Paesaggio sacro, pittura di paesaggio, paesaggio costruito
Ricerche in corso sul paesaggio nemorense e il Museo delle Navi romane
Agostina Incutti, Elisabetta Pallottino, Paola Porretta
English abstract
… se abbiamo seguìto fino in fondo il nostro sentiero,
abbiamo dovuto trascurarne parecchi altri che uscivano da esso e conducevano
o sembravano condurre a mete ben lontane dal sacro bosco di Nemi.
J.G. Frazer, The Golden Bough, [1890, 1922] 1925, 824
Paesaggio sacro: il paesaggio immateriale
In tutte le edizioni di The Golden Bough di James George Frazer (1890, 1900, 1906-15, 1922, quest’ultima radicalmente ridotta e poi tradotta in italiano nel 1925 da Lauro De Bosis) [1], il paesaggio sacro del lago di Nemi – teatro del dramma rituale dei re sacerdoti di Diana – è, come è noto, il protagonista visivo dell’incipit e del commiato:
Chi non conosce il Ramo d’oro del Turner? La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la divina mente del Turner impregnava e trasfigurava i più begli aspetti della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano lo “specchio di Diana”. Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno dei colli Albani, non potrà dimenticarla mai più. […] Diana stessa potrebbe ancora indugiarsi sulle deserte sponde o errare per quei boschi selvaggi (Frazer [1890, 1922] 1925, 9).
Nella scrittura, la rappresentazione dei luoghi è vivida e ‘pittorica’, capace di affascinare i lettori di molte generazioni. Ma la freschezza inventiva della descrizione non deriva da una coinvolgente visione dal vero, dalla forza di uno sguardo prolungato: anche se era informato sugli scavi di Lord Savile al Tempio di Diana (1885), Frazer visiterà il lago di Nemi e il bosco sacro soltanto nel 1900, in compagnia dell’archeologo Giacomo Boni (Ackerman 2002, 335, n.14). Soltanto allora sarebbe stato nelle condizioni di verificare l’effettiva corrispondenza delle sue parole ai luoghi antichi, se mai questo confronto avesse potuto interessarlo. Anche il riferimento al ramo d’oro del quadro di Turner, che evocava in realtà il mito virgiliano della discesa agli inferi di Enea sulle sponde di un lago diverso da quello immaginato da Frazer, è frutto di un’invenzione che tiene insieme due registri mitologici differenti: quello dei sacerdoti di Diana e quello dell’episodio virgiliano (Dei 2021, 48-49).
Gli studi antropologici italiani, nell’altalenante valutazione del ruolo dell’opera di Frazer nella cultura del Novecento, sembrano trovare un accordo unanime sull’importanza del contributo creativo della sua scrittura, capace di rivitalizzare il racconto dei miti nell’invenzione letteraria. Lo stesso Malinowski, che del “proto-antropologo” Frazer è considerato l’antipolo etnografico, non ha dubbi in proposito: anche se non vanno sottovalutate le sue qualità scientifiche, Frazer possiede “il potere proprio dell’artista di creare un mondo immaginario suo proprio” (Malinowski 1971, 190).
Lo ‘sguardo’ di Frazer, sollecitato da un infinito repertorio comparativo di riti magici, credenze antiche e storie dal mondo classico, restituisce la forza immateriale e creativa di un paesaggio antico le cui tracce fisiche sono rimaste piuttosto labili e si sono sovrapposte nel tempo al parallelo destino delle navi romane.
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Altri sguardi inventivi hanno contribuito negli stessi anni, tra Ottocento e Novecento, a creare il topos paesaggistico dello Speculum Dianae (senza il ramo d’oro), che è ancora in attesa di uno studio integrato tra letteratura, rappresentazione pittorica, e contestuali dati archeologici.
Dalla luce soffusa del celeberrimo quadro di Turner del 1834 [Fig. 1] e ancora lungo le scene campestri di Corot e dei francesi della Scuola di Barbizon, altre luci, specchio di nuove intenzionalità della pittura di paesaggio, contribuiscono sul finire del secolo XIX ad esprimere gli stati d’animo dei nuovi pittori del vero (Piantoni 2001).
E un’altra sacralità, oltre a quella dei miti primitivi, ispira i nuovi artisti della campagna romana, da Nino Costa (1826-1903) a Enrico Coleman (1846-1911 [Fig. 2]), a Napoleone Parisani (1854-1932), a Giulio Aristide Sartorio (1860-1932). Nonostante la loro incessante frequentazione dei luoghi e l’osservazione minuziosa del paesaggio, così diversa dalla parallela lontananza di Frazer [2], anche per loro i paesaggi reali erano diventati il luogo ‘sacro’ della trasfigurazione soggettiva. Riuniti nella Scuola Etrusca (1883-84) e in seguito nella Società In Arte Libertas (1886) – e forse ancora, fisicamente, nella celebre locanda Martorelli di Ariccia – erano in piena risonanza con la cultura di John Ruskin, dei circoli preraffaelliti e della pittura di paesaggio inglese (George Mason, Frederick Leighton, George Howard) nel cercare i paesaggi dell’anima più che quelli del vero naturale.
Quando negli anni Venti del Novecento Guido Ucelli arriva a Nemi, quella spinta cosmopolita dello spirito, approdata sulle sponde del lago di Nemi, si è da tempo affievolita. Nel repertorio iconografico de Le navi di Nemi non compare nessuno degli artisti che aveva lavorato con Nino Costa; nel testo è citato soltanto Sartorio (Ucelli 1950, 31-32). Il paesaggio di Nemi si trasferisce sulla “facile tavolozza” (Ucelli 1950, 31-32) di Carlo Montani (1868-1936), giornalista, animatore del progetto di recupero delle navi, pittore dilettante tra i XXV della Campagna Romana (1904), che dipinge ed espone a Roma, nell’estate del 1929, le sue Cento vedute del Lago di Nemi, al tempo andate letteralmente a ruba e oggi disperse tra istituzioni pubbliche e collezionisti privati (Mannoni 2011).
Molto più tardi, quasi a ridosso dell’incendio delle navi, la raffigurazione del mito di Diana si ripropone con un’iconografia immaginifica nella veduta del Lago di Nemi (1940-43, [Fig. 3]) di Amos Nattini (1892-1985). Il genovese Nattini, al centro di alcune recenti rivisitazioni critiche (Bernardelli, Cassinari, Depalmi 2007; Sgarbi, Bernardelli, Cassinari, Depalmi 2015), fu “pittore degli spiriti” secondo D’Annunzio (Gallarati Scotti 1922), amico fraterno della famiglia Ucelli (insieme con Edgardo Rossaro, pittore anche lui di vedute di Nemi), notissimo illustratore della Divina Commedia (1923-1941), conoscitore fin da giovane di navi e paesaggi portuali e autore di paesaggi mitologici commissionati dall’imprenditoria italiana (tra cui La bonifica idraulica e L’energia idroelettrica realizzate per le Officine Riva di Milano). Nel 1941 disegnò l’ex libris di Guido Ucelli (Guido Ucelli di Nemi 2011, 17-20, 33) con un tardo disegno di ispirazione cambellottiana del timone e dell’ancora delle navi di Nemi [Fig. 4].
Paesaggio sacro: il paesaggio costruito
Sulla sponda settentrionale del lago di Nemi si trovano i resti del Santuario di Diana e un tratto della via Virbia, che rappresentano soltanto alcune delle tracce fisiche del paesaggio antico, peraltro parzialmente visibili. La fase arcaica del Santuario e la prima articolazione del paesaggio antico risalgono al IV secolo a.C. e corrispondono a un locus in aperta campagna, strettamente legato al culto della dea Diana, del dio Virbio e della ninfa Egeria. Nel periodo augusteo il Santuario fu rifondato, con un nuovo impianto monumentale e scenografico, e fu inserito in un articolato sistema infrastrutturale [3]. A questa fase appartengono sia i resti attualmente visibili del tempio, di un impianto termale e di un teatro che le tracce del sistema infrastrutturale, di cui è noto soltanto il clivus Aricinus, o via Virbia, che conduceva da Genzano al Santuario di Diana, diramandosi poi, a linee spezzate, in direzione di altri monumenti. Il tracciato, basolato, aveva una sezione di circa 6,10 metri e in vicinanza del tempio era fiancheggiato da un doppio filare di pilastri di peperino.
Dopo l’apogeo imperiale e l’avvento del cristianesimo, l’area era stata progressivamente abbandonata ed era tornata al suo stato naturale. Quando nel XV secolo si accese l’interesse per le due navi attribuite all’epoca di Caligola che giacevano sul fondo del lago, ebbero inizio anche le prime esplorazioni antiquarie. Dopo gli scavi dei marchesi Mario e Pompeo Frangipani nel XVII secolo (G.F. Tommasini, De donariis veterum, Roma 1637, cit. in Morpurgo 1903, 299), seguirono quelle del Cardinale Antonio Despuig (1791), di Antonio Nibby (Nibby 1819; Nibby 1849) e di Lord Savile Lumley (Rossbach 1885; Pullan 1887; Robinson 1899; Wallis 1891).
Se le ricerche condotte fino ad allora furono prevalentemente orientate alla scoperta di reperti mobili di valore artistico, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento cominciò a manifestarsi un rinnovato interesse anche per le strutture architettoniche e l’impianto topografico antico, ben riconoscibile negli scavi di Pietro Rosa (Rosa 1856), di Rodolfo Lanciani (Lanciani1885; Lanciani 1888; Lanciani 1889) e di Edoardo Gatti della Soprintendenza alle Antichità di Roma (1924-28, Morpurgo 1931). Ciononostante, nel 1931, l’archeologa Lucia Morpurgo concludeva la sua relazione di sintesi sulle indagini pregresse, auspicando l’avvio di “scavi sistematici e completi” (Morpurgo 1931, 305).
Nella seconda metà degli anni Trenta, dopo il recupero delle due navi, le indagini archeologiche ripresero con rinnovato impulso. Furono riportati alla luce i resti augustei del Santuario di Diana e, grazie all’intervento di Corrado Ricci, che presiedeva la Commissione per il recupero delle navi, le sponde del lago furono vincolate dalla Legge 2 giugno 1910 n. 277, al fine di evitare qualsiasi modifica che avrebbe potuto deturpare la bellezza estetica del paesaggio naturale (Ucelli 1950, 81). Le indagini più recenti sull’area, che hanno portato alla luce le tracce oggi visibili, sono state condotte da Filippo Coarelli (Coarelli 1987) e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio a partire dal 1989, affiancata dall’Università di Perugia dal 2003 (Coarelli et al. 2014).
Il Museo delle Navi e i frammenti del paesaggio antico
Nel 1933, quando Vittorio Morpurgo fu incaricato del progetto del Museo, l’opportunità di stabilire un rapporto visivo e una tensione emotiva con i resti del paesaggio antico fu uno degli argomenti presi in considerazione; fin da subito ci si interrogò su come risolvere la relazione fisica tra la via Virbia e il Museo, il cui sedime avrebbe intercettato un tratto significativo della strada antica.
Sin dalle prime ipotesi, Morpurgo intese valorizzare visivamente il paesaggio circostante all’interno della spazialità dell’edificio. Nel progetto definitivo progettò alte aperture seriali sui fronti laterali (sia al piano terra che al primo piano), due vetrate a tutta altezza sul prospetto principale (che permettevano una visione diretta del lago dall’interno dell’edificio), due grandi aperture sul prospetto posteriore (che indirizzavano lo sguardo verso il retrostante paesaggio collinoso) e due terrazze (che offrivano una visione panoramica sul contesto circostante). Anche la sistemazione del giardino esterno, costituita da basse siepi e aiuole verdi, non interrompeva la continuità visiva tra il Museo e l’esterno [Fig. 5].
Più dibattuta fu invece la questione del rapporto con i resti del clivus Aricinus. Ucelli aveva un’idea molto chiara in proposito. Nel 1938, a progetto in fase avanzata di esecuzione, scrisse all’ingegnere Antonio Buongiorno, capo dell’Ufficio Speciale del Genio Civile per il Tevere e l’Agro Romano, cui era affidata la direzione dei lavori:
Converrà […] mettere nuovamente in luce la strada romana che attraversa il Museo passando sotto la chiglia delle due navi, ad un livello notevolmente inferiore a quello dell’attuale platea. La strada romana potrebbe essere accessibile a mezzo di una breve gradinata e permetterebbe la vista della chiglia da una posizione ancor più favorevole.
Dalla corrispondenza che seguì tra Morpurgo, Buongiorno e Ucelli emerge invece che questa proposta non incontrava il favore dell’architetto che avrebbe semplicemente preferito “[…] conservare la indicazione topografica della posizione della strada romana con una diversificazione nella pavimentazione […]” (Archivio Storico Capitolino, Ufficio Speciale per il Tevere e l’Agro Romano, fondo Nemi, d’ora in poi: ASC, USTAR, Nemi, b. 748, fasc. 918). Alla fine, prevalse la posizione di Ucelli: come dimostrano inequivocabilmente le foto scattate all’interno del Museo prima dell’incendio [Fig. 6], la via Virbia fu lasciata in vista sotto la chiglia delle navi, all’interno di uno scavo a sezione regolare, profondo circa 30 cm. Nell’unica pianta del progetto che fu allora pubblicata (“Architettura” 1940, 372 [Fig. 7]), la strada è disegnata soltanto all’esterno del Museo e non è possibile affermare con certezza che la sua mancata rappresentazione all’interno sia dovuta semplicemente alla presenza dell’ingombro delle chiglie: è certo invece che il tracciato non doveva interrompere le gradinate continue che davano accesso agli invasi che accoglievano gli scafi delle navi.
All’indomani dell’inaugurazione, tra il 1940 e il 1942, furono condotte nuove indagini sul tracciato della via Virbia e nel 1941 fu elaborato un progetto [Fig. 8] per la realizzazione di una Nuova strada dal lago all’abitato di Nemi (ASC, USTAR, Nemi, b. 1077, fasc. 1070), che avrebbe efficacemente completato il Museo di Morpurgo, riconnettendolo ai resti del paesaggio con un percorso che ricalcava parzialmente quello antico:
Riaprire l’antico clivus aricinus dal Museo al Sacrario, scavare il tempio, il teatro, le terme, a cui certamente la via conduce […] costruire la nuova strada per Nemi, che in parte avvicina, in parte aggira la zona archeologica, ecco il programma suggestivo della nuova impresa nemorense che completerebbe la ricostituzione del Museo (Ucelli 1950, 335).
Il progetto di completamento non fu mai realizzato (ad esclusione del tratto fino a Genzano) ma costituisce comunque una testimonianza significativa dell’intenzionale processo di valorizzazione delle connessioni con il paesaggio antico circostante [Fig. 8].
L’incendio del maggio 1944 annullò drammaticamente ogni significato del Museo: le navi andarono perse per sempre e la struttura dell’edificio subì ingenti danni. Realizzate negli anni successivi alcune opere di restauro delle strutture più danneggiate, a cura del Ministero dei Lavori Pubblici, il Museo riaprì circa dieci anni dopo l’incendio, il 25 dicembre 1953.
L’involucro esterno restò invariato nel suo ingombro e nella sua configurazione architettonica ma la spazialità interna fu radicalmente compromessa: venne meno la simmetria espositiva delle due navate gemelle e il tracciato della via Virbia diventò, suo malgrado, protagonista di uno spazio drammaticamente vuoto, in assenza delle chiglie delle navi che erano state il principale presupposto compositivo della teca museale. Come si può osservare in una foto degli anni Cinquanta [Fig. 9], la campata sinistra fu completamente trasformata: obliterate le gradinate perimetrali, l’originario invaso, che accoglieva una delle due navi, fu diviso in due parti.
Da un lato, un nuovo bacino scavato fino al livello della strada romana accolse i modellini degli scafi in scala 1:5, che furono commissionati dal Ministero della Difesa Marina agli Stabilimenti di Castellamare di Stabia per ricordare le due navi andate perdute; nella restante metà, al di sopra del nuovo volume realizzato alla quota dell’ingresso, furono invece esposti i materiali originali sopravvissuti all’incendio e un profilo parziale della prima nave, realizzato in tubolari metallici. Nella foto è chiaramente riconoscibile il tracciato della via Virbia che sulla sinistra incide la nuova struttura.
Nel 1963 il Museo fu chiuso nuovamente per urgenti opere di consolidamento; furono realizzate altre sostanziali modifiche, sia interne che esterne, sempre a cura del Ministero dei Lavori Pubblici, e il 15 dicembre del 1988 il complesso fu definitivamente riaperto. Il rapporto tra il Museo e il paesaggio, a suo tempo studiato da Morpurgo, fu fortemente depotenziato, mentre i resti del tracciato della via Virbia furono ulteriormente enfatizzati e assunsero un ruolo progressivamente sempre più autoreferenziale all’interno dell’edificio senza per questo riuscire a innescare un rapporto efficace con il contesto circostante.
Le finestre seriali a tutta altezza lungo i prospetti laterali furono tamponate in corrispondenza del piano terra e la vista continua sul paesaggio fu completamente annullata. Tale cesura fu accentuata anche dalle modifiche apportate al giardino con l’inserimento di alte alberature che ancora oggi occludono, in gran parte, la vista del lago dall’interno del Museo e, anche, del Museo dalla strada di accesso. La parte del tracciato esterno della via Virbia, alla sinistra dell’edificio e da sempre visibile nel giardino, fu occultata dalla nuova sistemazione; all’interno, nella campata destra, si proseguì lo scavo fino al limite dell’involucro: la continuità delle gradinate perimetrali fu interrotta e in corrispondenza dei resti della strada fu realizzata una nuova grande apertura vetrata, non coerente con il ritmo seriale delle aperture progettate da Morpurgo e completamente avulsa dal linguaggio architettonico originario [4] [Fig. 10].
Note
[1] Sull’opera di Frazer vedi la nota bibliografica e anche il recentissimo Convegno Frazer e Il Ramo d’oro. A 100 anni dalla pubblicazione dell’editio minor (1922-2022), Ariccia- Nemi, 29 settembre-2 ottobre 2022.
[2] È noto l’anatema di Wittgenstein sulle proiezioni di Frazer: “Frazer non è in grado di immaginarsi un sacerdote che in fondo non sia un pastore inglese del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza”. (Wittgenstein [1967] 1975, 23, cit. in Clemente 2023, 328).
[3] Sul locus: Catone il Censore, De re rustica, 139; Catone il Censore, Origini, 58; Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, IV, 36; Marco Tullio Cicerone, De Legibus, II, 8, 19; Ovidio, Fasti, II, 262-272; Ovidio, Fasti, IV, 753-755; Ovidio, L’arte di amare, I, 259-262; Pausania, Descrizione, II, 27, 4. Sul culto di Diana, Virbio ed Egeria: Igino, Favole, 261; Marco Tullio Cicerone, De Natura Deorum, II; Orazio, Carmi, I, XXI; Orazio, Carme Secolare, 69-72; Ovidio, Metamorfosi, XV, 488 ss.; Pausania, Origines, II, 27, 4; Servio, Commentarii in Vergilii Aeneidos libros, VI; Strabone, Geografia, V, 12; Virgilio, Eneide, VII, 761-782. Sulle trasformazioni in età augustea: Plinio Il Vecchio, Naturalis Historia, XVI, cap. 86; Strabone, Geografia, V, 12, Vitruvio, De Architectura, libro IV; Svetonio, Caligola, 35; Tacito, Historiae, III, 36.
[4] Sono in corso di consultazione i seguenti fondi archivistici: Archivio Storico Capitolino, Ufficio Speciale per il Tevere e l’Agro Romano, fondo Nemi; Archivio Storico dell’INASA, sub-fondo Navi di Nemi; Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, fondo Navi di Nemi.
Riferimenti bibliografici
I rimandi nel testo si riferiscono alla Bibliografia aggiornata, con l’eccezione dei testi che seguono.
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P. Clemente, Perché ce l’ho ancora con Sir James, in Dimpflmeier 2023, 327-337. - Dei 1998
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F. Dimpflmeier, “Il coro disvela una legge segreta”. James G.Frazer fra antropologia, studi classici e letteratura, Roma 2023. - Dimpflmeier 2023b
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L. Wittgenstein, [Bemerkungen über Frazer’s The Golden Bough, “Synthese” 17, 1967, 233-253] Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, tr. it. S. de Waal, Milano 1975.
English abstract
The interpretation of the mythological scenarios of Frazer together with the paintings of the landscape of Nemi, rouged between the 19th and the 20th century, have created an imagination that has transfigured real landscapes into sacred places. The iconographic and mythological repertory reveals the intangible power of the place and, over time, has overlapped with the parallel destiny of the Roman ships and the physical ancient traces —as the Diana’s Sanctuary and the Roman road called via Virbia or clivus aricinus— which are now barely visible, fragmented and awaiting further studies. This paper aims both to explore the landscape on Nemi’s lakeshore intangible aspects and built features, and to examine physical and visual relationships which the Museo delle Navi Romane intentionally establishes with the context. The museum was designed by Vittorio Morpurgo in the late 1930s to house the remains of ancient Roman ships recovered from the Lake of Nemi. The building was severely damaged in the 1944 fire, which completely destroyed the rest of the hulls. Since then, the museum has carried out several reorganizations and restorations, some of which have gravely compromised the original design, and even today the museum is still waiting for a renewed exhibition vocation and a direct link with the landscape and the ancient context.
keywords | Museo delle Navi Romane di Nemi; Vittorio Morpurgo; James Frazer; landscape of Nemi.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Incutti, E.Pallottino, P.Porretta, Paesaggio sacro, pittura di paesaggio, paesaggio costruito. Ricerche in corso sul paesaggio nemorense e il Museo delle Navi romane. ”Rivista di Engramma” n.203, giugno 2023 | PDF