Il potere segreto. Wikileaks e la digitalizzazione dell’informazione
Intervista a Stefania Maurizi
a cura di Alessandro Visca
English abstract
Il 24 giugno 2024 Julian Assange, giornalista australiano di 52 anni, fondatore dell’organizzazione giornalistica Wikileaks, davanti ai giudici del tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Saipan, nelle Isole Marianne Settentrionali, si dichiara colpevole di “cospirazione per ottenere e diffondere illegalmente informazioni riservate, relative alla difesa nazionale degli Stati Uniti” e patteggia una pena di 5 anni di reclusione. Assange ha già scontato la pena nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel Regno Unito, e può tornare in Australia da uomo libero, dopo una persecuzione giudiziaria durata 14 anni, sette dei quali passati da rifugiato all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Nell’ottobre dello stesso anno una risoluzione ufficiale dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha riconosciuto che “per le violazioni subite” è giustificata “la designazione del signor Assange come prigioniero politico”.
Assange nel 2006 fondò Wikileaks, una ONG che si proponeva di utilizzare la rete internet per ottenere da fonti anonime documenti segreti o confidenziali provenienti da istituzioni militari, governative e diplomatiche. In pochi anni Wikileaks ricevette e rese pubblici milioni di pagine di documenti coperti da segreto che rivelarono abusi e crimini di guerra, provocarono crisi diplomatiche ed ebbero un impatto eclatante sull’opinione pubblica mondiale. Per queste attività e per il caso giudiziario che seguì Assange divenne una celebrità globale e anche un personaggio divisivo: da alcuni, comprese le organizzazioni dei giornalisti di molti paesi del mondo, è considerato un eroe e un paladino della libertà di stampa, da altri è invece ritenuto un pericoloso megalomane, complice più o meno involontario di interferenze indebite della Russia nella politica americana e occidentale.
I problemi giudiziari di Assange cominciarono nell’estate 2010 quando due donne svedesi lo accusarono di stupro e molestie sessuali. In quell’anno, ad aprile, la sua organizzazione, Wikileaks, aveva pubblicato un video intitolato Collateral murder. Nel filmato, girato da un elicottero dell’esercito americano in Iraq, si assiste all’uccisione a freddo di 11 civili inermi, tra i quali due giornalisti. L’equipaggio dell’elicottero Apache apre il fuoco anche su un furgone che cerca di salvare i feriti. Nell’audio si sentono i commenti divertiti del pilota e dei soldati sull’elicottero.
Oltre al video, Wikileaks nei mesi successivi rese pubblici più di 400.000 file militari classificati relativi alla guerra in Iraq e 90mila rapporti secretati dell’esercito americano in Afghanistan. Questi documenti fecero conoscere abusi e crimini commessi dalle truppe americane e alleate impegnate nella cosiddetta guerra al terrore, proclamata dal presidente americano George W. Bush dopo gli attentati alle torri gemelle dell’11 settembre 2001.
Nel 2010 Wikileaks distribuì ad alcuni grandi giornali internazionali oltre 250mila documenti confidenziali della diplomazia americana, inviati dalle ambasciate degli Stati Uniti in tutto il mondo al dipartimento di Stato degli Usa.
Dopo le denunce per stupro, Assange comparve davanti a un giudice svedese che non ritenne le accuse sufficienti per arrestarlo e quindi fece ritorno nel Regno Unito. A novembre del 2010 la magistratura svedese emise un mandato di cattura internazionale e Assange fu arrestato nel Regno Unito e poi rilasciato su cauzione. Nel febbraio dell’anno seguente un tribunale inglese ordinò l’estradizione in Svezia di Assange, che fece ricorso alla corte suprema britannica. Assange sapeva che negli Usa era stata aperta un’inchiesta su di lui e su Wikileaks ed era convinto che se fosse stato estradato in Svezia sarebbe arrivata la richiesta di estradizione negli Usa. Nel giugno del 2012 la Corte suprema inglese rigettò l’appello di Assange contro l’estradizione in Svezia e cinque giorni dopo il giornalista australiano si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dove chiese asilo politico.
Assange trascorse i successivi sette anni confinato in una stanza dell’ambasciata costantemente sorvegliata dalla polizia inglese. Per i primi tre anni l’ambasciata fu piantonata 24 ore su 24, con un costo, evidenziato in un’inchiesta recente, di 12 milioni di sterline. Assange visse in quei sette anni in una stanza, dove dormiva e lavorava, senza poter uscire neppure nel cortile dell’ambasciata.
Durante questo periodo Wikileaks continuò a pubblicare documenti riservati, tra cui le mail interne dell’organo interno del Partito Democratico americano durante la campagna presidenziale del 2016 di Hillary Clinton contro Donald Trump e più di 8mila documenti della CIA, che spiegavano, tra l’altro, con quali software i servizi segreti americani entravano in computer, telefoni e reti informatiche.
Nell’aprile del 2019, in seguito al cambio di presidenza in Ecuador, Assange dovette lasciare l’ambasciata, fu arrestato dalla polizia inglese e internato nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. Il Dipartimento della giustizia degli Stati Uniti formalizzò la richiesta di estradizione di Assange, accusato sulla base dell’Espionage Act del 1917 di cospirazione e altri reati per cui rischiava fino 175 anni di prigione. A questo punto ha inizio una battaglia legale per evitare l’estradizione che si è conclusa con il patteggiamento della fine del 2004.
L’intera vicenda è raccontata in un libro, avvincente e documentatissimo, di Stefania Maurizi (Il potere segreto, Chiarelettere 2024). L’autrice, giornalista de “Il Fatto Quotidiano” e già collaboratrice di “la Repubblica” e “L’Espresso”, ha collaborato con Wikileaks per l’analisi dei documenti segreti venuti in possesso dell’organizzazione, pubblicando le notizie più importanti che riguardavano l’Italia, ha conosciuto Assange, lo ha visitato più volte nell’ambasciata londinese dell’Ecuador e ha condotto una battaglia legale per avere la documentazione relativa al suo caso giudiziario.
Nella conversazione con lei non torniamo sul racconto delle vicende descritte in modo puntuale nel libro, ma cerchiamo di capire se e per quali aspetti la storia di Assange e di Wikileaks ha realmente cambiato qualcosa nel modo di fare informazione e nei rapporti tra potere politico-economico e informazione.
Alessandro Visca | Stefania, cominciamo parlando degli hacker, gli esperti di informatica in grado di superare le protezioni delle reti informatiche di aziende, governi, istituzioni. Alcuni considerano gli hacker gli eredi dei movimenti di controcultura degli anni Settanta, per il loro impegno etico nella ricerca di informazioni e di spazi di libertà. Per altri si tratta soprattutto di bande di criminali. Anche i fondatori di Wikileaks vengono dal mondo degli hacker. Assange a 25 anni fu processato e condannato per aver hackerato le reti della compagnia telefonica canadese Nortel. Come vanno considerati gli hacker, paladini della libertà o delinquenti?
Stefania Maurizi | Bisogna stare attenti alle parole, le definizioni sono importanti, c’è una differenza radicale tra un hacker e un cyber criminale. L’hacker è una persona che riesce ad accedere a un database o a una rete informatica, anche violando le autorizzazioni, per mettere in evidenza la vulnerabilità di un sistema, oppure per acquisire informazioni che è giusto conoscere, comunque per un interesse pubblico. Gli hacker agiscono con un comportamento guidato da un’istanza etica, un gesto molto diverso da chi ruba i numeri delle carte di credito o cerca di acquisire vantaggi di tipo economico. Per dare un giudizio su un hacker o su un atto di hackeraggio bisogna capire qual è lo scopo per cui viene fatta una violazione. Che è poi quello che a suo tempo certificò la sentenza del giudice australiano che comminò una pena molto mite al giovane Julian Assange, quando fu processato per essersi intromesso nella rete di una compagnia telefonica. Il giudice riconobbe che Assange non aveva cercato alcun vantaggio economico e non c’era altra motivazione in quello che aveva fatto se non la sua passione per l’informatica e il desiderio di acquisire conoscenze sul funzionamento delle reti.
AV | Questo tema della passione per l’informatica e per la conoscenza ci porta diritti alla nascita di Wikileaks. L’organizzazione fondata da Assange nel 2006 con l’idea di unire la modalità wiki, ossia una conoscenza prodotta da una comunità che collabora sulla rete, con i leaks, le fughe di notizie rese possibili dalla protezione dell’anonimato delle fonti, offerta da un sistema di criptazione dei dati. Nel tuo libro è spiegato bene che la criptazione è un elemento molto importante in questa storia…
SM | Certo, la possibilità di criptare i messaggi prima di Wikileaks era qualcosa di strettamente confinato agli apparati dello stato, ai servizi segreti e alle forze militari, oppure a esperti di informatica. Negli anni Novanta c’è stata una vera e propria rivoluzione con l’introduzione del primo software per la cifratura delle email disponibile per tutti. La criptografia è una branca della matematica che permette di proteggere le informazioni in modo che non siano immediatamente accessibili a chiunque. Per usare un’immagine semplice pensiamo alla differenza tra una cartolina e una lettera. Il contenuto della cartolina può essere letto da chiunque la veda, mentre la lettera è chiusa in una busta con un destinatario. L’informazione criptografata è accessibile solo a chi ha l’autorizzazione per aprire la busta e leggere la lettera che contiene. La svolta venne da un ingegnere informatico, Philip Zimmermann, un attivista un pacifista che organizzava manifestazioni contro le armi nucleari, che si rese conto che le sue comunicazioni e quelle dei suoi compagni andavano protette perché era chiaro che il governo americano aveva un interesse a leggerle. D’altronde i casi di cyber spionaggio sono più che mai all’ordine del giorno, basti pensare, per citare il più recente, quello che è emerso sull’uso dello spyware Paragon, con il quale venivano controllati gli attivisti che lavorano per salvare vite umane in mare, tra cui anche un religioso.
L’attività di sorveglianza e di spionaggio dei governi nei confronti di oppositori e attivisti va considerata una costante, ma nell’era digitale ha assunto proporzioni inimmaginabili prima. In passato la polizia politica doveva intercettare la corrispondenza dei dissidenti, magari aprire le buste con il vapore per leggere le lettere, operazioni che richiedevano un grande impiego di tempo e di personale, mentre oggi con un software si possono leggere le mail di milioni di persone, compresi attivisti, sindacalisti, giornalisti. Quando Zimmermann rese accessibile a tutti il software PGP (Pretty Good Privacy), che permetteva di cifrare le email, si ritrovò subito addosso il governo americano, perché la possibilità di comunicare in modo sicuro, protetti dalla criptografia, era considerata una prerogativa esclusiva dello Stato.
Si creò un caso legale intorno al software PGP, ma il governo degli Stati Uniti non riuscì a incriminare Zimmermann e si aprì una possibilità per tutti di utilizzare la criptografia. Si è trattato della conquista del diritto di comunicare in modo protetto, con un sistema applicabile anche alle transazioni economiche e ad altre forme di scambio e comunicazione. La possibilità di criptografare i messaggi penso vada considerata come l’acquisizione di un diritto fondamentale.
AV | Nel caso di Wikileaks il sistema di criptazione dei dati ha permesso di ricevere enormi quantità di materiale coperto da segreto, come quello trasferito da Chelsea Manning, soldato americano addetto dell’intelligence durante la guerra in Iraq, che fece arrivare a Wikileaks migliaia di documenti segreti, mantenendo l’anonimato grazie al sistema di criptazione. Manning fu poi individuata e condannata a 35 anni di carcere, ma solo per una sua imprudenza. Si può dire quindi che il sistema di protezione dei dati ha funzionato?
SM | Ha funzionato in modo eccezionale perché innanzitutto diverse fonti, non solo Manning, hanno fatto arrivare a Wikileaks documenti di eccezionale importanza e in una quantità senza precedenti. Se pensiamo per esempio ai cosiddetti Pentagon Papers, i documenti segreti sulla guerra in Vietnam pubblicati dal “New York Times” nel 1971, erano in tutto 7.000 pagine, mentre WIkileaks è venuta in possesso di decine di milioni di pagine segretate. Sicuramente con le comunicazioni tradizionali, senza la protezione della criptografia, i whistleblower, le fonti interne agli apparati militari e governativi, sarebbero state facilmente individuate. In realtà Manning, la fonte sulla guerra in Iraq, è stata scoperta, ma non per un fallimento della criptografia. È stata scoperta per un altro motivo su cui vale la pena di riflettere. In un momento di fragilità psicologica Manning confessò in chat a uno sconosciuto, una persona che non aveva mai visto, quello che aveva fatto. Questa persona le disse che poteva confidarsi con lui senza paura, avrebbe mantenuto il segreto come un sacerdote in confessione e invece andò subito a denunciarla e Manning fu arrestata dall’FBI. Questo caso ci fa capire che anche con le tecnologie più sicure la fragilità umana rimane un aspetto con cui fare i conti.
AV | Continuando a parlare della rete internet e di eventi senza precedenti parliamo ora dell’idea da cui è nata Wikileaks che era quella di avere dalla rete, in modo protetto, informazioni diverse da quelle che passano dai canali ufficiali. Una ricerca di fonti alternative con un richiamo anche a un’impresa collettiva di ricerca della verità. Si può dire che il programma di Wikileaks sia riuscito?
SM | Questa rivoluzione, perché di questo si è trattato, è sicuramente riuscita, nel senso che una modalità sperimentata per la prima volta ha permesso di rivelare un enorme volume di informazioni segrete, che riguardavano fatti di eccezionale importanza, che l’opinione pubblica aveva il diritto di conoscere. L’idea da cui è partita Wikileaks è semplice: se noi forniamo alle fonti un sistema protetto dalla criptografia, chi ha accesso a informazioni eccezionalmente importanti e delicate avrà una motivazione in più a farle arrivare all’opinione pubblica, perché sa che non sarà scoperto. La scommessa ha funzionato perfettamente perché fin dall’inizio della sua storia Wikileaks ha ricevuto documenti di eccezionale importanza, come per esempio il manuale segreto della task force che gestiva il campo di detenzione di Guantanamo. Informazioni che non arrivavano ai media tradizionali perché non offrivano garanzie sufficienti di protezione della fonte.
AV | Possiamo dire che internet, che per molti versi ha depotenziato il ruolo e lo status professionale dei giornalisti, ha però anche aperto nuove possibilità d’indagine?
SM | Chiaramente il web permette l’accesso a un’enorme quantità di informazioni e non si tratta solo di materiali segreti, ci sono anche molte informazioni interessanti tutt’altro che scontate, che sono pubblicamente accessibili, si tratta di trovarle.
AV | A proposito di internet e giornalismo, cosa possiamo dire sul rapporto tra Wikileaks e i media cosiddetti tradizionali, ovvero i grandi giornali e i grandi editori? Il materiale raccolto da WIkileaks è stato pubblicato dai giornali e attraverso il lavoro di decine di giornalisti di tutto il mondo, a cui tu hai partecipato in prima persona. Questo significa che la funzione dei giornalisti rimane fondamentale per informare?
SM | Innanzitutto occorre pensare che parliamo di un volume di informazioni mostruoso, ad esempio i cablo della diplomazia degli Stati Uniti venuti in possesso di Wikileaks sono 250.287 documenti segretati che riguardano paesi di tutti i continenti e solo i cablo che riguardano l’Italia, a cui ho lavorato personalmente, erano 4.189. Nessuno è in grado di analizzare una simile mole di informazioni da solo. Capire che cosa c’è in questa massa di comunicazioni richiede una grande quantità di lavoro e una grande competenza, quindi alla base della scelta di Wikileaks di lavorare con i giornalisti c’è stata l’esigenza di mettere al lavoro specialisti, persone in grado di capire l’importanza di ogni documento, che andava verificato, selezionando le informazioni che fossero di interesse pubblico. Si doveva accertare l’autenticità del documento, l’interesse del suo contenuto e anche che si trattasse di rivelazioni, ossia di informazioni che non fossero già note. Per fare questo lavoro eravamo 90 giornali di tutto il mondo, dal Giappone all’Argentina alla Nuova Zelanda. Queste partnership, queste collaborazioni che ha introdotto proprio Wikileaks, poi sono diventate molto comuni nel giornalismo, abbiamo visto il caso dei Panama Papers, pubblicati da un consorzio di giornalismo investigativo internazionale. Questo tipo di organizzazioni sono diventate la regola dopo che WikiLeaks le ha introdotte nel 2010, perché spesso si ha che fare con milioni di pagine di documenti che riguardano tutte le nazioni del mondo, quindi serve un grande lavoro di verifica delle fonti e dell’autenticità dei documenti.
AV | Al di là del lavoro dei giornalisti sicuramente contenti di lavorare con fonti di questo valore, per quanto riguarda gli editori e la proprietà dei giornali, che comunque dovevano assumersi la responsabilità di pubblicare le notizie, qual è stato l’atteggiamento nei confronti dei materiali emersi con queste modalità?
SM | Sicuramente il fatto che le notizie fossero in possesso di un’organizzazione giornalistica quale è Wikileaks (ed è importante ricordarlo) che le avrebbe comunque rese pubbliche, indipendentemente dalle decisioni dei singoli direttori di giornale, ha fatto sì che molti non avessero voglia di censurare perché poi sarebbe stato imbarazzante, nei confronti dei lettori, dover ammettere che il giornale non aveva fatto uscire una notizia importante. Assange e altri sono stati hacker da ragazzi, ma il lavoro fatto da Wikileaks è stato ed è un lavoro giornalistico, un lavoro di informazione secondo le regole del giornalismo.
Quando iniziai a guardare il lavoro sull’Iraq rimasi stupita che Wikileaks fosse riuscita a entrare in possesso di documenti segreti di eccezionale importanza, che nessun giornalista era riuscito ad avere. Ad esempio il manuale della prigione di Guantanamo. Mi fece una grande impressione quando vidi questo documento pubblicato sul loro sito, un documento che avevano cercato di avere con ogni mezzo, senza riuscirci, giornalisti, organizzazioni internazionali per i diritti umani, docenti di studi legali, avvocati, anche attraverso battaglie legali sempre senza esito.
Poi capii che quel risultato era stato raggiunto da Wikileaks per due ragioni. Prima di tutto la reazione agli abusi dell’amministrazione Bush nella guerra al terrorismo, abusi così grandi, così estremi che c’erano tanti disposti a far arrivare questi documenti e queste informazioni, purché ci fosse un modo per essere protetti, per farlo in modo anonimo. E il secondo motivo era questo: in quegli anni c’era un’unica organizzazione giornalistica che offriva una reale protezione delle fonti e non era il “New York Times”, il “Washington Post” o il “Guardian”, ma era questa piccola organizzazione giornalistica, Wikileaks fondata da Julian Assange. Poi va considerato un altro fattore fondamentale, il coraggio. Tu puoi avere come giornalista il documento più esplosivo, ma se poi non hai il coraggio di pubblicarlo non serve a nulla, se lo metti nel cassetto perché hai paura delle conseguenze che dovrai affrontare una volta pubblicato quel documento è come non averlo.
Quando Wikileaks pubblicò il manuale di Guantanamo, il Pentagono li contattò e disse che doveva essere immediatamente rimosso dal sito, perché non avevano l’autorizzazione a pubblicarlo. Bene, non obbedirono, non lo rimossero dal sito. E questo non va dato per scontato, poiché soprattutto in quegli anni, negli anni dopo l’11 settembre, la stampa e il giornalismo erano molto supini all’autorità, ai servizi segreti, agli apparati dello Stato. Quindi il coraggio si deve considerare il filo conduttore di tutto il lavoro di Julian Assange e di Wikileaks. È vero anche che Assange ha pagato un prezzo altissimo per questo coraggio, come i giornalisti e l’organizzazione, che sono stati più di 10 anni sotto la minaccia giudiziaria di un’inchiesta del governo americano. Tra l’altro non si sa ancora se questa inchiesta sia chiusa, si sa che il caso Julian Assange è chiuso, ma non si sa cosa ne è stato dell’inchiesta su tutta l’organizzazione.
AV | Siamo quindi arrivati a parlare dello scontro con il potere, che è il tema centrale del tuo libro, dove tra l’altro racconti anche di una battaglia legale che hai fatto e che stai facendo per conoscere la verità sulle incriminazioni e le vicende giudiziarie di Assange.
SM | Credo che il dovere del giornalista sia cercare la verità, una cosa che può essere molto complicata, su certe vicende non basta chiedere ufficialmente dei documenti per averli, spesso ci si trova di fronte a un rifiuto e quindi o si deve decidere se abbassare la testa oppure combattere per ottenere quello che si ha diritto di conoscere. Ed è quello che faccio da 10 anni, dal 2015, per avere i documenti sul caso Julian Assange e Wikileaks.
La mia battaglia legale nasce nel 2015, quando Assange aveva passato 5 anni sotto indagine in Svezia accusato di un presunto stupro e queste indagini non facevano nessun progresso. Assange era chiuso in una stanza dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra senza poter mettere il naso fuori, una condizione veramente critica, e nessuno aveva provato a chiedere i documenti sul suo caso giudiziario, nessun giornalista si era messo in testa di vederci più chiaro. Come mai il caso di Assange non faceva nessun progresso, come mai i magistrati svedesi non si decidevano a incriminarlo per stupro, a rinviarlo a giudizio oppure a scagionarlo?
Nessuno aveva provato a vedere le carte, per cui si scrivevano articoli semplicemente riportando le affermazioni dell’accusa e quelle della difesa, ma in questo modo non si capiva nulla del caso, non si capiva da cosa fosse veramente motivata questa situazione di stallo. Ne parlai con un magistrato italiano. Detto per inciso la magistratura italiana in più occasioni, come per esempio nel caso del rapimento illegale di Abu Omar a Milano, ha dimostrato un alto grado di preparazione e indipendenza.
Il magistrato con cui parlai mi disse che era effettivamente strano che i magistrati svedesi non volessero andare a Londra per interrogare Assange e stabilire se andasse incriminato, rinviato a giudizio oppure no. E mi spronò a indagare, a cercare di capire perché ci fosse questo atteggiamento da parte dei magistrati svedesi. A questo punto, non avendo fonti confidenziali, pensai di ricorrere ai documenti ufficiali, utilizzando il FOIA (Freedom of Information Act), la norma che garantisce il diritto di accesso alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni.
La Svezia ha un FOIA estremamente evoluto, la prima legge svedese sull’accesso alle informazioni del governo è datata 1776, in Italia esiste solo dal 2016. Presentai la richiesta all’autorità giudiziaria svedese e grazie a questo scoprii informazioni importanti, tra cui l’informazione cruciale, ossia che erano state le autorità giudiziarie inglesi a chiedere a quelle svedesi di non venire a Londra a interrogare Assange, chiedendogli di rimandare l’interrogatorio a dopo l’estradizione. Assange non si opponeva alla richiesta di interrogatorio, era stato già interrogato in Svezia e si era messo a disposizione, non voleva essere estradato in Svezia per essere interrogato perché era convinto che lo avrebbero poi estradato negli Stati Uniti. Le autorità inglesi, chiedendo ai magistrati svedesi di non venire a Londra, avevano di fatto impedito la soluzione rapida del caso, avevano lasciato Assange in un limbo in cui non veniva né interrogato, né incriminato, né scagionato, quindi rimaneva chiuso nell’ambasciata con l’accusa di essere uno stupratore, con una reputazione e una credibilità personale compromessa.
AV | In questo numero di Engramma riflettiamo sulla figura del pirata e del suo rapporto con l’apertura di nuovi spazi di libertà, che spesso coincidono con l’arrivo di nuove tecnologie, nuove possibilità di comunicazione, pensiamo ad esempio alle radio pirata e al loro ruolo quando si aprì la possibilità di trasmettere in FM. Per quanto riguarda Assange, tu che l’hai conosciuto personalmente, come descriveresti la sua figura e la vicenda di Wikileaks in questa prospettiva?
SM | Io non posso che descriverlo come una figura eroica, non c’è dubbio, sia lui che i giornalisti di Wikileaks che hanno rischiato tantissimo, e hanno pagato anche un prezzo molto alto. Sicuramente sono dei pionieri, perché hanno creato una rivoluzione, inventando un modo per far uscire informazioni non autorizzate, quindi un modo reale per sfuggire al controllo dell’informazione da parte di chi detiene il potere.
Julian Assange e i giornalisti di Wikileaks hanno creato un’enorme spaccatura, uno squarcio profondo, in quello che io chiamo il potere segreto, il livello più alto del potere. Lo possiamo chiamare il complesso militare industriale, come diceva il presidente Eisenhower. Un potere, che oggi ha incluso anche Big Tech, le grandi aziende dell’informatica, che negli Usa sono parte integrante del complesso militare-industriale. Nelle guerre attuali in cui si usano i droni e l’intelligenza artificiale Big Tech ha un ruolo cruciale.
Wikileaks ha pubblicato per la prima volta i documenti segreti su questo potere. Penso che si debba considerare eroica la scelta di sfidare un potere come quello del governo degli Stati Uniti e affrontare quattordici anni di confino e carcere duro, anziché utilizzare le proprie capacità nell’informatica per arricchirsi.
Sono certa che la rivoluzione di Wikileaks ha aperto una strada che potrà essere percorsa anche da altri: Il fatto che whistleblower come Chelsea Manning abbiano pagato un prezzo altissimo, otto anni di prigione e tre tentativi di suicidio, non ha scoraggiato altri dopo di lei che hanno fatto uscire importanti documenti segreti, come Edward Snowden, che ha svelato i programmi di sorveglianza di massa del governo americano. Penso che la storia di Wikileaks non sia finita, ora sappiamo che la battaglia contro il segreto può essere vinta.
English abstract
In this issue of Engramma, we present an interview with Stefania Maurizi, journalist and author of Il potere segreto (Chiarelettere, 2024). Maurizi has worked closely with WikiLeaks – the organization founded by Assange that released millions of classified documents revealing critical information about the wars in Iraq and Afghanistan, as well as US diplomatic activities. Her book traces the events that led Assange to spend seven years as a political refugee inside the Ecuadorian embassy in London, in an effort to avoid extradition to the United States, where he faced charges of conspiracy and espionage. This was followed by five years in the UK’s high-security Belmarsh prison, a chapter that recently came to an end with a plea agreement with the US government.The interview revisits key moments in the WikiLeaks saga and Assange’s trajectory – episodes that mark a turning point in the history of journalism and shed light on the complex entanglements between political-economic power and the right to information.
keywords | Julian Assange; WikiLeaks; information; Hackers; Cryptography; Whistleblowers.
Per citare questo articolo / To cite this article: Alessandro Visca (a cura di), Intervista a Stefania Maurizi, Il potere segreto. Wikileaks e la digitalizzazione dell’informazione, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.