Lorenzo Bonoldi, Monica Centanni
Catena d'onore, catena d'amore: Baldassarre Castiglione, Elisabetta Gonzaga e il gioco della 'S'
Palazzo di Urbino, sera d’inverno del 1507. Di grazia, di sprezzatura, di Amore, nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione si ragiona di notte, nel buio: "nobilissimi ingegni" stanno a ragionare di come "formar con parole un perfetto cortegiano". La scena che viene presentata nelle quattro serate del gioco, è un teatro di parole e di gesti in cui viene teorizzata e praticata l'estetica della grazia: "grazia - che 'consegue dall'usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e deve venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi’ - come forma assoluta del vivere: nel danzare, dunque, nel giocare, nel conversare, nel vestire, nel cavalcare, nel mangiare, nello scrivere [...] La grazia come segno del dono: simulazione di un'economia del gratuito e del dispendio, messinscena di un ordine (sociale) disinteressato e quindi 'virtuoso', magnanimo, 'nobile'" [Quondam 1981].
Gli illustri dialoganti, disposti in cerchio, muovono i loro ragionamenti attorno alla personificazione stessa della grazia: Elisabetta Gonzaga. La Duchessa intesse il discorso, tiene il filo della conversazione: "dice ridendo" ("disse ridendo", "replicò ridendo": sono le formule che introducono più di frequente le battute di Elisabetta nei dialoghi del testo), e in quel "ridere", nella dote di leggerezza e di gaiezza, con cui "senza fatica" la donna riporta il moto dialogante del pensiero alla profondità, all'intensità e alla pregnanza di senso, sta un segno incarnato della grazia, facilità e ingenua spontaneità; che è la cifra dell’uomo gentile. Elisabetta è una presenza discreta, ma essenziale, nell'architettura del dialogo di Castiglione. Il gioco ha inizio la sera, quando il Duca, Guidobaldo da Montefeltro, ammalato si ritira.
Adriano Fiorentino, medaglia per Elisabetta Gonzaga (recto), 1495, Londra, British Museum
Al centro, a governare il ludus, c'è dunque la grazia perfetta di Elisabetta Gonzaga, la Duchessa di Urbino. "Emblematico – scrive Amedeo Quondam – che il cerchio degli interlocutori si muova intorno all'assenza del Duca, malato che non partecipa alle conversazioni" . Al centro del cuore vuoto di questa corte postuma, immagine ultima del Rinascimento, corteggiata dall'Aretino e da Pietro Bembo sta l'irreprensibile Elisabetta che ha scelto di essere "vidua in vita" dell'impotente Guidobaldo, ma che forse cela nell’emblema che le orna la fronte, un desiderio segreto relativo alla tanto agognata, impossibile, maternità. O forse un segreto vincolo d’amore.
È l’Unico Aretino che invita gli amici a interrogarsi su "che significhi quella lettera 'S' che la signora Duchessa porta in fronte". Nella fictio letteraria il gioco proposto dall’Aretino non ha successo: Emilia Pia, dama di compagnia di Elisabetta, neutralizza la provocazione argomentando che nessuno degli astanti avrebbe potuto gareggiare con l’Aretino in questa sfida. All’Unico è comunque concesso di svelare la sua interpretazione del significato della 'S', recitando un sonetto da lui composto all'impronta sull’argomento. Tale sonetto “da molti fu estimato fatto all’improvviso" tuttavia "per essere ingenioso e culto (…) si pensò pur che fosse pensato". Nel corpus degli scritti di Aretino si conservano due sonetti sul tema della 'S'. Uno di questi potrebbe quindi essere quello a cui si fa riferimento nel testo del Cortegiano.
Per segno del mio amor nel fronte porto
un S, qual dinota ogni mio stato
e così varia il suo significato
come vario il martir, come il conforto.
Quando avvien ch’io riceva inganno o torto
significa questo S sconsolato,
sangue, stratio, sudor, suplitio e strato,
spiacer, stento, sospir, sdegno e sconforto.
Ma di poi mostra di soccorso segno,
s’avvien ch’in qualche parte il martir mute,
soave servitù, speme e sostegno.
Quando son poi fra ‘l danno e la salute
sospetto mostra al mio viver indegno,
soluto e stretto e sciolto in servitute.Consenti, o mar di bellezza e virtute,
ch’io, servo tuo, sia d’un gran dubbio sciolto,
se lo S che porti nel candido volto
significa mio stento o mia salute,
se dimostra soccorso o servitute,
sospetto o sicurtà, secreto o stolto,
se speme o strido, se salvo o sepolto,
se le catene mie strette o solute.
Ch’io temo forte che non mostri segno
di superbia, sospir, severitate,
stratio, sangue, sudor, suplicio e sdegno.
Ma se loco ha la pura veritate,
questo S dimostra con non poco ingegno
un sol solo in bellezza e ‘n crudeltate.
In realtà nessuno dei due sonetti di Aretino sta al gioco, ovvero risponde puntualmente alla domanda formulata nel testo del Cortegiano. Resta dunque segreto, tutto da decifrare, il significato della 'S' di Elisabetta Gonzaga. La 'S' in questione, descritta come un gioiello “che la signora Duchessa porta in fronte” è sicuramente un ornamento da lenza, ovvero un elemento tipico delle acconciature femminili in voga tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Secondo tale moda (la cui prima ispirazione pare fosse spagnola) i capelli delle dame venivano raccolti sulla parte posteriore del capo in una reticella, dalla quale poi fuoriuscivano composti in una lunghissima treccia avvolta in nastri e chiamata coazzone. La reticella era assicurata al capo da un nastro chiamato lenza – o ferroniere – dal centro del quale, di sovente, pendeva un gioiello. L’uso di questo genere di acconciatura presso la corte urbinate è attestato, ad esempio, dalla medaglia realizzata da Adriano Fiorentino per la stessa Elisabetta Gonzaga. Un’acconciatura simile è sfoggiata dalla Duchessa anche nel ritratto di Raffaello conservato presso le Gallerie degli Uffizi in Firenze. In questo caso si tratta, in realtà, di una variante nella quale i capelli sono meno tirati e ricadono dolcemente sulle spalle, per essere poi raccolti all’altezza della nuca in un velo trattenuto sulla parte posteriore del capo dalla lenza passante sulla fronte. Un buon esempio di questa variante del coazzone è offerto dal bel busto di Isabella d’Este realizzato da Gian Cristoforo Romano e conservato in un museo statunitense.
Gian Cristoforo Romano, Busto di Isabella d'Este, terracotta, 1498 ca., Fort Worth (Texas), Kimbell Art Museum
Nel ritratto di Elisabetta Gonzaga conservato agli Uffizi, sulla bianca fronte della duchessa di Urbino risalta un gioiello da lenza in forma di scorpione. In una recente scheda di catalogo (Cammeo Gonzaga 2008, scheda n. 1) Mauro Lucco identifica il gioiello con un pendente in vetro nero conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna (inv. KK 2788). In realtà il manufatto conservato a Vienna – che sembra peraltro databile alla fine del ‘500 – appare diverso nella forma da quello presente nel dipinto di Raffaello: differente è l’inclinazione dell’aculeo, diversa è la disposizione delle otto zampe e inoltre nell’esemplare viennese manca la pietra preziosa attanagliata dallo scorpione del ritratto.
Raffaello Sanzio, Ritratto di Elisabetta Gonzaga, 1500-1506, olio su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi; Vetrerie austriache, Pendente a forma di scorpione, 1590-1591, vetro nero opaco, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer
Già nel 1893 il gioiello presente nella tavola degli Uffizi aveva destato l’interesse di Alessandro Luzio e Rodolfo Renier, che lo avevano posto in relazione con il gioiello in forma di 'S' citato da Baldassarre Castiglione:
"Nel ritratto d'Elisabetta ch'è agli Uffizi, di cui toccheremo, ella ha, come nella medaglia, un cordoncino, che le gira il capo, e proprio in mezzo della fronte, v'è appeso uno scorpione. Si tratta con tutta probabilità d'un' impresa, che trova la sua spiegazione nel simbolismo animalesco medievale. Ora la S. potrebbe essere l'iniziale di Scorpio, che forse Elisabetta portava in fronte talvolta, in luogo dell'animale. All' Unico, sapesse egli o no la cosa, tornava comodo di fare dei poetici bisticci con quell'iniziale". (Luzio, Renier 1893, p. 261]
L’ipotesi di Luzio e Renier, che lo scorpione sia un’impresa, troverebbe conferma nel repertorio delle imprese dei Gonzaga: Luigi Rodomonte Gonzaga, cugino di secondo grado di Elisabetta, dal 1521 portava come propria impresa uno scorpione accompagnato dal motto QUI VIVENS LAEDIT MORTE MEDETUR: il riferimento è alle proprietà curative degli scorpioni essiccati. Tuttavia la distanza tra Elisabetta e Rodomonte lascia aperte perplessità sull’effettiva sovrapponibilità del gioiello della Duchessa di Urbino con l’impresa del lontano parente.
Impresa di Luigi Rodomonte Gonzaga, da Paolo Giovio, Dialogo dell'imprese, 1556, p. 77
Per altro una motivazione astrologica per la forma del gioiello di Elisabetta appare poco plausibile: sappiamo che Elisabetta nacque il 9 febbraio 1471, sotto il segno dell’Acquario e in mancanza di carte d’archivio che consentano di calcolare ascendente e tema natale della Duchessa, qualsiasi lettura in chiave astrologica risulterebbe del tutto infondata.
Certo è – e il ritratto di Raffaello ne è la prova palese – che Elisabetta adottò il segno dello scorpione come sua propria impresa e il motivo non può che essere uno. Nel III libro del Cortegiano, ragionando d'amore, Cesare Gonzaga a un certo punto non può più evitare di menzionare la più nota, la più taciuta, virtù di Elisabetta:
"Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale, essendo vivuta quindeci anni in compagnia del marito come vidua, non solamente è stata costante di non palesar mai questo a persona del mondo, ma essendo dai suoi propri stimulata ad uscir da questa viduità, elesse più presto patir esilio, povertà ed ogni altra sorte d'infelicità, che accettar quello che a tutti gli altri parea gran grazia e prosperità di fortuna". [Il Cortegiano, III, XLIX]
Ma grazia cortese pretende che tutto venga vissuto "senza fatica", "con sprezzatura". E così ribatte Elisabetta:
"Seguitando pur messer Cesare circa questo, disse la signora Duchessa: - Parlate d'altro e non entrate più in proposito, ché assai dell'altre cose avete che dire" . [Il Cortegiano, III, XLIX]
Anche Pietro Bembo nell'elogio De Guidobaldo Feretrio deque Elisabetha Gonzaga Urbini Ducibus liber, scritto in occasione della morte di Guidobaldo avvenuta nel 1509, così ricordava:
Il Signor Guido Ubaldo, o per difetto di natura, o più tosto, come esso credea, per malie che fatte gli fussero non potè in tutto 'l tempo di sua vita conoscer donna carnalmente, né il matrimonio exercitar.
Nella versione latina dell'elogio funebre Bembo esplicitava che l'autore di queste malie sarebbe stato lo zio-precettore Ottaviano Ubaldini: "sive corporis et naturae vitio, seu, quod vulgo creditum est, artibus magicis ab Octaviano patruo propter regni cupiditatem impeditum, quarum omnino ille artium experientissimus habebatur, nulla cum foemina coire umquam in tota vita potuisse" [Bembo, Opere IV, 299]. Dunque, alla luce delle tristi vicende coniugali di Elisabetta, e soprattutto in relazione alla sterilità della sua unione con l’impotente Guidobaldo da Montefeltro, si può ipotizzare una lettura dell’ornamento della lenza alla luce della fede negli astri: nella teoria della melothesia (la disciplina medica che teorizzava i legami intercorrenti tra i segni dello zodiaco e il corpo umano) il segno zodiacale dello Scorpione è infatti preposto all’apparato riproduttivo (si veda la splendida illustrazione contenuta ne Le Très Riches Heures del Duca di Berry).
L'Uomo zodiacale, miniatura da Les Très Riches Heures du duc de Berry, XV secolo, Chantilly, Musée Condé
Il gioiello in forma di scorpione di Elisabetta Gonzaga potrebbe quindi essere una sorta di talismano, incaricato di invocare le forze celesti per coadiuvare la Duchessa nel difficile – in realtà impossibile – compito di dare un erede al ducato di Urbino. A prescindere dall’interpretazione del significato dello scorpione, probabilmente il gioiello da lenza citato nel Libro del Cortegiano e quello presente nel ritratto degli Uffizi non sono la stessa cosa. Non sono tuttavia mancati tentativi di identificazione in questo senso: oltre a Luzio e Renier, anche Bruno Maier è convinto che la 'S' di cui parla Aretino sia in realtà lo scorpione del ritratto agli Uffizi [Maier 1954, pp. 580-584]. Ma il gioiello in forma di 'S' che orna la fronte di Elisabetta Gonzaga va probabilmente identificato con un gioiello diverso.
Si deve a Cecil Clough il merito di aver aperto la via a una nuova ipostesi sull’identificazione della 'S' di Elisabetta Gonzaga [Clough 1967, pp. 202-18]. Secondo la teoria dello studioso – recentemente ripresa anche da Lina Bolzoni [Bolzoni 2010, pp. 200-208] – la 'S' di Elisabetta Gonzaga sarebbe una maglia distratta dal Collare delle 'S': una catena in oro composta da maglie in forma di 'S' unite da anelli, che veniva conferita dal Re di Inghilterra in segno di stima e gratitudine ai suoi dignitari.
Tomba di Lord John Marmion (morto nel 1387), alabastro, St. Nicholas Church, West Tanfield (Yorkshire) [a sinistra]; Tomba di Lord William Philipp di Bardolf, dignitario della corte di Enrico VI (morto nel 1441), alabastro, Church of St. Mary, Dennington (Suffolk)
Questo particolare tipo di ornamento (livery collar, o collare di livrea) è attestato nella corte inglese fra il XV e il XVI secolo, e il suo uso fu introdotto da Enrico IV d’Inghilterra, primo sovrano della famiglia Lancaster (1367-1413). Col passare degli anni il collare, costituito originariamente da una striscia di cuoio o stoffa sulla quale erano applicate 'S' metalliche, mutò la sua forma, fino ad assumere quella di una catena metallica, composta da una serie di maglie in forma di 'S', unite da anelli. Le catene potevano essere in oro – nel caso di regnanti o nobili – o in argento – nel caso di membri della corte di grado inferiore – e ad esse potevano essere appesi pendenti (livery badges) di forme diverse, a indicare l’appartenenza a differenti ordini cavallereschi o incarichi particolari. Ad esempio nel ritratto di Thomas More dipinto da Hans Holbein dal collare delle 'S' pende la rosa dei Tudor.
Petrus Christus, Ritratto di Edward Grimston, 1446, olio su tavola, collezione del Conte di Verulam, esposto dal 2000 alla National Gallery di Londra (Edward Grismon, dignitario della corte di Enrico VI, regge in mano il Collare delle 'S'); a destra: Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Thomas More, 1527, tempera su tavola, New York, Frick Collection
Sebbene il Collare delle 'S' sia stato prodotti in numerosi pezzi, con molte varianti di foggia – che risultano diffusamente attestati in sculture, vetrate, dipinti e miniature – solo quattro esemplari sono sopravvissuti fino a oggi, due in oro e due in argento.
Collare delle 'S', 1500 circa, argento, Londra, Victoria and Albert Museum [a sinistra]; Collare delle 'S', 1440-1450, argento, Londra, Museum of London
Dei due in argento uno è conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, e l’altro – ritrovato nelle acque del Tamigi nel 1983 – fa parte delle collezioni del Museum of London. Dei due esemplari in oro, uno si trova a Londra presso la Mansion House (residenza ufficiale del primo cittadino londinese): dal 1545 esso viene tramandato da ogni Lord Mayor della City di Londra al proprio successore (in molte altre città del Regno unito i Mayoral Collars – decorazioni ufficiali indossate dai sindaci nelle cerimonie più importanti – riprendono la forma del Collare delle 'S', ma solo quello londinese risale al periodo Tudor). Un secondo esemplare antico del Collare delle 'S', risalente anch’esso al periodo Tudor è recentemente passato sul mercato antiquario.
Collare delle 'S', ante 1535, oro, Londra, The Mansion House [a sinistra]; Collare delle 'S', 1546-7, oro, venduto all'asta da Christie's il 6 novembre 2008
Il significato della lettera 'S' che forma le maglie del collare è stato a lungo dibattuto. Le ipotesi più accreditate oggi sono sostanzialmente due:
- S starebbe per Soverayne (Sovereign, sovrano)
- S starebbe per Souveignex (talvolta Souveyne), prima parola di uno dei motti di Enrico IV d’Inghilterra ‘Souveignex vous du moy’ (ricordati di me).
Più plausibile è questa seconda ipotesi. Già prima dell’incoronazione a Re, infatti, Enrico IV (1367-1413), all’epoca duca di Lancaster, era noto come “Colui che porta la S” e il Nontiscordardimé (chiamato all’epoca proprio “Souveigne-vous-de-moy”) è annoverato fra i suoi emblemi personali. Si conserva ad esempio memoria di una commissione del sovrano a un orafo per la realizzazione di una collana formata da maglie in forma di 'S' alternate a fiori di nontiscordardimé. È pur sempre possibile che, dopo che Enrico salì al trono, il senso della 'S' sia stato mutato da 'Souveignex' a 'Soverayne/Sovereign' e con questa seconda accezione la 'S' sarebbe passata da emblema personale di Enrico di Lancaster a onorificenza concessa dal Re d'Inghilterra: un prezioso dono che il sovrano stesso offriva a chi riteneva degno.
Ma come avvenne che uno degli elementi della collana giunse da Londra a Urbino? Secondo l’ipotesi di Clough fu proprio Baldassarre Castiglione a portarvelo. Castiglione infatti visitò l’Inghilterra fra il settembre del 1506 e il febbraio del 1507 in qualità di ambasciatore di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino. Tale viaggio è ricordato anche nell’epitafio di Baldassarre composto da Pietro Aretino e scolpito nel marmo della tomba Castiglioni realizzata da Giulio Romano presso il Santuario della Beata Vergine delle Grazie nei pressi di Mantova (sul monumento vedi, in questo stesso numero di "Engramma", il saggio di Belluzzi e Bazzotti, con trascrizione completa del testo dell'epitafio. Scopo della missione inglese di Baldassarre era quello di ritirare per conto del Duca le insegne dell’Ordine della Giarrettiera, concesse da Enrico VII al Signore di Urbino [Cartwright 1908]. Giunto a Londra il 1 novembre 1506, Baldassarre fu ricevuto a corte due giorni dopo: venne accolto con grandi onori dal Re che gli fece dono di cavalli e cani da caccia e di una preziosa collana d’oro, appunto il Collare delle 'S'.
Raffaello Sanzio, Ritratto di Baldassarre Castiglione, 1514-1515, Parigi, Louvre
Il collare rappresenta un dono prestigioso, un’onorificenza della cui importanza Baldassarre Castiglione è conscio e orgoglioso. A tal riguardo Lina Bolzoni ha sottolineato la volontà di Castiglione di far raffigurare il collare nella propria cappella funebre presso il Santuario della Beata Vergine delle Grazie e di apporlo a ornamento del proprio stemma nel frontespizio miniato del manoscritto Ad Henricum Angliae Regem Epistola de vita et gestis Guidubaldi Urbini ducis; la stessa studiosa ricorda come più volte il Castiglione dimostrasse di conoscere il valore, non soltanto simbolico ma anche economico, del Collare: in più di un’occasione alcune maglie della collana vennero distratte e messe in pegno. Nel 1521, ad esempio, Castiglione scriveva alla madre esortandola a riscattare “quelli groppi di quella catena destinata a dare in pegno, ch’io pensavo di rimetterla insieme e lassarla ancora a mio figliolo, per testimonio del Re d’Inghilterra” [Castiglione, Le lettere]. Questa fonte offre un duplice spunto di interesse: da un lato ci lascia intendere che il valore simbolico delle 'S' era più alto di quello materiale, dall’altro dimostra come gli elementi della collana potessero essere rimossi e poi rimontati. E secondo l’ipotesi di Cecil Clough, il gioiello in forma di 'S' della Duchessa di Urbino non sarebbe altro che un dono del Castiglione: una maglia distratta della collana d’oro che Baldassare aveva ricevuto in Inghilterra. Come ha evidenziato Michael Wyatt [Wyatt 2005] il verso di uno dei sonetti di Aretino – “se le catene mie strette o solute” – potrebbe alludere anche a questa operazione di distrazione.
Questa accattivante ipotesi si concilia a fatica con la cronologia interna alla fictio letteraria del Libro del Cortegiano: i dialoghi urbinati si sarebbero infatti svolti in assenza di Baldassarre, ancora impegnato nel suo viaggio in Inghilterra. È lo stesso autore che, nella Dedica dell’edizione definitiva del testo – 1528 – ci informa della sua vacanza al momento in cui avvennero i fatti raccontanti nel testo (“io non v’intervenissi presenzialmente per ritrovarmi, allor che furon detti in Inghilterra”). Potrebbe tuttavia trattarsi di un escamotage letterario messo in atto appositamente da Castiglione per dissimulare eil suo omaggio cortigiano ad Elisabetta Gonzaga: nell’edizione manoscritta del 1516, infatti Baldassarre è descritto come presente al momento dei dialoghi urbinati: “el nostro Castiglione, che pur hora d’Inghilterra è tornato” [sul punto vedi Connell 1999, pp. 473-497; Bolzoni 2010, pp. 206-207].
Ma tutti gli studiosi finora hanno sottavalutato una ipotesi: che il gioiello in forma di 'S' indossato da Elisabetta Gonzaga possa non essere un dono di Baldassarre Castiglione, e che la Duchessa possedesse il prestigioso collare già da prima dello stesso Baldassarre. Un'ipotesi in realtà molto plausibile: i Gonzaga infatti erano stati insigniti del collare delle 'S' già dalla prima metà del XV secolo. Una lettera di Re Enrico VI al Marchese Gianfrancesco Gonzaga, datata al 19 ottobre 1436, conferisce al signore di Mantova non solo il privilegio di poter indossare il Collare, ma anche di concederlo a cinquanta persone del proprio seguito, a patto che i dignitari fossero di sangue nobile. Ma già da prima, in un inventario del 1416 si ricorda "unam collariam auream laboratam ad S, divisam regis Angliae". E ancora nel 1451 la marchesa di Mantova Barbara di Brandeburgo, nonna di Elisabetta Gonzaga, mandava un collare delle 'S' a Venezia affinché venisse messo in pegno [Chambers, Martineau 1981; Toesca 1981, pp. 1-2]. Il collare delle 'S' sembra inoltre comparire anche nel celebre ciclo di affreschi a soggetto arturiano eseguitio da Pisanello nel Palazzo Ducale di Mantova. Al di sopra della scena con la battaglia corre infatti un fregio araldico composto da una serie di collari alternati a fiori di calendula (o margherite) identificati da Ilaria Toesca con i Collari delle 'S' [Toesca 1974, pp. 210-214].
Antonio Pisano detto Pisanello, Scena di Battaglia, metà del XV secolo, affresco, Mantova, Palazzo Ducale. Nella fascia superiore dell'affresco si riconosce un fregio araldico composto da livery collars
Tale identificazione trova conforto nella già citata lettera di Enrico VI a Gianfrancesco Gonzaga. A ciascuno dei collari presenti nel fregio pisanelliano è appeso un pendente raffigurante un cigno. Tale pendente sembrerebbe confermare il legame fra la corte dei Lancaster e casa Gonzaga; livery badges di tale forma sono infatti attestati fra quelli in uso presso la corte londinese [Woods-Marsden 1988]: si pensi, ad esempio, al Dunstable Swan Jewel conservato presso il British Museum.
The Dunstable Swan Jewel, inizi del XV secolo, oro e smalti, Londra, The British Museum
Nel già citato inventario gonzaghesco del 1416 si ricorda la presenza di un badge lancasteriano di questo tipo con un cigno bianco, espressamente indicato come impresa del Re di Inghilterra. Dunque la presenza, certamente attestata, di Collari delle 'S' in casa Gonzaga lascia supporre che il significato cortese e cortigiano della lettera (fedeltà e 'ricordo' del sovrano) non fosse affatto sconosciuto, in particolare alla corte di Mantova – ambito dal quale, conviene ricordarlo, provenivano tanto Elisabetta Gonzaga quanto Baldassarre Castiglione.