Riscoperta e fortuna dei rilievi dell'Ara Pacis nell'età della Rinascita
Simona Dolari
“Né il tempo né il fuoco né la spada potè cancellare del tutto questo splendore…”. Così, tra XI e XII secolo, Ildeberto di Lavardin descriveva nei suoi Versus la Roma medievale (Scott 1969, n. 36). Nella città ridotta in rovina, ma che anche in frammenti continuava a mostrare le glorie di una grandezza senza tempo, dell’Ara Pacis Augustae – fatta erigere dal Senato tra il 13 e il 9 a.C. nel campo Marzio, fra l’odierna Via in Lucina e Via del Corso, citata da Ovidio e da altre fonti antiche (sul tema v. in "Engramma" il saggio di Monica Centanni, Maria Grazia Ciani) – non restava memoria.
A cancellare l’Ara augustea dalla topografia dell’Urbe non erano state le razzie del 1084 subite dalla città dopo l’arrivo di Roberto il Guiscardo, che pure distrussero e bruciarono “totam regionem illam in qua ecclesiae sancti Silvestri et Santi Laurentii in Licina sitae sunt” (Duchesne 1886, p. 290; Krautheimer 1959, p. 161). Da tempo – anche se si tratta di una cronologia non così definita come molto spesso si legge nei testi critici – l’Ara Pacis voluta per celebrare il felice ritorno di Augusto dalla Gallia e dalla Spagna, si era letteralmente inabissata nel suo stesso terreno. La natura freatica del suolo su cui era stata costruita, i continui e costanti detriti portati dal Tevere, le acque di deflusso provenienti dalle zone più alte della città vanno riconosciuti come alcuni tra i maggiori responsabili di questa incredibile sparizione.
Sicuramente però in epoca adrianea, come mostrano i bolli laterizi ritrovati e datati 123 d.C., veniva costruito tutto intorno all’Ara un muro di protezione in mattoni alto 180 centimetri e distante dal monumento circa 250 centimetri (Rossini 2006, p. 12). Questo dato, oltre a rivelare la reale situazione precaria del monumento nella prima metà del II secolo, non può non indurre a riflettere su quel termine – fine II secolo e inizio III secolo d.C. – designato generalmente come limite cronologico per la totale scomparsa dell’Ara. Per rivedere tale ipotesi, utile potrebbe essere anche il riscontro con un medaglione romano generalmente datato alla metà del II secolo d.C. (Gnecchi 1912, tav. 66, n. 6) in cui si trova il ‘Sacrificio di Enea ai Penati’ che con grande probabilità deriva dal rilievo dell’Ara con lo stesso soggetto: presumibilmente l’altare doveva essere ancora ben visibile a quel tempo.
Solo un terremoto o un’altra catastrofe avrebbe potuto creare una situazione tale da far scomparire quell’altare che in periodo adrianeo non solo era stato protetto, ma molto probabilmente sottoposto a lavori di restauro, di conservazione, e rimaneggiamento. Lo dimostrerebbero alcuni interventi scultorei, oltre alla tecnica con cui risultano incise iridi e pupille dei personaggi raffigurati. Questa tecnica, infatti, diffusa in epoca adrianea, secondo Rockwell e Conlin fu ripresa specialmente in età tetrarchica (Rockwell 1993; Atnally Conlin 1997): ciò induce a spostare a una cronologia più bassa le date di degrado totale e di sparizione del monumento.
Sicuramente, però, tra il 1281 e il 1287 nel luogo dove secoli dopo fu ritrovato il monumento, il Cardinale inglese Hugh of Evesham aveva fatto costruire un edificio, adiacente alla Chiesa di San Lorenzo in Lucina, che per molti secoli appartenne ai cardinali aventi titolo nella vicina ecclesia (Vickers 1974, p. 109). In questo periodo risultano completamente perdute le tracce dell’Ara Pacis e anche la memoria del monumento. Nessuna citazione né negli Itinerari medievali né nelle guide rinascimentali della città di Roma di Flavio Biondo, Lucio Fauno, Giovanni Bartolomeo Marliani, Mauro Lucio, Pirro Logorio e altri. Da qui e per molti secoli, almeno fino alla seconda metà del XIX quando venne ‘riscoperto’ dall’archeologo von Duhn (v. in questo numero di "Engramma" il contributo di Filippo Malachin e il mio Ara Pacis 1938), l’altare augusteo, o per meglio dire i suoi frammenti, entrano a far parte di un altro capitolo, quello della storia del collezionismo. Un collezionismo che apprezza l’auctoritas dei reperti archeologici anche nel loro stato di frammentarietà, e che a partire dal XVI secolo vede coinvolti nomi e famiglie celebri.
L’oblio del monumento sembra in qualche modo risarcito dall’interesse immediato che suscitarono quei rilievi che tornarono a nuova vita, testimoni di un'antica civiltà. Seguire il filo rosso dei ritrovamenti, nella esiguità dei documenti, è cosa complessa: in questa sede non cerchiamo di dare una risposta esaustiva al problema, ma ci proponiamo di sollevare questioni e dubbi che ci inducano a riflettere sulla bibliografia critica a oggi disponibile. Certamente tracciare le vicende e le sorti collezionistiche dei rilievi ritrovati nel XVI secolo equivale a ricostruire in parte la storia delle raccolte antiquarie che li conservarono nel corso del tempo tra Roma e Firenze, soprattutto senza dimenticare di fare una distinzione tra ciò che dei rilievi rimane e ciò che da questi fu ispirato. L’incrocio e l’analisi dei documenti e delle testimonianze passate tornerà utile all’esame.
Le monografie più importanti sull’Ara Pacis, di cui per autorevolezza citerò soltanto quella di Moretti del 1948, dedicano tutte uno spazio ai ritrovamenti avvenuti in epoca rinascimentale, e sull'argomento concordano scrivendo:
Le prime notizie scritte si riferiscono alla estrazione di vari pezzi, che si scopersero negli scavi fatti fare per i lavori del 1568 dai Peretti, nipoti di Sisto V, allora proprietari del Palazzo di Campo Marzio (Moretti 1948, p. 13).
Moretti, e con lui molti degli studiosi che lo seguirono, arriva a definire il dato basandosi sulla preziosa testimonianza di quattro lettere scritte nel 1569 dal Cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano (non Andrea come a volte si trova) a Bartolomeo Concini, segretario di Cosimo I Medici. In queste si parla di “XV o XVIII pezzi di marmi grechi trovati sotterrati, dicono d’un arco Trionfale, che fece Domitiano, i quali pezzi dall’un canto havevano figure de’ Trionfi che dal tempo sono un poco disfatti e dall'altro havevano certi festoni ..."; inoltre, riferendosi alle lastre, dice "li quali pezzi furono in tutto nove, ma tanto grossi ... et ho ordinato che siano segati" (Barocchi, Gaeta Bertelà 1993, pp. 22-23, 31-32).
Moretti, basandosi sulle lettere pubblicate da Petersen nel 1894 (pp. 224-225), aggiungeva che gli scavi erano stati fatti dai Peretti, allora titolari del palazzo di San Lorenzo in Lucina. Un dato da correggere: in realtà alla data menzionata del 1568, l’edificio non è proprietà dei Peretti, che lo otterranno solo nel 1585, quando il Cardinale Alessandro diventerà titolare della vicina Chiesa di San Lorenzo in Lucina (Reumont 1884; Lanciani 1891), ma appartiene dal 1566 al Cardinale Fulvio Corneo che lo aveva avuto in concessione da Papa Pio V (Lanciani 1913, p. 27). Quindi, questo ritrovamento dei rilievi dell’Ara deve essere certamente ascritto alla famiglia Corneo e non ai Peretti.
C’è inoltre ancora un dato da precisare: Moretti, riprendendo i documenti autorevolmente proposti dall’archeologo Petersen, cui spetta un lavoro capitale nella ricostruzione del monumento anche se non scevro di errori (Petersen 1894, pp. 170-228) cita per i ritrovamenti la data 1568. Il dato cronologico è desunto ancora da una lettera scritta dal Cardinale Ricci al Concini in data 16 giugno 1569, che Petersen così riporta:
Credo che il marmo di questa tavola ... alta XI (VI?) palmi e larga otto dico tav. biancha da raccamarla poi di quelle cose blu che sia greca ritrovato poco tempo sotto d'un arco antico. Desideravo sapere se quelle dui mostre di marmo che io mandai ultimamente voi li giudicate esser di marmo greco o vero l’havete esser di marmo di Carrara perchè li altri pezzi che fo tuttavia segare li guardo p. s. E.z.a mentre non mi dovete altro (Petersen 1894, p. 225).
La stessa lettera, però, nella versione pubblicata da Barocchi e Gaeta Bertelà diventa:
Molto magnifico Signore … non ho molto da dire, salvo che mi rimane una tavola alta XI palmi e larga octo, dico taula biancha da raccamarla poi di quelle cose belle che avete di là, che io per mancamento di materiali non l’ho fornita mai, ma li ho ben fatto le fascie over cornice intorno di un bellissimo verde, che comparirà assai bene, come sia pulito … Credo che il marmo di questa taula sia greco, ritrovato poco tempo sotto d’uno arco antico. Desidero sapere se quelle due mostre di marmo che io mandai ultimamente, voi le giudicate esser di marmo greco, o vero l’avete per marmo di Carrara, perché gli altri pezzi che io fo tuttavia segar, li guardo per Sua Eccellenza, mentre non mi direte altro (Barocchi, Gaeta Bertelà 1993, pp. 31-32).
Le differenze come è evidente non mancano, e quindi dovremmo riflettere nuovamente su quei dati su cui poggia la tesi sostenuta da Moretti e dagli altri studiosi. Analizziamo il testo: evidentemente nella lettera si parla di una tavola ritrovata poco tempo prima sotto un antico arco. È lecito dubitare che non sia così automatico collegare la tavola “biancha da raccamarla poi di quelle cose” agli altri rilievi di cui si parlava sopra. Bisognerebbe capire innanzitutto che cosa si intende con il termine “da raccamarla”: “da ricamarla”, quindi "da decorare"? Per le nostre attuali conoscenze le lastre erano tutte istoriate, e se questa appartenesse all’Ara Pacis dovremmo riconsiderare la questione ben più ampiamente. Inoltre non va trascurato il fatto che in quella stessa zona erano stati rinvenuti diversi altri oggetti antichi, di cui si legge nei carteggi, per lo più acquisiti proprio dal Cardinale Ricci: questi era infatti non solo uno dei maggiori acquirenti d’arte dell’epoca, ma era lui stesso un collezionista tanto noto da ricevere un’ammenda dal Pontefice Pio V (in una lettera dello stesso Cardinale Ricci a Bartolomeo Concini del 27 maggio 1569, si legge: “io che facevo un bello apparato di anticaglie a casa mia…”, in Barocchi, Gaeta Bertelà 1993, p. 31).
È chiaro che, se rimaniamo circoscritti a questa lettera, l’indicazione temporale “poco tempo” ci porta verso il 1568 indicato da Moretti. Ci sono due dettagli, però, che non possono essere sottovalutati: di solito i lavori di ampliamento e di consolidamento dei palazzi venivano eseguiti al momento in cui il nuovo inquilino prendeva residenza, e nel nostro caso ciò sarebbe avvenuto post febbraio 1566. Inoltre Deswarte Rosa in una nota scrive:
Il Ricci nelle sue lettere non riporta la data precisa della scoperta – grazie ai conti di Giacomo Della Porta, all’epoca al servizio del cardinale: l’architetto annota che il 29 luglio 1566 il cardinale pagò 125 scudi a Camillo Bolognino per “nove pezzi di marmo istoriati che stavano nel cortile della casa di San Lorenzo in Lucina" (Deswarte Rosa 1991, p. 528).
Difficile trascurare il dato. Forse il riferimento ai “nove pezzi” non è legato alle nostre indagini, ma la coincidenza sui protagonisti della vicenda e sul numero delle lastre invita alla riflessione. Andiamo avanti. Il Cardinale Ricci sicuramente acquistò i pezzi ritrovati pagandoli, come lui stesso ebbe modo di dire, “grassamente”; quindi li fece tagliare per ridurne mole e peso e per aumentarne il numero, visto che erano istoriati da entrambe le parti; i marmi furono segati dallo scultore Leonardo Soriani: dai documenti risulta che il 24 dicembre 1568 e il 13 gennaio 1569 questi ricevette venti scudi per segare i “marmi istoriati” (v. Deswarte Rosa, 1991, Appendice). È molto probabile quindi che fossero destinati alla sua residenza, la Villa sul Pincio dove il Cardinale collezionava pezzi antiquari di notevole prestigio. Ricordiamo, inoltre, che solo una delle lastre proposte dal Cardinale Ricci a Cosimo I dei Medici era stata inviata subito a Firenze come ‘campione’ dei pezzi: “la bella bizaria”, quella con le tre figure femminili “che si crede che fussero fatte per tre elementi, cioè Aria, Acqua, et Terra” (si tratta della lastra della cosiddetta Tellus accompagnata dalle due figure femminili).
Gli altri marmi, una volta segati, entrarono quindi a far parte di una delle collezioni antiquarie più importanti della città, ma divennero anche oggetto di scambio nella strategia di alleanze politiche del tempo. Alla morte del cardinale Ricci nel 1574, la Villa fu acquistata nel 1576 da Ferdinando Medici, molto legato alla realtà politica romana ed eccezionale cultore d’arte antica. Questi, fatta completamente restaurare e ampliare la residenza sul Pincio, fece collocare i tanti “marmi figurati e non figurati” che erano nei giardini (Hochmann 1999, D'Agostino 2003).
Alcuni furono murati sulla facciata interna del palazzo e sulla terrazza del bosco. Tra questi si trovavano anche quei rilievi dell’Ara Pacis, che evidentemente non era stato ritenuto opportuno mandare a Firenze. Ne lasciò testimonianza Etienne Dupérac nei suoi disegni: era il primo di una lunga serie di artisti, soprattutto francesi, che sarebbe rimasto impressionato dalla qualità di quei rilievi, esempi eccellenti di un mirabile capitolo della storia dell’arte romana. Quella di Dupérac era un’importante e attenta trascrizione del fregio con la processione, che riproduceva i tagli delle lastre e con grande probabilità anche l’ordine in cui erano disposti. Nella parte bassa del foglio l’artista annotò “in hortis Mediceis”: l’indicazione topografica consente di datare l’opera grafica sicuramente post 1574.
Dupérac aveva riprodotto nei suoi disegni panneggi e posture con notevole attenzione: furono quindi di particolare supporto per quanti studiarono i vari interventi di restauro e di rimaneggiamento subiti dai rilievi nel corso della storia, ma furono soprattutto un modello eccezionale per quel contesto pittorico classicistico di cui il massimo esponente fu Poussin. Infatti fu proprio l’artista che, una volta giunto in Italia, copiò su commissione di Cassiano del Pozzo alcuni dei rilievi dell’ara di Villa Medici, come dimostrano i suoi disegni conservati a Torino e a Windsor (Griseri 1951, pp. 107-103), oltre a quelli molto dettagliati conservati nel Museo Condé a Chantilly (n. P220 e P229).
I marmi istoriati non erano però solo quelli con la scena della processione: infatti, tra gli altri rilievi incastonati nella facciata interna, si trovavano – e si trovano tutt’ora – due rilievi raffiguranti l’altra “faccia dei trionfi”, quella decorata con ghirlande, bucrani e patere, i cui calchi tratti dagli originali si trovano oggi nella parte interna del recinto della ricostruita Ara Pacis. Dupérac fece disegni anche di questi, riproponendo con incredibile maestria ogni minimo particolare presente sulla lastra.
I marmi che erano stati acquistati per i Medici dal Ricci, forse nel 1566, erano quindi entrati a far parte della collezione dieci anni dopo, e per tanti anni rimasero all’interno della villa. Qui li videro quanti per tutta la fine del Cinquecento e per il Seicento passarono per Roma. E diverse sono le testimonianze grafiche di questo periodo che sono rimaste. Tra i più importanti disegni vanno annoverati quelli del Codice Vaticano 3439, chiamato anche 'Codex Ursinianus' (Herklotz 1993, pp. 573-574), in cui uno sconosciuto disegnatore riprodusse con attenta precisione i frammenti, anche se li divise l’uno dall’altro, mettendo un solo disegno per pagina (Michon 1910, pp. 157-263). Quelli della Collezione Franks conservati al British Museum di Londra che, oltre ai disegni dell’Ara Pacis, includono anche quelli attribuiti all’Ara Pietatis Augustae sempre presenti in Villa Medici, e raffiguranti uno il sacrificio di un toro, e un altro una processione con Augusto.
Questi rilievi secondo le fonti sarebbero stati acquistati da Ferdinando Medici nel 1584 prendendoli dalla collezione antiquaria Della Valle (Butters 1991, Gasparri 1991, Documenti 1880). Ferdinando de’ Medici li considerò parte di uno stesso gruppo e li assemblò fisicamente nella collocazione, e così li ritenne anche l’autore di una serie di disegni conservata presso la biblioteca del Castello di Windsor, da cui prese forse spunto il senese Bernardino Capitelli, artefice di cinque incisioni dei rilievi augustei nel 1633 (Moretti 1948, p. 116). È plausibile che derivi da questa serie anche un’incisione, attualmente conservata al Vaticano (Vol. X, 1, 5, fol. 251), ma custodita in passato nella biblioteca Barberini e già vista dal von Duhn. Alla fine del ‘600 Pietro Sante Bartoli eseguì dei disegni dai rilievi augustei per comporre la raccolta di Giovanni Pietro Bellori, Admiranda Romanorum antiquitatum ac veteris sculpturae vestigia. Il Bartoli scelse per necessità editoriali di riprodurre solo i frammenti più belli e meglio conservati: i pannelli del corteo settentrionale.
Abbiamo fin qui tracciato una breve storia dei frammenti che, acquistati dal cardinale Ricci, arrivarono poi a far parte delle collezioni medicee: i documenti d’archivio in qualche modo confermano una certa priorità riconosciuta a questo gruppo di rilievi. Ci sono ancora dei dati, alcuni assolutamente certi, che non si possono trascurare al fine di questa ricognizione storico-critica, anche perché dagli stessi deriva che quella data 1568, ritenuta l’inizio della ‘vita postuma’ dell’Ara Pacis, deve essere assolutamente anticipata.
Si rende necessario ora fare un passo indietro e tornare a quel palazzo di Piazza San Lorenzo in Lucina, l’attuale Palazzo Fiano Almagià, da cui eravamo partiti e che, come si è detto, nel 1566 arriva di diritto al Cardinale Fulvio Corneo. Costruito nella sua prima parte dal Cardinale Hugh of Evesham, continuò a essere sottoposto a lavori di consolidamento, ampliamento, rimodernamento, praticamente per tutto il XV secolo fino agli inizi del XVI, quando il palazzo fu finalmente completato nel 1510 dal Cardinal Fazio Santorio (Vickers 1974, p. 112). È fortemente probabile che già durante questi lavori alcuni rilievi dell’Ara Pacis fossero tornati alla luce. Di fatto Pasqui nelle sue notizie degli scavi del 1903 dice:
Tra le fessure dei medesimi pezzi, i quali posavano sopra allo zoccolo del recinto, raccolsi i frammenti di un piatto della seconda metà del 1400, con ornamento di foglioline e meandro e con Jesus in monogramma nel mezzo, il tutto dipinto a riverbero d’oro, come le maioliche antiche di Gubbio e Urbino … Ora per giustificare la presenza di quei frammenti di maiolica italiana bisogna supporre che nel secolo XVI siano stati fatti gli scavi a grande profondità anche in mezzo alla strada, cioè prima che si facessero i cavi necessari per la fondazione del palazzo Ottoboni e di altri fabbricati (Pasqui 1903, pp. 571-572).
In effetti la prima testimonianza grafica che attualmente conosciamo dell’altare è un'incredibile incisione tratta da un disegno attribuito ad Agostino Veneziano, che riproduce una delle lastre marmoree con il fregio floreale e che viene datato ante 1536 (Strauss 1978, p. 246). Inoltre nel taccuino dei disegni di Giovanni Colonna, datato 1554, esistono dettagli di candelabri e girali floreali che potrebbero derivare a loro volta dalle lastre augustee. Quindi bisognerebbe provare ad individuare anche quei “marmi istoriati” della collezione della Valle che furono descritti dall’Aldrovandri prima del 1550, scoperti nella zona di San Lorenzo in Lucina e che hanno le stesse dimensioni di quelli abitualmente attribuiti all’Ara Pacis. Forse a questo punto si potrebbe anche riesaminare l’ipotesi avanzata da Vickers nel 1974, che cioè Mantegna avesse in qualche modo avuto conoscenza dei rilievi quando realizzò i Trionfi di Hampton Court.
In conclusione, ricapitolando i punti nevralgici di questa ricerca ancora in fieri, possiamo con una certa sicurezza dire che:
> La prima scoperta importante per numero di pezzi e per documentazione delle lastre dell’Ara Pacis avviene quando l’attuale palazzo Fiano-Almagià è proprietà dei Corneo e non dei Peretti. Questi diverranno proprietari dell’immobile solo dopo il 1585.
> È possibile che una delle lastre decorate con il fregio vegetale fosse stata rinvenuta prima del 1536: lo dimostra l’incisione attribuita ad Agostino Veneziano e forse anche alcuni girali ripresi nel taccuino dei disegni datato 1554 di Giovanni Colonna. Indurrebbero a confermare questa ipotesi anche alcuni disegni dei Trionfi di Mantegna.
> Scavi intorno al Palazzo Fiano furono effettuati sistematicamente per tutto il XV secolo: lo dimostrano oltre ai documenti relativi allo stabile, il frammento del piatto in ceramica rinvenuto da Pasqui.
I campi da indagare sono ancora molti e l’aspetto ‘patinato’ che oggi il monumento presenta – e che sembrerebbe avere mantenuto continuativamente, quasi si fosse perfettamente conservato nei secoli – non deve far recedere gli studiosi dal continuare le ricerche e dal porsi domande, anche rispetto ai risultati storico-critici dati per assodati.
Questo contributo è stato pubblicato in versione cartacea nel Quaderno del Centro studi Architettura Civiltà e Tradizione del Classico dell'Università Iuav di Venezia Ara Pacis. Le fonti, i significati e la fortuna (in occasione della lezione e degli incontri con Eugenio La Rocca e Henner Von Hesberg, 6 e 7 febbraio 2007), Venezia 2007
Riferimenti bibliografici
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Per citare questo articolo / To cite this article: S. Dolari, Riscoperta e fortuna dei rilievi dell’Ara Pacis nell'età della Rinascita, “La Rivista di Engramma” n. 75, ottobre/novembre 2009, pp. 201-214 | PDF di questo articolo