Paesaggi d’acqua
Il fenomeno del termalismo nel comprensorio euganeo tra antichità ed età moderna
Paola Zanovello, Andrea Meleri
Abstract
Il territorio euganeo si colloca in una posizione geografica particolare, ergendosi come complesso collinare autonomo e isolato nel cuore della Pianura Padana e lambito, in epoca antica, da due dei grandi fiumi veneti: l’Adige e il Bacchiglione. Per le sue peculiari caratteristiche geo-topografiche, ma anche climatiche, fu sempre oggetto d’interesse da parte dell’uomo, manifestando una presenza insediativa ininterrotta fin dalla preistoria. Le molte risorse, quali pietra, acque, legname, terreni coltivabili e pascoli, ne fecero uno dei luoghi più ambiti, soprattutto nelle fasi storiche più importanti tra l’Età del Ferro e l’epoca romana, ma con continuità anche nelle fasi successive, dal Medioevo fino all’epoca contemporanea (Selmin 2005). In particolare durante l’occupazione romana, che si sovrappose alla ricca civiltà dei Veneti antichi nella gestione del territorio, furono ufficialmente ripartiti i due versanti collinari tra i poli urbani principali, prima veneti e poi romani, di Ateste e Patavium. L’intervento, richiesto a seguito di un contenzioso sorto tra le due città, avvenne nel 141 a.C., sancito con il posizionamento di alcuni cippi confinari che definirono in maniera inequivocabile le aree di pertinenza di ciascun insediamento. È chiaro che alla base del conflitto d’interessi dovevano trovarsi le ricche risorse del territorio collinare, dalle quali le comunità urbane traevano profitti e opportunità di sviluppo (Zanovello 2005, 104-108).
Una di queste era certamente il fenomeno termale, ampiamente diffuso nel territorio euganeo [Fig. 1], di antichissima origine vulcanica ma soprattutto sede di emersione delle acque provenienti dall’arco prealpino; queste, dopo un lungo percorso a grande profondità, venivano spinte verso la superficie con altissime temperature e peculiare ricchezza di componenti chimico-fisiche con proprietà salutifere (Fabbri 2011) [Fig. 2]. Nel mondo antico il fenomeno termale era percepito come direttamente connesso ad entità divine, attraverso il cui intervento, o mediazione, l’uomo poteva ottenere guarigione, salute, benessere (Annibaletto, Bassani, Ghedini 2014).
Il versante nord-orientale e i Patavini Fontes o Aquae Patavinae
L’area euganea era nota nelle fonti letterarie latine, che in epoca romana la collegavano al dio Aponus, il cui nome secondo alcuni significava “senza dolore” (a-ponos), mentre secondo altri richiamerebbe l’essenza stessa dell’acqua (dalla radice indoeuropea ap- che indica l’acqua che scorre). Nella zona aponense, conosciuta nell’antichità come Aquae Patavinae, le odierne Terme Euganee, i Romani stabilirono, nei luoghi di un antico santuario protostorico, una rinomata stazione di cura e soggiorno, nota al pari di altre importanti zone termali, come ad esempio la campana Baia, tipico esempio di quel modo di percepire e sfruttare il termalismo che gli autori antichi ricordavano come “otium baianum”: luogo di benessere, vacanza e relax, lontano dalle regole e dagli impegni della quotidianità (Zanovello 2011).
Nel territorio dell’odierna Montegrotto Terme, dove si trovava anche il laghetto sacro ad Apono, si concentravano le strutture dedicate allo sfruttamento del termalismo e all’alloggio dei frequentatori: piscine, vasche, impianti idraulici si distribuivano nell’area, certamente in relazione alla presenza delle sorgenti termali che all’epoca scaturivano spontaneamente in superficie [Fig. 3]; domus e ville grandiose, forse anche di proprietà imperiale, sorsero nelle immediate vicinanze. I materiali emersi durante le diverse attività di scavo, realizzate dagli ultimi anni del XVIII secolo fino a oggi, testimoniano una frequentazione diffusa e in molti casi anche esibizione di lusso e ricchezza da parte dei proprietari e dei visitatori (Aquae Patavinae 2011; 2012; Aquae Salutiferae 2013).
Nel confinante territorio dell’odierna Abano, che deriva il suo nome dall’antica divinità latina, la documentazione archeologica mostra invece una predominante occupazione di tipo rurale, anche se non mancano le testimonianze cultuali connesse al fenomeno del termalismo: qui le acque salutifere sgorgavano naturalmente in superficie solo nella zona del Montirone, ma erano ampiamente presenti nel sottosuolo e quindi fruibili attraverso l’emungimento, come dimostra la continuità di vita delle strutture curative e alberghiere tra Medioevo ed età moderna e contemporanea; in questo periodo proprio la zona di Abano, in particolare sotto il governo della Serenissima, divenne molto più importante e frequentata rispetto a quella di Montegrotto (Grandis 2005, 217-221; Zanovello 2012; Bressan, Bonini 2012). Una ricca documentazione iconografica [Fig. 4] e descrittiva testimonia la notorietà del luogo e la sua frequentazione da parte delle diverse categorie sociali: medicina gratuita per i meno abbienti, che potevano liberamente accedere alle vasche colme di acqua benefica, ma anche luogo di benessere e svago soprattutto per i nobili veneziani e padovani, che spesso costruivano nel territorio le loro lussuose residenze estive (Rippa Bonati 2013; Dal Pozzolo 2013).
Va ricordato inoltre che fino alla prima guerra mondiale buona parte dell’area termale nel settore orientale degli Euganei era costituita da un’unica entità amministrativa: nel 1918 si registra il distacco di San Pietro Montagnon, l’attuale Montegrotto, dal Comune di Battaglia, mentre il territorio di Abano era dipendente da Padova e noto come Abano Bagni fino al 1924.
Il versante sud-orientale
Il termalismo euganeo non è però limitato alla sola area aponense: emergenze idriche, con caratteristiche simili, si trovano anche nella vicina ampia valle, occupata oggi dai moderni centri termali di Galzignano e Battaglia; altri fenomeni termali sono registrati nella zona di Monselice, con il laghetto di Lispida e nella vicina Arquà Petrarca, con il laghetto della Costa, noto per essere stato anche la sede di un villaggio palafitticolo dell’Età del Bronzo (Bianchin Citton, Zerbinati 1994).
Oggi purtroppo molte di queste aree sono poco riconoscibili; tutta la piana compresa tra Battaglia (con il suo canale pensile realizzato tra 1189 e 1201), Monselice ed Este fu oggetto di attenta bonifica ad opera della Serenissima intorno alla metà del XVI secolo: come si vede in alcune mappe cinquecentesche, la pianura che circondava il settore sud-orientale dei Colli era un vasto acquitrino alimentato da polle anche termali, ma soprattutto derivante dalla scarsa attenzione alla regimazione delle acque fluviali [Fig. 5]. A seguito delle difficoltà economiche causate dalle guerre concluse con il trattato di Cambrai, nel 1556 fu creata una nuova magistratura dei Provveditori sopra i Beni Inculti, con l’obiettivo di restituire all’agricoltura terreni impraticabili per il ristagno idrico; nacque l’anno successivo il progetto noto come “Retratto di Monselice” che prevedeva la bonifica o “retratto” delle terre comprese “dalla Battaglia fino a Este, che confinano con il fiume, over canal de Moncelese, et con li Monti intorno delle Valli de Garzignan de Val S. Zibio de Arquà et di Baon” (Archivio di Stato di Padova (ASP), Certosa di Padova, b. 16, fasc. 6 (proclama a stampa del 6 agosto 1557); Grandis 2005; Grandis 2016). Il progetto prevedeva un finanziamento diretto da parte dei proprietari, che non sempre però erano nelle condizioni di esporsi finanziariamente. Tra coloro che avevano aderito al progetto si registrano Bartolomeo Selvatico, con una porzione di terreni nella zona di Lispida, Antonio Saviolo in zona Regazzoni a Galzignano, a ridosso dei Bagni di S. Bartolomeo, Giovanni e Andrea Placca ad Arquà nella contrada della Costa.
I moderni centri di Galzignano e Battaglia occupano la vallata compresa tra due propaggini del comprensorio collinare euganeo: Monte Gallo, Orbieso, Calbarina a ovest, Monte delle Valli, Cimisella, Ceva a est. Anche in quest’area scaturivano sorgenti, del cui sfruttamento si ha notizia almeno a partire dall’epoca medievale, quando vengono menzionate con denominazioni legate alla sfera della sacralità cristiana: ciò non deve stupire, poiché le qualità salutifere dell’acqua continuano ad essere poste sotto la tutela divina, attraverso diverse figure di santi. Soprattutto nel mondo cristiano delle origini l’acqua è percepita come mezzo di salvezza, anche simbolica, quale simbolo di purificazione; allo stesso modo anche l’acqua termale manteneva il ruolo fondamentale di strumento di guarigione e di salute (Scorrano 2020). Per questo motivo sia le acque di sorgente sia quelle termali sono sempre collegate a figure di santi: come per i santi Pietro ed Eliseo a Montegrotto (San Pietro nell’area centrale di Montegrotto dove rimaneva viva la tradizione del tempio pagano, S. Eliseo nella zona delle Terme Neroniane), la tradizione ricorda le fonti di S. Bartolomeo a Galzignano (al confine con il territorio di Montegrotto) o le sorgenti in grotta dedicate a S. Eliseo e S. Elena a Battaglia. Ne rimangono testimonianze soprattutto nella ricca documentazione archivistica e bibliografica di epoca medievale e moderna. Le grotte di S. Elena sono infatti menzionate già in documenti del XII secolo, mentre i luoghi termali legati a S. Bartolomeo sono ricordati in scritti del XV secolo e rappresentati anche graficamente nelle tavole allegate all’imponente opera su “I bagni di Abano”, in tre volumi, di Salvatore Mandruzzato, pubblicata tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento.
Alle fonti di S. Bartolomeo, che Mandruzzato pone “Dentro gli antichi confini di Montegroto a Ponente”, il medico aponense dedicò poche pagine, oltre ad una grande tavola [Fig. 6] in cui sono riportati pianta e prospetto dell’area (Mandruzzato 1804, 95-99, tav. III; 113-119): a due polle evidenziate come piccole pozze, si connette un bacino più ampio, di forma irregolare e recintato da uno steccato, connesso ad una serie di canali, tracciati con regolarità certamente per drenare la campagna circostante. Giusto di fronte, oltre una strada, era presente una chiesa, con accanto, a 90° rispetto all’asse dell’edificio sacro, una ‘casetta rusticale’, con affaccio a portico verso la strada. Secondo l’autore le sorgenti erano tra le più “famose e sperimentate del Territorio Padovano”, ma al suo tempo la chiesa dedicata a S. Bartolomeo era in stato d’abbandono. “Se crediamo al Savonarola fu molto prima dell’età sua fabbricata quella Chiesa dalla Nob. Famiglia Padovana de’ Leoni, e fu insieme costrutto un Ospitale per accogliere i Poveri”, riferisce il Mandruzzato, che sottolinea però l’assenza di questa informazione nelle descrizioni di Bartolomeo Montagnana, operante come il Savonarola nella prima metà del Quattrocento. Nella descrizione del medico padovano Michele Savonarola, compresa nel suo De Balneis et Thermis naturalibus omnibus Italiae, era indicata “una gran piscina non costrutta di pietre, come tutti gli altri Bagni Padovani, di un fondo fangoso, grasso, nerastro e molle assai, nel quale necessariamente devono immergersi i bagnanti: talché s’eglino non si sostenessero a travi che attraversano quella fossa, qualche volta vi affonderebbero ad una profondità pericolosa” (Mandruzzato 1804, 98). Mandruzzato rileva che ormai il bagno era in disuso, ma tornava ad essere frequentato nel giorno che ricorda il Santo; inoltre aggiunge che sia la chiesa che l’area termale appartenevano ad un’Abbazia della famiglia degli Obizzi, in quegli anni in mano al Marchese Tommaso, “gentiluomo di genio e di talenti conosciutissimo, e da cui i Bagni di S. Bartolommeo otterrebbero di essere portati a maggior splendore di tutti gli altri Aponesi, se la situazione non gli opponesse un ostacolo insuperabile” (Mandruzzato 1804, 99).
Certa era però la fama che questi bagni ebbero nel XV secolo, quando furono meta di visita di personaggi illustri, ma anche d’interesse scientifico da parte dei medici, come nei secoli successivi, per le caratteristiche proprie dell’acqua e dei fanghi. A metà del XVI secolo Gabriele Falloppio ne denuncia invece lo stato di abbandono, la mancanza di un luogo di accoglienza per i malati e addirittura “adulterato il fango con sozze mescolanze” (Mandruzzato 1804, 97).
Secondo Galliano Migliolaro, artista e storico locale aponense, la chiesa “di tardo stile romanico … ad una sola navata con le pareti affrescate e la facciata affiancata da due campanili” risalirebbe all’XI secolo, più volte rimaneggiata ed infine, a seguito del Regio Decreto del 7 luglio 1866, n. 3036, che stabilì la soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose, trasformata in struttura residenziale (Migliolaro 1956, 136; Italia Nostra 2021). La fonte di San Bartolomeo, nella tradizione popolare figura di riferimento per le malattie cutanee, fu in uso fino agli anni Sessanta del Novecento.
Oggi rimane solo una pozza in mezzo alla campagna, in proprietà privata, accanto ad un edificio di origine medievale, ampiamente trasformato; la testimonianza del culto al santo si conserva in una statua quattrocentesca entro un capitello costruito nei pressi della fonte.
Nella vicina Battaglia si conservano alcuni laghetti termali, oggi inclusi nella proprietà privata di villa Selvatico, solo recentemente aperta al pubblico [Fig. 7]. Le prime notizie di un abitato intorno al colle di S. Elena risalgono all’XI-XII secolo; le cronache antiche definiscono significativamente questa collina ‘Monte della Stufa’, riferendosi certamente alla presenza di grotte in cui si praticava il bagno a vapore (Mandruzzato 1804, 1-14, tav. I; 111-113; Menegazzi 1804) [Fig. 8]. Il primo bagno di cui si ha notizia, intorno alla metà del XII secolo, era collegato a S. Eliseo, con accanto un oratorio a lui dedicato, come nella vicina Montegrotto. Pochi anni più tardi sui resti dell’oratorio fu costruita una chiesetta dedicata al santo, a cui fu affiancata S. Elena, la cui venerazione divenne poi sempre più importante, tanto che da allora sia il bagno che il colle rimasero collegati alla figura della santa. Nel 1199 la nobile Speronella Delesmanini, in un lascito riguardante un terreno sulla sommità del colle, lasciò una grossa somma di denaro al Vescovo di Padova, affinché sulla collina, accanto alle grotte termali, fosse costruito un ospizio per i poveri e i pellegrini. Negli Statuti Padovani del 1235 si ricorda infatti un intervento realizzato dal Comune di Padova in quest’area termale. Altre notizie di questo ‘spedale’ e della chiesetta si registrano anche nei secoli successivi; nella prima metà del Cinquecento la collina entrò in possesso della famiglia Selvatico, già proprietaria di vasti appezzamenti tra Galzignano, Battaglia, Lispida e Arquà: in questo modo un’unica grande proprietà si estendeva nel settore sud-orientale degli Euganei; sul colle di S. Elena si trovava la casa padronale, circondata da “fabricis ruinosis” e “balneis tectis et apertis”. Qui il 13 novembre 1580 si registra anche la presenza di Michel de Montaigne, che cercava la sorgente termale da cui proveniva l’acqua utilizzata per i bagni, che negli stessi giorni erano frequentati dal Cardinale d’Este per la cura della gotta di cui soffriva (Pezzolo 1883; Cattani 1925, 35-52; Zanetti 1989).
Nei primi anni del Seicento iniziò la ristrutturazione della casa sulla sommità del colle, opera che occupò diversi decenni e la presenza di maestranze locali ed esterne sia per gli interventi architettonici che per quelli decorativi, pittorici e scultorei. Un vero e proprio palazzo, il cui elemento focale era già rappresentato da una monumentale scalinata esterna, risulta compiuto alla metà del secolo; una nuova chiesetta, che manteneva il culto a S. Elena, fu realizzata dall’arcidiacono Luigi Selvatico come cappella di famiglia [Fig. 9].
Seguirono diversi interventi anche nei secoli successivi, fino a quando la proprietà (“due edifici ad uso di bagni minerali, tre case d’affitto, una casa di villeggiatura con brolo, oratorio privato e sorgenti minerali”) fu ceduta nel 1814 ad Agostino Meneghini, che subito incaricò Giuseppe Jappelli di riordinare e ristrutturare sia la villa che il grande parco circostante, comprendente i laghetti termali e le strutture balneari. L’intervento jappelliano è quello che oggi meglio si coglie nell’imponente struttura della villa, incastonata nel suo splendido contesto paesaggistico. La proprietà passò nel 1842 ai conti von Wimpffen e all’inizio del Novecento alla famiglia Emo Capodilista (Fantelli 1989), cui seguirono diversi passaggi fino ad oggi.
Una sorte diversa toccò alla struttura alberghiera, anch’essa più volte rimaneggiata, e ad una parte del parco: verso gli anni Trenta del Novecento furono acquisiti dalla Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali e nel 1936 sui resti del precedente venne realizzato un nuovo complesso ricettivo, noto come ‘Terme dei Lavoratori’ o ‘Stabilimento dell’Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale’ (poi INPS), che andava ad affiancare i già esistenti alberghi presenti nel territorio: il Grand Hotel Terme, l’Albergo S. Elena e l’Albergo Italia, tutti posti lungo il canale Battaglia, principale via di comunicazione con Padova e Venezia. All’inizio degli anni Sessanta fu poi costruito un nuovo padiglione delle Terme di S. Elena, sullo stesso luogo del precedente edificio, demolito.
Le grotte o ‘stufe’ di S. Elena sono tuttora esistenti, ma rimangono di proprietà regionale (ex INPS) e sono attualmente precluse ad ogni tipo di visita o intervento. Le acque termali, estratte in profondità, vengono impiegate oggi solo nelle vicine moderne strutture alberghiere e in una piscina pubblica situate tra Battaglia e Galzignano.
Poco più a ovest, a brevissima distanza dai laghetti termali di Battaglia, ma già nel territorio di Monselice, in località Monticelli, accanto all’isolato piccolo rilievo del Monte Lispida, si trova un’altra emergenza termale, riconoscibile ancora come un piccolo bacino idrico, compreso all’interno della vasta proprietà privata, in cui si trova anche un importante edificio storico, noto come Castello di Lispida o Villa Italia [Fig. 10]. Risalgono al XIII secolo le prime informazioni sul sito, dove sorse un monastero dell’Ordine di S. Agostino con una chiesa dedicata a S. Maria di Ispida; durante il dominio della Serenissima la proprietà fu confiscata dal Doge Giovanni Mocenigo e alla fine del Settecento acquisita dai conti Corinaldi, che costruirono l’imponente villa tuttora esistente, all’interno di una vasta proprietà a vocazione vitivinicola (Callegari [1931] 1973, 59-60). Rimane tuttora all’interno della tenuta un lago termale, con sorgenti calde, utilizzato per l’estrazione di fanghi terapeutici che vengono impiegati, dopo maturazione, nella vicina area termale euganea. In questo luogo, preservato allo stato naturale, quasi selvaggio, è fiorita una leggenda legata alla presenza di una sirena: Manfredo, conte di Monticelli, era stato colpito da una dolorosa malattia alle gambe che l’aveva portato a desiderare la morte. Nella notte di S. Giovanni Battista si era avvicinato alle sponde del lago, con l’idea di porre fine alla sua vita e alle sue sofferenze, ma con un canto melodioso gli apparve una fanciulla bellissima, per metà donna e metà pesce, che decise di aiutarlo: scese nelle profondità del lago, riportandogli del fango bollente, con il quale guarì il giovane. Nelle notti successive egli tornò al lago, senza più rivedere la fanciulla; secondo la tradizione però nella notte di S. Giovanni ancora oggi lo spirito del conte e la fanciulla si incontrano e chi si trova a passare nelle vicinanze può udire dal fondo del lago l’ammaliante canto della sirena (Rodella 1959, 97-109).
A poca distanza, verso sud-ovest, si trova il lago della Costa (Callegari [1931] 1973, 279-280), nel territorio di Arquà Petrarca, dal 2011 riconosciuto come parte del sito Unesco ‘Siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino’, sede di un villaggio palafitticolo risalente all’Età del Bronzo (Bianchin Citton, Zerbinati 1994). Anche in questo caso si tratta di un lago naturale, alimentato da una sorgente termale, che in passato veniva sfruttato per l’estrazione dei fanghi [Fig. 11].
Oggi l’area è difficilmente accessibile, interamente recintata e racchiusa all’interno di una proprietà privata; poco lontano, nella stessa località Costa, si trova un'altra sorgente di acqua termale, nota come Fonte Raineriana, poiché qui nel 1829 l'arciduca Ranieri d'Austria aveva fatto costruire una struttura a forma di tempietto romano [Fig. 12], anch’essa progettata da Giuseppe Jappelli in stile neoclassico (Callegari [1931] 1973, 280-283). Demolita nel 1932, fu poco più tardi fatta ricostruire fedelmente, sulla base di un disegno conservato nella raccolta iconografica jappelliana della Biblioteca Civica di Padova, da Adolfo Callegari, all’epoca direttore del Museo Archeologico Atestino. Un’iscrizione sulla facciata ricorda l'arciduca, che finanziò anche degli studi sull’acqua solforosa della sorgente per verificarne i benefici terapeutici.
Il versante occidentale
Il fenomeno termale è presente anche nel versante occidentale dei Colli Euganei, in particolare nella zona della Val Calaona [Fig. 13], ampia bassura compresa tra i Monti Cero, Cinto e Lozzo, nota per essere stata popolata fin dall’epoca preistorica (Callegari [1931] 1973, 155). Gaetano Nuvolato nel suo Storia di Este e del suo territorio (Nuvolato [1851] 1969, 638-639) a proposito delle acque termali scriveva: “Due sole sono le fonti nel nostro territorio, cioè quelle nella valle detta la Calaona, e in minor copia a Fontanafredda. Le prime scaturiscono da un terreno torboso per qualità simili a quelle di Abano, sebbene un po’ meno calde, giungendo la loro massima temperatura a gradi 31 di Reaumur, ossia 38-75 centigradi. Datano da poco più di mezzo secolo le bagnature che ivi si cominciarono, assai salutari al corpo umano, ed è a ricordarsi un villico detto Marin di Calaone, che fu il primo a introdurre colà l’uso dei bagni. Nella stagione estiva vi continuano ancora i bagni, ma per difetto di uno stabilimento condegno alle classi agiate, forse è rimasta al di sotto della sua celebrità questa valle sulfurea in confronto alle terme di Abano e di S. Elena e di altre dell’euganea contrada. Ma a’ nostri giorni in cui tanto si usa di questi mezzi di pubblica igiene, si profitti una volta di quanto ci offre la provvida natura, e o una società o il Comune di Calaone che n’è il proprietario, faccian colà sorgere uno stabilimento che d’appresso ai colli può riuscire amenissimo, e prestare ai forestieri nostrali e d’oltremonti le moderne comodità, a cui andrebbe congiunto sicuro guadagno tanto per quella località che per la vicinissima città atestina”.
I primi documenti che ne trattano risalgono al 1682, quando l’area, compresa nel territorio atestino, era frequentata liberamente; dovevano esistere all’epoca solo pozze e vasche, senza alcun tipo di protezione. Solo all’inizio del XIX secolo, probabilmente a seguito di un sopralluogo della Delegazione Provinciale di Padova, si decise di realizzare alcune strutture mirate a favorire la fruizione e l’accoglienza dei visitatori: un edificio e una vasca comune (Monselesan 1872). Non si risolse però il problema della gestione; in documenti della seconda metà dell’Ottocento, quando l’area era passata sotto la giurisdizione di Baone, la vasca è definita “bolgia infernale”: “In essa l’acqua non si rinnova mai, non vi sono spogliatoi né camerini di divisione tra uomini e donne e lo smuovere del fondo melmoso rende ributtante l’aspetto dell’acqua”. Nel 1895 il medico provinciale ne ordinò la chiusura.
All’inizio del XX secolo il Comune di Baone promosse un nuovo progetto di sfruttamento e valorizzazione del fenomeno termale sia con la realizzazione di strutture idonee, balneari e alberghiere, che con una buona campagna pubblicitaria [Fig. 14]; nel giornale padovano “La libertà” del 10 luglio 1904 si legge: “Possiamo affermare che l'Amministrazione nulla ha trascurato per renderlo un luogo di vero conforto morale e fisico.” Purtroppo gli eventi della Prima Guerra Mondiale portarono le loro tragiche conseguenze anche qui: le strutture furono subito utilizzate per alloggiare i numerosi sfollati e subirono in pochissimi anni un penoso degrado; nel 1921 lo stabilimento fu nuovamente chiuso (Comune di Baone, Le terme di Val Calaona).
Un nuovo interesse sembrò riaccendersi negli anni Settanta, quando furono condotte ricerche scientifiche sulle acque e le loro qualità, ma l’impegno economico appariva troppo gravoso. Le vasche termali continuarono ad essere frequentate liberamente, ma il fenomeno termale venne sfruttato anche in altro modo: vennero costruite, su concessione del Comune di Baone, serre su un’area di 11.500 m2 da parte di una Cooperativa, che per alcuni anni trasformò il sito in zona produttiva. L’azienda poi fallì nel 2013 e nonostante altri tentativi di recupero messi in atto dal Comune, la vasta area giace tuttora in totale degrado [Fig. 15].
A poca distanza si trovano altre sorgenti termali, come quella ricordata dal Nuvolato: in località Crosara di Fontanafredda [Fig. 16], nel territorio di Cinto Euganeo è stato recentemente recuperato un complesso di vasche che raccolgono acqua che sgorga oggi a 27°. Secondo la tradizione locale prima del terremoto del 1976, l’acqua, moderatamente solforosa, raggiungeva una temperatura di oltre 40° e sgorgava in diversi punti della piana. Documentata almeno a partire dal XII secolo (Casarin 1976, 191, 313-314), la sua presenza ha favorito anche in questo caso le attività produttive: al 1300 risale il mulino a coppedello (Grandis 2001; Grandis 2005, 237-239), tuttora conservato accanto alla vasca principale, legato alla produzione della farina, mentre in tempi più recenti la vasca fu utilizzata per la macerazione della canapa sfruttando la temperatura e la composizione chimico-fisica dell’acqua [Fig. 17]. Oggi un intervento privato (Fontanafredda, Antica vasca termale Fontanafredda (PD)) ha portato al recupero e al restauro delle strutture, comprese le vasche, dove ancora si coglie lo sgorgare spontaneo dell’acqua in superficie; nonostante qualche iniziativa volta a promuoverne l’identità, pochi ancora conoscono il luogo, che meriterebbe invece un’adeguata valorizzazione, sia per il suo significato storico che paesaggistico.
Il fenomeno del termalismo è quindi ben presente nel territorio euganeo, anche se la fama e la continuità di vita dell’area aponense ha concentrato l’attenzione e l’interesse in particolare in questa zona. Le diverse vicende storiche che i luoghi hanno conosciuto, ne hanno determinato uno sviluppo (o mancanza di sviluppo) che certamente ne ha segnato l’evoluzione, ma da un punto di vista storico-culturale, va sottolineato come proprio nei luoghi meno noti e frequentati dal turismo, internazionale ma anche locale, sia rimasta più evidente e percepibile l’identità termale, che conserva con maggiore integrità il suo valore e il suo aspetto originario. Il termalismo si presenta ancora oggi come un diffuso e variegato paesaggio d’acqua, non più percepibile ormai nel territorio di Montegrotto e Abano, dove l’urbanizzazione e l’imponente frequentazione turistica da molti decenni ha trasformato radicalmente il paesaggio [Fig. 18]. Proprio per questo motivo andrebbero valorizzati i siti ‘minori’, altrettanto ricchi di storia e di cultura, anche per rendere maggiormente partecipi di un lungo passato storico e sociale gli attuali frequentatori dei moderni centri termali.
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Rurallure project has been funded by the European Union’s Horizon 2020 Research and Innovation programme under grant agreement n. 101004887
English abstract
Thermalism in the Euganean area has been known and exploited for millennia, but today the interests, including economic ones, are concentrated in particular in the area between Abano and Montegrotto Terme, where there are important remains from the Roman era. However, the phenomenon is much wider and more widespread in the territory and deserves adequate valorisation, also because in the less known and frequented areas the thermal water landscape better preserves its original characteristics and lends itself to tourist and cultural promotion actions.
keywords | Thermalism; Euganean Hills; Water Landscapes.
Questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista.
Per citare questo articolo: Paola Zanovello, Andrea Meleri, Paesaggi d'acqua. Il fenomeno del termalismo nel comprensorio euganeo tra antichità ed età moderna,
“La Rivista di Engramma” n. 204, luglio/agosto 2023, pp. 35-66 | PDF of the article