Nelle prime inquadrature di Molecole (2020), mentre scorrono le immagini di turisti che attraversano il Ponte dei Sospiri, sentiamo la voce fuori campo di Daniele Segre: “Non ho mai capito se appartengo a Venezia o no”. I primi fotogrammi del film offrono uno sguardo turistico di Venezia quasi senza veneziani e contrastano con l’immagine di una città svuotata e desolata così come verrà ritratta più avanti nel film. Che la prima battuta del film sia un’affermazione di dubbio da parte di Segre definisce, inoltre, il tono di Molecole come film sui temi dell’identità, dell’appartenenza e della vicinanza. Nello specifico, Molecole racconta e riflette sul bisogno di stabilire distanze, ovvero sull’impossibilità di superarle nei contesti dell’afflusso turistico e della fragilità ambientale del capoluogo veneto.
Molecole racconta l’incapacità di superare la distanza a livello personale, familiare e fisico. Queste distanze comprendono la distanza tra Segre e Venezia e l’identità veneziana della sua famiglia, la distanza familiare nel rapporto tra Segre e suo padre Ulderico e, infine, la distanza fisica tra persone, ovvero la distanza imposta dalle misure di quarantena e di distanziamento sociale durante la pandemia del Covid-19. Molecole, quindi, racconta l’esperienza personale del regista in quarantena in una Venezia quasi vuota nei primi mesi del 2020, una città solitamente caratterizzata dal traffico turistico. Inizialmente destinato ad essere un film sull’identità di Venezia come destinazione turistica nota per l’acqua alta, Molecole è diventato invece una riflessione introspettiva sul tema del distanziamento, provocata dalla riscoperta della città da parte del regista attraverso l’identità veneziana di Ulderico, suo padre con il quale aveva rapporti sporadici e scomparso da poco. Dopo aver realizzato il progetto di trasferirsi a Venezia per iniziare le riprese principali del film in febbraio 2020, Segre racconta di essere stato inaspettatamente costretto alla quarantena quando il governo ha chiuso i confini del Veneto a causa della pandemia. Le ‘molecole’ del titolo del film, dunque, si riferiscono non solo alla professione del padre come fisico che studiava la natura delle molecole, come racconta Segre, ma si riferiscono anche alle molecole del coronavirus nell’aria che costringono a mantenere una distanza fisica di due metri e che rendono pericolosa la respirazione, in quanto minuscole masse di sostanza che separano le persone le une dalle altre. Il fatto che ‘molecole’ sia il titolo del film conferisce non solo forma ma anche materialità agli spazi che dividono le persone, rendendo visibile l’aria che le persone occupano in circostanze di separazione fisica. Questo titolo, quindi, rende visibile l’elemento invisibile e trasparente dell’aria, sottolineando la sua importanza in una concezione di Venezia come città elementale.
Quando Venezia viene caratterizzata all’interno dei quattro elementi naturali – terra, acqua, aria e fuoco – l’elemento che viene in mente per primo è indubbiamente l’acqua, data la conformazione della laguna e le caratteristiche dell’ambiente veneziano. Ma in Molecole di Segre, come mostra questo articolo, l’aria è altrettanto, se non più, significativa. L’immagine che precede la prima inquadratura del film, infatti, include una citazione da Lo straniero di Albert Camus, autore preferito del padre Ulderico, come racconta Segre nel film, ed è una citazione sulla distanza, sul tempo e sull’aria: “Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuto, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute”. Questo brano di Camus presenta una progressione temporale mediata dall’aria, in cui quel ‘soffio oscuro’ dal futuro soffia nel presente, ed è la stessa temporalità – parlare del presente dal futuro – con cui Segre inquadra le calli di Venezia che si svuotano mentre racconta che il mondo non era preparato all’impatto che la distanza avrebbe avuto su di loro.
Ma che cos’è l’aria? Al di fuori del contesto contemporaneo e scientifico l’aria fu da sempre considerata come uno dei quattro elementi terrestri: Aristotele, ad esempio, derivò l’idea degli elementi come un quartetto da Platone, che la derivò da Empedocle, il quale sostenne che i quattro elementi naturalmente esistenti che davano vita all’umanità erano la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua. I riferimenti ai quattro elementi antichi entrarono nell’immaginario poetico e nella visione del mondo occidentale dal Medioevo alla modernità, con l’aria che occupa un legame speciale con il linguaggio e la parola. Ampliando questi legami tra aria, linguaggio e comunicazione, i filosofi del XX secolo, in particolare Luce Irigaray, hanno scritto sui rapporti tra aria e parola, respiro e linguaggio e aria ed esistenza umana. Ne L’oblio dell’aria Irigaray scrive che Heidegger trascura la centralità dell’aria nella sua concezione dell’Essere e privilegia erroneamente l’elemento terra (Irigaray 1999, 8). Irigaray sostiene che viviamo nell’atmosfera tanto quanto sulla terraferma, parlando dell’aria come elemental medium che alloggia gli esseri umani, sottolineando che l’umanità non può esistere e sostenersi senza l’aria. Questa caratterizzazione dell’aria come medium denota inoltre la sua natura dialettica, perché la caratterizza come l’elemento che rende possibile la vita, ma lo fa sotto forma di assenza (Irigaray 1999, 12). Per quanto riguarda la sua mediazione, l’aria può essere caratterizzata in quanto medium nel senso che i media sono “condizioni di possibilità” come definisce John Durham Peters, per il quale il significato di medium non viene limitato ai soli strumenti e tecnologie di comunicazione (Peters 2015, 2). L’aria, come medium, archivia e mantiene l’infrastruttura dell’umanità, essendo un elemento respirabile (Peters 2015, 30-38).
I tentativi recenti di dare visibilità al respiro attraverso la quantificazione della distanza sono diventati particolarmente evidenti durante la pandemia, quando le misure governative dipendevano dalla portata del respiro, nella speranza di controllare la diffusione del coronavirus e di ridurre l’intensità della sua trasmissione. Questa quantificazione della portata respiratoria aveva ridefinito anche la distanza dello spazio personale nei termini del respiro. Le misure di distanziamento sociale durante il picco della pandemia tennero conto della dimensione spaziale della respirazione, in cui lo spazio della propria presenza comprendeva anche l’aria circostante che il corpo inala ed espira, portando alla raccomandazione ufficiale che una distanza di sicurezza tra due individui fosse considerata di almeno due metri. Negli ultimi anni l’aria è diventata, dunque, anche un elemento che media la distanza.
Rispondendo anche all’epidemia di coronavirus da una prospettiva biopolitica, Achille Mbembe, nel suo articolo The Universal Right to Breathe in “Critical Inquiry” ribadisce l’importanza della distanza come diritto al respiro. Riconoscendo la natura dialettica dell’aria, Mbembe osserva che il respiro è essenziale sia per indicare l’inizio della vita — è un segno che si è in vita — che per mostrare che la vita è in pericolo, o addirittura che è alla fine:
Before this virus, humanity was already threatened with suffocation. If war there must be, it cannot so much be against a specific virus as against everything that condemns the majority of humankind to a premature cessation of breathing, everything that fundamentally attacks the respiratory tract, everything that, in the long reign of capitalism, has constrained entire segments of the world population, entire races, to a difficult, panting breath and life of oppression (Mbembe 2021, 61).
Mbembe allude qui alla dimensione geopolitica del respirare. La respirazione non è solo una funzione biologica, ma piuttosto un privilegio che viene delimitato a livello etnico, sociale ed economico: a chi viene data l’aria da respirare e come viene determinato l’accesso a quest’aria nei momenti di maggiore richiesta? Di conseguenza, l’elemento della vita e il valore di quella vita, sostiene Mbembe, sono determinati dall’aria respirata, e durante la pandemia del Covid-19 questi privilegi sono stati resi spazialmente visibili attraverso la distanza.
Nel caso del distanziamento sociale nel contesto del coronavirus, le soluzioni per monitorare la portata del proprio respiro hanno comportato l’aggiunta di una mascherina che rendesse portatile e ancora più visibile la distanza. Francesco Casetti scrive delle mascherine come schermi che rimodellano l’ambiente e rinegoziano il nostro rapporto con l'ambiente stesso e le persone che occupano quegli spazi con noi: “They [le mascherine] take part of us from others and part of others from us. […] What we experience is a distance within a closeness” (Casetti 2023, 118). Le dinamiche sociali, in questo senso, sono determinate e facilitate atmosfericamente, filtrate dalla presenza intermedia di mascherine che non solo delimitano e isolano, ma anche proteggono e schermano. Si tratta di un caso in cui respirare la stessa aria è percepito come pericoloso e in cui è necessario condurre con sé la propria distanza “portatile” per evitare di essere troppo vicini a un’altra persona in uno spazio condiviso.
Questa necessità di distanza e isolamento fa dell’aria il medium elementale attraverso il quale pensare alla prossimità spaziale e alla relazionalità, e le rappresentazioni della paura di essere contemporaneamente troppo vicino e troppo lontano sono forse più leggibili nelle scene che rappresentano le forme di distanza in Molecole. Richiamando i tre tipi di distanza presenti nel film (distanze personali, familiari e fisici), Segre tenta di ridurre la distanza emotiva scoprendo i ‘segreti’ che il padre Ulderico gli ha nascosto durante l’infanzia, la distanza fisica imposta dall’isolamento dovuto dalla pandemia, nonché la distanza culturale che Segre avverte nei confronti della città di Venezia, rivendicata già nella prima battuta del film. A questa distanza culturale fa eco la distanza che i veneziani intervistati da Segre nel film provano con la propria città di origine. Una delle amiche di Segre, Elena, vogatrice professionista proveniente da una famiglia di campioni di voga veneziani, dà lezioni di voga ai turisti in inglese: un esempio di distanza culturale e linguistica vissuta da una veneziana mentre la gentrificazione di Venezia ha trasformato la città in un’economia che si basa sul turismo. Poiché anche i fenomeni ambientali caratteristici della città, come l’acqua alta, giocano un ruolo nel determinare la scelta dei veneziani di rimanere o di trasferirsi in città della terraferma, questa distanza culturale che ne deriva è inoltre determinata dall’ambiente. Segre affronta in modo sovversivo i temi dell’allontanamento e della distanza, rappresentandoli attraverso le immagini di una Piazza San Marco vuota e deserta, di tavoli di ristoranti vuoti che si affacciano su una laguna veneziana priva delle solite barche e gondole, di una banchina vuota per l’imbarco del vaporetto, di calli veneziane in cui non si vede nemmeno un persona, di vetrine chiuse e di una veduta di un cortile residenziale vuoto dalla casa dello zio di Segre, dove si trovava in quarantena [Fig. 1]. Il vuoto fornisce una forte immagine di dissociazione, comunicando la sensazione di essere fuori posto, uno spostamento involontario esercitato dalla città stessa.
Gran parte di Molecole si concentra su quanto Venezia sia inaccessibile come città, su come Venezia abbia un disperato bisogno di allontanare la gente e il turismo per rinascere, e su come la città stia letteralmente scomparendo sott’acqua a causa dell’innalzamento del livello del mare. In un’altra intervista un’amica di Elena, Giulia, una veneziana che vive in una casa al piano terra col suo compagno, racconta di aver passato giorni interi a pulire l’acqua che aveva allagato la loro casa, uno sforzo faticoso a causa del quale è finita al pronto soccorso. Nonostante la fatica fisica di mantenere l’abitabilità della sua casa nei periodi di acqua alta, Giulia non sceglierebbe mai di andarsene se non ricevesse l’offerta di un lavoro che non potrebbe rifiutare: “Io finché campo, mi starei qua”.
La decisione di molti veneziani di lasciare Venezia per la terraferma veneta, tuttavia, è in sé uno svuotamento, un distanziamento volontario causato dall’inabitabilità ecologica e aggravato dalla continua gentrificazione. Nelle scene che mostrano Venezia prima del lockdown, il regista presenta all’inizio del film una conversazione tra pescatori che discutono le sfide di vivere a Venezia, una città che, ritengono, ha un disperato bisogno di essere allontanata dai turisti per salvarsi, culturalmente e ambientalmente. In questa scena, Mauro e i suoi amici pescatori spiegano come hanno scelto di vivere alle Vignole, “un’isola su un’isola” come la descrivono loro, lontano dalla folla delle isole principali di Venezia. Come dice Gigi, un amico pescatore di Mauro, guardare la laguna può essere piacevole anche quando è priva di turisti nei mesi invernali: “Avere gente a fianco, vicina, di dietro, davanti mi dà sempre fastidio”. La pesca, per loro, è più di una professione; è anche un’opportunità per respirare aria fresca mentre sono soli in laguna: un distanziamento sociale volontario e necessario.
Dal punto di vista culturale e ambientale la narrazione del distanziamento emerge tramite il tema della gentrificazione di Venezia, che Elena e gli altri vogatori intervistati nel film discutono attraverso le descrizioni della laguna. L’afflusso di turisti, osservano i vogatori, non fa che esacerbare il delicato ecosistema ambientale di Venezia, poiché l’affollamento di gondole e di vaporetti crea onde innaturalmente agitate che provocano l’aumento del moto ondoso. Remando per la laguna di giorno durante il lockdown, Elena osserva che la laguna è stranamente silenziosa e vuota, perché la mancanza di onde produce un vuoto che è ristoratore. Il vuoto è dunque un aspetto positivo, in senso epidemiologico nel contesto della pandemia, ma anche in senso ambientale per l’ecosistema fragile di Venezia, consentendo il ripristino e la rigenerazione ecologica. Vale a dire, un ritorno a come era Venezia quaranta o cinquant’anni fa, come dice Maurizio ‘Caigo’ Calligari nel film, ex direttore del Centro Maree del Comune di Venezia. A differenza del tentativo di Segre di superare la distanza che lui sente tra sé e la città di Venezia, nonché la distanza tra sé e suo padre, il distanziamento tra Venezia e il turismo è connotato come qualcosa che non deve essere superato, una forma sana di distanza.
Da un punto di vista personale Molecole mostra Segre mentre tenta di ri-comunicare con il padre Ulderico tante volte. Ulderico è un uomo, come dice Segre, che è sempre stato molto silenzioso durante l’infanzia del regista e che spesso trascorreva ore da solo nel suo studio a casa con la porta chiusa a fare ricerche sugli elettroni. Il film alterna filmati di repertorio realizzati dal padre (che, come racconta Segre, aveva un talento nascosto per l’inquadratura) a scene odierne di Venezia in quarantena. Segre esprime il suo desiderio di colmare le distanze parlando nel vuoto in voce off nelle inquadrature di una Venezia evacuata, come se cercasse di superare le distanze comunicative imposte tra lui e suo padre, tra lui e il suo legame paterno con Venezia. In una sequenza di montaggio con le fotografie che Segre ha scattato il 12 novembre 2019, la notte della grande acqua alta, Segre ammette di aver fotografato non l’acqua o i danni causati dall’alluvione, ma invece “foto di scomparse, di vuoti, quasi di fantasmi” [Fig. 2], [Fig. 3].
Le immagini di vuoto prodotte dall’alluvione, racconta Segre, riecheggiano la paura di rimanere soli, una paura della solitudine che riemerge durante la quarantena del Covid, mentre Segre vaga per una Venezia inquietantemente calma e deserta.
Insieme alla distanza, la paura di essere soli è anche un tema ricorrente in Molecole a livello comunicativo, fisico e culturale. All’inizio del film, Segre racconta come una lettera scritta al padre all’età di 25 anni non abbia mai ricevuto risposta. Nel comunicare di nuovo con suo padre attraverso immagini vuote di buio in Molecole, Segre parla nell’aria che caratterizza gli spazi vuoti come se sperasse di stabilire un contatto col padre che non sente più, un’azione che ricorda il titolo del libro di John Durham Peters, Parlare al vento (1990). Le ansie legate allo sviluppo di apparecchi di comunicazione come la radio e il telefono riguardavano la mancanza di un interlocutore fisico, in quanto si sarebbe dovuto parlare ‘al vento’ per comunicare da lontano. La diffusione del telefono, tra altri apparecchi, ha cambiato le modalità di comunicazione perché l’aria, in quanto elemento trasportatore di messaggi, media l’agevolazione dei fili che collegano le due parti di una telefonata. Il timore di un fallimento comunicativo, come la caduta della linea, o di intercettazioni da parte di terzi indesiderati corrispondeva alle distanze elevate tra chi parla e chi riceve, che mettevano a rischio l’immediatezza che altrimenti non sarebbe stata compromessa in una conversazione diretta. Tuttavia, nel caso della corrispondenza senza risposta di Segre col padre, Segre comunica con Ulderico attraverso la voce off, chiedendogli, “c’è qualcosa che puoi vedere nell’invisibile?” [Fig. 4].
L’oscurità di questa veduta di Venezia di notte, con il suo pronunciato silenzio e vuoto, diventa il medium attraverso il quale il regista tenta una seconda comunicazione. Questa scena alla fine del film culmina nella consapevolezza di Segre del motivo per cui suo padre, silenzioso e non comunicativo come Segre ricorda dalla propria infanzia, è sempre stato un enigma nella sua vita. Lo sforzo di capire il padre è parallelo allo sforzo di capire l’enigma di Venezia in quanto città perché per lui rappresenta la presa di consapevolezza e la necessità di accettare il fatto che lui non potrà mai capire suo padre, che resta enigmatico come Venezia. Capirlo, come Segre si rende conto parlando al vento, richiederà la comprensione di Venezia come città, con la sua storia complessa e il suo presente sempre più effimero di città in crisi.
Le molecole del vuoto e dell’assenza che definiscono la distanza tra i due sono esibite per illustrare la necessità della distanza e l’impossibilità di avvicinarsi. Le molecole tra Segre e suo padre (e le molecole tra Venezia e i suoi turisti) rendono visibile l’invisibilità dell’aria, che è essa stessa protagonista di un film sulla misura delle distanze.
Riferimenti bibliografici
- Casetti 2023
F. Casetti, Screening Fears: On Protective Media, Princeton 2023. - Irigaray 1999
L. Irigaray, The Forgetting of Air in Martin Heidegger, trad. M. B. Mader, Austin 1999. - Mbembe 2021
A. Mbembe, The Universal Right to Breathe, trad. C. Shread, “Critical Inquiry”, 47, S2 (2021), 58-62. - Peters 1990
J. D. Peters, Speaking into the Air: A History of the Idea of Communication, Chicago 1999. - Peters 2015
J. D. Peters, The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media, Chicago 2015.
English abstract
This article analyzes Molecole (2020) by Andrea Segre, reading the element of air as an elemental medium to argue that the cinematic images of air and empty space produce images of distance. Linking this discourse on distance to larger sociological and environmental themes impacting contemporary Venice, such as the city’s increasing gentrification and rising sea levels impacted by overtourism and climate change, this article examines how Segre’s Molecole elementally narrates Venice through air to highlight the city’s own need to distance itself from tourists in a way that reflects the protective necessity of social distancing measures that characterized Venice and the rest of the world during the Covid-19 pandemic.
keywords | Andrea Segre; Venice; Air; Distance; Turism; Coronavirus.
.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Lydia Tuan, La distanza nell’aria. Molecole di Andrea Segre (2020), “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025