Per l’Occidente e la sua ontologia politica attraversata dall’ossessione dell’Uno la moltitudine è da sempre un demone da esorcizzare. Intorno a questa ossessione si è organizzata la Modernità, con il suo ordine Sovrano che crea il Pubblico e il Privato, il Popolo e l’Individuo, Lo Stato e l’Identità, L’Artista e lo Spettatore, e che neutralizza la differenza dei molti. La divisione, il conflitto e la lotta costituiscono la trama stessa dell’essere e del nostro essere nel mondo, ma l’Occidente è attraversato anche e da sempre dall’ossessione e dalla volontà di neutralizzare il conflitto, e di ridurre i molti all’uno. Pensiamo ai Vangeli dove si racconta l’incontro di Gesù con un indemoniato: “Qual è il tuo nome? – gli chiedeva – Legione è il mio nome – gli rispose – perché qui siamo molti (Vangelo secondo Marco 5, 9-10).
Ma pensiamo anche al famoso frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes dove il corpo del Sovrano contiene tutti i cittadini riducendoli a Popolo attraverso un ordine piramidale che ha nell’uno il suo vertice ottico. Hobbes aveva capito che lo Stato era contro la guerra, così come la guerra era contro lo Stato. Lo aveva capito anche il pensiero selvaggio di tutte quelle società primitive che per esorcizzare invece il pericolo dell’uno, per evitare la neutralizzazione del conflitto, organizzavano la macchina da guerra e praticavano la logica centrifuga della frammentazione, ostacolo potente alla forza centripeta dell’unificazione. Società saggiamente contro lo Stato quindi, e non semplicemente senza Stato come le ha pensate il colonialismo moderno (Deleuze e Guattari [1980] 2003, 501-505). Se Hobbes neutralizzava il conflitto attraverso lo Stato, le società che abbiamo chiamato selvagge scongiuravano il pericolo della neutralizzazione statale attraverso la guerra, la divisione, il conflitto (Clastres [1974] 2003). Allo stesso modo, nei primi anni del Cinquecento, Niccolò Machiavelli costruiva un’dea tumultuaria e creativa dell’essere e della politica, aprendo un’alternativa nel cuore della Modernità:
Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 4, 30).
Se a prevalere sarà la modernità hobbesiana, quella neutralizzante degli apparati di cattura e della dialettica, l’altra modernità, quella conflittuale per intenderci, scorrerà sotterranea attraverso i secoli e troverà un terreno particolarmente fertile nell’Italia degli anni Sessanta dove si affermano un pensiero e una pratica della differenza e del conflitto. In un celebre passaggio del suo editoriale sul primo numero di “Classe Operaia”, Mario Tronti sintetizzava così il senso e la novità di una vera e propria rivoluzione copernicana:
Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un grave errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia (Tronti [1964] 2013).
Era questa la novità: una pratica e un pensiero che rimettevano al centro il conflitto e il punto di vista. La differenza operaista che smascherava l’universalismo borghese, alleato in questo del pensiero femminista in rivolta contro il dominio patriarcale[1]. Una pratica e un pensiero della scissione e della parzialità, senza neutralizzazione né conciliazione: Non esiste, non è mai esistita, una verità per tutti, esiste la verità per una parte e la verità per un’altra parte. Il principio è la lotta, la strategia è quella del rifiuto[2]. La modernità è stata, lo dicevamo prima, il tentativo continuo di misurare, mediare e neutralizzare questo conflitto e questa lotta, ma nei primi anni Settanta del XX secolo ogni misura diventerà impossibile: il 15 agosto del 1971 il presidente americano Richard Nixon dichiarava la fine della convertibilità del dollaro in oro mandando in soffitta gli accordi di Bretton Woods, il sistema che aveva regolato il mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Questa mossa politica rimetteva in discussione in maniera tanto profonda e irrevocabile i presupposti di base del sistema (non solo monetario) da configurarsi come decisione epoch-making (AA.VV. 1971, 3-8). L’incovertibilità rendeva evidente la fine della legge del valore-lavoro perché tramontava la possibilità stessa di ragionare in termini di “equivalente generale”, il denaro come merce alla quale le altre merci si rapportano trovando in essa una traduzione monetaria. Veniva meno insomma la possibilità stessa della misura, e la dismisura annunciava il passaggio dal moderno al postmoderno.
Nella sua strategia neutralizzante la modernità, dicevamo all’inizio, ha costituito anche l’artista, questa figura che disattiva la comune capacità creativa concentrandola in un solo individuo che a sua volta la tesaurizza. E quando trionfa il postmoderno, negli anni Ottanta del Novecento, e si impone il nuovo paradigma produttivo post-fordista impiantato sul lavoro autonomo e l’auto-imprenditorialità, proprio l’artista, che da sempre ha incarnato la libertà di creare, diventerà il modello del lavoro cognitivo diffuso, il paradigma di una soggettività alla quale d’ora in poi il capitalismo chiederà creatività, innovazione e quindi libertà (Lazzarato 2014 e Virno 2014), e che al tempo stesso esprime un’insopprimibile spinta a costruire un mondo nuovo fuori dai confini del controllo del rapporto capitalistico di produzione. È in questo contesto che, alla fine degli anni Ottanta Negri ha l’occasione di scrivere una serie di lettere sull’arte che diventeranno il suo libro sull’estetica Arte e multitudo, pubblicato la prima volta nel 1990, tradotto in molte lingue e ripubblicato in una nuova edizione italiana nel 2014 (Negri [1990] 2014). Un libro marxista sull’arte nel quale: “Toni ragionava sull’arte come ragionava sulla lotta di classe” (Negri 2017, 330) e che costituiva una critica radicale del postmodernismo debole, ovvero – come avrebbe detto Fredric Jameson – della logica culturale del tardo-capitalismo (Jameson [1991] 2007), una rilettura del pensiero negativo e una ripresa, allo stesso tempo, del costruttivismo artistico-letterario del Gruppo ’63. In Arte e multitudo la riflessione si sviluppa intorno all’astratto, al sublime – come dismisura tipica dell’epoca contemporanea –, all’evento, per concentrarsi poi sul lavoro e la sua organizzazione. Qui Negri disegna una relazione strutturale tra le forme dell’arte, il politico e i processi di produzione, che probabilmente qualcosa deve all’analisi che Franz Borkenau aveva sviluppato nel 1934 sulla manifattura e la nascita dell’immagine borghese del mondo (Borkenau [1934] 1984). Scrive Negri:
Forse, poiché qui stiamo parlando di produzione, non è male stabilire qualche grossolana corrispondenza fra epoche contemporanee dell’attività artistica e forme dell’organizzazione del lavoro. Probabilmente (e pur tenendo conto della volubilità del mercato) si potrebbero stabilire alcune grosse epoche – quella del realismo, fra il 1848 e il 1870, che corrisponde alla fase appropriativa della lotta rivoluzionaria dell’operaio di mestiere; quella dell’impressionismo, che fra il 1871 e il 1914 corrisponde alla fase analitica, meglio allo sviluppo funzionale del desiderio di autogestione, di controllo della produzione capitalistica e di sua sovradeterminazione, sempre da parte dell’operaio professionale. Poi, quando, dopo la Rivoluzione d’ottobre, in tutto il mondo le ondate della riflessione rivoluzionaria si espandono ed il capitale è costretto ad accettare la massificazione operaia come base della produzione, allora è in forma astratta che nel campo estetico si impone il produrre – un’astrazione che è rappresentazione e contributo all’astrazione del lavoro e, contemporaneamente, sorgente di immaginazione alternativa: il socialismo. Dal 1917 al 1929 quest’astrazione è espressionistica, nel senso che anticipa eroicamente l’astratto, attraversando il figurativo, e lo vive spingendo fino all’esasperazione rivoluzionaria la passione ed il desiderio estetico; poi essa si sviluppa in forma analitica – sempre astratta, ma, appunto, analitica, variata, aperta allo sperimentalismo, a tutte le innovazioni che la crisi del modo di produzione capitalistico permetteva e che il crescere delle lotte proletarie imponeva. Dopo il ’29 l’unica dimensione estetica è quella dell’arte-massa. La sua storia interna porta al ’68. Eccoci dunque a questo momento di gioia e di creazione assoluta. Che dire? Qui si apriva, anche nella storia dell’arte contemporanea, un nuovo destino – quello della specificazione del determinato, del costituente, dell’innovativo, nell’esistente. Come possa esistere il determinato, come possa darsi l’evento, come possa determinarsi la rivoluzione. Come l’astratto possa essere determinato, come possa divenire soggetto. Dopo la fase riappropriativa e autogestionaria (1848-1914) – che si divide, attorno alla Comune, nei due tronconi realista ed impressionista, – epoca questa dominata dall’operaio professionale, dalle sue lotte, dalle sue utopie e dalla sua rivoluzione; dopo la fase astratta alternativa che si apre nel 1917 e va fino al 1968, essa stessa divisa al suo interno dal 1929, fra espressionismo e sperimentalismo – fase nella quale l’operaio massa produce il suo progetto egemonico; eccoci dunque ad una nuova fase – la fase costituente dell’operaio sociale… Costituente di che cosa, quando, dove? Ma di che cosa volete che sia costituente se non di comunismo? (Negri 2014, 42-44).
A rileggere queste pagine degli anni Ottanta viene da pensare a quanto diversamente significativo e internazionalmente interessante sarebbe potuto essere il pensiero artistico-estetico italiano se l’egemonia della controrivoluzione scettica non fosse stata così pesante. Per essere più chiari: la critica d’arte italiana oggi è pressoché inesistente e le responsabilità di questa sparizione si possono ricondurre alla sistematica distruzione delle armi della critica operata, nel contesto politico-sociale del riflusso, dalla cosiddetta critica creativa che avrebbe trasformato qualsiasi espressione scritta in performance promozionale. Se negli Stati Uniti il post-moderno artistico sarà quello “critico” della rivista “October” (Mancini 2014), da noi sarà quello dell’“ideologia del traditore” (Bonito Oliva [1976] 2013). In Italia gli anni Ottanta saranno soprattutto quelli del cinismo e della psicopatologia narcisista, dentro una realtà assorbita dall’iperrealtà del codice della simulazione (Baudrillard [1976] 2007, 12)[3]. Insomma il capolavoro del postmodernismo italiano è consisto nell’aver saputo costruire un dispositivo culturale libertario curvandolo a destra, in perfetta continuità con la strategia giocata dal neoliberalismo che puntava a colonizzare il cuore e l’anima delle persone, programma sintetizzato dalla famosa ingiunzioni di Margaret Thatcher: “La società non esiste. Ci sono solo individui”.
Ma dentro questa contro-rivoluzione e lungo tutti gli anni Ottanta Negri ha definito una resistenza etica che è quella che si esprime in Arte e multitudo e negli altri suoi lavori di quel decennio, una produzione che ha contribuito in maniera determinante a costruire il paradigma di quella “differenza italiana” che oggi ha conquistato il mondo (Negri 2005; Esposito 2010; Gentili 2012) e che senz’altro passa anche attraverso l’estetica costruttivista e materialista che Negri ha sviluppato in questo libro così come nelle sue riflessioni sulla letteratura uscite soprattutto sulle pagine di “Alias”, inserto culturale de “il manifesto”. Senza dubbio molti manuali e dizionari di filosofia dove, ancora oggi, il nome di Negri è assente, in un futuro ormai prossimo dovranno essere riscritti per rendere giustizia alla grandezza di un pensiero rivoluzionario che si è costruito nella relazione con i grandi classici moderni.
Tutte queste missive, dunque, dicono di una fuoriuscita dal postmoderno attraverso il passaggio all’etico “e cioè alla potenza di costituire un mondo sensato” (Negri 2014, 33); dicono l’esigenza di “rimettere i piedi sulla materialità del vero. Una nuova verità, certo, così come un nuovo mondo, quello che sta nell’astrazione liberata” (Negri 2014, 33). Dicono con forza che: “L’arte non è il prodotto dell’angelo, ma l’affermazione – ogni volta la nuova scoperta – che tutti gli uomini sono angeli” (Negri 2014, 48).
Ma cosa sono dunque l’arte e la moltitudine? Dov’è la bellezza oggi che “non andiamo più verso il postmoderno, meglio, abbiamo ormai superato ogni post, siamo nella contemporaneità e quest’ultima ha ulteriormente approfondito la trasformazione del lavoro” (Negri 2014, 171). E quale segreto è racchiuso dentro il paradigma dell’artista? In questo piccolo classico sull’estetica e le arti contemporanee Negri risponde materialisticamente a questi interrogativi.
Intanto l’artista: da dove viene questo rivoluzionario da camera che non ha mai pensato di rovesciare l’ordine costituito? Prima del moderno l’artista coincideva con l’artigiano e il suo contrassegno era l’anonimato come nella cultura bizantina e nei secoli in cui in Europa era stato, insieme ai suoi fratelli, un costruttore di cattedrali. La nascita dell’artista modernamente inteso andrà invece di pari passo con l’imporsi del nome proprio e con il suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo. Mentre nel caso dell'artigiano il valore estetico faceva tutt’uno con la perizia del mestiere e con la padronanza tecnica, nel caso dell’artista il valore estetico diventerà un plusvalore sovrapposto alla perizia tecnica e alle regole tramandate. L’opera d’arte sarà definita dal segno di un genio individuale come in Giotto, il primo vero artista “borghese” e moderno. La lunga lotta dell’artista per il riconoscimento passerà attraverso la battaglia culturale da un lato, e la disobbedienza economico-fiscale dall’altro. Leon Battista Alberti nella sua trilogia – Sulla pittura (1435), Sull’architettura (1454) e Sulla scultura (1462) – riconosceva l’artista come intellettuale e uomo di scienza, la diffusione delle vite degli artisti sanciva l’eccezionalità di questa figura, e la nascita delle prime Accademie legittimava il sapere artistico ammettendo a pieno titolo la pittura, l’architettura e la scultura fra le arti liberali. Da un punto di vista economico-fiscale gli artisti inizieranno a rifiutarsi di pagare le tasse agli ordini professionali di appartenenza che erano stati quelli dei tintori di stoffe o di altre attività riconosciute come arti meccaniche (Gimpel [1968] 2000; Damisch 1977; Wittkower [1963] 2005; Heinich 2012).
L’artista diventerà d’ora in poi un “creatore”, e quindi il prototipo del soggetto moderno, l’individuo “artefice della propria fortuna”. Il processo di emancipazione del soggetto, che trova in Cartesio la sua sanzione metafisica, si completa con il processo di soggettivazione dell’artista. Una personalità leggendaria che darà del tu ai papi per essere poi marginalizzato e impoverito, e dopo la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del Novecento sarà pronto a essere sussunto dalle fantasmagorie del capitalismo globale. In effetti il fallimento dell’utopia delle Avanguardie e delle Neoavanguardie ha esaurito la parabola del Modernismo rivelando l’opera d’arte nella sua essenza come merce tra le altre. Rivelandola anzi come la merce modello, un prodotto perennemente obsoleto il cui unico interesse risiederebbe nelle sue trovate tecnico-estetiche, e il cui solo uso consiste nello status che conferisce a quelli che ne consumano la versione più recente. L’arte produce ora più che mai capitale simbolico e distinzione, e l’artista incarna più che mai una libertà piantata sulla servitù volontaria, su quell’enigma per cui i lavoratori della conoscenza spesso sembrano combattere per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza. L’artista ha sempre solo pensato di essere libero, passando in realtà da una sottomissione all’altra. Anche se non ha un padrone diretto, l’artista è da sempre sottomesso a dei dispositivi di potere, che non solo definiscono l'ambito della sua produzione, ma sono fabbriche di soggettività. Anche il lavoro autonomo e l’auto-imprenditorialità segnano una sconfitta. La sconfitta di quel movimento dell’autonomia che aveva praticato il rifiuto del lavoro. Costituiscono il risvolto privato di quella sconfitta, il segno dell’incapacità e dell’impossibilità di trasformare il rifiuto del lavoro da negazione del capitale in pratica di invenzione di forme dell’agire economico collettivo.
Eppure non tutto è perduto, la sussunzione reale non è mai una reificazione totalizzante e nel tessuto del capitale è sempre possibile aprire brecce, produrre incidenti, resistenze e bruciature. Il capitale è una relazione di comando e quindi implica una lotta tra i dispositivi di governo e assoggettamento e la cooperazione viva dei soggetti produttivi. Ma come può l’artista liberarsi dall’apparato di cattura che lo ha costituito? E cosa ne è di questa figura una volta che le trasformazioni del lavoro hanno fatto dell’artista il paradigma stesso della produzione generalizzandone il codice?
In Arte e multitudo Negri dice chiaramente che fare arte, al di là del dispositivo capitalistico, è essenzialmente costruzione di essere nuovo. E in questa chiave l’artista si può accostare a un’altra figura indagata da Negri sempre negli anni Ottanta, ovvero Giobbe (Negri [1990] 2002). Cosa ci raccontano infatti le pagine di quello straordinario romanzo poetico che è il Libro di Giobbe, pagine antiche eppure già postmoderne? Chi o cosa è Giobbe? È possibile pensare a Giobbe come a un artista che si ribella e lotta, che risponde al dolore del corpo a corpo combattuto in solitudine con Dio, all’incommensurabilità della sofferenza, all’incommensurabilità della sua distanza da Dio, alla dismisura che costituisce il mondo, con la passione e la potenza della creazione, con la sovversione delle forme esistenti e l’innovazione, con la creazione di un mondo nuovo. Ma in Giobbe non c’è tesaurizzazione e concentrazione esclusiva del talento artistico conseguenza della divisione del lavoro. Giobbe sfugge l’illusione estetica ed esprime la comune produzione dell’essere. Giobbe manifesta la possibilità comune di creare un mondo nuovo, di produrre nuovi brani dell’essere con la lotta e l’invenzione e aldilà della misura.
Più in là dell’artista moderno, che neutralizza la comune capacità creativa tesaurizzandola in sé e per sé, l’artista della moltitudine non è allora quello postmoderno che ricapitola il passato, ma piuttosto quello che lavora a modificare le attuali concezioni del tempo e dello spazio. Ora che la committenza è quella del lavoro cognitivo diffuso, le opere d’arte sono quelle che esprimono la potenza del comune costruendo essere nuovo. Se un tempo l’Europa fu attraversata da un movimento di costruttori di cattedrali, ora è possibile pensare agli artisti di questo tempo che viene come a dei costruttori di nuove cattedrali del comune, nella consapevolezza che “l’arte non può vivere che dentro un processo di liberazione” (Negri 2014, 50); e che: “per costruire arte bisogna costruire liberazione nella sua figura collettiva” (Negri 2014, 51).
È così che si sperimentano e si costruiscono un tempo e uno spazio che restituiscono l’opera alla sua dimensione collettiva. Ora l’opera non può che essere sperimentazione e costruzione di uno spazio e di un tempo comuni dell’abitare. Uno spazio e un tempo in cui il museo non è più il luogo separato della conservazione e della memoria. Liberarsi della memoria più ignobile e nemica è parte della lotta tra una società nuova che sta nascendo e una vecchia società al tramonto. Il tempo del comune, dicevamo, non è quello lineare del progresso né quello ciclico della memoria, è invece quello kairologico dell'evento. In questo tempo che viene anche la bellezza è altrove. La bellezza è altrove rispetto a come l'ha intesa la modernità occidentale, ma questo altrove, è bene sottolinearlo, non è un altrove mistico. Questo altrove è qui, è piantato nella materialità del farsi del mondo, nelle lotte con le quali si dà vita a un essere nuovo. Nella consapevolezza che “senza gioia e senza poesia non ci sarà più rivoluzione” (Negri 2014, 80).
La bellezza, insomma, è nel comune che si costruisce con la cooperazione produttiva della moltitudine. La moltitudine dei produttori di bellezza.
Note
[1] La novità dell’operaismo italiano si inseriva in un contesto di generale rinnovamento e sperimentazione artistica. Sono gli anni della Neoavanguardia con il Gruppo ’63, della nuova musica di Luigi Nono, Luciano Berio e Bruno Maderna, dell’Arte Programmata del Gruppo N di Padova e del Gruppo T di Milano, degli Achromes di Piero Manzoni, dei monocromi di Mario Schifano e del Mare di Pino Pascali. Questa rottura degli anni Sessanta conosce tre importanti anticipazioni a metà degli anni Cinquanta: 1. Le inchieste sulle classi subalterne condotte nelle “Indie di quaggiù” da Ernesto De Martino, Franco Cagnetta e Danilo Dolci tra gli altri, e che Danilo Montaldi e Romano Alquati avrebbero poi portato nella metropoli e nella fabbrica. 2. Il magistero di Galvano Della Volpe che, rompendo con lo storicismo idealista del marxismo ufficiale italiano, svelava il carattere essenzialmente mistico e romantico della logica hegeliana e delle sue ipostasi, per proporre un marxismo piantato sul metodo sperimentale del circolo concreto-astratto-concreto. 3. L’approccio fenomenologico alla soggettività promosso da Enzo Paci, che troverà poi sviluppi particolarmente interessanti in ambito politico e filosofico con la «comune» via Sirtori a Milano.
[2] La strategia del rifiuto, così come tematizzata in Operai e capitale, è stata sviluppata in ambito artistico da Francesco Matarrese con il suo rifiuto del lavoro astratto in arte. Le sue non-opere, realizzate in collaborazione con Mario Tronti, sono state presentate nel 2012 a dOCUMENTA (13) a Kassel.
[3] Sul recupero artistico della figura del traditore in chiave postmoderna cfr. Achille Bonito Oliva [1976] 2012, in particolare a pagina 15: “La strategia perseguita dall’arte poggia su quella che noi definiamo l’ideologia del traditore. […] L’arte non è presa immediata sul mondo ma soltanto possibilità e citazione deviata. […] Il traditore, per definizione, è distaccato dal gruppo (quindi dalla società) per guardarlo nella sua alienazione, teso verso una correzione del reale, e tuttavia impotente a compierla: escluso dal mondo e necessario al mondo, volto verso la praxis ma incapace di parteciparvi se non tramite il raccordo mobile del linguaggio”
* Questo testo si propone come una versione più breve, aggiornata e rivista, della postfazione uscita in Toni Negri, Arte e multitudo, Roma 2014. La redazione di Engramma ringrazia il direttore editoriale di DeriveApprodi Gigi Roggero per aver dato il consenso alla nuova edizione del contributo.
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English abstract
This article outlines the originality of Antonio Negri’s thinking in the aesthetic and artistic field. In the 1980s, and particularly in Arte e multitudo, Negri defined the paradigm of a “constructivist” and materialist aesthetic, in line with the Italian workers’ movement of the 1960s and in clear contrast to the defeatist postmodernism that has become the cultural ideology of late Capitalism. While Negri is best known internationally as one of the most original political thinkers of the second half of the twentieth century, we want to emphasise here the importance of his critical thinking for the development of a materialist aesthetic theory and for contemporary artistic practices.
questo numero di Engramma è a invito: la responsabilità della selezione e della revisione dei contributi è dei curatori e del comitato editoriale della rivista
keywords | Antonio Negri; Art; Multitude; Beauty.
Per citare questo articolo / To cite this article: N. Martino, La bellezza del comune. Toni Negri, Arte e Multitudo, “La Rivista di Engramma” n. 221, febbraio 2025.