Un Mondo nuovo
Venezia, 1791. Giandomenico Tiepolo è incuriosito da una piccola folla accalcata nei pressi di un misterioso casotto. Ci sono adulti e bambini, persino un pulcinella. In molti aspettano in fila il proprio turno per affacciarsi a una fessura oltre la quale pare esserci qualcosa di interessante da vedere. Anche il pittore si mette pazientemente in attesa, accompagnato dal padre Giambattista. C’è fermento, gli astanti sgomitano; la coda deve persino essere gestita da un addetto, in piedi su uno sgabello, armato di una lunga e sottile asta. Che cosa, oltre la fessura, attrae quella piccola folla eccitata [Fig. 1]?
Il titolo dell’affresco del Tiepolo che stiamo osservando svela l’enigma. Quel casotto è Il Mondo Novo. Tecnicamente detto Panstoscopio, il Mondo nuovo era uno spettacolo ottico ambulante costituito da una cassa di legno di grandi dimensioni dotata di uno o più pertugi su cui era applicata una lente che ingrandiva le scene visibili al suo interno, le cosiddette ‘vedute ottiche’: ambientazioni urbane di luoghi famosi – piazze, chiese, edifici – realizzate tramite l’uso di pannelli, specchi, intagli, perforazioni e veline trasparenti. Il Mondo nuovo si diffonde dalla seconda metà del XVIII secolo proprio a partire da Venezia in molte città d’Europa, offrendo agli osservatori piccoli ‘viaggi’ in luoghi esotici lontani – cartoline ‘aumentate’, ricche di particolari e animate da semovenze meccaniche e giochi di luce. Il Mondo nuovo precorre l’apparizione di una miriade di mondi nuovi e mondi altri – come i panorami e le fantasmagorie – a cui a quel tempo era sempre meno raro imbattersi, dispositivi tutti accomunati, pur nelle rispettive specificità, dalla medesima capacità di offrire suggestivi ‘viaggi immobili’ nei paesaggi esotici delle terre lontane disvelate dagli esploratori (cfr. Burch 2001). Peraltro in una città come Venezia, tappa obbligata del Grand Tour intrapreso dagli intellettuali europei del tempo, specialmente durante il periodo del Carnevale, compreso tra il Natale e la Pasqua.
Eppure l’enigma si svela solo in parte, perché in cosa consista la veduta non è dato a vedersi. Non sappiamo quale fosse la meta del Mondo nuovo presente nell’affresco. L’unico modo per scoprirlo sarebbe mettersi in fila e attendere il proprio turno per affacciarsi alla fessura … Per l’osservatore dell’affresco non c’è niente da vedere. È la prima di una serie di lagune, ovvero, etimologicamente, lacune: uno spazio vuoto. L’oggetto dell’opera non è il contenuto del dispositivo attorno a cui si raduna la folla; ciò che possiamo apprezzare è solo il desiderio di vedere da parte dei personaggi dell’opera. Ed ecco l’evidenza di una seconda laguna/lacuna. Ribaltando le convenzioni – e con un certo sarcasmo garantitogli dalla libertà di dipingere per sé e non per un committente – Tiepolo rappresenta quasi tutti i personaggi di spalle, al massimo di profilo, come egli stesso e suo padre (e con l’eccezione di un ragazzino al centro, di cui si scorge integralmente il viso), collocando così lo spettatore in una posizione atipica, di fatto in coda assieme agli altri in attesa del proprio turno. Diversamente dalla tradizione pittorica, lo spettatore non entra in una relazione privilegiata con l’oggetto della rappresentazione; può solo accordarsi, disposto a esperire la stessa attesa, la stessa curiosità e lo stesso desiderio di svelamento vissuto dei personaggi, ma doppiamente deprivato dell’oggetto della rappresentazione. A essere mostrata è un’invisibilità alimentata dal desiderio di vedere, e tale desiderio è espresso da una seconda negazione determinata dall’analogia tra l’orientamento dei personaggi in scena e la posizione attribuita allo spettatore. Ciò a cui è interessato il pittore – ciò che vuole davvero rappresentare – è la folla concitata che circonda il dispositivo, il richiamo di una fugace evasione offerta da un curioso spettacolo visivo, fra le molte attrazioni che animavano le piazze della città nel periodo del Carnevale.
Venezia è alla fine di un’epoca – non manca molto alla caduta della Repubblica (1797) – ma ancora non lo sa. La ricerca dello stupore che pervade la città è il sintomo di un mondo che cambia, nell’oscillazione tra la dura realtà e la ricerca dell’evasione dal quotidiano. Lo suggerisce anche Carlo Goldoni nella commedia I rusteghi (1760), dove proprio il futile divertimento offerto dai Mondi nuovi si oppone alla durezza e alle necessità della vita reale: “Mio padre, quando ero giovane, mi diceva: vorresti vedere il Mondo nuovo? O vorresti che ti dia due soldi? Io mi attaccavo ai due soldi” [“Mio pare, co giera zovene, el me diseva: Vustu véder el Mondo niovo? o vusto, che te daga do soldi? Mi me taccava ai do soldi”]. La popolazione sembra più interessata a una modesta e superficiale attrazione e si accalca come oggi può accadere di fronte al botteghino di un cinema, in attesa di entrare in un piccolo e fugace – eppur novo – mondo di fantasia, almeno per qualche istante, ignara di un passaggio fatale, dopo quasi mille anni di storia. O forse questo atteggiamento è proprio il sintomo della fine incombente. Tiepolo in qualche modo coglie l’atmosfera di questa trasformazione epocale, restituendo il senso di un’inconsapevole inquietudine.
Dunque rappresentazione del desiderio di vedere, più che dell’oggetto della visione; necessità di una distrazione più che interesse per il contenuto della rappresentazione. Il vero oggetto dell’affresco è la ricerca dell’illusione di trovarsi calati all’interno di un ambiente diverso da quello in cui ci si trova effettivamente, coinvolti in un’esperienza di dislocazione fisica e mentale attraverso il medium della percezione visiva. Una separazione dal mondo empirico e dal presente per ritrovarsi temporaneamente in un paesaggio altrimenti irraggiungibile, fuori dal tempo, con l’impressione di aver compiuto davvero un viaggio, ma senza aver affrontato alcuna insidia. In una parola: immersione.
Immersione letterale
Sullo sfondo nell’affresco del Tiepolo si scorge l’acqua della laguna. Può sembrare un dettaglio secondario, un puro elemento contestuale, una mera localizzazione geografica, mentre ritengo si tratti di un elemento importante perché mette in evidenza la continuità tra l’ambiente reale in cui si svolge la scena e il senso di immersione nel luogo ‘virtuale’ in cui l’osservatore è trasportato attraverso il dispositivo, tra acqua materiale e immersione artificiale. Nell’ambito dell’esperienza mediale, l’immersione è un concetto polisemico che assume accezioni diverse a seconda dell’ambito in cui è applicato (cfr. Freitag et al. 2020 ). Il suo significato etimologico (dal latino in- e mergere, cioè tuffare) rimanda alla sensazione di essere circondati da una realtà altra – come l’acqua è un elemento altro rispetto a quello consueto dell’aria – “che prende il controllo di tutta la nostra attenzione, di tutto il nostro apparato percettivo” (Murray 1997, 99). Si tratta dunque di una metafora della condizione dell’essere effettivamente calati nell’acqua – uno stato sensoriale e affettivo avvolgente che consente una partecipazione estetica illusiva (Grau 2003; Wolf 2013). La presenza dell’acqua in una rappresentazione rimanda inevitabilmente al suo simbolismo, variabile a seconda del contesto culturale e storico, ma universalmente associato ai concetti di vita e fertilità, purificazione dal peccato, distruzione e rinascita, mistero e trasformazione. Tuttavia ciò che voglio sottolineare, insistendo sulla presenza dell’acqua nell’affresco di Tiepolo che rappresenta l’esperienza immersiva del Mondo nuovo, è che l’immersione agisce a un livello non meramente metaforico. La topologia acquatica di Venezia è funzionale all’estetica multisensoriale che offre al visitatore un’esperienza sempre immersiva, anche e soprattutto tramite l’autopercezione del corpo sospeso e fluttuante, sul vaporetto o una gondola o persino fisicamente immerso nell’acqua alta. Venezia dispone il suo ‘spettatore’ a percepire propriocettivamente la trasparenza liquida che la pervade esteriormente. Ciò a riduzione della metaforicità dell’immersione come sensazione di avvolgimento sensoriale in un medium ambientale capace di agire sulla percezione e alimentare quella suggestione che, spostando il realismo dalla fattualità a un effetto generato da un’immagine, rende ancora più evidente l’oscillazione tra reale-reale e reale-virtuale che il pubblico ricercava nei dispositivi come il Mondo nuovo e che, in una genealogia che conduce fino ai giorni nostri, continua a ricercare nei mondi immaginari offerti dal cinema e dalla Realtà virtuale.
È ora evidente che sto proponendo un’archeologia dello sguardo immersivo, intestando a Venezia il titolo di capitale dell’immersione – visuale e sensoriale, in virtù della sua spiccata componente acquatica, della sua connaturata tendenza a immergere il visitatore in un’esperienza avvolgente e multisensoriale, persino senza mobilitare alcun dispositivo di mediazione. Venezia è una città che era ed è di per sé un luogo esotico in virtù della sua speciale conformazione urbana in cui la terra delle calli, l’acqua dei canali e l’aria dei ponti sono in costante reciproco rapporto. Ma è una città fatta soprattutto d’acqua. Atlantide riemersa, palafitta infinita, irrigata da vie fluide, sinuose o diritte, è un ambiente in cui la presenza dell’acqua reale coopera con l’acquaticità metaforica. L’emergente teoria dei ‘media elementali’ enfatizza il rapporto simbiotico tra i media, l’ambiente e le infrastrutture materiali e naturali (Durham Peters 2015). In questo senso, Venezia è un luogo di immersione post-acquatica proprio in virtù della propria morfologia connaturatamente liquida.
Archeologia dell’immersività
La post-acquaticità di Venezia è attestata dalla sua rilevanza nella storia della rappresentazione pre-cinematografica. Con la sua particolare morfologia architettonica e atmosferica, Venezia si prestava perfettamente a essere immortalata nei dispositivi ottici pre-novecenteschi che cercavano di catturare l’essenza di luoghi lontani e spesso idealizzati e di offrire all’osservatore un’esperienza immersiva. La città era un soggetto popolare nei Diorami, installazioni che combinavano dettagliati dipinti, effetti luminosi e movimento, enfatizzando il gioco di riflessi sull’acqua e le variazioni di luce e riproducendo così la sua aura romantica. L’esempio più noto è The Eidophusikon, or Moving Diorama of Venice, costituito da 14 vedute di canali, chiese, botteghe ecc. e mostrato a Glasgow nel 1841 (cfr. Huhtamo 2013, 104), ma si ha traccia anche di altri diorami con la vista della città già a partire dal 1828, mostrati a Parigi e New York e Baltimora. Un altro diorama, realizzato da Charles-Marie Bouton (inventore, assieme a Louis Daguerre, del Diorama nel 1822) e intitolato San Marco, Venezia di giorno e di notte fu mostrato a Londra nel 1845; e un altro ancora intitolato La Basilica di San Marco a Venezia fu anch’esso mostrato a Londra nel 1847-48 e poi a Colonia. Anche i Panorami, ampie rappresentazioni pittoriche a 360° esibite in apposite strutture circolari, offrivano vedute di punti iconici della città come Piazza San Marco, il Canal Grande, il Ponte di Rialto, la Basilica di San Marco, tenendo a idealizzare Venezia e a enfatizzarne l’aspetto pittoresco. Come per esempio Carnevale di Venezia, realizzato a Londra da Henry Aston Barker e mostrato nel 1823 a Dublino in un teatro costruito appositamente. Oppure il Grand Diorama of Venice realizzato da Clarkson Stanfield e mostrato nel 1831, che offriva un percorso attraverso i canali e persino l’intervento di alcuni attori che interpretavano dei gondolieri, i quali a un certo punto apparivano sul palco e interagivano con quelli di cartone. Una veduta di Venezia era presente in un panorama mobile dipinto da John Banvard nel 1840 (cfr. Huhtamo 2013, 108).
Anche nei Cosmorami e negli stereoscopi, dispositivi portatili che permettevano di osservare immagini tridimensionali o prospettiche attraverso delle lenti, Venezia era un tema popolare, con vedute che offrivano una sensazione di profondità e realismo. Gli stereoscopi, in particolare, esaltavano la tridimensionalità dei canali e delle architetture veneziane, offrendo agli spettatori un’esperienza visiva coinvolgente e intima (vedi Nota sull’Archivio Montanaro). Nei peep show, dispositivi che utilizzavano immagini retroilluminate o perforate per creare un senso di profondità e movimento, le vedute ottiche di Venezia rappresentavano scene di vita quotidiana, feste popolari o celebrazioni come il Carnevale.
Rispetto al Mareorama, infine, si intuisce l’elettività di Venezia, dato che il dispositivo offriva la simulazione dell’esperienza di un viaggio marittimo da Nizza a Costantinopoli passando proprio dalla città lagunare, punto di passaggio tra l’Occidente e l’Oriente. Il suono e lo scintillio dei riflessi sull’acqua, ma anche il rollio delle imbarcazioni sui canali e altre sensazioni corporee di immersione e navigazione, amplificavano la meraviglia e lo stupore dei ‘viaggiatori’, contribuendo a plasmare l’immaginario collettivo della città come luogo peculiare.
In generale, le rappresentazioni di Venezia nei dispositivi immersivi pre-cinematografici tendevano a concentrarsi su alcuni temi chiave come l’esotismo e le tradizioni spettacolari del Carnevale, delle Regate e delle processioni religiose, e ne enfatizzavano l’aura decadente, in linea con lo spirito del Romanticismo. Il concetto e l’esperienza dell’immersione si legano fortemente al Romanticismo, epoca in cui nascono e proliferano i dispositivi immersivi pre-cinematografici e gli spettacoli che essi offrivano. L’immersività come mito romantico peraltro è alla base dello sviluppo della Realtà virtuale contemporanea (cfr. Otto 2011) e più in generale dell’idea che i dispositivi ottici siano in grado non solo e non tanto di rappresentare un’ambiente, ma di simularlo (Brunetta 1997). Venezia come luogo di mistero e bellezza, quasi separato dallo spazio e dal tempo ordinari, sospeso tra realtà e fantasia, e dunque paradossalmente virtuale oltre che reale, è tale anche in virtù delle convenzioni visive create dai dispositivi pre-cinematografici che della Realtà virtuale odierna possono essere considerati a pieno titolo i precursori. Al contempo, le immagini e le esperienze offerte da questi dispositivi hanno contribuito a creare un’immagine idealizzata e spesso stereotipata e turistica della città.
Realtà virtuale
Torniamo al Mondo nuovo. Esso è cinema ante litteram, non solo perché mostra un’immagine attraente, ma anche e soprattutto perché attrae le folle in uno spettacolo avvolgente e fortemente illusivo, capace di attirare e includere lo spettatore in una dimensione separata e sensorialmente satura, in cui la distanza tra il corpo e l’immagine sembra dissolversi e lasciare spazio a un’immagine-ambiente abitabile.
Di più, il Mondo nuovo è da considerare un precursore della Realtà virtuale (VR) contemporanea, forma di accesso, attraverso un sofisticato ‘visore’ indossato dall’utente, a un ambiente multisensoriale artificiale persino più potente del cinema, anche in virtù di una relazione ergonomica tra il dispositivo tecnico e il corpo dello spettatore. Al contenuto del Mondo nuovo si accedeva avvicinando gli occhi alla fessura, azzerando lo scarto fisico tra apparato tecnico e soglia visiva ed escludendo categoricamente il mondo esterno in favore di una espansione totale dello schermo, ora persino più vasto del campo visivo dell’utente.
Diversamente dalla coeva lanterna magica, non vi era una proiezione di figure su una superficie schermica, ma una camera chiusa ispezionabile attraverso un pertugio su cui l’osservatore era chiamato a posare l’occhio. E tuttavia l’effetto che produce tale contatto è comunque un’ambientalizzazione dell’immagine, com’era proprio del panorama e di altri dispositivi settecenteschi in cui imponenti fondali e suggestivi dinamismi di luce occupavano interamente lo spazio scenico, o quantomeno coprivano una vasta porzione del campo visivo dell’osservatore. Più vicino al peep show e al kinetoscopio, anch’esse ‘scatole’ in cui scrutare un’immagine (Bernardi 2007), il Mondo nuovo è progenitore dei moderni ‘visori’ per la VR, ‘occhiali’ che consentono a chi li indossa di escludere l’ambiente circostante e introdursi in uno scenario illusivo che satura totalmente il campo visivo proprio in virtù di tale occlusione esterna. Indossare un visore significa anzitutto generare una lacuna, uno scarto percettivo, rispetto al mondo esterno, isolandosi da esso. Nella VR lo sguardo si potenzia solo a patto di rendersi ciechi rispetto al mondo esterno, in una modalità ben più radicale rispetto all’ingresso in un ambiente buio in cui uno schermo luminoso attrae potentemente l’attenzione, come nella condizione tipica della fruizione di un film in sala.
A dire il vero esistono diverse forme di VR, a seconda delle caratteristiche e della qualità del visore utilizzato, dei ‘gradi di libertà’ concessi all’utente e del livello di interattività con lo scenario e gli oggetti che lo popolano. Si va dai video a 360°, in cui le immagini si presentano in versione sferica ma prevedono un’interazione dell’utente limitata alla pura esplorazione visiva tramite la rotazione del capo; alle CAVE, stanze in cui gli ambienti generati dal computer sono proiettati sulle pareti; fino alla VR cinematica, ovvero la simulazione di ambienti tridimensionali esplorabili in tempo reale e nel quale l’utente può interagire con gli oggetti o altri soggetti (per una classificazione si veda Eugeni 2021). L’immagine sferica e centripeta, lo spettatore esploratore, la possibilità di interagire con la narrazione e con oggetti collocati nell’ambiente, rendono la VR un dominio eccezionale di sperimentazione delle potenzialità (e dei limiti) dell’esperienza percettiva, come è stato rilevato da studi recenti anche in ambito italiano (per esempio Pinotti 2021; Modena 2022).
Non lontano dalla spazialità e dal senso di compresenza fisica del teatro e dalla plasticità tridimensionale della scultura, la VR tende a rifuggire il montaggio per suggerire un senso di continuità, realismo e compresenza; attribuisce all’utente un ruolo generativo in virtù della potente soggettivazione dello sguardo; conferisce a quest’ultimo una nuova mobilità fondata sulla libertà di muoversi e interagire con l’ambiente. Nell’ambito degli studi psicologici sulla VR, gli esperti distinguono tra presenza e immersione. La prima è la risposta psicologica dell’utente all’interno del sistema VR, ovvero la sensazione soggettiva di trovarsi all’interno dell’ambiente virtuale e che tale situazione sia plausibile (Slater, Wilbur 1997). L’immersione è invece il grado, oggettivo e misurabile, di fedeltà sensoriale di un sistema VR. Si tratta di una caratteristica quantificabile di una tecnologia, che include i modi in cui i display sono ampi (la gamma di modalità sensoriali, per es. visiva, auditiva, tattile, propriocettiva), circondanti (la misura in cui le informazioni raggiungono gli organi di senso da tutte le direzioni), includenti (il grado di esclusione dagli elementi sensoriali provenienti dalla realtà fisica esterna), vividi (la varietà e ricchezza di informazioni sensoriali) e combacianti (il livello di corrispondenza tra il feedback propriocettivo e i movimenti del corpo generati sul dispositivo). L’immersione è dunque una condizione necessaria (ma non sufficiente) per l’induzione del senso di presenza.
Venice Immersive
A Venezia si è immersi naturalmente e affettivamente prim’ancora che attraverso la mediazione di una tecnologia o un linguaggio: moto ondoso, fluttuazione, allagamento sono caratteristiche costitutive dell’esperienza della città. Ogni immersione mediatica è concentrica all’immersione primigenia della sua morfologia liquida.
Forse non è un caso che proprio a Venezia sia nata, nel 2017 in seno alla Mostra internazionale d’Arte Cinematografica, ‘Venice Immersive’, una delle più importanti e interessanti sezioni espositive dedicate all’Extended Reality (video 360°, opere in Realtà virtuale, aumentata o mista, installazioni e mondi virtuali) e che recentemente sia nato il progetto CSC Immersive Arts, primo polo formativo in Italia e in Europa sulla Realtà estesa, istituito grazie a un accordo tra Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia e Regione Veneto e sostenuto dalla Veneto Film Commission. In quasi dieci anni di attività, ‘Venice Immersive’ ha proposto un’ampia ed esaustiva rassegna di titoli ed esperienze che ha accompagnato l’evoluzione del mezzo e il suo progressivo guadagno di consapevolezza linguistica ed espressiva. Anche soltanto visitare l’esposizione, collocata sull’isola del Lazzaretto Vecchio e raggiungibile via traghetto e costituita da una serie di postazioni isolate da tende bianche e semitrasparenti che ricordano le fattezze di una medusa, è di per sé un’attività immersiva che, metaforicamente e letteralmente, ha a che fare con l’acqua e le sue proprietà.
I mondi multisensoriali della VR agiscono a un livello per così dire ‘idroterapico’, perché mutuano dall’acqua materiale quella sensazione di avvolgimento che è il tratto caratteristico dell’esperienza dei mondi virtuali. Anche su un piano fisiologico l’immersione in acqua causa cambiamenti corporei perché quest’ultima esercita una forza compressiva sul corpo (chiamata ‘pressione idrostatica’) che può causare un trasferimento dei fluidi dalle estremità verso la cavità centrale e indurre modificazioni del battito cardiaco. L’effetto antigravitazionale tipico dell’acqua, inoltre, causa un senso di sospensione e riduce la percezione della fatica (e per questo è usato, per esempio, nel recupero fisico degli atleti, oltre che nelle cure termali) (cfr. Fauville 2021). Talvolta l’acqua diviene anche un’ambientazione delle esperienze immersive, a raddoppiare sul piano della rappresentazione il senso di immersione, ma più in generale le proprietà dell’acqua si trasferiscono nel mondo virtuale agendo a integrazione degli stimoli sensoriali propriocettivi, termocettivi e vestibolari (su acqua e VR, cfr. D’Aloia 2020).
Immersione radicale
L’immersività letterale offerta da Venezia non è che una declinazione materiale di un’immersione radicale. Mutuo quest’idea dal concetto di ‘mediazione radicale’ proposto da Richard Grusin in riferimento non solo all’immediatezza, ovvero alla capacità di un medium di eclissarsi e rendersi trasparente proprio nell’atto di esercitare la propria funzione mediativa (Bolter, Grusin 2000), ma anche di estendere tale capacità dal dominio del visivo all’intero sensorium e dalla sfera dell’umano a quello del non umano (Grusin [2015] 2017). Per ‘mediazione radicale’ Grusin intende un processo fondamentale dell’esistenza operante prim’ancora che al livello dei contenuti, della significazione e della rappresentazione simbolica, a livello materiale e corporeo, regolando l’affettività individuale o collettiva. I media non sono semplicemente canali di trasmissione del contenuto, ma strutture che informano la percezione del mondo, influenzando il nostro modo di pensare e di sentire. La sospensione dell’incredulità che è alla base della credibilità dei mondi finzionali e che si nutre dell’immediatezza trasparente dei media diviene persino più radicale nel porre la mediazione come una componente intrinseca dell’esperienza: non esiste una realtà al di fuori della mediazione. Secondo questa prospettiva costruttivista, ogni esperienza è influenzata dal tipo di tecnologia, dal contesto e dalle forme di rappresentazione utilizzate. La corporeità e l’affettività acquistano un ruolo decisivo: “Intendere la mediazione radicale come affettiva ed esperienziale piuttosto che strettamente visiva significa pensare alla nostra immediata esperienza affettiva della mediazione come ciò che è sentito, incarnato, vicino e non distante da noi, e quindi non illuminato o raffigurato, ma sperimentato da noi come creature umane e non-umane vive e incarnate” (Grusin 2017, 132). La radicalità della mediazione risiederebbe dunque non soltanto nella critica alla trasparenza, nell’estensione del perimetro della mediazione dal visivo al corporeo, dal cognitivo al precognitivo, ma anche dall’umano al non umano. “Per la mediazione radicale, tutti i corpi (umani e non) sono fondamentalmente media e la vita stessa è una forma di mediazione” (Grusin 2017, 145). Non solo i dispositivi, le piattaforme e le tecnologie ma anche gli elementi naturali e animali, le funzioni fisiologiche dell’essere umano, i mezzi di trasporto, le istituzioni economiche, sociali, politiche e religiose, i fenomeni atmosferici, tutto è costitutivamente mezzo di comunicazione (per una discussione del concetto di mediazione radicale, vedi Cometa 2023, cap. 8).
Mentre sprofonda abbassandosi (subsidenza) e annega per l’innalzamento del mare (eustatismo), a causa delle stelle e dell’impatto antropico, Venezia è un esempio lampante di ambiente immersivo radicale. Lo dimostra, come dicevo, la sensazione propriocettiva di trovarsi costantemente in un ambiente avvolgente, su un vaporetto sul Canal Grande o con gli stivali nell’acqua alta, ma anche, senz’acqua fisica, al centro di Piazza San Marco o nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale.
La natura acquatica di Venezia e l’essenza radicale della mediazione immersiva sono funzionali a, e cooperano con, la sensazione corporea di riempimento e fluttuazione fisiologica che pervade il suo visitatore. Venezia è una città-media che immergendo partecipa alla co-evoluzione post-umana e post-antropocentrica della mutua interazione tra organismo e ambiente. L’immersione come esperienza percettiva preesiste alle tecnologie ottiche ed elettroniche che sembrano generarla, perché è una relazione affettiva diretta con il milieu esperienziale. In fondo anche il turismo contemporaneo (che proprio nel Grand Tour aveva cominciato a insorgere e che oggi affligge Venezia), è una forma di ingenuo depauperamento della realtà del tutto simile alle esperienze di viaggio surrogato offerte dai dispositivi ottici sette-ottocenteschi. Oggi con la VR, come oltre duecento anni fa con il Mondo nuovo, Venezia sembra porsi, più o meno consapevolmente, come un luogo di elaborazione della crisi in un’epoca di incertezza sociale ed ecologica. Turisti del virtuale, gli spettatori contemporanei ricercano un’immersione letterale, ignari dell’immersione radicale a cui sono preventivamente e inevitabilmente soggetti.
Nota sulle fonti d'archivio
Situato a Venezia, l’Archivio Carlo Montanaro raccoglie materiali sulla storia del cinematografo, con particolare attenzione allo sviluppo tecnico-linguistico e alle opere dell’avanguardia. L’archivio include una vasta collezione di stereoscopie dedicate a Venezia. Cfr. la pagina web https://www.archiviocarlomontanaro.com/stereoscopie/.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
The article explores the concept of radical immersion beginning with an analysis of Giandomenico Tiepolo’s 1791 fresco, Il Mondo Novo, and of a Panstoscopio, an optical device that immerses viewers in detailed, faraway landscapes. It highlights the cultural and psychological implications of this device, positioning Venice as a prime example of a city designed for sensory immersion. Drawing connections to modern technologies like Virtual Reality, it illustrates how both historical and contemporary immersive experiences envelope the viewer in a separate, perceptual reality. The water imagery in Tiepolo’s fresco becomes a metaphor for both the literal and symbolic immersion experienced in a city deeply connected to its aquatic environment. Further, the article discusses the emergence of Venice Immersive, a showcase of Extended Reality works. Ultimately, it argues that immersion serves as a radical act of sensory and cognitive transformation, blurring the lines between the real and the virtual, the human and the non-human, according to Richard Grusin’s notion of radical mediation. By tracing the roots of immersive media back to Venice’s physical and cultural landscape, the article suggests that the city embodies a radical model of sensory engagement that anticipates the modern, digital immersive experiences of today.
keywords | Venice; Immersion, Virtual reality, Venice immersive, Radical mediation.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Adriano D’Aloia, Immersione radicale Laguna e lacune della percezione, “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.