Salvatore Nocera e i conti col passato
Recensione alla mostra Salvatore Nocera. Un decennio di ritardo, Bologna, Palazzo d'Accursio, 19 maggio-23 luglio 2017
Elisa Del Prete
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Si è da poco chiusa, a Palazzo d’Accursio, in Piazza Maggiore a Bologna, la prima mostra dedicata a Salvatore Nocera nella sua città natale. Il catalogo (Salvatore Nocera. Un decennio in ritardo, a c. di E. Del Prete, Associazione Bologna per le Arti, Bologna 2017), in cui sono finalmente raccolti per la prima volta numerosi lavori appartenenti a diverse fasi che l’artista attraversa nel corso di 60 anni di produzione, si apre con un breve testo dell’autore Mario Giorgi, che da giovane aveva conosciuto Nocera e che è oggi tra coloro che, assieme a me, hanno reso possibile questa iniziativa, accanto alle due eredi testamentarie dell'artista Eva Picardi e Felicia Muscianesi.
Il testo recita:
C’era un pittore, nato a Bologna, noto a Parigi. C’era e non c’era. Dedicò all’arte l’intera sua esistenza, non facendo altro, non interessandosi ad altro. Eppure retrocesse progressivamente dalla sua postazione di artista fino a eclissarsi. Fu un processo lento ma costante, non accompagnato da dichiarazioni o pubblici annunci. Gli esordi erano stati - come si dice - promettenti: l’attenzione di Longhi e di Arcangeli, premi importanti vinti in giovane età, l’ingresso ai Salons parigini. Per qualche tempo deve aver pensato che interpretare il ruolo di artista gli si confacesse, in quanto appunto viveva e agiva e sentiva come un artista. Poi qualcosa si è inceppato. Le sue apparizioni pubbliche, già infrequenti, si diradarono ulteriormente. Gallerie e Musei videro ricambiati i loro inviti con promesse non mantenute, rinvii a tempo indeterminato. E soprattutto i suoi lavori mutarono radicalmente: ridusse le dimensioni, accantonò il figurativo, sperimentò nuove tecniche. Continuava a dipingere, fotografare, comporre, e tuttavia non mostrava le sue opere se non a pochi intimi. Chi gli stava vicino lo sentì quasi sempre sminuire quel che andava dipingendo e giustificarsi spesso con frasi vaghe e insieme laconiche quali «non è più il tempo per...», cui seguiva puntualmente uno sguardo, a cercare un cenno d’intesa. Anno dopo anno Nocera svanì, si rese come invisibile, impercepibile, e nel contempo si frammentò, decostruendo la sua opera e perfino la sua ispirazione. Finché non ottenne l’oblio, la totale indifferenza. Ma era quello che voleva? Mimetizzato, anacronistico, autodeclassato, fino all’ultimo giorno di vita - quasi a dispetto di sé - non riuscì però a essere altro che un artista. Il suo lascito pare uno di quei giochi enigmistici in cui occorre congiungere i puntini. La sensazione è che, in silenzio, si augurasse che qualcuno, prima o poi, ci avrebbe provato.
Salvatore Nocera (nasce nel 1928 ed è attivo dalla fine degli anni Quaranta fino all'inizio dei Novanta) non era un dilettante più di tanti artisti che allora e tuttora (e proprio oggi aggiungiamo: grazie a Dio!) continuano ad esserlo, non era un amatore. Non era un timido, né un folle. Nocera era un artista colto e consapevole che ha vissuto ogni giorno per essere tale, dotato di un talento con cui fare i conti. Come molti grandi artisti se n’è andato nella convinzione di non aver coronato il proprio talento. I diari degli ultimi anni sono pieni di quell’inquietudine di chi sa di avere tra le mani possibilità che non riescono a compiersi, di sensi di colpa per la pavida rinuncia a ogni chance che gli viene servita.
Qui sta, a mio parere, il senso della mostra Salvatore Nocera. Un decennio di ritardo: offrire quella chance a un artista che rischiava di essere dimenticato. A quasi dieci anni dalla morte (avvenuta nel 2008) Nocera viene riesumato e, “naufrago della memoria”, consegnato alla storia dell'arte. Quanti, come lui, in quel mare resteranno invece dispersi... La storia dell'arte è piena di queste mancanze e anche laddove ci sarebbe lo spazio per il salvataggio è sempre faticoso documentarne e legittimarne le ragioni. Non basta infatti dipingere per essere un artista e questo certamente Nocera lo aveva ben presente. La sua è stata una ricerca ossessiva verso il superamento dei limiti che la pittura stessa e il suo talento gli ponevano davanti. La prima moglie ricorda come spesso si lagnasse di non essere in grado di raggiungere “un Tiziano”, non tanto per l’abilità pittorica quanto per la sua capacità di rendere davvero divina, nel senso di soprannaturale, ogni luce.
Nocera è un artista che rinuncia fin da principio ad ogni altra carriera che lo distragga dall’essere artista, mendicando la vita e appoggiandosi totalmente alle tre figure femminili che la scandiscono, la madre, la prima moglie e la seconda compagna; un artista che rimpiange di non essere Tiziano e che spende la sua vita a cercare il senso dell’arte del suo tempo, alla ricerca di una sua possibile via di scampo attuale, che guarda a Cézanne e Van Gogh quali esempi di una condanna irrevocabile cui porta tale ricerca. Di fronte a quadri come Matri Nocera dilectissima Salvator Pictor dicavit del 1964 e Vita in spiaggia del 1965 è chiaro come Nocera si interroga su come sia possibile oggi rispondere alla grande pittura rinascimentale, trattare i grandi temi della pittura sacra, essere all'altezza di una pala d’altare in una chiesa. Sembra dirci: come si può rispondere all’immaginario di cui la nostra memoria si nutre e di cui siamo eredi quando ciò che nutre il nostro sguardo sono giovani perditempo che si intrattengono in spiaggia con futili divertimenti?
La preoccupazione di Nocera nei suoi primi dipinti, quelli che ne caratterizzano fortemente il tratto distintivo tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, prima che approdi ad un’astrazione informale più libera o liberatoria, è la forma o, esattamente, l’armonia della composizione. È una preoccupazione accademica, che gli equilibri siano rispettati, che si pratichi un’arte degna della propria eredità e memoria storica. In essi converge tutta la sua abilità, il respiro della sua conoscenza, dei suoi riferimenti, l’immaginazione visionaria che traduce figure rinascimentali in un’epoca contemporanea, “Sacre Famiglie” in festini in spiaggia, a metà tra un virtuoso manierismo da grande affresco e un tratto fumettistico leggiadro. Eppure non vi è pace in quei dipinti: in bilico tra ammirazione distesa e subitaneo conflitto, tra contemplazione e sogno, chi guarda viene catturato da un fascino che nasconde perversione, la perversione dello sguardo, dell'artista e dell’osservatore stesso che, attirato dalla bellezza non esplicita di queste figure, vorrebbe possederle, toccarle, entrare nel loro mondo, passare al di là del quadro...
Vediamone dunque alcuni. Tre in particolare (tra i pochi recuperati di questo periodo): Figura in nero (1958), Senza titolo (bambina di profilo) (1960 ca.) e Villa sull’Adriatico (1960). In tutti e tre i quadri ci sono elementi comuni: la figura femminile; posture rigide, frontali o di profilo, corpi privi di consistenza quasi fossero manichini; assi verticali e orizzontali che li inquadrano e, tra queste, una colonna cui la figura, più o meno chiaramente, si regge. Il trattamento del colore è in superficie, per niente materico, e si gioca su tonalità irreali (o surreali, oniriche?) che conferiscono a ognuno dei quadri un colore di riferimento. Facendo eco alle donne di Matisse, cui Nocera certamente guarda, potremmo abbinare al titolo un colore: bambina su fondo verde, figura in nero (che è il titolo reale dell’opera), madre in arancione, tonalità che dettano la percezione del quadro sovvertendone la fruizione. Infine, sebbene si possa certamente evidenziare la corruzione del tempo, si tratta di tele cui sembra manchino alcuni passaggi finali di cura, definizione, pulitura. C’è dunque qualcosa che non torna. Approfondendo tutto il percorso di Nocera è evidente che si tratta di un artista dotato, capace di fare quello che vuole, di dare struttura a un quadro, di restituire un’atmosfera e la plasticità dei corpi (si forma tra l’altro da scultore) e che certo non gli mancano le doti per concludere un lavoro dignitosamente. Eppure lascia stare, sembra voglia semplicemente abbozzare, quasi a dirci che non è importante la resa di un corpo o di un’architettura, che sono cose assimilate, studiate, che ci appartengono, soprattutto come italiani, che ci si può, anzi forse ci si deve, passare sopra. Se da un lato il classicismo è la lezione cui Nocera ci mette davanti, dall’altro sembra contraddirlo, metterci in guardia. La gravità di Piero della Francesca, i toni di Tiziano, gli scorci di Mantegna, certo, tutto ciò è assimilato ed è la lezione che lui sposa, evidentemente, che va a vedere, che studia sui libri con devozione quotidiana, ma nel suo mantenere un grado di “inconclusione”, nel suo sbatterci di fronte trame di difficile accesso e attributi di improbabile decodificazione, come, vedremo, nel suo dedicarsi ossessivamente al disegno dal vivo, allo schizzo come nutrimento per l’immaginazione, Nocera è come se quello stesso accademismo lo negasse. Non siamo più di fronte alla pittura tettonica di cui parla Wölfflin, bensì a un’opera aperta, lì, davanti a noi, un’opera che ci invita ad andare oltre, oltre all’essere reazionari o no, oltre alle regole. E io credo che proprio in questa autonomia Salvatore Nocera cerchi di scandagliare il suo fare, nel suo assimilare le lezioni altrui per farne nutrimento e non imitazione, nell’astenersi da “correnti” pur rimanendo radicato nella tradizione, per farne non una bandiera ma l’ancora della propria tempesta.
Prendiamo Villa sull’Adriatico del 1960, quadro che è stato scelto, non a caso, come immagine guida della mostra: lo sguardo della donna frontale catalizza su di sé tutta l’attenzione. Ci vuole un po’ per staccarsene e sentirsi liberi di girovagare sul resto della tela, e quando l’occhio finalmente si muove trova una bambina che ci dà le spalle e una struttura architettonica che blocca la visione. Lo sfondo è completamente annientato e la scena schiacciata in primo piano, l’artista ci chiede di stare lì, quasi in contemplazione di questa coppia e in particolare di questo volto. Tutto il resto, sembra dirci, non c’entra, anzi, è faticoso da decifrare, nella ossessiva geometria dei colori come nel riverbero delle forme: dove termina il collo e inizia il vestito? dov’è finito il secondo braccio della bambina? e cos’è la strana architettura su cui stanno? Ci troviamo di fronte a una composizione classica i cui equilibri sono perfettamente giocati (la colonna con la bambina di spalle sono i pilastri centrali e la donna che ci guarda è bilanciata dall’altra parte da un corrimano (?) che simula costole di una carcassa animale, i paraventi di legno, che serrano letteralmente lo sguardo sul fondo, sono griglie perfette che riempiono gli spazi vuoti restanti, le figure sono statuarie, perfettamente simmetriche) ma poi il piacere di una pacifica contemplazione viene respinto: il volto di questa ragazza è impenetrabile, i colori dei loro vestiti scomodi alla vista, il volgersi della bambina è altrove, non c’è nessuna sensualità neppure nella gonnella appena sollevata. Lo stesso accade per le altre due tele: nella Figura in nero ritorna sul fondo la stessa griglia di una finestra ovale improbabile, e gli attributi che porta in mano non si rendono leggibili ad alcuna interpretazione (si tratta di un cartiglio o di una piuma? quello che porta a terra è un secchio con dentro cosa? e perché, se è un secchio, i suoi manici si arrotolano al braccio?); mentre alla “bambina su fondo verde”, incarcerata tra due colonne, come ha ben visto Campanini nel testo che precede questo, crescono strane “alucce” sulle spalle (poste perfettamente al centro della composizione!), mentre il paesaggio sul fondo, cui questa volta l’artista ci lascia accedere, è vuoto, una spiaggia deserta! senza alcuna possibilità di narrazione. Dunque chi sono queste figure femminili che monopolizzano la scena? queste sibille michelangiolesche, questi putti veneti e queste statue greche? Del tutto surreali, non sembrano appartenere alla realtà, sono donne mitiche, leggendarie, donne uscite dalle Sacre Scritture, dalla storia, da saghe e combattimenti. A ben guardare, inoltre, si potrebbe azzardare anche di più: chi è quella bambina di spalle con la palla tra le braccia se non “una” Bambin Gesù che regge il mondo? E, ancora, nella tela quasi trasparente dalle tenui tonalità azzurre e rosa chi è la donna che porta in braccio il figlio se non “una” San Cristoforo che traghetta il Cristo, o, meglio una Santa Cristofora? O, non è forse una musa o una guerriera la figura in nero sullo strano scranno? I riferimenti iconografici prioritari della nostra tradizione cristiana sono traslati in un mondo tutto al femminile, il suo, appunto e i soggetti femminili restano per Nocera la linfa vitale di tutta la sua produzione, dai ritratti ai bozzetti a china, fino agli ultimi fotomontaggi fotocopiati. Guidato, attratto, salvato dalle donne che hanno puntellato la sua vita, Madonne, mogli, suocere, figliastre, cognate, passanti, attrici e ballerine...Nocera non smette mai di farci i conti quasi cercasse di restituire loro nella sua opera uno stato di grazia, quasi volesse conferire ai suoi modelli il grado superiore di soggetti pittorici, immagini che, oggi come un tempo, resteranno nella memoria proprio perchè consegnati all'arte.
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Salvatore Nocera. Un decennio di ritardo (Bologna, Palazzo d'Accursio, 19 May - 23 July 2017) is the first solo exhibition of Salvatore Nocera in his hometown, organized around ten years after his death in 2008. The idea of this exhibition comes from the close collaboration among Eva Picardi, his legal heir, her mother Felicia Muscianesi, the curator Elisa Del Prete and Mario Giorgi, the author who knew Nocera during his life. Together, they have gathered fragmented documents coming from the works treasured in private collections, thus starting the first rediscovery of an author and his elusive career, lasted forty years, from the latest 1940s to the early 1990s.
Because of his reserved nature, Salvatore Nocera left few traces of his life by omitting titles or dates even arriving at destroying his works or, on the contrary, at demanding his works’ ownership once sold. It was impossible to satisfy his curiosity or knowledge; he was consciously talented and he developed a merciless criticism towards both himself and his colleagues; he had a impetuous passion that spurred him to continue his painting research with lucidity for over sixty years, without missing a day. Nocera was an artist always in a state of imbalance between the past and the present, the here and there, the action and concern, between existence and non-existence.
His first figuration was based on the Renaissance culture and on the works by Piero della Francesca, Masaccio, Cosmé Tura, among others, that he criticised as for academicism and classicism; then, he left this canon to embrace a completely different painting made of a materic and freer technique.
On the halfway between an expressionist form and an impressionist mood, he adopted Cézanne's modulations in the representation of female figures while his landscapes recalled the Italian informal school by Mandelli and Morlotti, even though pure emotions are rarely conveyed.
It seems like he relentlessly questioned about the evolution of the history of art in order to look for his own space without finding it. Like Titian or Van Gogh, Nocera sublimed his imagination coming from the life around him.
Drawing is the technique he always used during his research and the women figured in his life became his favourite subjects while the Emilian countryside that inspired him during his adolescence (such as the backyard of hid grandfather's house in Sant'Agata, the woods and the golden wheat) together with the wet vegetation of the Garda area became the typical colours of his palette. This exhibition and its catalogue are in memory of Eva Picardi, who passed away on the 23rd of April due to a disease suffered for a long time; her death occurred only a few days before the inauguration of the project she had been working on for two years.
Per citare questo articolo: E. Del Prete, Salvatore Nocera e i conti col passato. Recensione alla mostra Salvatore Nocera. Un decennio di ritardo, Bologna, Palazzo d'Accursio, 19 maggio-23 luglio 2017, “La Rivista di Engramma” n. 147, luglio 2017, pp. 63-70 | PDF dell’articolo