Tre incontri tra paesaggio acquatico e culture visuali contemporanee
Laura Cesaro, Miriam De Rosa[*]
English abstract
I
Acque dal movimento dolce, opposto al ritmo sincopato della fabbrica. Con un movimento che si espande da sinistra a destra lungo tre schermi, la superficie appena increspata dell’acqua illuminata dal sole ci porta all’attracco delle navi costruite nei cantieri di Marghera. Tra progetti architettonici ed echi pittorici che alludono alla produzione di Emilio Vedova, un’onda fragorosa si dispiega per 8 schermi e risuona grazie al paesaggio sonoro Prometeo (realizzato per un’altra occasione veneziana tra 1983 e 1984) che supporta il fragore, l’infrangersi. Il tempestoso è però subito bilanciato dal movimento fluido, quasi oleoso, dei pesci che descrivono arabeschi curvi. Chioggia, città di comunità antiche che si radunano attorno ai canti di marinai, di voga e di remi. Città invisibile di memoria calviniana, il centro a sud della laguna è città sensibile, in cui di nuovo torna l’acqua raccontata, vissuta, rappresentata nei racconti orali e nelle topografie narrate da chi la vive.
La laguna suggerisce una via morbida. Riflettiamo sulle immagini, elaboriamo riguardo i linguaggi, i formati, i media che le sostanziano e le lasciano emergere. Si tratta però di un emergere che si rivela transitorio facilitando la forma ad assumere sempre nuovi contorni e riconfigurarsi mentre attraversa ontologie mediali troppo solide, ma soprattutto mentre attraversa ed entra in relazione con spazio e tempo. Le coordinate base dell’esperienza sono in effetti quanto di più prezioso la laguna ci offre poiché sono richiamo a un aggancio concreto – milieu qui e ora fluido – che possiamo fermare in uno script, raccogliere come scrittura che lascia traccia, ma che in qualche modo ci parla di una relazione che, come tale, descrive uno stato inconcluso.
L’unico elemento che ci pare consustanziale, dunque, è la radicale mobilità, intesa alla Didi-Huberman ([2004] 2005), come driver (De Cauwer & Smith 2018, 4) che sostiene un costante montaggio, il quale non si affretta mai verso la conclusione, né tende a cessare.
Abbiamo ritrovato questo stesso senso di inconclusione in molte immagini in movimento che provano a descrivere e rappresentare la laguna veneziana; abbiamo scelto di lasciarci ispirare però da un corpus specifico, attingendo alla produzione di Studio Azzurro (per i riferimenti bibliografici, si rimanda alla Nota in bibliografia).
A partire da tali premesse, nelle pagine che seguono ci soffermeremo su tre lavori – da cui sono tratti i tre immaginari proposti in esergo – che datano diversi momenti della traiettoria del gruppo milanese, focalizzandoci al contempo su luoghi diversi della laguna. Si tratta di Trittico Marghera (Porto Marghera, 2000), Progetti d’acqua (Venezia, 2018) e la Chioggia fluttuante delle Sensitive City (Shangai, 2010; per la scheda completa si rinvia al sito di Studio Azzurro). Ci interessa il livello della rappresentazione, dunque proponiamo un’analisi della diegesi, ma studiando le opere ci sembra che i dispositivi che vengono di volta in volta mobilitati – un video-trittico, una videoinstallazione con messa in scena per 8 schermi associata a un paesaggio sonoro, un ambiente sensibile molto articolato – sfrangino l’immagine in un caleidoscopio di formati diversi. In tutti, eppure, ci sembra di poterci avvalere di un approccio teorico comune che ruota attorno alla nozione di configurazione – un concetto che ci pare utile riprendere e sviluppare proprio per rendere conto degli elementi caratteristici del nostro ambiente e delle immagini che ispira.
Si tratta in realtà di un’occasione preziosa per intercettare un dibattito non nuovo nell’ambito dei film studies, relativo alle sfide poste dalle forme degli oggetti che essi studiano o – se vogliamo dirla in maniera più tradizionale e paludata – relative alla specificità mediale del cinema. Dal nostro punto di vista però, più che di paludi ci piacerebbe provare a occuparci di una laguna che si presenta come acqua viva, forse lenta, talvolta impercettibile nei propri flussi voluttuosi, altre trascinante e impetuosa. Mettere a fuoco questo carattere aperto, che scorre e diviene, è utile infatti per avviare una riflessione più ampia attorno al modo in cui le immagini in movimento ci chiedono di essere guardate e intese (Mitchell 2006).
Sfondo essenziale al lavoro che si svolge a Marghera, ma anche benevola iridescenza quando incrociata dalla luce del sole, prima di divenire cartolina in bianco e nero, l’acqua pare lambire un paesaggio di archeologia industriale che è ambiente ferito, abbandonato e trattiene scritta in sé la traccia di un’alacrità meccanizzata ora esaurita. Superficie planare da cui far emergere i progetti di Renzo Piano, contenitore di riflessi e immagini essa stessa, l’acqua che riempie i Magazzini del Sale si fa cristallo luminoso e scaglie argentee come pesci, che col loro nuotare disegnano forme nello spazio. A Chioggia, l’elemento acqua è intrecciato con l’idea stessa di laguna, di città lagunare, l’idea di cosa sia Chioggia per i propri abitanti, in altri termini è una componente fondamentale del genius loci.
Colte nella propria variabilità, nel proprio debordare dai confini delle definizioni che le costringono, le immagini rompono i frame (riflessi terra-cielo nelle installazioni di Studio Azzurro), si espandono su più schermi, si mischiano con materiali visivi compositi in pieno spirito di assemblaggio, giustapposizione, congiunzione. Vorremmo allora suggerire che piuttosto di una natura ontologica fissa in sé e per sé, ci pare più interessante guardare alle relazioni tra le immagini. Memori della lezione di Raymond Bellour relativamente l’entre-image (Bellour [1990] 2010), la laguna sembra invitarci allora ad avanzare una lettura topologica che presta particolare attenzione alle connessioni.
Opere come quelle di Studio Azzurro che compongono il nostro corpus di analisi esemplificano la cruciale importanza della relazione tra spazio della laguna e sue configurazioni. Di più, nel momento in cui le immagini della laguna entrano negli spazi pensati per accoglierle, essi divengono elementi dell’identità fluttuante di queste configurazioni, a tutti gli effetti navigabili e praticabili da noi che le guardiamo, tocchiamo, attiviamo. Parlare di topologia in questo contesto significa provare a rendere conto delle opere che studiamo in quanto configurazioni dinamiche. Come ricordano Celia Lury, Luciana Parisi e Tiziana Terranova, infatti, la topologia è “deployed by those geographers and political theorists who seek to describe dynamic relations and mobilities that cannot be contained by scaled spatial entities, such as territory” [mobilitata da geografi e da studiosi di teoria politica che cercano di descrivere relazioni dinamiche e mobilità, le quali non possono essere contenute in entità spaziali misurabili e scalabili] (Lury, Parisi e Terranova 2012, 3). Nel suo significato più semplice, il termine topologia è usato in matematica e geometria con riferimento all’organizzazione di spazi non-euclidei. La geometria non euclidea offre gli strumenti epistemologici per “ripensare le proprietà di punti, linee e altre forme che popolano un mondo non lineare” (ibidem). La definizione di Lury e colleghe e la letteratura sia che la ispira, sia che si occupa del concetto, evidenzia un paradigma emergente che ci pare rilevante per studiare le immagini in movimento appartenenti al nostro corpus di analisi. Tra le voci che costituiscono la letteratura cui facciamo riferimento, ci piace ricordare quella di Michel Serres, che nel suo vasto progetto filosofico Hermès di cui non possiamo qui dare conto (Serres [1968], 2022), descrive la topologia proprio nei termini di una serie di connessioni dinamiche che attraversano spazio e luogo. Il filosofo usa l’esempio evocativo di un fazzoletto che, se appiattito e stirato, prende approssimativamente la forma di una figura geometrica, ricordando che la geometria è quella scienza che studia le distanze stabili tra punti, linee e forme con lo scopo di differenziare un elemento dall’altro. Eppure, continua Serres, se il fazzoletto viene piegato o appallottolato, quelle misurazioni stabili verranno alterate: saranno le corrispondenze tra le posizioni degli elementi a diventare evidenti. Angoli che avevano definito l’estensione del fazzoletto improvvisamente si trovano vicini, uno ripiegato sull’altro, bordi non più periferici possono ritrovarsi al centro, sovvertendo la geometria iniziale. Quel che emerge con forza sono dunque non tanto posizioni stabili ma potenzialità di modificare, scambiare, ridisegnare la posizione stessa.
Proviamo a trasferire questo concetto al nostro oggetto di studio. Mettendo a fuoco le relazioni, la mappa della laguna in qualche modo si decostruisce per come la conosciamo e le sue settanta e più isole si fanno punti di una costellazione instabile, modificabile, viva. Si tratta di una costellazione navigabile, ma non solo: le rappresentazioni che la configurano navigano esse stesse e la ri-configurano, si modificano e viaggiano attraverso i flutti di spazio e tempo, come bene ci dimostra il lavoro di Studio Azzurro. Il gruppo milanese ha infatti solcato rive, canali e baie lagunari, trasformando i punti di incontro, incrocio e sovrapposizione in strumenti di osservazione dinamica, luoghi di ricerca e interpretazione. Si tratta di un processo che decostruisce, come suggerisce Ludovica Galeazzo nella sua ricerca sull’isola di San Secondo, la mappa storica e la trasforma attraverso un’operazione analitica: “images and illustrations were transformed into dynamic instruments of research and interpretation” [immagini e illustrazioni sono trasformate in apparati di ricerca e interpretazione] (Galeazzo 2012, 46). Meglio, significa pensare alla laguna come una costellazione di relazioni in corso, ovvero coglierla nel suo essere acquatico e molecolare, liquido e organico, assemblaggio in movimento.
Abbiamo immaginato una traiettoria che naviga attraverso alcuni punti della laguna: con Studio Azzurro ci ancoriàmo, nella certezza che però gettare l’àncora non fa altro che attestare il movimento dell’ambiente che ci ospita, che stiamo attraversando e di cui seguiamo le correnti. Proviamo allora a tracciare la nostra traiettoria riprendendo la traduzione del “point of being” di Derrick De Kerckhove (De Kerckhove e De Almeida 2014) proposta da uno dei fondatori del gruppo, Paolo Rosa, con “punto di vita”. Nelle architetture di visione che il gruppo propone, il “punto di vita”, rispetto al ‘punto di vista’, racconta la necessità di riportare l’attenzione sulla propriocezione, abbandonando la preminenza del solo sguardo frontale, dello sguardo rapace e ordinatore a cui siamo abituati, al dominio dell’occhio, rispetto all’esperienza sensoriale multidimensionale del corpo nello spazio. Occhio, ma anche spazio e corpo, dunque: una correlazione prismatica che porta, al contempo, a una progressiva intensificazione che si manifesta nei termini di: percipere (al suo interno tiene capere – prendere), perspectiva, ex-perio. La nostra traiettoria si compone dunque di tre per-, tre passaggi, tre step che dicono di estensione, di moto, che gettano luce sull’attraverso, in linea con la lettura topologica che porta in primo piano lo spazio di passaggio, le operazioni di flusso, riflusso, contaminazione.
II
Dunque, il primo passaggio di questo percorso parte dal foro. Fòro. “Lo Stesso infatti è sia percepire (pensiero) che essere” (Heidegger [1957] 2009, 15). Nell’accezione di forare, apertura di piccole dimensioni. Limite. Buco. Pertugio. Ichnos verso un percorso guidato. Uno spazio di indagine costruito ad hoc, quasi che il nostro vedere si materializzi su schermi che sincronizzano le impressioni, le emozioni e le paure. È quello a cui ci rinvia Trittico Marghera [Fig. 2]. Una trifora, tre schermi che raccolgono due punti di vista, interno (quello del lavoro, della vita dentro la fabbrica) ed esterno (quello del perimetro vuoto, isolato, apparentemente abbandonato della fabbrica). Studio Azzurro come “portatore di storie” dischiude una prossimità col milieu che si caratterizza per un fiducioso consegnarsi alla potenza commemorativa dell’immagine, intesa non come depositaria di un senso concluso nel passato e in quanto tale archiviato, bensì come innesco di una riattivazione mnestica dello stesso passato nell’apertura del presente e del futuro. Nell’attimo stesso in cui si ri-compongono i vari frammenti, Studio Azzurro lavora con l’immagine liquida alla ricerca della sua corporeità. E la trova nello spaccato di Porto Marghera. Un ambiente, non serve ricordarlo, che molto spesso è letto dall’esterno come una costola, un frammento della città lagunare, pur costituendo uno dei siti di archeologia industriale più estesi d’Italia e un punto nevralgico della vita dei lagunari.
I due “punti di vita” si materializzano allora sui tre schermi che mettono insieme impressioni, emozioni e paure. Qui, alla ricerca di segni in un territorio avvelenato, duro, un occhio che poco lascia spazio al percorso tratteggiato fa scoprire forme di vita: ci mostra un embrione di fertilità. Gli angoli di erba incolta – il terreno fertile su cui lavorare – sono piccole impronte che si scontrano con lo sguardo sugli immensi spazi vuoti o devastati tappezzati da avvisi di pericolo. D’altro canto, abbiamo infatti le grandi strutture industriali, gli intrecci arrugginiti, il cemento armato. L’elemento primario dell’acqua, nel suo essere liquido si impone sulla sovrastruttura, nel suo essere impetuoso connette la frammentarietà che contraddistingue il sincrono delle immagini e fa del guardare l’interno (i lavoratori in fabbrica) e l’esterno (cattedrali di cemento, intrecci arrugginiti, bunker) un vedere univoco: la fabbrica ha finito di ardere e lascia spazio a segni di vita.
Appare ovvio rappresentare questa coappartenenza nel senso di quell’identità che è stata pensata in seguito ed è generalmente nota. Che cosa ce lo potrebbe impedire? […] Se pensiamo il coappartenere (das Zusammen gehören) nei termini abituali come già indica l’accentazione della parola, il senso dell’appartenere (gehören) è determinato in base al “co-”, all’“insieme”, cioè alla sua unità. In tal caso appartenere significa essere inserito e correlato nell’ordinamento di un ‘insieme’, sistemato nell’unità di un molteplice, composto nell’unità del sistema, mediato tramite il composto nell’unità del sistema (Heidegger [1957] 2009, 17).
La laguna si appropria attraverso il clinico sguardo di Studio Azzurro – capere – di quell’estremità, Porto Marghera. Quel luogo ai limiti, nel penetrare il fòro, co-appartiene, cioè viene mediato nell’unità del sistema.
Secondo step della nostra traiettoria ci porta a un per che traccia relazioni topologiche a partire da una Finestra: “Dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, il quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” (Alberti [1436] 1973, 36). Questo breve passo da Alberti, ci è utile per addentrarci nel complesso binomio quadro-finestra: ci ricorda Hans Belting, come l’umanista genovese riprenda “l’antica metafora dell’occhio come finestra dell’anima” e la promuove a “modello” (Belting 2010, 145-146) di una certa maniera di vedere il mondo, secondo cui noi guarderemmo quest’ultimo come attraverso una finestra: attraverso, per-, il prefisso del latino perspectiva. A partire da Alberti, dunque, la finestra diventa macchina prospettica, ovvero dispositivo
[…] per far vedere e far parlare. La visibilità non rinvia a una luce in generale che illumini oggetti preesistenti, ma è fatta di linee di luce che formano figure variabili, inseparabili da questo o da quel dispositivo. Ogni dispositivo ha il suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza e si diffonde, distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che non esiste senza di essa (Deleuze 2007, 13-14).
Abbracciando la proposta deleuziana, la centralità della situatezza che caratterizza la rappresentazione, le immagini e il sapere attorno alla laguna sono definitivamente legittimate, aprendo per altro la strada a posizioni ancor più radicali in tal senso. Riprendendo il concetto di sapere situato di Donna Haraway (1988), nel recente studio forse non a caso dedicato all’oceano come blue media, Melody Jue declina la nozione harawaiana nei termini di una ricerca milieu-specific (Jue 2020). Quella di Studio Azzurro, vorremmo suggerire, è in definitiva una ricerca artistica milieu-specific, in cui la configurazione e riconfigurazione del visibile ha come fine ultimo di situare e dare significato alle cose in ragione di questa medesima posizione - benché mobile, transitoria, eterea, quasi numinosa.
Pensiamo al lavoro del 2018, Progetti d’acqua [Fig. 3]. Costituito da 8 schermi predisposti all’interno del magazzino del sale presso la fondazione Vedova, il lavoro nasce dall’osservazione dei disegni progettuali di Renzo Piano. Utilizzando lo schema espositivo tradizionalmente usato dal pittore come omaggio alla sede, fotografie dell’ambiente prima dell’intervento, bozzetti “scarabocchi asemantici” nell’accezione di Piano, e immagini degli edifici realizzati divengono un tutt’uno dinamico. I materiali si muovono all’interno delle 8 ‘finestre’ di policarbonato installate in uno spazio buio. Ne risultano otto isole di un arcipelago sospeso, dove i disegni si compongono su schermi trasparenti e si susseguono in animazioni video e transizioni che raccontano lo sviluppo del pensiero sulla configurazione della città lagunare, recuperando il contatto con gli elementi naturali ispiratori dei progetti. L’atmosfera acquatica e le luminosità mobili e rarefatte del perimetro di indagine, così come il variare della nitidezza del riflesso degli edifici sulla superficie della laguna vengono tradotti in tre superfici di densità diversa che alleggeriscono o saturano la trasparenza originaria del supporto di proiezione. Così come nel lavoro precedente, in ognuna delle 8 finestre, un flusso impetuoso d’acqua lava ogni pensiero e spazza via tutto. L’impeto dell’onda lascia poi spazio a un movimento dolce e sinuoso di un banco di pesci, scaglie argentee che rappresentano i vari progetti. Tutti co-appartengono, disegnando un’unica laguna. Il ciclo della creazione ha nuovamente inizio. Il desiderio di vedere ‘secondo o con’ lo schermo, come osserva Maurice Merleau-Ponty ([1961] 1989, 25), il cui approccio fenomenologico esula gli obiettivi di questa riflessione, suggerisce tuttavia di cercare un modo per entrarvi. Se insomma la finestra disponeva alla frontalità della rappresentazione, lo schermo, per Studio Azzurro, sempre più dispone all’avvolgimento nella visione. Nella nostra traiettoria, gli artisti ci collocano infatti non solo al di qua o al di là dello schermo, ma ci suggeriscono una via attraverso di esso, portando in primo piano il luogo che emerge per mezzo delle relazioni tra queste posizioni mutevoli. Si tratta di un’esperienza fluida, in cui il fuoricampo è visibile, dichiarato, il limite del riquadro si fa sottile, sfumatura tra sfondo nero e bordo fisico dello schermo.
Facciamo qui allora un passo verso il terzo step della nostra traiettoria. Lo facciamo entrando nell’ultima fase, per ora, della sperimentazione di Studio Azzurro con la Laguna. Se i primi per- che abbiamo proposto – percepire, prospettiva – ci offrivano le immagini evocative del foro e della finestra, all’interno di Sensitive City, l’opera ci riporta delle vedute [Fig. 4]. Una possibilità di spaziare con lo sguardo, ampliare l’orizzonte, data soprattutto dall’occasione di muoversi nell’ambiente e in quello spazio attraverso lo schermo di cui si è appena detto. Questo richiama un’azione performativa da intendersi, appunto, come ex-perio. Si tratta di un’azione che raccoglie diverse sfumature: sperimentare, conoscere per esperienza, esaminare per appropriarsi di – come in Sensitive City. Realizzato per il Padiglione Italia in occasione dell’Esposizione Universale di Shanghai 2010, questo progetto si concentra su sei città italiane, significative per qualità della vita e bellezza: tra queste Chioggia, con Lucca, Trieste, Siracusa, Matera, Spoleto. Lo studio milanese reinterpreta l’utopia di Tommaso Moro proponendo la realtà di un borgo fatto di borghi che si cala nelle profondità della sua vita, delle sue contraddizioni e imperfezioni (Studio Azzurro 2010). Sensitive City appare al visitatore come un percorso interattivo in cui si può interrogare ciascun personaggio con un gesto, generando uno spazio fatto di relazione e in continua trasformazione, capace di conservare e tramandare le tracce dei suoi “portatori di storie”. In questa prospettiva, se in un certo senso si può dire che lo schermo è un piano trasparente, un’ampia veduta, ciò accade perché, l’interattività che caratterizza la pratica artistica fa del fruitore, nella poetica di Paolo Rosa, un inter-attore: da agente passivo ad attivo, anzi essenziale perché le immagini stesse siano in movimento. Sono infatti i visitatori che agiscono all’interno dell’opera stessa – topologia di attori e immagini – azionando dispositivi che, a seconda del punto che occupano in quel momento e della durata della propria interazione, completeranno il videoambiente sensibile conferendo una particolare forma narrativa piuttosto che un’altra. In altri termini, il progetto si configura e riconfigura in ragione dell’interazione, della relazione con chi lo abita e ne fa esperienza. Questo aspetto sottolinea le caratteristiche del dispositivo richiesto dall’oggetto che è chiamato a rappresentare (De Rosa 2020). Nella proposta di Paolo Rosa: “Una città immaginaria disegnata non da un progettista, ma da una moltitudine di umili autori e organizzata su un sistema relazionale complesso, per mettersi in scena, non può che affidarsi a una nuova tecnica, a un nuovo linguaggio” (Studio Azzurro 2010, 11). Nella nostra proposta: se la topologia viene mobilitata in cerca di modalità per descrivere le relazioni dinamiche e le mobilità che non possono essere contenute da entità spaziali misurabili e scalabili, allora Chioggia appare qui oggetto di un’esplorazione profondamente topologica, in cui invece che le estensioni planari, le metrature e le infrastrutture, pare avere valore soprattutto “[l’]instabilità dell’acqua, [l’]equilibrio nel vento, [la] sorpresa nel buio oppure la rivelazione improvvisa nella luce” (Studio Azzurro 2010, 12). È qui che secondo gli artisti si instaura un nuovo modo relazionale di pensare la città, e che secondo noi si può dedurre un modo diverso di pensare la laguna: attraverso la costellazione delle storie che la solcano, “le forme invisibili che l’attraversano, le patine emotive che la formano” (Studio Azzurro 2010, 12), le configurazioni fluttuanti che la descrivono.
III
Si tratta, in conclusione, di mettere in relazione media e laguna alla luce di quella riflessione milieu-specific di cui dicevamo. Muoversi lungo un percorso che valorizza la percezione, che si snoda lungo le prospettive e approda a un pieno coinvolgimento dell’esperienza degli spettatori/visitatori/autori, abbraccia la situatezza della rappresentazione e della produzione di immagini, saperi, coscienza rispetto alla laguna. Questo accorda a nuove forme di relazione, configurazione e comprensione la possibilità di emergere.
Come Studio Azzurro in prima persona e gli abitanti della laguna di cui gli artisti cui raccolgono testimonianza, ci pensiamo come osservatrici situate e incarnate: da questa posizione abbiamo provato a tratteggiare il modo in cui concepiamo la laguna e le sue immagini - come costellazione di nodi dinamici e in relazione tra loro. Jue ci ricorda come alcune riflessioni milieu-specific intendano il termine milieu come spazio ‘centrato’ (“mi-lieu [mid-place]”), altre come ‘decentrato’ o intermedio (in questo caso “mi-lieu [mid-place]”), evidenziando in ultima istanza la tensione tra osservatore – nel nostro caso sia gli artisti che noi come studiose – e contesto in cui siamo situati (Jue 2020, 13). Alla luce di questo, l’unico modo valido di rendere la complessità fluttuante con cui ci interfacciamo ci impone di ragionare al di là degli steccati disciplinari, delle definizioni, delle etichette, per privilegiare una visione topologica che renda conto della materialità fluida e liberi la potenzialità immaginativa del milieu da cui ci troviamo, oggi, a pensare.
[*] Pur avendo concertato insieme la stesura dell’intero articolo, Miriam De Rosa è autrice della parte introduttiva e delle conclusioni (I, III), Laura Cesaro è autrice del paragrafo dedicati ai tre casi studio (II).
Bibliografia
Nota bibliografica
Fra altre pubblicazioni dedicate a mappare il lavoro di Studio Azzurro, facciamo riferimento in particolare a Valentini 1995; De Gaetano 1995; Studio Azzurro 2005; Di Marino 2007; Studio Azzurro 2011; Studio Azzurro 2016; Valentini 2017. Per le schede complete dei lavori di Studio Azzurro si rinvia a https://www.studioazzurro.com/.
Riferimenti bibliografici
- Alberti [1436] 1973
L. B. Alberti, Della Pittura [1436] in Opere Volgari, vol. 3, Firenze 1973. - Bellour [1990] 2010
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H. Belting, La fenêtre et le moucharabieh: une histoire de regards entre Orient et Occident, in E. Alloa (a cura di), Penser l’image, Dijon 2010, 145-173. - De Cauwer, Smith 2018
S. De Cauwer, L. K. Smith, Critical Image Configuration. The work of Georges Didi-Huberman, “Angelaki. Journal of the Theoretical Humanities“, 23:4, 3-10. - De Gaetano 1995
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G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto [Images malgré tout, 2004], trad. D. Tarizzo, Milano 2005. - Di Marino 2007
B. di Marino (a cura di), Videoambienti, ambienti sensibili e altre esperienze tra arte, cinema, teatro e musica, Milano 2007. - Galeazzo 2018
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Studio Azzurro (a cura di), Studio Azzurro. Sensitive City, Milano 2010. - Studio Azzurro 2011
Studio Azzurro (a cura di), Musei di narrazione. Percorsi interattivi e affreschi multimediali, Cinisello Balsamo 2011. - Studio Azzurro 2016
Studio Azzurro (a cura di), Studio Azzurro. Immagini sensibili, Cinisello Balsamo 2016. - Valentini 1995
V. Valentini (a cura di), Studio Azzurro. Percorsi tra video, cinema e teatro, Milano 1995. - Valentini 2017
V. Valentini, Studio Azzurro. L’esperienza delle immagini, Milano-Udine 2017.
English abstract
Starting from the concept of media configuration as a notion able to convey the sense of dynamism, formal openness, and potential (re-)assemblage of the media populating contemporary visual culture, this article reflects upon the aquatic landscape as a paradigmatic environment that inspires fluid and transitory forms. Adopting the Venetian lagoon as an example of such a landscape, the text highlights its role as an experiential framework, which has been serving over the past two decades as a natural agent in the creative process of Studio Azzurro. Through the analysis of three artworks by the collective, each and everyone linked to the lagoon in a different way, the article sketckes a journey unfolding as a voyage made up of encounters, fleeting intersections, and virtuous moments of mutual inspiration between the imagery of the lagoon landscape—captured in the multiplicity of its diverse features—and the development of a reflection that goes beyond representation in order to critically question this landscape in search of dwelling opportunitie.
keywords | Venice; Visual Cultures; Lagoon landscape; Studio Azzurro; Topology; Milieu.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: L. Cesaro, M. De Rosa, Tre incontri tra paesaggio acquatico e culture visuali contemporanee, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.