “resiste […] alla costituzionalizzazione”, Negri afferma che la filosofia del diritto – sia quella normativa di Georg Jellinek e Hans Kelsen sia quella realistica di Max Weber e Carl Schmitt – ha teso a considerare il potere costituente come fonte originaria di un potere committente (rivolto all’esecutivo o alla dittatura) o rappresentativo (Negri [1992] 2002, 7-8). Esso, dunque, è il “concetto di una crisi” che si manifesta nell’oscillazione tra il tentato assorbimento del principio conflittuale e rivoluzionario in un preciso ordinamento giuridico e la sua continua forza di riemersione (Negri [1992] 2002, 8). Anche la corrente istituzionalista del diritto, così come era stata proposta da Costantino Mortati, non era riuscita a sciogliere la tensione tra costituzione formale e costituzione materiale (si veda la ricostruzione fondamentale di Ricci 2024)[1]. La prima “si impianta” sulla seconda, che però “è formata da un insieme di gruppi e forze” (Negri [1992] 2002, 16-17). In questa tensione, quello che si riproduce è “un movimento incessante” tra società e tentativi di istituzionalizzazione e mediazione istituzionale (Negri [1992] 2002, 17). Di contro all’insufficienza di una definizione della sovranità e dei suoi poteri come di un sistema che si fonda sui “checks and balance”, e che dunque assorbe il potere costituente all’interno dell’ordinamento giuridico (nonché di un dato modello costituzionale e della rappresentanza), occorre pensare quello stesso concetto “come forza irruente ed espansiva” mettendo in luce la “precostituzione sociale della totalità democratica” (Negri [1992] 2002, 18).

Ma chi è il soggetto di questa nuova concezione aperta del potere costituente che può diventare generativo di democrazia assoluta nel presente? Secondo Negri la scienza giuridica ha teso a considerare il problema del soggetto a partire dalla possibilità del suo adeguamento alla struttura giuridica, elaborando concetti quali nazione, popolo, attori sociologici (Negri [1992] 2002, 35-37). Queste nomenclature costituiscono delle istanze di razionalizzazione rivolte a modernizzare “la creatività umana e collettiva” del lavoro vivo per sussumerla nel “modo di produzione capitalistico” (Negri [1992] 2002, 371). La teoria del potere costituente assume rilievo in quanto riesce a definire (come già era negli interessi del marxismo autonomo degli anni ’70) la relazione tra soggetto e rivoluzione. E, tuttavia, qui il soggetto non si dà in forma precostituita e limitata ma include una pluralità moltitudinaria di figure che sono allo stesso tempo politiche e sociali e la rivoluzione viene, come scrive Negri, sdrammatizzata, diventando “il desiderio di trasformazione del tempo, continuo, implacabile, ontologicamente efficace. Una pratica continua e intrattenibile” (Negri [1992] 2002, 382-383). La necessità di individuare delle “alternative del moderno” – se la modernità è quella soglia in cui si definisce il tentativo di stabilire un’unica razionalità nella forma dell’individualismo proprietario e del capitalismo – è quella di stabilire quali queste alternative siano anche nel postmoderno postfordismo inteso come quel nuovo modo di produzione che organizza il tempo e, con Fredric Jameson, lo spazio, inglobando progressivamente la totalità dell’esperienza in una “nuova macchina” (Jameson 1984, 53-92).

Il Rinascimento con Machiavelli, la Rivoluzione inglese con James Harrington, la Rivoluzione americana e lo scontro tra il gruppo dietro i Federalist Papers e John Adams e Thomas Jefferson, la Rivoluzione francese e quella russa diventano i luoghi storici attorno ai quali rintracciare “un’ontologia politica” (Negri [1992] 2002, 47). Metodologicamente, Negri è distante sia dalla Begriffsgeschichte tedesca che dalla storia intellettuale contestualista (e idealista) della Cambridge School, poiché “i concetti non hanno storia se non nella materialità della storia degli uomini e delle società” (Negri [1992] 2002, 46-47). In questo senso anche il suo studio di Machiavelli, come già quello su Spinoza, è largamente ispirato dalle correnti francesi, anche se in modo meno letterale. La “Note sur Machiavelli” di Maurice Merleau-Ponty è del 1949; Le Travail de l'œuvre, Machiavel di Claude Lefort del 1972 e Machiavelli et nous di Louis Althusser viene cominciato nel 1972 e corretto fino alla metà degli anni ’80 (Merleau-Ponty 1960, 260-280; Lefort 1972; Althusser [1975, 1986], 1995). Quest’ultimo è l’unico all’interno del Potere costituente a essere esplicitamente citato e, tuttavia, è alla scuola filosofica francese che si deve il merito di aver enfatizzato, in forme diverse, il tema della scissione e dei tumulti all’interno dell’opera machiavelliana. E il tema del conflitto come espressione, non solo originaria ma possibilmente duratura, del potere costituente è al centro della disamina di Negri. Infatti:

Noi comprendiamo di Machiavelli quello che un altro autore della modernità ne dice: che egli non è il pensatore dello Stato moderno assoluto né il teorico di un potere costituente che voglia costituzione – egli è il teorico dell’assenza di tutte le condizioni di un principio e di una democrazia; ed è da questa assenza, da questo vuoto, che Machiavelli, letteralmente, strappa il desiderio di un soggetto e lo costituisce in programma (Negri [1992] 2002, 116).

Interpretando Machiavelli attraverso la lunga linea della modernità che passa per Spinoza (e poi Harrington e la Rivoluzione americana) e Marx, Negri non solo ne fa un teorico che anticipa la democrazia assoluta in senso anti-fondazionalistico, mediante i tumulti, ma anche un teorico del conflitto tra dimensione soggettiva e oggettiva, o tra “virtù e fortuna”. Il nesso che unisce l’assenza del modello politico costituzionale (il vuoto congiunturale che con altre parole e finalità menzionava anche Althusser) e lo scontro tra virtù e fortuna si trova sul terreno della metodologia, dal momento che per Machiavelli, come per Negri: “la prima struttura del vero è […] la ‘mutazione’” (Negri [1992] 2002, 49). Il realismo politico non consiste solo nel riconoscimento della struttura ontologica e temporale della mutazione ma anche nell’uso della strategia, cioè del mix di prudenza e armi, altrove in Principe XXV metaforizzato come la paziente costruzione di argini a parare il fiume in piena. Tuttavia, come chiariscono già le opere di intervento (1503) e le legazioni in Francia e in Tirolo (tra il 1500 e il 1510), questo incontro tra virtù e fortuna non si dà, come nell’umanesimo, come il dominio del soggettivo sull’oggettivo, né, come nel naturalismo, come la preminenza dell’oggettivo sul soggettivo. Il tempo, infatti, si dipana secondo temporalità complesse, in cui talvolta la corrispondenza tra le due dimensioni viene a mancare o si stratifica nella forma dei costumi. Inoltre, come aveva dimostrato il caso del Valentino, che prima aveva avuto successo, essendo riuscito a dominare sui popoli della Valdichiana e poi aveva fallito nell’allearsi con il Papa Giulio II, “la fatalità della mutazione” diventa “storicità” (Negri [1992] 2002, 48-57).

Questa struttura di mutazione costitutiva del tempo storico, che costituisce l’essenza di un approccio realistico alla politica, viene applicata – sostiene Negri – sul terreno del “soggetto costituente” (Negri [1992] 2002, 57). E, tuttavia, ogni qualvolta Machiavelli tenta una comparazione con i nascenti stati assolutistici, come la Francia, essa fallisce proprio sul nesso che lega istituzione e mutazione, un altro modo per dire il binomio virtù e fortuna. La ricerca che si sviluppa tra la scrittura del Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e Il Principe si propone di esplicitare questo nesso. Con le parole di Negri:

Qui si forma una specie di calvinistica ascesi del politico, ma impiantata sull’ordito della casualità che è tessuto materialistico e ateo. Il principio costitutivo è qui dunque la potenza che si esprime su quest’incrocio di limiti oggettivi e di soggettiva, singolare disperazione. Esso è un principio costitutivo in assenza di fondazione, un principio eroico in un mondo senza divinità. Se il tempo storico della mutazione è definitivamente svuotato di significato, nello stesso tempo esso è interiorizzato all’intensità del tempo antropologico e su questo nesso si pone la possibilità dell’ipotesi costitutiva (Negri [1992] 2002, 62).

Il Principe è in altre parole “la tragedia del potere costituente”, ovvero di un principato nuovo, che non si sviluppa su base ereditaria né per annessione e che ha al suo centro le armi proprie come strumento di stabilità. Ma come intendere la proprietà delle armi? Se esse sono del popolo, il potere costituito in quanto principato viene spinto verso la repubblica, se invece sono del principe, esse indicano la soppressione del potere costituente e quindi dell’elemento di novità del principato nuovo. L’emersione del rapporto tra potere costituente e costituito si presenta qui sotto forma di un problema che è quello di mettere “il principe al servizio di un governo democratico” (Negri [1992] 2002, 76). Sulla base dell’identificazione di questa crisi, Machiavelli scrive, secondo Negri, i Discorsi, sulla scorta di una teoria e storia antica che egli sovverte completamente. Sappiamo infatti che in Discorsi I, 2, Machiavelli si era ispirato al VI libro delle Storie per descrivere creativamente la tôn politeiôn anakýklosis delle diverse forme di governo. Lo schema polibiano che descriveva il mutamento della costituzione dei Romani procedeva nel modo seguente: dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia. Se così stavano le cose, la costituzione mista dell’Impero romano, includendo le tre forme buone e non corrotte di governo, rappresentava un punto di equilibrio. Per Polibio questo schema ciclico è naturale (katà phŷsin), per Machiavelli invece è politico. Non solo infatti si consuma, corrompe fino a disintegrarsi quando la crisi politica è irrimediabile, come nel caso della repubblica fiorentina, ma anche la stessa costituzione mista non può sopprimere l’inevitabilità del conflitto – il fatto ontologico per cui il conflitto riemerge costantemente[2]. Quello è “il contenuto assoluto”, a base democratica totale, dell’“istituzione formale del potere” (Negri [1992] 2002, 80). I due principi della libertà ed eguaglianza necessari a una democrazia assoluta che al centro abbia il “soggetto come entità collettiva – plebe, popolo moltitudine” poggiano l’uno sull’altro, per cui l’elemento di classe del lavoro, della proprietà e delle ricchezze rappresenta una condizione di possibilità della repubblica e elemento di garanzia della sua tenuta costituzionale (Negri [1992] 2002, 84). Qui Machiavelli viene riletto non solo contro la teoria costituzionale preesistente, ma anche alla luce di un interesse per Marx e Spinoza. L’elemento della costituzione materiale così come la base ontologica su cui emerge la difficoltà umana a fare i conti con la possibilità della mutazione nel tempo ne diventano i poli. E le armi proprie della democrazia assoluta intese come virtù, nel senso dell’affermazione materiale del “soggetto collettivo” e delle passioni, che ne sono il fuoco (Negri [1992] 2002, 88).

Si passa continuamente da un’antropologia alla politica, dall’ontologia alla storia. È quanto emerge, infatti, da più compiuta trattazione della centralità della costituzione materiale che avviene nella reinterpretazione negriana delle Istorie Fiorentine. Nel terzo libro delle Istorie, Machiavelli, riprendendo gli spunti dalle cronache precedenti di Leonardo Bruni (volgarizzate da Acciaioli), Giovanni Cavalcanti e Francesco Guicciardini, resoconta il primo caso storico a Firenze del tumulto dei Ciompi del 1378, quando piccoli artigiani e salariati erano insorti per rispondere al depauperamento e indebitamento che li aveva visti coinvolti. Ciò che questi lavoratori reclamavano non era tanto una rappresentanza politica in senso classico quanto un riconoscimento economico e sociale nella forma delle gilde o corporazioni. A differenza dei resoconti antecedenti, Machiavelli dà voce nella forma del discorso diretto, al punto che autore e storia non sono più separabili l’uno dall’altro, offrendone una versione positiva nella forma e nel contenuto (si veda, anche in forma più estesa, Rispoli 2020, 147-155, e Zancarini 2001). Ma nello Stato moderno, ci dice Negri, e dunque “nello sviluppo moderno del mercato” è impossibile una “costituzione mista” che faccia da bilancia tra classi e spinte diverse (Negri [1992] 2002, 106, 112-116). Con le parole di Negri:

Siamo con ciò pervenuti a un punto centrale del pensiero di Machiavelli – alla scoperta, cioè, che anche quando tutte le condizioni siano date affinché l’ideale divenga reale, e la virtù si faccia storia, anche in questo caso la sintesi non si realizza. Se qualcosa di ideale diventa reale, lo diviene come “impossibile congiunzione”, come caso straordinario che il tempo in breve consumerà. Più reale della sintesi è infatti la rottura. Il potere costituente non si realizza mai se non per istanti: turbine, insurrezione, principe. Il materialismo storico di Machiavelli non diviene mai, per dirla in termini moderni, materialismo dialettico. Esso non trova momenti di sintesi né di superamento. Ma è appunto questa rottura che è costitutiva. L’ontologia del potere costituente si presenta in Machiavelli come principio critico, come possibilità sempre aperta – il processo costitutivo trova la sua perfezione nel processo stesso. Il dolore e la fatica del processo (Negri [1992] 2002, 107).

Questo aspetto, che è tragico in Machiavelli, viene assunto realisticamente da Negri quando evidenzia che, se pure si indica la moltitudine come possibilità di espressione della virtù, essa appare più come un problema che come una soluzione. C’è certamente un’“impossibilità” in un Machiavelli sulla soglia della modernità, quella della multitudo di farsi soggetto. Ma, più in generale, vi è anche una sfida nella postmodernità nell'identificare, seppur in condizioni materiali mutate, in cui produzione (rapporti economici) e riproduzione sociale (vita) coincidono, le forme di una democrazia radicale o assoluta (Negri [1992] 2002, 107). Una sfida che sembra ancora più imponente nel contesto storico attuale.

Di questo problema, vale a dire, come identificare le strategie di lotta, le forme istituzionali e i soggetti possibili che di quella lotta si fanno carico, Negri si occuperà con Michael Hardt, nei testi scritti a quattro mani, già a partire dalla metà degli anni Novanta in piena postmodernità politica. Che il potere costituente in quanto democrazia assoluta (e non la costituzione) sia al centro della politica rivoluzionaria significa che la lettura della congiuntura, il momento diagnostico, precede l’elaborazione normativa delle soluzioni effettuali. Come già in Machiavelli, che rileggeva la storia per dire qualcosa della sua democrazia fiorentina contemporanea, anche Negri reinterpreta la teoria politica della modernità per intervenire nel presente politico. È quindi soprattutto questo metodo politico, realista e anti-normativo, conflittuale e democratico, che fa sì che Machiavelli con il suo binomio tumulti-istituzioni, sia sempre presente all’interno degli sviluppi dell’opera di Negri. Lo è, tuttavia, in forma variabile. Machiavelli non è un ideologo e neanche un teorico in senso stretto che ha affidato ai suoi posteri il riferimento preciso a una forma della politica. A mio avviso, per esempio, è proprio sotto il segno della pluralità spaziale (oltre che temporale) che vanno letti i suoi stessi testi quando la forma giuridico politica diventa di volta in volta la costituzione tumultuaria romana, ma anche i costumi, il linguaggio come forma creatrice della storia, gli ordini militari e politici degli Svizzeri e della Magna. La forma politica, dunque, non è fissa. Manca il modello a cui aggrapparsi, l’idealità si disgrega.

La teoria della costituzione letta a partire dal potere costituente viene rivista secondo le due prospettive antagonistiche del potere e della costruzione del contropotere, che è un modo post-leninista e post-socialista di nominare l’organizzazione (Hardt, Negri [1994] 2001, 87 ss.). Machiavelli sarà sempre il punto di partenza. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, che viene pubblicato nel 2000, a vent’anni dall’ondata controrivoluzionaria che aveva colpito i movimenti sociali globali degli anni Settanta riconosce la struttura costituzionale antiquata e allo stesso tempo ipermoderna del funzionamento del potere contemporaneo. Secondo Hardt e Negri, il termine costituzione indica, secondo una prospettiva diagnostica, la forma in cui si struttura l’ordine economico e politico della globalizzazione. Economia e politica si presentano come due sfere integrate, diversamente dal neoliberalismo e dallo statalismo che vede moneta e diritto come separati. La costituzione materiale, cioè l’insieme delle forze produttive e dei rapporti di produzione, e la costituzione formale, ovvero come quei rapporti si risolvono all’interno di una codificazione giuridica, vanno analizzate insieme per identificare la distribuzione del potere contemporaneo ed elaborare strategie di resistenza[3].

Osservando il simultaneo declino della sovranità dello Stato-nazione e la crescente integrazione spaziale, sconfinata, dell’organizzazione economica capitalistica, Hardt e Negri trovano nel concetto di Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione una risorsa euristica per descrivere l’assetto dell’ordine economico e politico della globalizzazione (Hardt, Negri [2000] 2002, xi-xvii; 13-18). L’Impero, come già in Machiavelli, è il risultato di una tendenza espansiva – a mezzo di guerra – di un conflitto che si origina all’interno nello scontro tra classi sociali, siano esse popolo e grandi o nuovi proletari precarizzati e proprietari (Hardt, Negri [2000] 2002, 31-32). Esso si presenta nella forma della costituzione mista e tripartita come il risultato della ricerca di una stabilizzazione tra una forma di governo monarchica (il potere egemonizzante degli Stati Uniti e di enti sopranazionali quali NATO, WTO, IMF), una oligarchica (multinazionali e Stati-nazione) e infine quella democratica (Nazioni Unite e Organizzazioni Non Governative) (Hardt, Negri [2000] 2002, 290-293). Tuttavia, come per Machiavelli (e non invece per Polibio), anche l’”equilibrio funzionale” dell’Impero postmoderno viene interrotto dall’emersione dei tumulti o conflitti contemporanei nella forma dei movimenti sociali, come nel caso delle manifestazioni di Seattle alla fine degli anni Novanta contro il WTO. Più in generale, siccome la distribuzione di potere non è solo astratta (giuridica e politica, nel senso rappresentativo) ma anche concreta (dunque sociale), c’è sempre la possibilità che una moltitudine, in diverse parti del mondo e con diverse modalità, possa insorgere, produrre una crisi e destabilizzare l’ordine globale (Hardt, Negri [2000] 2002, 376-382).

Rileggere Machiavelli non è solo utile per offrire una diagnosi della costituzione e distribuzione del potere esistente ma anche per comprendere come organizzare quelle che vengono definite controinsorgenze o contropoteri. Nell’esaminare l’emersione delle lotte contemporanee occorre sempre osservare sia le strategie che i soggetti. Non solo i Discorsi, nei quali più esplicitamente viene formalizzata una teoria dei tumulti in rapporto alla costituzione in un quadro di promozione della politica repubblicana, ma anche Il Principe offre delucidazioni su come sia possibile pensare la politica a partire dal conflitto (Hardt, Negri 2004, 52). Esso viene inteso non solo nel senso dello sbilanciamento di poteri interni – che durante il Rinascimento prendevano la forma della dialettica dei grandi vs il popolo e ora prendono la forma di un conflitto carsico agito da una moltitudine di figure della produzione e della riproduzione sociale vs il capitale – ma anche come guerra esterna. In Moltitudine, la guerra dell’Impero – la cui attualità rimane pressoché invariata se non intensificata (dai droni) nel caso dell’Ucraina e del genocidio in Palestina – viene intesa come un ordine politico corrotto che si avvale dei mercenari. Contro forme intensificate di nazionalismo, Hardt e Negri propongono di elaborare nuove forme di exhortatio che mettano al centro l’idea dell’amore per un territorio nella forma dell’insorgenza moltitudinaria contro il capitalismo contemporaneo (Hardt, Negri 2004, 52).

In Comune, questo stesso tema, ovvero secondo quali direzioni identificare le strategie e le soggettività in lotta, viene sviluppato seguendo le Istorie Fiorentine. Nel tentativo di identificare dei modelli politici alternativi a quello neoliberale, fondato sulla proprietà privata e l’individualismo possessivo, Hardt e Negri individuano nella moltitudine dei poveri in tumulto il soggetto – nuovo e antico – che può delineare nuove pratiche politiche. Il caso dei ciompi, allora, rappresenta il modello di un’insorgenza tumultuaria che si oppone alla “proprietà e alle sue istituzioni” (Hardt, Negri [2009] 2010, 62-63) senza mai convertirsi nella dialettica politica tra popolo e sovrano. Come già nel Potere Costituente, la linea teorica Machiavelli-Spinoza-Marx permette di immaginare un modello alternativo al potere politico non-sovrano e rivoluzioni organizzate da soggetti (segnati da differenze di genere e razza) non tradizionalmente unificati nella forma del popolo, del partito e del sindacato tradizionale (sul nesso tra potere costituente e comune si veda anche Brancaccio 2017, 140). I Ciompi e, più in generale, la moltitudine dei poveri mettono in risalto – essendone al centro – il tessuto, produttivo e riproduttivo, di “una vita sociale comune e di una ricchezza comune”, che è tale solo a patto di essere sempre già politica, mai arrendevole all’idea che la sola nuda vita o la sola sussistenza riproduttiva possano costruire un modello di comune (Brancaccio 2017, 62).

In Assemblea, infine, il pensiero di Machiavelli di nuovo permette di pensare al problema della politica sia dalla parte del potere che del conflitto. Il potere stesso, invece di essere concepito come monolitico e univoco, è sempre segnato dall’emersione di continui dualismi. E, tuttavia, questa dinamica ontologica e sociale, non viene da Hardt e Negri concepita nella forma della tensione tra potere e antagonismo (come in una concezione marxiana classica), ma in quella del conflitto tra poteri e contropoteri (Hardt, Negri [2017] 2018, 105-107). Nei Discorsi e nel Principe i tumulti non solo interrompono l’ordine costituito ma danno vita a ordini nuovi, quali i tribuni della plebe. In Assemblea, invece, i movimenti sociali danno vita a nuove istituzioni. Machiavelli, lungi dall’essere il rappresentante dell’”autonomia del politico” o della ragion di Stato è il filosofo che ha permesso, secondo un principio di realismo politico, di guardare la dinamica politica dal basso, a partire dai tumulti e dalla loro produttività istituzionale. Se vi è un Principe non è tanto quello del Principato fiorentino che aveva preso forma nella rappresentanza medicea, ma un “Principe della moltitudine”, inteso come un insieme di soggettività plurali in conflitto che offrono un’ipotesi organizzativa e politica nuova (Hardt, Negri [2017] 2018, 297-298).

L’aspirazione a un governo moltitudinario (o, come era nel Potere costituente, a una democrazia assoluta) di questo tipo si deve, in accordo con il realismo politico machiavelliano, porre dal basso e a partire da esemplificazioni esistenti e concrete. Per questo, Hardt e Negri individuano tre “strategie” secondo cui prende forma il governo del comune. La prima è quella dell’esodo e della politica prefigurativa, tipica delle comunità utopiche e dei centri sociali, nonché dei movimenti sociali della nuova sinistra studentesca, femminista e antirazzista (Hardt, Negri [2017] 2018, 349-350). La seconda, quella del riformismo antagonistico che, tramite la “guerra di posizione” del municipalismo democratico interviene su una serie di settori, quali migranti, edilizia popolare, lotta contro la povertà, per smuovere le istituzioni della rappresentanza (Hardt, Negri [2017] 2018, 352). Infine, quella dell’egemonia che distrugge le istituzioni esistenti per crearne di nuove, come nel caso di Syriza in Grecia nel 2015, con tutti i limiti del caso. “Il realismo” che dunque “insegna Machiavelli” (in congiunzione con Antonio Gramsci) sta proprio nella combinazione di queste tre strategie che sinergicamente permettono non solo la produzione di conflitto ma anche di contropoteri e istituzioni autonome che distribuiscano la proprietà e il potere politico in modo radicalmente differente (Hardt, Negri [2017] 2018, 354). Il realismo di Machiavelli, che suggeriva di fare uso del tempo nella congiuntura, di orientare lo sguardo dal basso verso l’alto, facendo leva su nuove moltitudini non-proprietarie, diventa di nuovo il metodo attraverso cui interpretare il presente e la sua politica.

Note

[1] Sulle differenze tra Negri e le scuole istituzionaliste francesi, italiane e tedesche si veda Moresco 2020, 191-204; in particolare 197-199. Una critica decisiva alla dialettica tra costituzione formale e costituzione materiale in Mortati, la cui soluzione “conferma l’incapacità per la scienza giuridica moderna di fornire una definizione giuridica di potere costituente autonoma rispetto alla particolare dottrina di costituzione adottata”, è nella ricerca di Ricci 2024, 26-27. Ricci ricostruisce anche la bibliografia storico-giuridica contemporanea in ambito italiano sul rapporto tra potere costituente e costituito, e ad essa rinvio a pagina 16, note 1-4.

[2] Su Polibio e Machiavelli si vedano Sasso 1961, 223–280 e Sasso [1964] 1993, 481–488. È tuttora aperto il dibattito sulla conoscenza che Machiavelli avrebbe potuto avere del VI libro delle Storie polibiane. In Cadoni 1994, 50 ss. e n. 9, viene riassunto il problema dei rapporti in generale fra Polibio e Machiavelli, ricordando in particolare l’utilizzo dei frammenti del VI libro nei Discorsi, con riferimento non solo al vecchio studio di Bini 1900, 17-34 per la comparazione fra D I 2 e Storie VI 1–9, ma anche al commento di Walker 1950, II, 290 e passim. Molto notevole l’accenno in Dionisotti 1980, 139, al possibile uso machiavelliano dei contenuti polibiani del Liber de urbe Roma di B. Rucellai, certamente anteriore al 1505. Dal punto di vista dell’analisi filologica e testuale ha cambiato completamente l’interpretazione del nesso Polibio-Machiavelli l’interpretazione di Pedullà, che dimostra quanto sia stata decisiva la mediazione delle Antiquitates di Dionigi di Alicarnasso nella lettura che Machiavelli offre del ciclo polibiano e della costituzione mista (Pedullà 2011, 419-518).

[3] L’analisi del rapporto tra costituzione materiale e costituzione formale è al centro dell’opera di Negri a partire dagli anni Sessanta e Settanta: si veda Negri 1962; Negri 1970; Negri [1974] 2006. Per un’analisi diacronica del concetto di costituzione in Negri si veda Zaru 2024, 13-24.

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English abstract

This article examines Antonio Negri’s interpretation of Machiavelli, illustrating how the Florentine thinker’s reflections on tumults and power inform Negri’s political theory. By tracing Negri’s intellectual trajectory – from his early writings, culminating in Insurgencies: Constituent Power and the Modern State, to his later collaborations with Michael Hardt (Empire, Multitude, Commonwealth, Assembly) – the study demonstrates how political realism provides a framework for theorizing an alternative modernity and its postmodern transformations within hyper-globalized capitalism. At the heart of this framework is Negri’s concept of constituent power, reimagined not as a claim to sovereignty but as a radical process of conflict, disruption, and renewal. Emphasizing the interplay between virtue and fortune and employing the methodology of political realism, the article argues that Machiavelli’s legacy underpins Negri’s theoretical approach. This reinterpretation challenges conventional political theory and inspires new forms of collective self-organization – such as counter-powers, institutions of the common, and assemblies – that seek to advance absolute democracy in contemporary society.

keywords | Antonio Negri; Machiavelli; Michael Hardt; political realism; constituent power; constitution; absolute democracy.

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Per citare questo articolo / To cite this article: T. Rispoli, Antonio Negri e Machiavelli. Il realismo politico tra modernità e postmodernità, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2025.221.0012