"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

220 | gennaio 2025

97888948401

Teoria della gibigiana

Francesco Zucconi

English abstract

1 | La gibigiana sull’intradosso di uno dei ponti di Venezia, 2024, foto dell’autore.

Il modo più semplice per vederla è spostandosi in barca. Ma anche a chi cammina lungo le calli, a ridosso dei canali, sarà capitato di notare i bagliori di luce che insistono sotto l’arco dei ponti o si spingono fino all’interno dei palazzi, proiettandosi sul soffitto dei saloni privati. A Venezia la chiamano “gibigiana”. Alcuni vi si riferiscono con “la vecia” (la vecchia), quasi a manifestare il carattere ancestrale di questo spettacolo [Fig. 1]. Certo, in città ci sono altri attrattori dello sguardo. Ma una volta che ci si fa caso diventa impossibile non attardarsi a osservarla, come se fosse un’installazione multimediale, un sistema di proiezioni che trasforma le architetture sull’acqua in media façades.

Per la fisica, la gibigiana non è altro che un effetto determinato dalla riflessione della luce su una superficie irregolare, come può esserlo l’acqua di un canale. La luce riflessa si proietta su una superficie terza, che funziona da schermo, creando un effetto luminoso visibile. L’irregolarità e il movimento della superficie riflettente definiscono il carattere cangiante dell’immagine. Il fenomeno è dunque il risultato della frammentazione e diffusione dei raggi luminosi. Ma, per quanto questa descrizione possa risultare convincente, la gibigiana non si identifica in una formula matematica e convoca immediatamente altre discipline, sguardi molteplici.

Prima di tutto, gli storici della lingua, che hanno un bel da fare con la gibigiana. Come si legge in un articolo pubblicato nel bollettino dell’Accademia della Crusca che, a sua volta, riprende gli studi di Francesco Cherubini, Bruno Migliorini, Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli, gibigiana è “forse nome composto, nella seconda parte del quale si può riconoscere un gianna 'strega' (dal nome della dea mitologica Diana, che sopravvive in tanti dialetti romanzi con i sensi di 'fata' 'strega' ed altri ancora [...]) tanto più che la vecchia e il riverbero sono strettamente legati nella tradizione popolare e che il milanese giübiana 'fantasma' […] significa anche 'riverbero'" (Cortelazzo e Zolli 1999, cit. in Paoli 2018, 77). Il suo nome curioso è dunque un esplicito invito a riflettere sul rapporto di reciprocità tra conoscenza scientifica e poetica (Bachelard 1975 [1957]; 1996 [1961]), ovvero a tenere insieme competenze fisiche sulla luce e saperi umanistici (Pierantoni 1986; 2003).

Chi si occupa di media, arti visive e immagini in movimento incontra nella |gibigiana| un “oggetto teorico” (Damisch 1984 [1972]; 1998, 3-17). Ma, a ben vedere, non si tratta, in questo caso, di riflettere sulle implicazioni della rappresentazione del paesaggio o di agenti atmosferici, quanto di indagare un fenomeno fisico, il suo rapporto con un determinato ambiente e il suo portato estetico: riflettere sugli spontanei giochi di luce in prossimità di qualsiasi corso d’acqua e sulla loro capacità di creare atmosfere sensibili. Procedendo per questa via, diventa dunque possibile liberare l’idea di proiezione dalla concezione funzionale attribuitale nell’ambito della storia e della teoria delle arti – la proiezione di –  e valorizzare la capacità della luce di configurare ambienti e forme dell’esperienza (Bruno 2022).

Interessarsi alla gibigiana è dunque un’occasione per intrecciare gli studi sulle arti e sui media con le scienze umane ambientali. Le forme cangianti proiettate sulle superfici che costeggiano un corso d’acqua possono essere considerate in quanto espressione di un “medium elementale”: un incrocio di diversi fattori che siamo soliti chiamare “naturali” e che “si trovano alla base, data per scontata, delle nostre abitudini e del nostro habitat” (Peters 2015, 1). Oppure, sempre concependo la gibigiana in quanto manifestazione dell’interazione di diversi attori umani e non-umani, possiamo parlare di una “mediazione radicale” (Grusin 2017 [2015]), che si rende visibile in spazi urbani ed extraurbani.

Come cercherò di far emergere nelle prossime pagine, la gibigiana è un evento di confine – tra fisica, biologia, percezione e immaginazione – che trasforma la luce in spettacolo e il movimento in coreografia impersonale. Ma essa è anche, continuamente – nel suo darsi sempre e comunque secondo le sue logiche, a partire da un’ampia gamma di variabili, secondo i suoi orari, in condizione di gratuità – una messa in discussione dell’idea stessa di spettacolo, così come di quelle di autore, attore, spettatore, dispositivo e proiezionista. Quello che propongo non è una storia e neppure una teoria compiuta. Si tratta piuttosto di una raccolta di appunti, riflessioni, digressioni; possibili, snodi di un progetto che potrebbe prendere forma e del quale mi limito, in questa sede, ad avanzare l’ipotesi. 

Sciacquare i panni nei Navigli

2 | Giovanni Migliara, Via Fatebenefratelli a Milano, circa 1820, collezione privata.

Non si può dire che Alessandro Manzoni non avesse occhio per il paesaggio. Basti citare a memoria l’incipit dei Promessi sposi, con “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno” (Manzoni 1985 [1840-1842], 5) e ci introduce in un mondo dove l’ambiente può benissimo essere il soggetto di una frase, nonché agire, in termini estetici ma anche biologici, sociali e politici. A tal proposito ricordiamo le descrizioni del morbo in quanto indiscusso protagonista di una storia nella quale, appunto, “La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel Milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimenti che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia” (Id., 551). E, dunque, la conclusione del romanzo, dove la fine dell’epidemia coincide con “una grandine di goccioloni radi e impetuosi, che, battendo e risaltando sulla strada bianca e arida, sollevavano un minuto polverìo; in un momento, diventaron fitti; e prima che [Renzo] arrivasse alla viottola, la veniva giù a secchie” (Id., 674). 

Non è il caso di stupirsi se una delle prime attestazioni della parola gibigiana ricorre proprio in una delle poesie giovanili di Manzoni: “Del sole il puro raggio / rotto dall’onda impura, / sulle vetuste mura / gibigiando va” (Manzoni [1830] 2002, 530-531). Attorno a questa occorrenza del termine si sono generate una serie di interpretazioni e leggende, fino all’ipotesi che “gibigiana” non sia altro che un falso toscanismo, frutto di un gioco tra amici letterati. Secondo tale ipotesi, un giorno, mentre stava passeggiando per i canali milanesi in compagnia di Gugliemo Libri, Manzoni avrebbe domandato “come si dicesse Gibigiana (il guizzare, il balenare del sole riflesso), e il Libri che non lo sapeva, ma non voleva parere di non saperlo, rispose: ‘Gibigiana’!” (Petrocchi, cit. in Manzoni 2002, 530). Un’altra ipotesi vede invece Manzoni chiedere al genero Giovan Battista Giorgini se fosse possibile identificare un equivalente toscano del lombardo gibigiana, “ma né io [Giorgini] né il Giusti, che era pure con noi, si poté contentarlo. Ricevuta la vostra lettera scrissi al Del Lungo (pezzo grosso della Crusca) domandandogli se avesse qualcosa da proporre. Mi rispose [...]: ‘Ho cercato in città e fuori, ma inutilmente; tremolìo, luccichìo, balenìo, e che so io... tutte voci generiche e descrittive del tremulum lumen, che mostrano vergine e speciale di propria significazione la cosa’. Fatto questo non tanto infrequente nel nostro benedetto toscano, del quale fatto sarebbe lungo e fuori di posto voler indagare qui le ragioni” (Scherillo e Gallavresi 1923, 268).

Se, come accennerò tra poco, nelle opere poetiche di Carlo Porta e nel teatro di Carlo Bertolazzi il termine tenderà ad assumere una valenza metaforica, in riferimento a soggetti che esibiscono un’eleganza vistosa, Manzoni coglie il carattere metonimico di un fenomeno fisico, tra proiezione luminosa e attrazione percettiva. Si tratta di una sensibilità ambientale per la quale – contro l’aneddoto del falso toscanismo e i tentativi di toscanizzazione – non occorreva neppure “risciacquare i panni in Arno”. Se per scrivere in una lingua letteraria poteva essere opportuno orientarsi a Firenze, per cogliere il dinamismo ambientale è proprio alla pittura di paesaggio lombarda e alla “tradizione del colore” lombardo-veneta, opposta – da Giorgio Vasari (1568, 58-65) a Federico Zeri (1976, 53-214) – alla scuola fiorentina del disegno, che occorreva guardare. Non è tanto in Arno, quanto nell’alveo più ristretto dei Navigli che diventa dunque possibile incontrare quei riflessi, sfuggenti e mutevoli, che spingono le cose fuori di sé, nell’immagine.

Mentre Manzoni scrive, pittori come Giuseppe Canella, Carlo Bossoli e Giovanni Migliara [Fig. 2] sono impegnati a raffigurare la luce lombarda e il rapporto tra l’aria, l’acqua e la terra (Rebora 2019; Chiodini 2022). Ma, pur indagando la possibilità di rappresentare il paesaggio milanese in diverse momenti del giorno, raramente si soffermano sui giochi di luce. Ancor più dei pittori, la forza di Manzoni è quella di scomporre il fenomeno fisico, identificando il rapporto tra la “purezza” geometrica dei raggi, l’“impurità” del moto ondoso e il divenire schermo delle “vetuste mura”. Manzoni riconcepisce dunque il sostantivo come un verbo. Non semplicemente un verbo, ma un gerundio, espressione di un fenomeno in corso. È un gesto, una danza impersonale. “Gibigianando” è immagine-movimento.

Proiezione e informazione

3| Brian Eno, Gibigiane, 18/04 – 10/07/2024, @Brian Eno @GMR, Galleria Michela Rizzo, Venezia.

La gibigiana non è affare esclusivo di poeti e pittori. Il rischio di fraintendimenti è forte, perché sebbene appaia come una danza di luce, in realtà interagisce con un ambiente, ne deriva rivelandolo. Per riprendere un’espressione di James Gibson (1999), potremmo dire che essa costituisce un caso esemplare di “ottica ecologica”, ovvero un fenomeno percettivo che deriva da un processo di interazione ambientale. Come accennato poco sopra, il dinamismo della gibigiana è determinato dal fatto che la superficie riflettente non è né omogenea né statica, ma è composta da microstrutture in movimento che deviano il percorso della luce in modo imprevedibile; di conseguenza, l’immagine che si forma è instabile.

A un primo sguardo, la gibigiana può sembrare del tutto priva di significato, come un disordine di punti luminosi sparsi, senza una trama. Qualcosa di simile all’“effetto neve” che compariva nei vecchi televisori a tubo catodico, quando il segnale era assente o fortemente disturbato. Eppure, una volta proiettato e visualizzato, anche un fenomeno caotico si caratterizza per una dialettica tra entropia e ridondanza (Shannon e Weaver 2024 [1948]). Se pensata attraverso gli strumenti della teoria dell’informazione, la gibigiana non è solo un gioco di luce ma la trasmissione e visualizzazione di una serie di dati. Quel movimento continuo, quello zampillio, fornisce informazioni preziose sull’ambiente che lo produce. L’immagine è infatti espressione delle condizioni della superficie riflettente e dell’ambiente circostante, evidenziando come il caos percepito possa essere una forma di ordine complesso. Il rapporto tra luci e ombre, l’intensità e la distribuzione spaziale lungo quello che chiamiamo schermo di proiezione possono rivelare, ad esempio, il momento del giorno, le condizioni meteorologiche, la potenza dell’onda, le condizioni di marea, l’ampiezza del bacino, etc. In poche parole, siamo come di fronte a un discorso di luce, fatto dalla proiezione, sul contesto in cui si staglia e dal quale si ingenera.

La gibigiana ha insomma il carattere di una continua, imprevedibile, sperimentazione visiva che la rende assimilabile a una forma d’“arte generativa” (Galanter 2003). Non è forse un caso se progetti artistici più o meno recenti – da Pinot Gallizio a Brian Eno [Fig. 3] – ne hanno tratto esplicitamente ispirazione. Ma la gibigiana è anche un permanente notiziario che ci informa su come funziona essa stessa e su ciò che le sta attorno. Ci invita a ragionare sul carattere al contempo informativo e spettacolare, semplice e complesso, mainstream e sperimentale, naturale e costruito di qualsiasi fenomeno ambientale. Essa è l’immagine associata a un determinato ambiente, ovvero la proiezione di un sistema di relazioni. Osservarla significa fare i conti con un assemblaggio di dinamiche fisiche e fenomeni biologici, pratiche sociali…

Questioni di genere

4 | Giorgio Pàstina, Vanità o La Gibigianna, fotobusta, 1947.

Stando alle indagini etimologiche sopra citate, la gibigiana richiamerebbe Diana, la dea della caccia e della natura, espressione di una femminilità selvaggia, potente, indipendente. Questo possibile legame con il mito fa dunque emergere un’immagine di femminilità esuberante, da qualcuno avvertita come minacciosa, bisognosa di contenimento. Siamo di fronte al carattere metaforico del termine, affermatosi già nelle forme d’uso comune e dunque nelle opere di Porta e Bertolazzi. Siamo dunque di fronte alla possibilità di riflettere criticamente sulle implicazioni morali e di genere legate all’uso di questo termine, spingendo la gibigiana oltre la metafora, nel recupero della metonimia.
 
Da un lato abbiamo un utilizzo del termine in riferimento all’idea di vistosità e preziosità degli oggetti personali, è una questione di apparenza sociale: “Adess che l’è bell lenc, la soa passion, / oltra quella, s’intend, de spassass via, / l’è de andà intorno a fà tutt i fonzion / per drovà el pastoral e la bosia, / e per fà adoss ai picch la gibigianna / con quell topazz in did largh ona spanna” (Porta 1921 [1820], 178). La connotazione di genere della gibigiana è dunque centrale nell’opera di Bertolazzi, dove la protagonista è costretta a ad ammettere la propria vanità e pentirsene di fronte al compagno: “per vess perdonada de ti, e ti te me perdonaret, el soo, perchè ti, poer vece, ti te see bon davvera, ti che te gli’ee avuu on tort sol, e Tè quell de vemm minga coppada subit, dopo el primm dì che te m’ee conossuu... (con rimpianto) Mi sont stada ona stupida, me sont lassada mena via d’i alter” (Bertolazzi 1898, 112). Questa tendenza si rende quantomai esplicita nel film Vanità (1947) di Giorgio Pàstina [Fig. 4], anche noto come La gibigianna, adattamento dall’opera di Bertolazzi: un melodramma in cui la protagonista Bianca, una giovane sarta nella Milano dell’Ottocento, tenta un’ascesa sociale sfruttando la propria bellezza, ma finisce a lavorare per strada come una “lucciola”. Il suo destino si compie incontrando la lama del coltello di Enrico: l’unico uomo che l’aveva amata veramente e che si era sentito ferito dalle sue sfrenate ambizioni. La figura di Bianca, “la gibigianna”, coincide qui con una proiezione del desiderio e della morale di Enrico. Laddove fa scarto, laddove rivendica un’autonomia e un diritto al controllo del proprio apparire, si apre un destino di morte, alleviato dalla possibilità di un pentimento e di un sacramento, in extremis. All’interno di questa narrazione, il fascino della gibigiana non è che un effetto dello sguardo maschile in quanto pretesa di controllo e sanzione.

D’altro canto, la gibigiana è espressione di un potenziale emancipativo, è un dinamismo transindividuale. In questa chiave, essa travalica ogni aspettativa e metro di giudizio. Sempre in corso, come un gerundio, sempre cangiante, essa incarna l’idea stessa di differenza. La figura della Diana-gibigiana entra in risonanza con l’Aby Warburg degli studi sulla “Ninfa fiorentina” (Warburg 1966 [1893], 3-58), laddove lo studioso si interroga sulla sopravvivenza – sotto molteplici spoglie – di una figura femminile, dotata di “accessori in movimento” (bewegtes Beiwerk). Ma il carattere al contempo metonimico e metaforico, ambientale e antropomorfo, della gibigiana si lega anche alle riflessioni proposte da Georges Didi-Huberman nel suo Ninfa fluida. Qui la pittura di Sandro Botticelli viene indagata in quanto punto di intreccio tra una componente psichica e una atmosferica: “una psicopatologia delle turbe del desiderio doveva dunque necessariamente procedere di pari passo con una fisica delle turbolenze meteorologiche: perché Warburg vedeva bene, nella pittura di Botticelli, che l’affetto usciva dal suo soggetto e si spostava come un vento trasformandosi in una sorta di esteriorità atmosferica. E perché, reciprocamente, l’aria di un paesaggio poteva di ventare patetica, tormentata, sintomale, viscerale” (Didi-Huberman 2019 [2015], 98). Se la riflessione di Didi-Huberman si spinge oltre il corpus di analisi warburghiano, contemplando opere, film e immagini contemporanee, il suo discorso resta pur circoscritto alle forme dell’esperienza artistica, senza aperture agli spontanei giochi di luce che si ritrovano in prossimità dei corsi d’acqua.

Come la Ninfa fiorentina, come una Ninfa fluida, la gibigiana non coincide con una figura iconograficamente stabile, ma è – fuor di metafora – scossa dagli agenti atmosferici. È un’immagine che vibra o, meglio, è l’immagine di un vibrare. Per coglierne il potenziale occorre senz’altro una “scienza senza nome” (Agamben 1975), capace però in questo caso di intrecciare anche i campi della fisica, della biologia, della meteorologia.

A San Pietroburgo, oppure a Livorno

5 | Luchino Visconti, Le notti bianche (1957), fotogramma.

Chi frequenta i set cinematografici conosce bene il termine gibigiana. Ma non lo usa per riferirsi al riflesso della luce sull’acqua e neppure a una figura particolarmente appariscente o vanitosa. In quel contesto, gibigiana è il nome di un supporto e di una tecnica. Per chi lavora con la luce, è uno strumento drammaturgico che contribuisce alla modellazione dei volumi delle figure e dello spazio scenico.

Si potrebbe ripensare l’intera storia del cinema come una storia di gibigiana: gli effetti luministici che, di volta in volta, danno forma all’inquadratura e rendono la particolare atmosfera di una sequenza o di un intero film. Ci accontentiamo di Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti [Fig. 5], ispirato all’omonimo racconto di Fëdor Dostoevskij; un film in cui la fotografia è stata preparata “come una sceneggiatura. Infatti Visconti affermò che essa giocava nel film il ruolo di protagonista” (dichiarazione di Giuseppe Rotunno cit. in Rondolino 2003, 378). Siamo nella seconda parte della storia. Mario e Natalia condividono passeggiate e confidenze, in una dinamica fatta di attrazione e rinuncia, simulazione e dissimulazione. In un paesaggio trasfigurato dai bagliori che si proiettano sulle facciate dei palazzi, mai così intensi, i due si abbandonano a un sogno condiviso. D’improvviso irrompe la neve, in quanto fenomeno atmosferico e forma massima di sublimazione scenografica di uno stato emotivo. Ma il ritorno di un amore passato rompe l’incanto. Mario rimane solo. Per chi osserva il film, d’improvviso, viene meno una certa atmosfera.

Di fatto girata a Cinecittà, la scena è ambientata nel quartiere Venezia di Livorno, che a sua volta riloca la San Pietroburgo di Dostoevskij. Nell’umidità della notte, i riflessi si moltiplicano, animando un paesaggio che, come i protagonisti stessi, sembra oscillare tra desiderio e attesa. Gibigiana non è in questo caso il personaggio femminile, considerato nel suo carattere più o meno appariscente o esuberante. Gibigiana è la visualizzazione – come per distacco e proiezione nello spazio pubblico – di una mutazione di stato, come una febbre che attraversa Mario e Natalia. Contro la disparità tra i generi, che struttura l’accezione metaforica del termine, in questo caso la gibigiana riguarda e spinge fuori di sé entrambi i personaggi. La vibrazione luminosa si prolunga e, in un certo senso, si trivializza nello spettacolo della neve. Tali condizioni ambientali introducono dunque un sottile senso di inquietudine e di precarietà. È il paradosso stesso delle idee di apertura e di differenza: nel momento stesso della sua affermazione, ogni riflesso, ogni fiocco, si dissolve o sfuma nel successivo.
Ma la gibigiana non riguarda soltanto i personaggi del film e il loro stato emotivo. Ad essere in gioco è qualcosa di più vasto, quantomeno dal punto di vista spaziale. La sua stessa presenza, sulle superfici dei palazzi, sembra mettere in crisi la separazione tra realtà e spettacolo, tra spazio della città e spazio cinematografico. Nel gioco della gibigiana si verifica un duplice movimento: da un lato il realismo dello spazio urbano di ambientazione tende a essere neutralizzato e sospinto verso la realtà del set e i suoi effetti speciali; dall’altro, lo spazio chiuso del set esce di sé, per mezzo di quegli stessi effetti speciali, ovvero di scelte compositive che assegnano alla luce il ruolo di protagonista.

Come si legge sui libri di storia del cinema, Le notti bianche è ambientato a Livorno e, più precisamente, nel quartiere Venezia di Livorno. Ma la verità è che la tecnica della gibigiana magnifica la condizione “utopica” di un quartiere che, del resto, si chiama con il nome di un’altra città: uno spazio, un set, dove Livorno non è più Livorno, né San Pietroburgo, né nessun altro luogo.

Learning from The Venetian

6 | The Venetian a Las Vegas, 2024, foto dell’autore.

Chi visita il The Venetian di Las Vegas [Fig. 6] si trova in un ambiente dove ogni dettaglio è concepito per ammantare. All’interno dell’hotel, nel groviglio di gallerie, si passa tra canali e piazze, con gondole e gondolieri che cantano sotto cieli di un blu dipinto di blu. Cercando una boccata d’aria che sa di deserto, verso l’esterno, si raggiunge una vasta spianata con una riproduzione monumentale di Palazzo Ducale, Rialto e Campanile di San Marco in scala 1:2. Fin dalla sua inaugurazione, alla fine del secolo scorso, il The Venetian è stato identificato come emblema di una concezione simulacrale dello spazio urbano, nonché riduzione di una città dalla storia millenaria in un brand commerciale (Scheppe 2009, 1236-1245).

Siamo lungo la principale strada di Las Vegas: the Strip, che corre in mezzo a hotel a tema, casinò e continue attrazioni. Sotto uno dei ponti che collegano il The Venetian alla strada, subito prima delle automobili e sopra il fluire delle gondole a motore elettrico, si percepisce un’altra stranezza, quasi una contraddizione. Non sono gli improbabili gondolieri a catturare lo sguardo, ma una serie di riflessi di luce: una gibigiana, anch’essa concepita come l’ennesimo effetto di realtà, come un gioco con i limiti dell’idea stessa di copia, come un ulteriore “effetto Venezia”. Se, come sostengono Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour nel loro celebre studio (1985 [1972]), Las Vegas ha molto da insegnare a chi si occupa di architettura, urbanistica e media, cosa è mai possibile imparare dal The Venetian? Si può forse associare questo gioco di luce che dinamizza il sistema di ponti e canali, a ridosso della strada, alle riflessioni sulla funzione e i significati delle insegne che caratterizzano il paesaggio di Las Vegas (Venturi, Scott Brown, Izenour [1972] 1985, 44-60)? È dunque il caso di annoverare anche questa particolare effetto luminoso nella rivalutazione della componente decorativa e spettacolare di quella città? Che cosa ci può dire, insomma, questa “gibigiana meccanica” di tutte le altre gibigiane che si trovano in prossimità di qualsiasi corso d’acqua?

Quella che si riflette sotto i ponti del The Venetian, a Las Vegas, non è in fondo una gibigiana meno vera delle altre. Anche nella città di Venezia, quella “originale”, anche sul Naviglio Pavese, essa è in molti casi l’effetto di una luce artificiale – un lampione, un neon, i fari di un’auto o di un vaporetto – e non dei raggi del sole. Che si tratti delle “vetuste mura” o di un’architettura moderna o postmoderna, essa tende in ogni caso a proiettarsi su una superficie verticale. Naturale o artificiale che sia, un riflesso luminoso non è mai, per sua natura, né autentico né falso. Né sembra particolarmente promettente l’idea di mettersi a girare per il mondo distinguendo gibigiane buone e gibigiane cattive. Il modo migliore per riflettere su un gioco di proiezioni siffatto sembra essere quello di superare ogni dualismo.

Per quanto possa risultare provocatorio, imparare dal The Venetian significa provare a realizzare il fatto che la gibigiana oscilla sempre tra negazione ed esaltazione spettacolare, caso e intenzionalità, realtà e artificio. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, riguardante le atmosfere cinematografiche, la gibigiana mette in crisi la rigida separazione tra le nozioni di location, spazio di ambientazione e spazio del set. Ed è forse per questo motivo che essa porta sempre con sé qualcosa di “pittoresco”: affascinante e tipico, ma anche potenzialmente eccessivo, ridondante, lezioso, ai limiti dell’inautentico.

In Laguna

7 | La gibigiana sulle pareti delle Gaggiandre dell’Arsenale di Venezia, durante la sessantesima Esposizione internazionale d’arte di Venezia, 2024, foto dell’autore.

Tornare a Venezia dopo essere passati dalla Milano di Manzoni al rapporto tra arte, rumore e informazione, dalla San Pietroburgo di Dostoevskij alla Livorno di Visconti, fino al The Venetian di Las Vegas, significa cercare di comprendere le funzioni e i significati della gibigiana in un contesto del tutto particolare.

Cercare la gibigiana a Venezia significa prima di tutto fare i conti con visitatori, spettatori e turisti assembrati dovunque. Cercarla significa confrontarsi con una serie di cliché riguardanti la Serenissima: effetto diretto di un progetto urbano che si specchia nella propria immagine; effetto di ritorno dell’affermazione del suo mito su scala globale. Ma cercare la gibigiana a Venezia è anche e soprattutto fare i conti con una programmazione di eventi artistici e culturali che si distribuisce lungo l’intero corso dell’anno, tra gallerie pubbliche e private, università, Biennale architettura, cinema, eccetera. È dunque possibile fare posto alla gibigiana tra i tanti media e le immagini, vecchie nuove, che caratterizzano il paesaggio veneziano? E che tipo di contenuto, quali forme, sembra poter assumere nello scenario contemporaneo?

Da John Ruskin (1987 [1851-1853]) a Judith e Walter Munch (1972, 415-442), fino ai più recenti studi e pamphlet, Venezia è stata descritta come sito di lento o accelerato deterioramento del patrimonio storico-artistico, a causa di condizioni ambientali del tutto eccezionali, nonché di processi storico-sociali e scelte politiche. Se Ruskin ha studiato e, in questo modo, cercato di salvare ciò che è soggetto a scomparire, i Munch hanno proposto l’idea di concepire e riconcepire Venezia come un ologramma, registrando ciò che essa è o, quantomeno, ciò che appare. L’affermazione della nozione di Antropocene e la consapevolezza delle conseguenze del riscaldamento globale non fanno altro che rilanciare un’ossessione di medio e lungo periodo: “salvare Venezia”, ricorrendo a diverse ipotesi progettuali (Fabian e Centis 2022), finanche considerando la possibilità di una cristallizzazione, che ridurrebbe lo scarto con il The Venetian.

 
Si tratta di questioni imprescindibili, alle quali pure i programmi curatoriali delle Biennali degli ultimi anni hanno cercato di rispondere, confrontandosi con l’impatto del riscaldamento globale e assumendo in modo esplicito un approccio ecocritico. Ma, ben al di là delle opere in mostra nello spazio delle Corderie o nei padiglioni nazionali, chi visita l’Arsenale di Venezia [Fig. 7] non può fare a meno di ammirare l’enorme, estemporaneo, generativo, gioco di luce sulle pareti delle Gaggiandre, che mette in connessione, e sintetizza in immagine, fattori ambientali eterogenei. Di fronte a una manifestazione tanto spettacolare quanto estemporanea, di fronte a un fenomeno locale, situato, nel cuore di uno dei programmi artistici più influenti su scala globale, si offre dunque l’occasione per un ultimo affondo.

Rispetto alle diverse forme di scrittura, verbale o ologrammatica, mirate a salvare Venezia ipostatizzando il suo essere immagine, la gibigiana è tanto autonoma quanto effimera. A differenza di un’installazione multimediale, a differenza di un’immagine cinematografica, la gibigiana non ha un archivio né un’istituzione – Presidenza o Magistrato – che la possa gestire. Più delle pellicole di nitrato di cellulosa, più di qualsiasi altro supporto, la gibigiana è al contempo effetto delle increspature dell’acqua e gioco di fuoco. È apparizione e immediata scomparsa.

Senza la pretesa di entrare in concorrenza con le poche sale o con i diversi festival presenti in Laguna, la gibigiana è come una forma di cinema che propone un’esperienza radicale: si ingenera in profondità, ovvero laddove immediatezza e mediazione, realtà e spettacolo, smettono di opporsi l’un l’altro. Inutile pensare di programmarla o patrimonializzarla. L’unico modo per prendersene cura è cercare di comprendere le condizioni fisiche e biologiche alle quali si lega, le dinamiche ambientali alle quali è associata.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

Have you ever seen the “gibigiana”? It is a peculiar play of light, commonly found in Venice and other cities built on water, whereby the reflection of light on the canals projects abstract, moving images onto nearby surfaces. Beyond any scientific description, the gibigiana does not match a mathematical formula. It immediately invites other perspectives. In this article I examine the gibigiana as a “theoretical object” in order to explore the relationship between media and the environment. Instead of offering a fully developed theory, I sketch an open-ended reflection on this phenomenon. My working hypothesis considers the gibigiana as a boundary event—where physics, biology, perception, and imagination meet and challenge one other.

keywords | Gibigiana; Venice; art; media; environment.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Francesco Zucconi, Teoria della gibigiana, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.