È questa la mia ambizione.
Se finisco fuori strada, è perché qui succede continuamente,
con tante strade fatte d’acqua.
Da queste pagine, in altre parole, potrà non venir fuori un racconto,
una storia, bensì il fluire di un’acqua limacciosa “nella stagione sbagliata dell’anno”.
A volte appare azzurra, a volte grigia o bruna; invariabilmente è fredda e non potabile.
Il motivo per cui mi ingegno a filtrarla è che contiene tanti riflessi, tra i quali il mio.
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili
In principio era il caìgo, la densa nebbia invernale che ciclicamente avvolge Venezia trasformando la città in un luogo sospeso, uno spazio in cui le forme perdono la loro definizione e il confine tra gli edifici si slabbra, diventa incerto. Passano pochi minuti ed ecco il suono delle sirene: prima il segnale d’allarme, poi le note che indicano il livello di emergenza – in questo caso quattro, il massimo. Infine, ecco l’acqua che lentamente inizia a coprire la città: si appropria di calli e sotòporteghi, occupa campi e campielli; San Giacomo dall’Orio, poi chi filma inquadra il mercato di Rialto. La marea cancella i contorni tra le fondamenta e i rii: sommersa la pietra d’Istria diventa impossibile stabilire dove finisce il canale e dove comincia la riva. Da questo momento, la città è un’immensa distesa d’acqua.
Quelli appena descritti sono i primissimi minuti di Homo Urbanus Venetianus (2019), l’ultimo capitolo di Homo Urbanus, una “odissea cinematografica” realizzata dagli architetti/registi Ila Bêka e Louise Lemoine [Fig. 1]. Nato come progetto commissionato dalla Biennale Agora di Bordeaux nel 2017, Homo Urbanus è una serie composta da dieci film, ognuno dei quali girato in una differente metropoli (Rabat, Bogotà, Seoul, San Pietroburgo, Napoli, Tokyo, Doha, Shanghai, Kyoto, Venezia) e che, quasi a voler aggiungere un tassello alla classificazione linneana della specie, interroga il modo in cui le città definiscono oggi l’essere umano, ovvero come i corpi interagiscono con lo spazio urbano in un costante gioco di adattamento reciproco, e in cui lo sviluppo della narrazione è determinato dalla natura della città, dalla topografia del territorio. Un’operazione che sembra seguire la via maestra tracciata dal neorealismo, che muove nella direzione di un pedinamento “zavattiniano” del reale, ovvero di “quell’incontro non predeterminato tra il soggetto e l’oggetto, tra l’io e gli altri, che si svolge in sede di ripresa, attraverso il contatto diretto con le cose e le persone instaurato dalla macchina da presa” (Parigi 2014, 276). Non un rispecchiamento del mondo, insomma, né la messa in atto di uno script precedentemente negoziato: quella restituitaci da Bêka e Lemoine è l’esperienza di un quotidiano che si produce a partire da chi osserva camera a mano, in una prossimità spaziale e temporale tra chi filma e chi viene filmato, e in cui il punto di vista enuncia punti di vita, esistenze che trascorrono sullo schermo davanti ai nostri occhi. Se questo è vero per i diversi “atti” che compongono Homo Urbanus, nel filmare Venezia tuttavia qualcosa accade, meglio: eccede. È l’evento dell’‘acqua granda’, la mareggiata che nel novembre del 2019 ha sommerso la città raggiungendo il livello di 187 cm, un fenomeno meteorologico eccezionale secondo solo al disastro del 4 novembre 1966, data in cui la marea raggiunse il livello di 194 cm sul medio mare. Così, Homo Urbanus Venetianus finisce per segnare uno scarto tra ciò che è stato girato prima e ciò che, invece, viene filmato a Venezia: come ri-pensare infatti una poetica dell’ordinario davanti allo squilibrio straordinario generato dalla potenza degli elementi? Come formalizzare, insomma, una natura eccedente, letteralmente impossibile da contenere?
Nato con l’obiettivo di filmare la vita di Venezia e dei suoi abitanti, Homo Urbanus Venetianus diventa, nel suo farsi, altro da sé. Il film è certamente un’importante testimonianza di uno tra gli eventi più tragici che si siano abbattuti sulla città lagunare. E tuttavia, obiettivo di questo saggio non vuole solo essere quello di interrogare il modo in cui le immagini realizzate da Bêka e Lemoine si sono fatte carico del racconto di quei giorni. Davanti all’acqua che avanza, di fronte alla marea che inonda il profilmico è necessario fare un passo indietro e tornare per prima cosa a quel farsi “altro da sé” che è soprattutto l’esito di una omologia strutturale con i fenomeni organici della natura, un accordarsi della forma filmica agli eventi naturali colti nel loro essere altro, “fuori” appunto dallo stato abituale delle cose. È necessario, insomma, volgere prima di tutto lo sguardo verso quella non indifferenza della natura[1], ossia guardare a quella disponibilità della materia del mondo ad accogliere il progetto dell’uomo e, ugualmente, di in-formare il linguaggio cinematografico stesso. In questo senso, bisognerà allora partire da quell’acqua “limacciosa”, salmastra, sulla quale la città è stata fondata “per volere della Divina Provvidenza”[2];, e che deve essere considerata tanto nelle sue caratteristiche naturali, “elementali”, quanto nella sua dimensione mediale, nel suo essere medium attivo. Prima di affrontare con maggiore precisione le implicazioni mediali degli elementi della natura (Peters, 2015), è opportuno però tornare un’ultima volta agli aspetti “estatici” del fenomeno dell’acqua alta, ovvero su quell’essere – appunto – fuori di sé dell’evento metereologico. Mi sembra infatti che proprio in quanto accadimento eccezionale, il fenomeno dell’alta marea si sia fatto portatore non solo di informazioni necessarie riguardo lo stato della salute della laguna, ma anche di quella che potremmo definire come una capacità – un’efficacia – “messianica” di immaginare una storia già a venire. Se, di fatto, gli eventi del 2019 si collocano all’interno di un orizzonte di riconoscibilità, sono già stati premediati (Grusin [2004] 2017) dal “media shock” dell’‘acqua granda’ del 1966, mi sembra si possa avanzare l’ipotesi che il dramma del 2019 abbia aperto alla necessità di ripensare la grammatica stessa dell’immaginario della catastrofe. Di fronte a fenomeni come quelli che si sono abbattuti su Venezia nel novembre del 2019, insomma, possiamo davvero continuare a dire: era già tutto pre-visto?
Il medium è l’acqua
La marea astronomica è quell’evento causato dall’attrazione gravitazionale che i corpi celesti – il Sole e la Luna – esercitano sull’acqua. A Venezia, la marea descrive una curva di tipo prevalentemente semidiurno, con due massimi e due minimi nel corso delle 24 ore. Secondo il metodo dell’analisi armonica[3], la marea astronomica può essere calcolata come una sovrapposizione di oscillazioni sinusoidali; a Venezia sono sufficienti otto componenti armoniche per descrivere la marea astronomica con precisione con oscillazioni dell’ordine di 1 cm. Se alla marea astronomica si sommano condizioni meteorologiche sfavorevoli, allora è possibile che si verifichino eventi di alta marea eccezionale[4] [Fig. 3].
Essenzialmente anfibia, Venezia è la realizzazione del “sogno faustiano di trasformare l’acqua in terraferma” ma che, in quanto tale, è soprattutto frutto di un atto di hybris, la rottura di un patto ontologico: “Sicuramente la hybris può avere una funzione creativa e Venezia permane come il luminoso splendore di questo assunto. È innegabile, tuttavia, che l’instabilità di questo ibridismo produca nella città uno stato incombente di pericolo” (Iovino, 2016, 50).
Esito di un processo che ne ha fatto un complesso ibrido, Venezia è, dunque, presa nello stato di tensione tra ciò che è ipercostruito e, ugualmente, ipernaturale; la città, insomma, si dà nella forma di un vero e proprio ‘assemblaggio’, ovvero un sistema eterogeneo in cui convergono elementi naturali – è un insieme di terra e acqua, ma anche legno che permea la città – e di tecnologie che ne garantiscono la stabilità. Il sistema di canali che organizza l’acqua della laguna e che “innerva” la città pertiene alla dimensione “ipercostruita” di Venezia; ma in quanto infrastruttura, i canali sono di fatto un mezzo – un milieu[5] – che rende possibili spostamenti di merce, persone, informazioni. E ancora, se facciamo riferimento alle indicazioni del teorico dei media John Durham Peters e consideriamo le caratteristiche “mediali” degli elementi naturali, allora l’acqua non sarà solo l’elemento che caratterizza Venezia: di fatto, anche l’acqua è un medium. Certo, poiché nessun medium può avere senso se isolato dagli altri media (Peters 2016, 111), a rivelare la natura mediale dell’acqua è proprio l’interazione con l’ambiente che la circonda e la contiene – il sistema di canali, appunto, ma anche la barca, archetipo di ogni infrastruttura. Pensare Venezia in termini di assemblage – nel senso individuato in particolare da Francesco Casetti (Casetti 2015) – significa tuttavia non limitarsi a una descrizione stratigrafica dei diversi elementi – di media naturali e tecnologici – che compongono la città, ma provare a indagarne la loro ricombinazione a partire dalle pressioni di agenti esterni che richiedono un costante adattamento. Significa, insomma pensare l’assemblaggio-Venezia non come un sistema compatto, determinato, ma come un insieme aperto in continuo aggiustamento, e in cui gli elementi che lo compongono possono assumere delle funzioni a loro estranee. E in questo senso, proprio a partire da questo sistema mobile di relazioni, l’acqua non è semplicemente ciò che contraddistingue la città, ma è ciò che la in-forma, letteralmente ciò che ne garantisce la sopravvivenza e, ugualmente, ciò che permette la trasmissione di informazioni – metereologiche, ambientali, economiche, sociali. Ed è in questo duplice movimento – tra formazione e informazione – che deve essere interpretato il movimento delle maree: se è vero che l’innalzamento dell’acqua produce un necessario adattamento del tessuto urbano – il sistema di passerelle che garantisce la viabilità pedonale, solo per fare un esempio – il ritmo ciclico delle maree traccia la cadenza di un tempo sempre uguale, e dunque pre-vedibile. I veneziani hanno imparato a leggere il movimento dell’acqua, conoscono e comprendono le diverse fasi: marea entrante e marea uscente con un ritmo di sei ore – “sie ore la cala, sie ore la cresce”. C’è tuttavia un punto di criticità: cosa succede quando questo patto di mutuo riconoscimento si interrompe?
Il 4 novembre 1966, lo abbiamo già ricordato, il livello dell’acqua ha raggiunto un picco di 194 cm sul medio mare: “Forse per la prima volta nella storia a noi più prossima di Venezia, la singolare e in fondo inconfessata fiducia dei veneziani nella loro città fu sul punto di incrinarsi” (Obici 1967, 11). Le fotografie di quei giorni ci restituiscono l’immagine di un disastro senza precedenti: ceduta la storica fortificazione voluta dalla Serenissima – i murazzi – l’acqua del mare ha sommerso Pellestrina, Malamocco, poi Sant’Erasmo – l’ultima sentinella – e senza ormai più ostacoli si è riversata sulla città, distruggendola [Fig. 3]. Se il racconto della stampa e dei telegiornali[6] del tempo ci riconsegna la visione di una città impreparata a fronteggiare la crisi, ciò che qui è interessante notare è come a venire meno sia stato l’intero sistema di trasmissione delle informazioni che abbiamo fin qui delineato: se è possibile identificare un impatto geofisico che ogni catastrofe produce sulle infrastrutture mediali – quello che Grusin definisce aftershock – nel caso di Venezia e dell’acqua grande a prodursi è stata una vera e propria rottura di quel sistema di scambio di informazioni generato a partire dall’assemblaggio-laguna.
Venezia, nel buio più completo, affrontava la sera attendendo le ore 18 – che avrebbero dovuto segnare il secondo e ultimo deflusso di quel giorno – come si attende una prova decisiva. Il dramma in corso, che negli stessi attimi stava sconvolgendo per altre vie altre città e paesi[7], a Venezia poteva essere seguito e controllato sulle lancette dell’orologio, nella ricerca sottilmente angosciante della conferma che le “regole” e i tempi che governano la vita lagunare non erano stati del tutto sovvertiti (…) se Venezia era Venezia, quella devastazione doveva pur cessare (Obici 1967, 11).
L’evento dell’‘acqua granda’ del 1966 può dunque essere considerato come un vero e proprio punto di rottura nel procedere lineare del tempo, una lacerazione nel progredire compatto della Storia. Ma è proprio a partire da questa frattura che è possibile individuare alcuni snodi interessanti ai fini della nostra riflessione. Per prima cosa, la compromissione del sistema di scambio di informazioni tra l’assemblaggio-laguna e gli abitanti di Venezia ha comportato la ricerca di un nuovo equilibrio in grado di ‘ripristinare le comunicazioni’. Inoltre, poiché la dismisura dell’evento ha messo in crisi l’orizzonte referenziale all’interno del quale poter ‘immaginare’ la catastrofe, l’‘acqua granda’ ha imposto nuovi regimi di visibilità a sé stanti. In questo senso, gli eventi del 4 novembre 1966 hanno prodotto vera e propria grammatica dell’avvenire, un ‘immaginario della catastrofe’ in grado di pre-mediare ogni catastrofe possibile. Non più ‘è stato’: il tempo dell’immagine è adesso declinato al futuro.
Era già tutto previsto (?)
Con il concetto di ‘premediazione’, il teorico dei media Richard Grusin propone uno sviluppo della nozione di rimediazione: se con quest’ultimo termine – coniato da Grusin insieme a Jay Bolter nel 1999 – veniva indicata la doppia logica secondo cui i media riconfigurano forme mediali del passato, la premediazione può essere identificata come la risposta attraverso cui i media (dopo l’11 settembre) cercano di garantire che non si faccia mai più esperienza di un evento catastrofico che non sia già stato premediato: “L’immediatezza della catastrofe, l’immediatezza del disastro non può più esserci perché sarebbe già stata premediata” (Grusin [2004] 2017, 100). Premediare, insomma, significa anticipare non già nella forma di una premonizione, ma come il tentativo di ‘immaginare’ quanti più futuri possibili – che potrebbero come non potrebbero avere luogo – in modo da temperare l’intensità generata dall’evento traumatico:
Diversamente dalla predizione, non consiste nell’indovinare il futuro. La premediazione non è come una previsione meteorologica, che ha come obiettivo quello di predire correttamente le condizioni dl meteo per il giorno dopo (…) al contrario, è grazie alla proliferazione di scenari futuri che la premediazione riesce a generare e allo stesso tempo a contenere l’ansia, con l’obiettivo di prevenire la possibilità di un futuro traumatico (Grusin [2004] 2017, 118).
Provando a schematizzare, potremmo dire che ogni immagine della catastrofe è ugualmente agganciata al passato mentre immagina un futuro che non è ancora avvenuto, ma di cui conosciamo già gli elementi per in-formarlo.
La città delle sirene (2020) è un documentario realizzato dal regista Giovanni Pellegrini durante i giorni dell’inondazione che ha colpito Venezia nel novembre del 2019. L’intento del regista veneziano è molto diverso da quello di Bêka e Lemoine: quello di Pellegrini è soprattutto un tentativo di documentare le conseguenze dell’acqua alta, di raccontare la catastrofe attraverso le storie degli abitanti di Venezia e delle isole che in quei giorni hanno perso tutto. Se La città delle sirene propone un’appassionata testimonianza delle conseguenze della catastrofe, allo stesso tempo il film mette in evidenza il carattere di ‘mediashock’ della premediazione che, se da un lato prepara a gestire eventi futuri, allo stesso tempo “intrattiene” un pubblico mediale attraverso la circolazione di immagini e notizie ‘live’. Attraverso lo schermo dello smartphone – in una sorta di mise en abyme della catastrofe – Pellegrini ci mostra le immagini realizzate in tempo reale – potremmo dire che l’evento viene vissuto in quanto già trasformato in immagine: video della mareggiata che travolge i vaporetti, di piazza San Marco sommersa, di cittadini che cercano disperatamente di fronteggiare la forza dell’acqua. In questo senso, è interessante sottolineare come ciò che emerge da alcuni dei racconti che emergono dal lavoro di Pellegrini è proprio il carattere “evenemenziale” della marea. “Si sapeva che sarebbe riaccaduto”, ci dicono alcune testimonianze. Era pre-vedibile [Fig. 4].
Nella notte tra l’11 e il 12 novembre del 2019 si è configurata una situazione metereologica eccezionale. Semplificando, possiamo dire che il vento di Scirocco e il vento di Bora si sono incontrati nel Nord dell’Adriatico dando vita a una depressione molto intensa e localizzata. Ancora una volta, l’assemblaggio-laguna ha smesso di funzionare: se, infatti, per tutta la giornata i modelli meteorologici avevano previsto correttamente la diminuzione costante della pressione atmosferica, dalle ore 20 i dati misurati hanno iniziato a discostarsi significativamente dalle previsioni. Si è trattato, in poche parole, di una conformazione meteorologica con caratteristiche peculiari e inusuali, per sua natura di difficile previsione nel dettaglio[8]. Sebbene l’intensità del fenomeno abbia messo in crisi ogni possibile previsione, mi sembra tuttavia che sia possibile evidenziare due punti fondamentali al fine di questa analisi. Per prima cosa, a emergere è proprio la capacità dei media non solo di premediare eventi possibili, ma anche di cambiare repentinamente la loro premediazione con il manifestarsi di eventi improvvisi – come le catastrofi naturali – e circostanze che precludono alcuni futuri possibili mentre ne creano e attivano altri (Grusin 2017, 170). Allo stesso tempo, la premediazione lavora nella direzione di un rafforzamento del processo di sicurizzazione e controllo, ed è forse in questo senso che è possibile pensare le forme di aggiornamento dell’assemblaggio-laguna messe in atto subito dopo gli eventi del 2019: per scongiurare fenomeni di marea eccezionale, allora è stato necessario introdurre nuove tecnologie di mediazione – il MOSE tra tutti – in grado di ridefinire il funzionamento degli altri elementi. Se, insomma, vogliamo evitare che l’immagine della catastrofe futura abbia la forma di una wasteland, allora dobbiamo “difendere” Venezia.
L’immaginario della catastrofe che si produce a partire dai fatti del novembre 2019 e che grava quotidianamente su Venezia mette in forma un futuro a-venire nel segno della dis-umanità, ovvero di una esclusione della presenza umana all’interno dell’ambiente lagunare. E tuttavia, è ancora possibile trovare una salvezza proprio in quella dimensione “estatica” degli elementi, una redenzione capace di sottrarre Venezia all’immagine della sua stessa distruzione. Per aggirare questa saturazione dell’orizzonte referenziale, insomma, davanti a questa ipostatizzazione del reale, è necessario fare nuovamente un passo indietro e ritornare ancora a quell’eccedenza della natura stessa. Riprendiamo allora ancora una volta le immagini che hanno aperto questa riflessione, e cioè a Homo Urbanus Venetianus: nel trovarsi a dover raccontare i giorni dell’alta marea, il film è soprattutto l’esito di una negoziazione costante con le forme dell’acqua; ed è proprio in questo necessario riposizionamento dello sguardo cinematografico che a emergere è tanto il potenziale ‘attrazionale’ dell’acqua alta, quanto quell’essere estatico, fuori di sé che non sembra lasciarsi catturare dalle tradizionali forme del linguaggio cinematografico. Se per un verso, insomma, il film di Bêka e Lemoine ci mostra la paradossale dimensione di ‘intrattenimento’ dell’alta marea – i turisti che fotografano Piazza San Marco allagata, per esempio, o che giocano tra le passerelle e i ponti – allo stesso Homo Urbanus Venetianus ci restituisce la capacità dell’acqua di espandere le possibilità stesse del cinema: è l’acqua, insomma a modificare l’immagine della città. La mdp intercetta, per esempio, l’effetto ‘gibigiana’, quell’effetto prodotto naturalmente grazie alla luce che, riflettendosi sulla superficie dell’acqua, riproduce il movimento di quest’ultima nello spazio circostante, creando una proiezione ‘ambientale’ sotto i ponti, lungo le calli e sui muri della città, e che nel film di Bêka e Lemoine sembra trasformare – espandere, potremmo dire – persino le reception degli alberghi, o le sale dei bar. Ed è proprio in questo punto di vista ‘elementale’ e anfibio, che sembra possibile intercettare nuove modalità attraverso cui il cinema può farsi carico di quella redenzione tanto attesa, ovvero salvare la città dalla morte a cui le immagini – e il cinema – l’hanno condannata da tempo. Venezia, in fondo, non è ancora l’immagine della sua stessa distruzione [Fig. 5].
Note
[1] Il riferimento è qui all’opera di Ejzenštejn La natura non indifferente; in particolare, sull’organicità dell’opera d’arte e sullo stato di ex-stasis dei fenomeni naturali colti nel loro essere “fuori di sé”; si veda Ejzenštejn [1945-1947] 2003, 13-44.
[2] La citazione è tratta dall’Editto di Egnazio, dell’umanista Giovanni Battista Cipelli (1478-1556), conservato al Museo Correr di Venezia.
[3] Il metodo dell’analisi armonica si basa su quella branca dell’analisi matematica che studia la rappresentazione delle funzioni o dei segnali come sovrapposizione di andamenti ondulatori periodici fondamentali, le armoniche appunto, da cui il nome.
[4] Sulla descrizione e sul monitoraggio delle diverse fasi della marea astronomica si veda: https://www.comune.venezia.it/it/content/centro-previsioni-e-segnalazioni-maree.
[5] Sui media come infrastrutture si veda (Parks, Starosielkieds 2015).
[6] Sulla rappresentazione mediatica dell’alta marea del 1966 – e in particolare sulla scarsità di immagini e filmati dell’acqua alta prodotti dai media del tempo, si veda Villa 2020.
[7] Il riferimento è all’alluvione che colpì Firenze negli stessi giorni degli eventi dell’‘acqua granda’.
[8] Si veda il report in (CPSM, ISPRA, CNR-ISMAR 2020), Dinamica e anomali dell’evento del 12 novembre 2019 realizzato dal Centro Centro Previsioni e Segnalazioni Maree del Comune di Venezia (CPSM), dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) e dall’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR-ISMAR) (maggio 2020).
Riferimenti bibliografici
- Casetti 2015
F. Casetti, La Galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Milano 2015. - Ejzenštejn [1945-1947] 2003
S. M. Ejzenštejn, La natura non indifferente [Neravnodušnaja priroda, 1945-1947], a cura di P. Montani, Venezia 2003. - Grusin [2004] 2017
R. Grusin, Radical mediation. Cinema, estetica e tecnologie digitali [Premediation, “Criticism”, 46, 1 (2004)], Cosenza 2017, 91-136. - Iovino 2016
S. Iovino, Ecocriticism and Italy. Ecology Resistance and Liberation, London and New York 2016. - Obici 1967
G. Obici, Venezia fino a quando?, Venezia 1967. - Parigi 2014
S. Parigi, Neorealismo. Il nuovo cinema del dopoguerra, Venezia 2014. - Parks, Starosielkieds 2015
L. Parks, N. Starosielkieds, a cura di, Signal Traffic: Critical studies of Media infrastructures, Urbana-Chicago and Springfield 2015. - Peters 2015
J. D. Peters, The Marvelous Clouds. Toward a Philosophy of Elemental Media, Chicago 2015. - Villa 2020
P. Villa, Il diluvio sull’arte. La rappresentazione mediatica delle alluvioni di Firenze e Venezia del 4 novembre 1966, in A. Faccioli, S. Parigi (a cura di), Apocalissi Italiane. Il cinema e la televisione di fronte ai disastri del Novecento, Immagini, «Immagine. Note di Storia del Cinema» 21, Bologna 2020.
English abstract
The essay analyzes how the exceptional high-tide events that occurred in Venice in 1966 and 2019 can be considered as two historical moments when the representation of the lagoon ceased to adhere to a “classical” cinematic-photographic logic. Starting from the "ecstatic" dimension of the two acqua granda phenomena, the contribution seeks to highlight the water's ability to act as an elemental medium capable of challenging a premeditated imaginary of the catastrophe.
keywords | Venice; Elemental media; premediation; acqua granda; assemblage.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Simona Arillotta, Cronache dall’acqua (granda), “La Rivista di Engramma” n. 220, gennaio 2025.