"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

209 | febbraio 2024

97888948401

Memoria e cadavere, ripetizione e allegoria 

L’arte alla fine del moderno

Mario Farina

English abstract

Odradek, illustrazione di Elena, Villa Bray.

Leggere L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in una qualunque delle sue tante versioni, è ogni volta un’esperienza frustrante. Il lettore si trova davanti un muro che più di ogni altra cosa richiede l’interpretazione e allo stesso tempo, con la medesima forza, la nega. Teoria dei media, visual studies, cultura visuale, teoria del cinema, filosofia della storia, morte dell’arte, nostalgia, emancipazione politica, prospettiva rivoluzionaria, filosofia dell’arte, critica estetica: queste prospettive, tra le altre, hanno succhiato energia dal testo di Benjamin senza mai riuscire a saturarlo né tantomeno a esaurirlo. Alla teoria dei media che inclina in direzione della cultura visuale fa pendant una posizione di filosofia della storia che trova nell’opera il luogo di confluenza delle sue linee contenutistiche; e così per il cinema, la cui analisi progressiva si accompagna alla consunzione dell’opera tradizionalmente intesa. Progresso e regresso si trovano uniti in ogni proposizione del saggio: sebbene sia segnata da un rimpianto, l’opera d’arte persegue il progresso, creando allo stesso tempo le condizioni per il regresso. È questa la difficoltà didattica del testo: mostrare il lato progressivo di un saggio in apparenza regressivo, senza togliere lo sguardo dall’erosione regressiva a cui dà luogo. Chi si accosta a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica vede per prima cosa la perdita dell’aura, il regresso della percezione artistica. Ma è solo grazie a questa perdita che l’opera può uscire dal culto, liberarsi dalla sua esistenza parassitaria nel culto, e insediarsi nella prassi politica emancipativa, costruendo le basi per pensare il progresso. Ciononostante, è l’arte a essersi consumata ed è l’arte ciò a cui spetta l’ultima parola: in senso letterale, visto che Kunst è precisamente l’ultima parola del saggio. Il progresso di un’arte liberata dall’aura è un progresso pagato al prezzo di un’arte a cui manca ciò che contraddistingue l’arte da qualunque altra pratica, appunto l’aura e l’apparenza.

Il modo in cui vada interpretata questa tensione è, consapevolmente o meno, al centro di ogni lettura del testo di Benjamin ed è il plesso che Franco Rella tenta di sciogliere nel saggio intitolato Di alcuni motivi in Walter Benjamin. L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica contenuto nel suo recente volume L’arte e il tempo (Rella 2021); la via scelta da Rella è quella di fare ricorso a un dispositivo, quello dell’allegoria, capace di illuminare il saggio mettendolo in comunicazione con un suo problema latente, quello della memoria. In questa prospettiva, il saggio di Benjamin può essere pensato come soglia della modernità: luogo nel quale la memoria smette di essere ciò che era per il moderno – serbatoio di concetti utili alla costruzione di un progetto, di un’utopia, di un futuro – per trasformarsi nel tableau sul quale l’oggetto viene scritto come citazione morta e accumulabile.

A che sorte va incontro l’oggetto quando si deposita nella memoria? Il romanzo è il luogo che meglio si presta ad affrontare questa domanda, che si pone una volta che la risposta ha perso ovvietà. Nel grande romanzo di Musil, Agathe, sorella di Ulrich, compie un gesto scioccante, la cui portata allude a una variazione nella funzione della memoria. Fratello e sorella si trovano nella camera ardente del padre e stanno ultimando i preparativi per la sepoltura. Ed è qui che lei compie “la cosa illecita”:

Agathe s’era già chinata, e, sfilatasi dalla gamba un’altra giarrettiera di seta, che portava per non stringersi alla cintura, sollevò il sontuoso drappo mortuario e la infilò nella tasca del padre (R. Musil, L’uomo senza qualità, Torino 1997, 801).

Agli occhi di Ulrich questo è il massimo dell’illecito: “quell’idea barbara di donare al freddo cadavere una giarrettiera ancor calda della gamba di sua figlia”. Proprio qui si gioca la variazione. L’episodio si collega agli strati arcaici della biografia dei personaggi, quando da ragazzi seppellivano le loro unghie tagliate in giardino e muravano versi appena composti tra i mattoni di una casa in costruzione. E qui sta la variazione: Ulrich, l’ultimo uomo della modernità, pensa ai posteri che un secolo dopo troveranno le loro deiezioni, i loro cartigli, le tracce della loro vitalità semantica (pensa a un progetto); “alla piccola Agathe invece interessava il seppellimento come tale”. L’oggetto seppellito non è un oggetto conservato, come se la memoria fosse il luogo nel quale istituire un progetto modernista per il futuro, ma un oggetto che assume la forma del cadavere per cambiare senso. Questa secondo Rella la grande intuizione di Benjamin nel saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Si tratta di leggere il testo alla luce dello “sguardo che trasforma il ricordo in cadavere, l'esperienza vissuta in esperienza defunta” (Di alcuni motivi in Walter Benjamin, citato in Rella 2021, 72); aggiungo: l’oggetto in citazione dell’oggetto.

Si tratta di un tema caro al romanzo modernista. Rella riferisce che Proust, nell’ultimo volume delle Recherche, paragona la memoria a un cimitero sulle cui lapidi i nomi non si riescono più a decifrare (Di alcuni motivi in Walter Benjamin, citato in Rella 2021, 74), dando una descrizione quasi didascalica del problema sul quale insiste per tutto il romanzo: l’abitudine, con la sua mortale attività di ottundimento, copre le sensazioni trasformandole in ricordo. Ma è solamente grazie a questa attività di copertura che quel ricordo, una volta ritrovato, è in grado di sorprendere come solo può fare un cadavere nel quale ci si imbatte senza preavviso svoltando l’angolo, con la sua ironica e impassibile fissità. Il romanzo di Proust si genera in questo modo, dal contatto con i cadaveri delle sensazioni seppellite negli strati dell’abitudine che pian piano vengono lacerati. Ma senza l’abitudine, il romanzo sarebbe impossibile perché non ci sarebbe nulla da ritrovare, nessun cadavere da disseppellire, ci sarebbe solo un presente immobile di sensazioni vivide. La memoria uccide il ricordo e ne conserva il cadavere che odora di ceneri bagnate, come l’alito della madre morta che appare in sogno a Dedalus in apertura dell’Ulisse.

Non si comprende il saggio su L’opera d’arte, dice Rella, se non si fa ricorso al dispositivo dell’allegoria, a quel dispositivo – parola foucaultiana – che agisce come “destrutturazione dell’aura e della parvenza”, trasformando appunto “il ricordo in cadavere, l'esperienza vissuta in esperienza defunta”. Ma questo lo si capisce solamente se si guarda alla produzione coeva di Benjamin (su tutto all’exposé dei Passagen e ai tentativi di venire a capo del Baudelaire) e la si connette a quanto Benjamin andava dicendo delle lettere e cioè che proprio il saggio sull’Opera d’arte poteva illuminare quel che si vedeva in opera nel XIX secolo e, più precisamente, quel che “solo ‘ora’ è conoscibile, che non lo è mai stato prima e che non lo sarebbe più avanti” (Di alcuni motivi in Walter Benjamin, citato in Rella 2021, 70). Il saggio su L’opera d’arte illumina il XIX secolo, che a sua volta fornisce al saggio il suo contenuto, senza il quale si presenterebbe come piatta descrizione di quella cornice mediatica superficiale nella quale di lì in poi l’opera d’arte sarebbe comparsa senza però apparire.

L’arte del XIX secolo, dalla scarpa bianca e sporca sul corpo nudo dell’Olympia fino alle “gambe all’aria” della carogna di Baudelaire, non ha fatto altro che calpestare la propria aura, gettare nel fango l’alloro e strappare il velo alle muse scoprendo la prostituta al di sotto della vergine. Ma questo gesto è conoscibile pienamente solo “ora”, ora che il meccanismo allegorico è venuto allo scoperto, ora che la riproducibilità tecnica ha operato uno svelamento definitivo di ciò a cui l’arte moderna ha sempre alluso: la scarnificazione del significato. L’arte del XIX secolo – ma questo vale anche per l’arte delle avanguardie, come Benjamin ci ricorda, per il Dada e per i surrealisti – erodeva l’aura, ma non rinunciava all’artista: al “nano gobbo” (Di alcuni motivi in Walter Benjamin, citato in Rella 2021, 70), dice Rella, alludendo alle tesi benjaminiane Sul concetto di storia (W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola, M. Ranchetti, Torino 1997). Al di sotto dell’opera desacralizzata del Dada si nasconde ancora un nano gobbo, che prova in ogni modo a ritrarsi allo sguardo interpretativo, senza poter sparire del tutto: come gli inservienti ne Il castello di Kafka (F. Kafka, Il castello, introduzione e traduzione di P. Capriolo, V ed., Torino 2014), viene cacciato dalla porta per rientrare dalla finestra. Gettare la propria aureola nel fango è pur sempre un gesto, una mortificazione, che è già subito mortificazione di qualcosa, di sé in quanto poeta, della poesia in quanto tale, del canto in quanto voce del mondo. Mentre nel saggio su L’opera d’arte il nano non c’è più: resta solamente il meccanismo allegorico che desacralizza l’oggetto e lo immerge nel deserto di ghiaccio dell’astrazione. La riproducibilità tecnica, prima di tutto, dice qualcosa dell’arte moderna, ne illumina il funzionamento, finalmente visibile, una volta che il suo nano gobbo è stato ucciso o, meglio, licenziato perché obsoleto, vittima poco illustre dalla spietata legge di concentrazione dei capitali e dell’obsolescenza della manodopera. Ma allo stesso tempo questo riferimento offre un contenuto al saggio stesso, la cui attività di erosione ottiene un termine di riferimento, che è l’arte moderna nella sua fase esiziale, con tutto il suo portato progettuale e utopico.

La riproducibilità tecnica, allora, mette a nudo l’allegoria, espone il suo lavoro di macchina, allo stesso modo in cui per Furio Jesi nel XX secolo si rende conoscibile il mito come macchina mitologica. Quel dispositivo che Benjamin ha riconosciuto per la prima volta nel teatro del barocco tedesco, e che non può essere fissato con una formula oggettivante, arriva allo scoperto nella riproducibilità tecnica. Se è vero che l’allegoria presiede il saggio su L’opera d’arte, allora è vero che di essa possiamo vedere con chiarezza il funzionamento, senza che sia possibile osservarla come dato. L’allegoria, principio moderno del significare, non si comporta come un ente osservabile e analizzabile, essa è piuttosto la dinamica stessa di erosione di ogni residuo auratico, di ogni apparenza di senso, della quale osserviamo il funzionamento di macchina senza poterla definire. Si tratta allora di un dispositivo del quale vediamo il funzionamento senza capirlo, perlomeno finché ancora è in funzione. Lo capiamo solo più tardi, quando la riproducibilità lo ha portato allo scoperto rendendolo però inattivo. Ecco quel che possiamo dire dell’allegoria:

Si sarebbe indotti a credere che quest’insieme abbia avuto, un tempo, una forza razionale e che ora sia semplicemente rotto. Ma non sembra che sia così; almeno non ci sono indizi per questa congettura; da nessuna parte si rilevano aggiunte o fratture che confermerebbero la tesi sostenuta; l’insieme sembra assurdo, ma – a modo suo – compiuto. Non è possibile aggiungere altro giacché Odradek è mobilissimo e non si può catturare (F. Kafka,Tutti i romanzi, i racconti, pensieri e aforismi, Roma 2010, 1129).

Parlando dei media tecnicamente riproducibili, il saggio su L’opera d’arte illumina l’arte del XIX secolo e delle avanguardie. Negli ultimi anni della sua vita, Duchamp ha avuto modo di ritornare sul successo dei suoi readymade. Queste serie di prodotti, dice l’artista nell’intervista rilasciata nel 1964 a Calvin Tomkins, non aveva una posizione centrale nella sua produzione; di certo non aveva la posizione che Duchamp assegna al Grand Verre, macchina esemplificativa del desiderio incompiuto che riconnette il dadaismo alle madonne delle grandi pale d’altare del Cinquecento. Ma il mondo dell’arte, le gallerie e le collezioni, ne avevano indovinato la fortuna molto più facilmente dell’artista, che non considerava i readymade nemmeno delle vere e proprie opere. Perché, appunto, non lo erano per i canoni modernisti, ma lo erano per quelli di una allegoria totalmente dispiegata e consumata dalla ripetizione. Nel readymade si vede in funzione la macchina allegorica, che ripropone e ripete l’oggetto in quanto cadavere dell’oggetto vissuto, in quanto sua citazione ironica. Sui pettini di Duchamp lo sguardo si fissa perché ripresentano l’oggetto della vita quotidiana trasformato nel suo doppio defunto, nella denuncia che sotto la realtà non c’è nessun nano gobbo, ma solamente il posto vuoto nel quale questo sedeva:

Forse il moderno, il tempo di Benjamin, è il tempo in cui paradossalmente la riproducibilità tecnica si muove fianco a fianco con ciò che è Ausdrucklose, con l’infigurabile che è al centro di opere come quella di Kafka o come quella di Schönberg, o di Franz Kline, come se il senso si ponesse sempre più, come ha scritto Paul Celan, nell’ombra: quel cuore di tenebre che anche l’apoteosi hollywoodiana in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola ha finito per scoprire come la cifra profonda della nostra epoca, dell’epoca della riproducibilità tecnica (Di alcuni motivi in Walter Benjamin, citato in Rella 2021, 75).

Spingendo più avanti il discorso di Rella, si potrebbe forse dire che il saggio di Benjamin su L’opera d’arte chiude a ogni tentativo per davvero moderno di rappresentare l’irrappresentabile. La ripetizione dice proprio questo, che l’irrappresentabile non c’è più in quanto tale, ma resta soltanto il meccanismo allegorico e ripetitivo che denuncia l’irrappresentabilità: non più aura, seppure gettata nel fango, non più apparenza, seppure scabra, ma solamente ripetizione del cadavere: il cyborg di Ridley Scott, lo zombie di Romero, il Doppelgänger di Lynch e il soldato di Coppola, il cui cuore di tenebra, piuttosto che l’abisso pulsante e irrazionale di un conflitto, è il simulacro di una battaglia che assomiglia più all’ennesimo sabato serata finito male che a una guerra.

Scritti di Franco Rella citati nel contributo
  • Rella 2021
    F. Rella, L’arte e il tempo, Milano 2021.
English abstract

In his essay Di alcuni motivi in Walter Benjamin. L’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Franco Rella attempts to interpret Benjamin’s text and unravel the tension between regression and progress in an art that is liberated at the price of losing its aura. Rella reads Benjamin's text through the device of allegory, connecting it with the concept of memory.

keywords | Walter Benjamin; Mechanical reproduction; Modernity; Mythological machine.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Farina, Memoria e cadavere, ripetizione e allegoria. L’arte alla fine del moderno, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 41-46  | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.209.0006