In hoc signo
Materiali per una tavola warburghiana
a cura di Damiano Acciarino e Christian Toson
English abstract
Perché i segni di questa guerra? Perché questa guerra è anche una guerra di segni, non solo nel modo in cui determinati segni vengono utilizzati ed esposti, ma anche per il modo in cui vengono recepiti e riusati, ben oltre, in coscienza o inconsciamente, le intenzioni di cui potevano originariamente essere investiti.
Bisogna premettere che le dinamiche storiche mutano il loro significato in base al presente a cui si presentano nella loro urgenza conoscitiva, cambiano cioè in base all’attualità che termina la percezione del passato e la sua risoluzione in forma narrativa. Il senso della storia, l’orizzonte entro cui essa prende corpo, è variabile, così come variabili sono le informazioni, o meglio i documenti, che ne innescano l’interpretazione. I segni, cioè il complesso essenziale delle informazioni che determinano la conoscenza, sono segni di un presente evenemenziale che nel racconto già si fa storia, e così si trasforma in materia a cui solo il futuro potrà offrire una cristallizzazione, pur fugace, fissata in transitorie e ricorrenti attribuzioni di significato.
Il presente, magmatico, che ancora ci assale con l’incedere continuo degli eventi, e che proprio per l’instancabile reiterarsi di ciò che si riconosce come fatti e notizie sembra sfuggire a schemi e categorie di sicura applicabilità, determina oggi, con l’esacerbato conflitto dell’estrema Europa, contatto con nuovi segni. I segni sono entità dinamiche e complesse, che non si limitano al ruolo di passivi ricettacoli di concetti; rappresentano piuttosto il punto d’incontro e il catalizzatore di significati (e perciò mentali) accessibili tramite un aspetto esteriore (e perciò materiale), che implica un legame inscindibile tra ciò che si vuole esprimere e come lo si intende esprimere. E ciò avviene comunque in rapporto dialettico.
Da spettatori interessati, più o meno distanti, fisicamente ed emotivamente, dalle logiche di guerra attuate in queste settimane in Russia e Ucraina, veniamo costantemente sollecitati dall’esposizione di segni, a loro modo rappresentativi, documentari, della storia in via di realizzazione. Questi segni ci giungono da innumerevoli fonti – giornali, tv, social media – e spesso, ma questo è dovuto al posto che ci è riservato in questo teatro, univoci rispetto al punto di vista che l’Italia, per ragioni diplomatiche e di equilibri internazionali, è costretta ad assumere: ossia l’invasione dell’Ucraina è deprecabile, la Russia è il nemico da combattere. Grosso modo, dunque, i segni di cui subiamo l’influsso, vengono naturalmente orientati in questo senso, determinando una narrazione degli eventi, un loro farsi, come dicevamo, storia mutevole, in base agli umori, o alle necessità politiche, inevitabilmente polarizzata. Tuttavia, la polarizzazione, neanche a dirlo, attrae in un campo magnetico cui non è semplice sfuggire, se si cerca di evitare la facile via del pensiero a una dimensione, che esclude la polisemia, fondamento linguistico del pluralismo.
Questa pur preliminare e limitata raccolta intende discutere la presenza di alcuni segni della guerra in corso, che sono parte attiva della narrazione che di essa viene fatta e che possono, nella loro infinita vitalità, apparire come una possibile chiave di lettura di un fenomeno le cui complessità e conseguenze sono ancora lungi dall’essere svelabili. Quello che si offre in questa raccolta di materiale per una tavola warburghiana rappresenta un percorso, che muoverà dall’identificazione e interpretazione di segni semplici, ma non per questo meno complessi nelle loro riemersioni nelle circostanze particolari, per approdare a forme più complesse di segni, latrici di una più ampia convergenza di fattori culturali e sostrati di significato. Ciò che forse emergerà, come punto d’arrivo, è che il segno finisce per farsi visione del mondo che intende rappresentare, e proprio per questo strumento d’azione sulla realtà.
Nel segno di Z
Il segno Z è stato forse uno dei più discussi e dibattuti in queste prime settimane di guerra, ricevendo una certa risonanza mediatica soprattutto a partire dalla fine di febbraio e la prima metà di marzo – per esempio, un articolo del 9 marzo 2022 di SkyTG24 titolava Ucraina, perché la lettera Z dei carri armati russi è diventata simbolo della guerra, e come questo molti altri. Sebbene nelle ultime settimane l’interesse per questo segno sembra essersi affievolito – pur mantenendo una certa ripetitiva presenza anche in giorni a noi più prossimi (come si nota dalla “Foto del Giorno” di “Repubblica”, in cui figurava l’articolo di Paolo Di Paolo Zeta, una lettera come arma [30 marzo 2022]) – non si può negare la sua attiva presenza nella narrazione della guerra; si deve pertanto prendere in considerazione come uno dei documenti (dei segni) attraverso cui la guerra è giunta all’opinione pubblica.
Bisogna cominciare col dire che, nonostante il segno Z sia l’unico assurto alla ribalta della cronaca, esso non è l’unico segno presente sui carri armati russi, ma risulta affiancato da una serie di altri segni, come la Z inscritta in un quadrato, la V e la O. Al di là dei significati misteriosi di cui la Z, in particolare, è stata investita, questi segni, nel loro complesso, hanno una funzione, prima ancora di un significato. Sono infatti segni di riconoscimento, per poter smistare i convogli nelle direzioni d’attacco corrette, oltre che per evitare il fuoco amico (che è responsabile, secondo alcune stime, del 5% delle vittime di una guerra).
Il pragmatismo militare gioca qui un fattore determinante, soprattutto per la scelta del segno: questi quattro segni sono infatti facili da realizzare (sia con pennello che con bombolette), essendo composti da tratti essenziali, e soprattutto, esclusa la O, che comunque è minoritaria, sono segni che non appartengono all’alfabeto di coloro che li adottano – ciò di fatto evita potenziali equivoci o fraintendimenti. Lo stesso procedimento si attua anche in altri reparti dell’esercito russo attualmente impegnato nella campagna ucraina, per esempio nella fanteria: i fanti russi portano nastri di diverso colore, rosso, bianco, argento e nero-arancio, mentre gli ucraini portano sul braccio o la gamba sinistra una banda gialla se sono truppe territoriali o volontarie, blu se sono regolari dell’esercito. La Nato usa lo stesso sistema delle bande quando effettua le simulazioni di guerra, per distinguere quali sono le squadre avversarie, dal momento che per uniforme, attrezzatura e tutto il resto, i gruppi sono identici.
I signa della guerra, quindi, in prima istanza, servono a distinguere fisicamente i gruppi, a rendere visivamente ciò che, senza i segni, sarebbe simile, se non identico. Ciò non ha tuttavia impedito a questi segni, già dopo poche ore di conflitto, di uscire dal campo semantico da cui originavano e di entrare nell’agone come vere e proprie entità autonome e attive nella loro ricezione. Agli occhi di chi narra i fatti di guerra, questi segni devono significare qualcosa di più.
Se quindi questi segni diventano portatori di significato altro rispetto alla funzione pratica che hanno, bisogna capire chi e come possa appropriarsi di questo significato per usarlo a proprio beneficio. E naturalmente la propaganda interna alla Russia ha compiuto lo sforzo maggiore, se si pensa che, tramite nota ufficiale del 5 marzo 2022, in un documento del comitato per le relazioni esterne di San Pietroburgo, firmato E.D. Grigorev, indirizzato al governatore di San Pietroburgo A.D. Beglov, si afferma che:
Nella lettera Z è cifrata la frase “Za pobedu” [Per la vittoria], la lettera V significa “Sila V pravde” [La forza nella verità] e “Zadacha budet Vypolnena” [Il compito sarà assolto].
La spiegazione ufficiale lascia leggermente perplessi: perché la lettera non rappresenta un’iniziale vera, ma solo una preposizione? Perché le lettere sono così poco rappresentative dei concetti? In questo comunicato colpisce la parola “cifrato”. Perché mai un governo dovrebbe “cifrare” un messaggio politico ufficiale, come se si trattasse di un messaggio eversivo? I motivi probabilmente sono due. Il primo è che si tratti di un’attribuzione di significato a posteriori. Il segno emerge semplicemente perché fa parte del regime di visibilità del momento e i media lo rivestono della propaganda ufficiale. Il secondo è che la Z in questo specifico caso, proprio perché si tratta di una preposizione, diventa un segno attivo da un punto di vista linguistico. Z si può usare in mille slogan:
Zapad [Ovest]! Za Putin [Per Putin]! Za Pobedu [Per la vittoria]! Za Rossiu [Per la Russia]! Za Rodinu [Per la Patria]! Za Presidenta! Zelensky adesso te la facciamo pagare...e via così dicendo…
Per una persona che non viene dal contesto culturale russofono (per russofono intendiamo anche ucraino, ceceno, moldavo, etc.) è difficile cogliere tutti i referenti lontani ai quali alludono le frasi “Za Pobedu” (per la vittoria) e “Sila V Pravde” (La forza nella verità). La prima frase rimanda a “spasibo dedu za pobedu” (grazie nonno per la vittoria), una campagna di revival della gloria della Seconda guerra mondiale, in nome della quale sono stati composti film, libri, componimenti musicali e poesie. Il ded, il nonno, figura archetipica della cultura russa, allude in maniera non troppo remota, al “nonno Stalin”. Ma è la frase “Sila v pravde”, a essere ancora più interessante: è la citazione diretta di un monologo di un gangster movie di culto degli anni Novanta in Russia, Brat 2 (Fratello 2, 2000, regia Alexei Balabanov), e attualmente, nel 2022, riproiettato in tutti i cinematografi russi:
Вот скажи мне, американец. В чём сила? Разве в деньгах? Вот и брат говорит, что в деньгах... У тебя много денег, и чего? Я вот думаю, что сила в правде. У кого правда, тот и сильней. Вот ты обманул кого то, денег нажил. И чего, ты сильней стал? Нет, не стал. Потому что правды за тобой нет. А тот, кого обманул, за ним правда. Значит он сильней. Да!? ...да...
Allora dimmi, americano. Dove sta la forza? / forse nei soldi? / Ecco, mio fratello dice, che sta nei soldi… / Tu hai molti soldi, e allora? / Ecco, io penso che la forza sia nella verità. Chi ha la verità, è il più forte. / Tu hai imbrogliato qualcuno, hai messo giù soldi. E che cosa, sei diventato più forte? / No, per niente. Perché la verità non sta dalla tua parte. / E dietro quello che hai imbrogliato, sta la verità. Vuol dire che lui è più forte. / Sì!? / …sì…
Non c’è russofono che non abbia visto o non sia a conoscenza di questo film. Nato come sequel di Brat (1997), in un periodo ancora al di fuori della propaganda putiniana, racconta le vicissitudini di un giovane e attraente Danila, reduce della prima guerra in Cecenia, che percorre in un’atmosfera onirica una Russia completamente degradata dagli eventi degli anni Novanta, che entra a far parte del mondo criminale di suo fratello maggiore Viktor e prende parte a numerose violenze che coinvolgono anche lo scontro con la mafia ucraina. Si sviluppa una dialettica fra i due fratelli, nella quale l’uno è attratto dal mondo americano del denaro, e alla fine vi soccombe, mentre Danila, nella resa dei conti davanti a una scacchiera con il boss della mafia di Chicago, pronuncia il monologo qui riportato e l’iconica frase “la forza sta nella verità”. Se al momento della sua realizzazione si trattava di una denuncia della perdita di identità russa, del degrado degli anni Novanta, il suo riuso, oggi, attraverso il simbolo Z, lo fa diventare la narrazione del rigetto all’imperialismo americano, della finanza e dei soldi, uno slogan di rivolta contro un’intera civiltà. Lo stesso titolo, Fratello, è rivelatorio di un’altra capacità che hanno i signa usati in questa guerra: quello di portare lo scontro fuori dal piano del diritto civile, a rifiutare la pluralità ammessa dallo Stato, per costringere ad accettare la dimensione tribale, di legame di sangue, di chi condivide lo stesso segno.
Alla Z è stato anche associato il segno del nastro nero e arancio dell’Ordine di San Giorgio. Si trattava della massima onorificenza militare nel periodo degli Zar, creata da Caterina la Grande in occasione di una delle tante guerre in Crimea, bandita durante il socialismo, e riemersa nel 2005, al settantesimo anniversario della vittoria della Seconda guerra mondiale (o meglio, secondo la riscrittura della storia operata negli ultimi vent’anni in Russia, “la Grande Guerra Patriottica”), con la campagna “io ricordo, io sono fiero” (ja pomniu, ja gorzhus).
Il nastro nero e arancione, segno d’onore del secolo passato, ambiguamente ripreso dai sovietici come medaglia al valore, riservato solo a pochi eroi, torna a comparire negli ultimi anni annodato sulle antenne delle automobili, sugli zaini degli scolari, sulle livree delle automobili e sui corpi della gente. Oggi, il nastro di San Giorgio è un segno che si trova sulle divise degli invasori russi, e, a forma di Z, compare stampato in gigantografie e cartelli pubblicitari della campagna “#INostriNonLiAbbandoniamo” (#CвоихНеБросаем), che per un curioso circolo, presenta un hashtag, il simbolo di un modo di comunicare inventato da un social network oggi bloccato in Russia.
La Z quindi, transitando da segno di riconoscimento e divisione a significante linguistico, già indiretto in quanto lettera straniera, perde anche il riferimento linguistico e diventa disegno, bandiera. In quest’ottica, non sorprende che Z abbia sostituito la bandiera russa ai mondiali di ginnastica di Doha. Ivan Kuliak la esibì alla premiazione in sostituzione del vessillo nazionale, censurato dal comitato organizzatore durante le gare. Il ginnasta, salendo sul podio, indossa il segno Z sul petto, in posizione non laterale, ma centrale, come il medaglione di una corazza, come il segno di un supereroe. Un esempio perfetto di come la soppressione di un simbolo porti all’emergenza di un altro simbolo, più contingente e radicale.
Ma dove sono finiti gli altri segni? Stessa fortuna, infatti, è mancata alla O e alla V, nonostante quest’ultima sia anche stata menzionata dalla nota ufficiale russa, caricata di tutti i riferimenti culturali sopra menzionati. Ciò è probabilmente dovuto a ragioni squisitamente retoriche, diciamo di disposizione. La Z ha infatti finito per risultare più congeniale alla narrazione di questo conflitto, ponendosi come segno ideale alla collazione di nuovi significati. La Z, nella forma grafica qui rappresentata, è presente sia nell’alfabeto latino che in quello greco (maiuscola) ma, per esempio, non in quello cirillico. Dalla prospettiva di chi si serve degli alfabeti latini, la Z si colloca in una posizione di estremo rilievo, cioè in coda all’alfabeto, e possiede una potente carica mistica, riconducibili per analogia alla omega dell’Apocalisse. Così, per esempio, sempre in contesto militare, la omega veniva adottata come segno di riconoscimento dai movimenti antimilitaristi contro la guerra del Vietnam.
La Z diventa così un significante da marketing evoluto, che svolge le stesse funzioni di un hashtag di Twitter, capace di traghettare all’interno di un campo semiotico preciso (quello della propaganda putiniana) tutto quello che gli viene accostato. Non è quindi un caso che Amazon venda in alcuni paesi filorussi abbigliamento griffato con la lettera Z; come non è un caso che la sola lettera Z, a partire dallo scorso 8 marzo, subisca il bando di pubblico utilizzo in alcuni stati appartenenti allo schieramento pro-ucraino (tra cui Repubblica Ceca e Germania).
“Il sonno del senso”
In queste settimane di guerra abbiamo assistito alla caccia al nazista. Accuse reciproche di nazismo tra invasori e invasi è stata una delle principali pratiche di attribuzione di senso a segni rappresentativi di ciò che avrebbe dovuto determinare quale fazione sarebbe stata nel giusto e quale invece perseguisse aspirazioni illegittime. Per parte ucraina, si sono rievocati i miti della Seconda guerra mondiale con la stessa operazione di appiattimento del tempo nel presente operata dai russi. Il 28 aprile 2021, a Kiev, si celebrò la costituzione della 14a divisione Galizia delle Waffen-SS (28 aprile 1943, L’vov) con un vero e proprio re-enactment della marcia con la replica nel dettaglio persino delle ninfe fiorite a precedere un corteo di insegne recanti simboli nazisti e nazionalisti: fra cui spicca il leone giallo su campo blu del regno della Volinia e Galizia, ispiratore dell’attuale bandiera nazionale ucraina.
I simboli non si manifestano mai da soli, ma si accatastano all’interno dello stesso campo semiotico. Il segno della guerra abbiamo visto è simbolo, cioè unione, combinazione (di cose, di significati), accostamento, raduno intorno a qualcosa. Ma il simbolo è anche costituito da una sovrapposizione di segni. È il caso dell’emblema del battaglione Azov. Esso è composto dall’antico Sole Nero nazista (Schwarze Sonne), un’onda di mare agitato (il Mar d’Azov) e, sopra, una lettera proveniente dall’alfabeto runico: il Wolfsangel (Wolfsanker o Doppelanker o Gancio di Lupo), carattere magico che permetteva di sconfiggere i lupi, usato da alcune divisioni tedesche naziste. Sotto, a chiosa, il “tridente”, segno antico di trinità, trasformato nel gladio del nazionalismo ucraino.
Approfondiamo il caso del Tridente o Trizub di Vladimiro il Grande. In origine, simbolo santo della Trinità, in funzione antipagana, anti-mongola: ricontestualizzato, diventa segno del nazionalismo ucraino, presente sull’emblema delle forze armate ucraine. Questo simbolo ha anche la sua variante gestuale, braccio teso con pollice e mignolo raccolti. In origine segno cristologico di benedizione, lo vediamo sfoggiato con decisione da un neo-nazista ucraino durante la parata del 28 aprile. Ma lo stesso identico gesto è usato dall’eroina del film The Hunger Games (2012) in segno di ribellione contro il governo plutocratico e despotico nel quale è costretta a vivere, segno che dal film è migrato nella realtà, usato dai protestanti contro i loro rispettivi regimi a Hong Kong nel 2014 e nel 2019-20, in Cambogia nel 2017, in Thailandia nel 2020, in Myanmar nel 2021.
La giustapposizione dei segni, quindi, permette, attraverso l’unione dei significati, di costruire un nuovo significante, i cui legami con la storia (o meglio i referenti storici) sono chiari, ma che è attuale, capace di agire nel presente. Attraverso il re-enactment della storia assistiamo alla rivitalizzazione del segno. Il discorso fin qui ci porterebbe a pensare che il segno abbia un rapporto semplicemente consequenziale con la storia, che ne segua in qualche modo gli avvenimenti, che vi venga adattato, o al più ri-raccontato, risemantizzato. Analogo processo sembra avere un analogo, ma diverso, precedente nella narrazione della cosiddetta visione di Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio, neanche a dirlo, da parte di autori cristiani – a partire da Lattanzio e, forse, da Eusebio. Al di là dell’effettiva natura del segno divino apparso in visione all’imperatore, che fosse il monogramma ☧ (affiancato da alpha e omega) o più semplicemente un ταυ – di cui peraltro sull’Arco di Costantino a Roma non c’è traccia – ciò che interessa veramente è il carattere soprannaturale della manifestazione. In un’anonima narrazione dell’episodio, inclusa nella Patrologia Latina, si parla esplicitamente di sogno:
Et cum multa de imminentis belli necessitate pertractaret, vidit per soporem in coelo signum sanctae crucis το ταυ, id est Thau, et angelos (0253D) sibi assitentes, et dicentes; In hoc signo vinces. Et evigilans signum, quod viderat, in vexillo depinxit militari (Patrologia Latina 177 0253D).
Il segno è sognato, appare per soporem, quindi nel sonno. E subito dopo – il dinamismo dell’azione è espresso potentemente dal participio presente evigilans – la visione nel sogno diventa segno in vexillo, diventa realtà, o meglio, diventa capace di influire sulla realtà.
In questa duplicità del segno, di essere nel sogno e agire nella realtà, sta tutta la complessità della tempesta semiotica in cui stiamo vivendo. La visione non è solo lo sguardo del soldato, non è nemmeno solo lo sguardo dell’attivista politico, è anche lo sguardo dell’immaginazione. Il segno, oltre a parlare della realtà, si riferisce al mondo del possibile. Riprendendo Aristotele nella Poetica:
[...] οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτο ποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ' οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον. ὁ γὰρ ἱστορικὸς καὶ ὁ ποιητὴς οὐ τῷ ἢ ἔμμετρα λέγειν ἢ ἄμετρα διαφέρουσιν [...]· ἀλλὰ τούτῳ διαφέρει, τῷ τὸν μὲν τὰ γενόμενα λέγειν, τὸν δὲ οἷα ἂν γένοιτο. διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶ σπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν· ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰ καθόλου, ἡ δ' ἱστορία τὰ καθ' ἕκαστον λέγει (Po. 1451b 1-5).
[...] Compito del poeta è dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo il verosimile e il necessario: e infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di comporre l’uno in prosa e l’altro in versi [...], ma in questo differiscono, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più filosofica e più seria della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare.
Per tornare al nostro discorso, il segno entra nella storia (nelle res gestae) come fattore demiurgico, cioè interviene sulla realtà con forza poetica, con l'intento di influire sulle cose che sono ancora in fase di compimento (le res gerendae). Il segno diventa un catalizzatore del possibile, “secondo il verosimile e il necessario”. Se attualizziamo la poesia in tutte le sue forme contemporanee, ci rendiamo conto che stiamo vivendo una totale compenetrazione fra il campo dell’immaginazione e quello della realtà, e in questo forse vediamo uno dei tratti più originali di questa guerra. La realtà in factis e la verità in verbis – cioè la narrazione che si fa di essa – si compenetrano, per cui la visione dei fatti viene influenzata dai segni che li narrano, e i segni a loro volta mutano di valore in base ai fatti che intendono rappresentare.
Fratelli
Ciò trova riscontro reale nell’uso fatto di certi segni complessi durante queste prime fasi di guerra, tanto sul fronte russo quanto su quello ucraino. Figure-segno hanno cominciato a prendere corpo nella spettacolarizzazione del conflitto, al punto che, dal significato di questi segni, si potesse imprimere una determinata deriva alla narrazione del conflitto stesso. Consideriamo i fratelli Klichko, formidabili pugili sui quali è stato girato un film-documentario. Fratelli eroi, come gli Orazi, che combattono contro l’invasore, l’uno come soldato (Volodimir), l’altro come sindaco di Kiev con il giubbotto antiproiettile (Vitalij). Pugili-eroi che rimandano all’immaginario di Rocky contro il temibile Ivan Drago. Nella punch-line del documentario sono presentati con Kampfes, Boxer, Idole, Botschafter, Freunde, Sieger, Volkshelden, ma soprattutto, Bruder.
In questa guerra la parola brat è estremamente diffusa: sono fratelli i gruppi di estrema destra di Bratsvo, la fratellanza ucraina che nei vent’anni della sua esistenza ha avuto rapporti sia con Putin, sia con i nazionalisti del gruppo Eurasiatico di Dugin, sia con il battaglione Azov.
Censor.net | How do you see the future of Russia and Ukraine? Do the two countries have the possibility of a common future? K | The main problem is that, in any family, the relations between brothers are very complicated (Intervista di Dmytro Korchinski, fondatore di Bratstvo, a Censor.net, da Tarasiuk, Umland 2021,184).
I maestri in fatto di tribalismo sono i Ceceni di Kadyrov, che hanno direttamente posto l’effigie del loro capo sulla loro bandiera. Non si tratta certo di una novità nella storia, ma è importante notare che il loro vero simbolo nazionalista, il Borz, il lupo del Caucaso, è stato bandito in seguito alla seconda guerra Cecena. Solo nella logica della fedeltà tribale fra Putin e Kadyrov (che si definisce il suo “pedone”) si può superare la contraddizione di combattere fianco a fianco con chi fino a vent’anni fa era il tuo nemico. Dal punto di vista dei segni, la combinazione è semplice ma estremamente efficace: in un video del canale ufficiale del presidente ceceno (Kadyrov-95) sono montati in sequenza l’effige del capo sui colori nazionali, le bandiere russe, bambini con le magliette con i simboli Z e V, i nipotini di Kadyrov vestiti da soldati con sul berretto la scritta “Ahmat” (nome di battesimo di Kadyrov), che recitano una poesia di propaganda.
Di nuovo, quindi, collatio di segni che definiscono un campo semantico ben preciso, e sono capaci di assorbire la contraddizione, con la stessa disinvoltura con cui alcuni gruppi del battaglione Azov sventolano contemporaneamente una svastica e l’emblema della Nato.
I segni, come vediamo, sono sia ricettori di significati, ma sono anche produttori di contesti. In questo momento, a fronte di significanti stabili, assistiamo a una vertiginosa mobilità dei referenti. E qui si pone il difficile legame fra il contesto che il segno ha, e il contesto che i segni creano. Prendiamo l’esempio più banale: i montaggi che si sono fatti delle copertine non originali il “Time” con l’effige di Putin e i frammenti del volto di Hitler, con il titolo Il ritorno della storia. Rimandi che, per chi conosce i referenti iconografici, rendono il messaggio chiarissimo.
Nella prima immagine, il segno che orienta l’interpretazione dell’immagine sono i tipici baffi hitleriani [immagine dei baffi su fondo neutro]. Essi portano Putin sullo stesso piano dello storico leader nazista; messaggio opposto a quello di Putin stesso che indica nella de-nazificazione dell’Ucraina lo scopo finale della campagna russa. Sovrapporre invece gli occhi di Mussolini al volto di Putin crea un effetto altrettanto felice, ma non altrettanto immediato – tanto che i grafici hanno dovuto apporre una svastica in fronte – peraltro segno non distintivo di Mussolini – per connotare politicamente l’individuo e rendere comprensibile l’analogia, cosa non necessaria nel primo caso. A livello semantico, tuttavia, il paragone tra Putin e Mussolini è forse più proprio, quantomeno nell’applicazione di determinati segni alla persona, come le ormai celebri foto a petto nudo in contesti georgici, che richiamano in maniera neanche tanto velata quelle del duce mietitore (per un approfondimento: Antola Swan 2016).
Prendiamo un altro esempio: la Nato pubblica sulla sua pagina Twitter ufficiale un messaggio di augurio per la Festa della Donna 2022 (“Their strenght, bravery and resilience are symbolic of the spirit of their nation #IWD2022”). La ragazza raffigurata porta, come Kuliak, al centro del suo giubbotto antiproiettile il simbolo del Sole Nero, come descritto sopra, in versione a bassa visibilità per divisa da combattimento. Alla luce dei significati di ascendenza nazista, accettare di esporre pubblicamente questo segno denuncia, da parte di coloro che hanno deciso di pubblicare la foto, l’incapacità (o la volontà) di percepirne in significato – o forse la consapevolezza che il pubblico non ne avrebbe compreso le implicazioni politiche.
Infatti, è l’iconografia stessa della ragazza – volto attraente, spiccati caratteri femminili, come le unghie bianche ben curate, e il fascino dell’uniforme – a collocarla nell’immaginario filmico della bella combattente, la cui fortuna passa immutata dalle Amazzoni, alla Aigiaruc di Marco Polo, dalla Clorinda di Tasso a Wonderwoman o alla Lara Croft di Tomb Raider. Davanti a un’iconografia così precisa lo sguardo dell’occidentale è cieco al simbolo che la lega al nazismo, e vede solo una figura ”instagrammabile”, ovvero istantanea.
Se prendessimo lo stesso soggetto, presentato in un contesto iconografico completamente diverso, non potremmo incorrere nella svista.
La foto è di Andrea Rocchelli, e viene dai suoi scatti fatti a Sloviansk probabilmente nel 2011 (si rimanda al contributo dedicato al fotografo in questo numero). In cosa è diversa questa figura? È una donna, è in divisa da militare, porta dei simboli nazisti addosso. La Nato la potrebbe mai pubblicare per la Festa della Donna? Prendiamo un altro esempio ancora più recente: tutte le testate giornalistiche pubblicano la foto del campione di kick boxe Maksym Kagal detto “The Piston”, morto di recente nei combattimenti di Mariupol. La sua figura di sportivo, di lottatore, a noi familiare, predomina sulla pletora di segni neonazisti nella quale è immerso. Dietro la sua testa, come un’aureola, brilla il Sole Nero. In questo caso è ancora più evidente che la figura filmica-iconografica obnubili, agli occhi degli occidentali, gli evidenti simboli nazisti.
Questi esempi ci dimostrano come l’equivalenza greca di bello=buono sia ancora potente, e rafforzata da una cultura dell’immagine pubblicitaria che è più potente degli stessi segni, in quanto è molto più visibile e pervasiva.
Always be ready
Ed è a questo punto che dobbiamo affrontare l’ultimo stadio del viaggio che stanno facendo i segni di questa guerra, da semplici tessere di riconoscimento, a legami tribali, a dispositivi poetici: la trasformazione, nella nostra cultura, in brand. Non c’è nulla di più pervasivo, invasivo, e persuasivo dei brand nella nostra cultura.
Gli americani avevano già sviluppato il discorso del brand con decenni di anticipo rispetto al resto del mondo, con la campagna presidenziale per Eisenhower del 1952 e lo slogan “I like Ike”. Gioco fonetico, gioco di significanti, immediatezza e gioco enigmistico. La Nato, negli stessi anni, aveva sviluppato il suo emblema: fra le prove scartate vediamo una più evidente e banale stella con gli anelli, simbolo di fratellanza, più simile ai consueti segni di legame tribale. La simbologia era già ben definita, come leggiamo nella dichiarazione del segretario generale Nato Lord Ismay del 28 Ottobre 1953:
A four-pointed star representing the compass that keeps us on the right road, the path of peace, and a circle representing the unity that binds together the 14 countries of Nato. The blue background represented the Atlantic Ocean and the circle symbolized unity.
Lo scarto epocale è stato trasformare questo segno in un logo: in un oggetto grafico perfetto, codificato con le proporzioni esatte dei parametri geometrici e dei colori. Come “I like Ike” entra, per così dire, nel campo semantico del presidente dalla porta posteriore, così si esprime un brand che può esistere non solo come in-segna, come segno su uno stendardo o su un corpo, ma capace di vivere indipendentemente, assumendo un carattere infinitamente più persuasivo.
Nessuno meglio di David Foster Wallace può spiegarci cosa significa vivere oggi nel mondo dei brand:
Like to take an example I was just remembering this morning, my little brother Stoney had this stage of his childhood where he called everything brands of things. He’d say, ‘What brand of dog is that?’ or ‘That’s the brand of sunset where the sun makes the clouds all fiery,’ or ‘That brand of tree has edible leaves,’ et cetera.” She looked over at Lang, who was looking at her in the table. He looked up at her. Lenore cleared her throat. “Which obviously, you know, wasn’t all that big a deal,” she continued, “although it was kind of irritating, but still understandable, because Stoney watched television like all the time, back then.” Lenore recrossed her legs; Lang was still looking at her. “But my family was just having a complete spasm about it, after a while, and one time they even arranged to have Stoney out of the house so we could all supposedly sit down in the living room for like a summit meeting about how to get him to start saying ‘kind’ instead of ‘brand,’ or whatever. (David Foster Wallace, The broom of the system, 399)
Il brand si declina in tutte le componenti della vita, ha una capacità di saltare su tutti i piani della realtà e della finzione, cosa che lo rende immensamente efficace in questa guerra in cui racconto e realtà sono inscindibili. Ripercorrendo le immagini fin qui prese in considerazione, osserviamo il muro dei brand degli sponsor che stanno dietro al ginnasta Kuliak. Perché tutti quei simboli non producono lo stesso ribrezzo di quella semplice Z? Accettiamo il simbolo del battaglione Azov sulla maglietta del pugile Maksym Kagal, che nemmeno leggiamo, stampato come infiniti brand sulle T-shirt che ogni giorno i nostri politici e noi stessi indossiamo (come la maglietta di Hugo Boss dei fratelli Klichko). La guerra si combatte anche sui brand: nessuna notizia ha occupato più spazio sulla stampa russa di quella del ritiro delle varie multinazionali dal territorio federale russo. Questo è stato il più grande effetto della guerra sulla vita delle persone in Russia, abituate anch’esse alla cultura del consumo, che faticano ad accettare una vita senza i marchi con i quali hanno diviso l’esistenza: Volkswagen, McDonald’s, Ikea, etc.
Ma non si tratta solo di segni grafici, ma nello stile di vita, nel modo in cui noi stessi ci rappresentiamo accettando il brand come parte integrante della vita, a rendere gli stessi brand così forti.
Prendiamo il video promozionale della Legione Straniera dell’Ucraina, con lo slogan “Join the Foreign Legion fo Ukraine” scritto in Helvetica, dietro una ripresa a volo d’uccello di una fila di blindati in toni verdi saturi. Un linguaggio del tutto analogo a una pubblicità della Nike, e come tale viene percepito. La perfezione del significante (il brand-logo) e l’attrattività dei referenti (il brand-vita, cultura trendy, film d’azione), di fatto ci persuadono, ci rendono ciechi al significato, al fatto cioè che stiamo parlando di guerra vera, di sofferenze, atrocità, corpi mutilati etc. Il brand riesce a sopravvivere al di là del supporto fisico e anche al di là del significato.
Zelensky, da abilissimo attore e trasformista (la cui esistenza politica è la trasposizione nel mondo reale di un personaggio finzionale), indossa davanti al pubblico internazionale la maglietta con il logo dell’apparel 5.11 (da leggersi “Five-eleven-tactical”, come suggerisce Wikipedia). Si trattava di una banalissima maglietta appartenente a una collezione contenente svariate bandiere nazionali. Un classico marchio americano, analogo agli innumerevoli RayBan, UnderArmour, AreonauticaMilitare, figlio di quella cultura da film d’azione, che veste il borghese medio con l’estetica del militare, senza implicarne l’etica. Paradossalmente, proprio per il suo essere soft, persuasivo, e cool, socialmente accettato, che è capace di trasformarsi in insegna militare di una guerra vera. Lo slogan di 5.11 recita “always be ready”. Il logo richiama alla lontana l’emblema della Nato, del quale è sicuramente un figlio culturale.
Riferimenti bibliografici
- Antola Swan 2016
A. Antola Swan, The iconic body: Mussolini unclothed, “Modern Italy” 21/4 (2016), 361-381. - Braudel [1977] 1999
F. Braudel, Storia, misura del mondo [Paris 1977], Milano 1977. - Chabod 1999
F. Chabod, Lezioni dì metodo storico, Milano 1999. - Lotman [1998] 2008
J. Lotman, La caccia alle streghe. Semiotica della paura [1998], trad. S. Burini e A. Niero, in "EIC", 10 luglio 2008. - Foucault 1969
M. Foucault, The Archaeology of Knowledge, Paris 1969. - Saussure ([1916] 1974
F. Saussure, Course in General Linguistics [Genève 1916], London 1974. - Tarasiuk, Umland 2021
T. Tarasiuk, A. Umland, Unexpected Friendships: Cooperation of Ukrainian Ultra-Nationalists with Russian and Pro-Kremlin Actors, “Illiberalism Studies Program Working Papers” 8 (September 2021). - Wallace 1987
D.F. Wallace, The Broom of the System, London 1987.
English abstract
In this contribution, Acciarino and Toson reflect on the symbol and how it is used during war times. The sign, along with its reception and its reuse, is a dynamic and complex entity and can be considered a device for the interpretation of the ongoing conflict.
keywords | War; Symbol Z; Semiotics; Chi-rho; Nazi; Brands.
Per citare questo articolo: D. Acciarino, C. Toson, In hoc signo. Materiali per una tavola warburghiana, ”La rivista di Engramma” n.196, marzo 2022, pp. 101-124 | PDF dell’articolo
To cite this article: D. Acciarino, C. Toson, In hoc signo. Materiali per una tavola warburghiana, ”La rivista di Engramma” n.196, marzo 2022, pp. 101-124 | PDF of the article