Per tracciare un profilo e un ricordo vivente di Franco Rella, credo si debba per forza cominciare dalla definizione di Roberto Calasso, che fino all’ultimo gli ha mandato i suoi libri affettuosamente dedicati: Franco era uno dei Grandi Lettori di questo paese. Lettore e scrittore di estrema ricchezza e disordinata generosità; lettore onnivoro, bulimico e falstaffiano, dicevo io, che riversava nella scrittura le sue letture sconfinate. In effetti, i suoi libri mostrano la stoffa dei tessuti, costituiti come sono da una continua intramatura, da quello che, per certi versi, può essere considerato un “tappeto di lode” (la formula è di Rilke): è così che Franco, intersecando le parole, ha trovato la sua via al diventare scrittore. Sarebbe infatti difficile definirlo un filosofo in senso teoretico, poiché difetta non solo della ‘ricerca’ intesa al modo accademico, bensì anche di un metodo critico-analitico stringente, ovvero di quello “stringere la vite finché morde” (così Sergio Givone) tipico di coloro che hanno un’impostazione, appunto, più filosofico-teoretica. Sembra piuttosto guidato dall’utopia benjaminiana del libro fatto solo di citazioni: ne conseguono sfaccettature, articolazioni, riprese, contraddizioni, non sequitur logici, evitamenti, abbandoni. Non sfuggirà che Franco ha scritto e riscritto sempre il solito libro, quello che un critico una volta definì un “danzante romanzo nietzschiano”: da cima a fondo, dall’inizio alla fine, la scrittura di Rella è un libro unico. D’altronde, “uno scrittore, scrive”, mi ripeteva. Infatti, che genere di filosofo è Franco Rella? La dicitura ‘letteratura artistica’, la materia che insegnò per tanti anni, prima di passare a estetica, sembra sia stata coniata appositamente per lui. Eppure è proprio tramite il suo metodo estetico-narrativo, del tutto frammentario e suggestivo, che Rella torna a dirci qualcosa di filosofico, qualcosa che oggi può risultare addirittura più coinvolgente e convincente di posizioni attardate su modelli teoretico-sistematici, su sorpassati ordini del discorso. Estetica, da aisthesis: un sapere crossover delle varie forme di sensibilità, nella molteplicità immensa, ingovernabile, delle loro espressioni.
Bisogna anche cominciare, quindi, dal vizio assurdo e dal piacere proibito della scrittura: che comporta un’ineludibile alienazione nella tana, che per Franco era il suo studio, in via Santa Maria a Rovereto. Attraverso questa alienazione passava però il suo rapporto con il mondo. Un vizio a cui ha messo fine solo la morte? O neppure quella? In ogni caso, è posto il nesso necessario tra la scrittura e la morte, a partire da quello che la sorte ha scelto come l’ultimo, rivelativo, libro: La solitudine del Minotauro (2023). Si notino i due termini del titolo: la solitudine è condizione intima della scrittura; il minotauro è una creatura ambigua, ibrida, mostruosa; dunque, una bestia nella tana, una bestia solitaria che scrive. Ne riporto qui l’incipit:
Sei in attesa. Ancora un respiro, poi un altro ancora. Dopo è il silenzio. E tu sei attento, teso, in attesa. Tra il prima e il dopo. Una soglia. Ma per quanto tu abbia cercato dentro quel respiro e anche dentro di te, ancora non hai capito. Hai gettato, richiamando questa immagine, o meglio questa esperienza, un’esca a te stesso. Forse pensavi di afferrare il capo di un filo che invece di farti uscire dal labirinto ti portasse dentro di esso, sull’orlo dell’abisso, forse di fronte al Minotauro. Sai che quel filo, quello stesso filo, potrebbe portarti fuori da questo strano labirinto, che non ha volute ambagi e circonlocuzioni, ma è una distesa paludosa su cui regna il torpido mostro, a cui Baudelaire ha dato il nome di noia. In realtà non è davvero noia, o non soltanto. Ciò che ora ti tiene stretto nelle sue spire si genera dall’inerzia, o meglio ancora da qualcosa che potresti ancor meglio definire un senso d’inutilità. La tua inutilità, la tua inettitudine, e l’inutilità delle cose. Del mondo? Non sai per ora definire e precisare questo sospetto. Sai che per uscirne, per uscire dal labirinto, non ti serve la spada di Teseo, ma piuttosto un filo da intrecciare in una trama. Non solo un filo in realtà, ma un filo che si complica in trama e ordito, in un tessuto. È quello che ti è sempre mancato, e tu hai cercato di ovviare a questa mancanza ricorrendo non a persone, tanto meno a personaggi, che ti sono sempre sfuggiti, ma ricalcando l’orma lasciata da parole spesso non tue, parole che continui a evocare su questa scena, su cui stanno come per un infastidito atto di presenza (Rella 2023, 7ss.).
Parole spesso non nostre, quelle che noi postumi usiamo nei libri; più che un personaggio o un creatore, “forse sarai un testimone”, scrive poco dopo Rella di se stesso. Ma stare chiusi nella tana a scrivere evoca anche un’altra presenza, quella inevocabile della morte: “Talvolta ti è parso di avvertire un vago sentore di morte penetrare da qualche interstizio per poi stagnare sospeso nell’aria e spalmarsi sulle pagine dei tuoi libri, sulla pelle del dorso delle tue mani”. “Anche tu hai pensato a un faccia a faccia con la morte, un istante in cui la potresti riconoscere come tua. Tu sai però che Rilke alla fine, travolto dal dolore, dice di non essere più quello che era stato. Ormai ‘da nessuno riconosciuto’. Non si deve – scrive pochi giorni prima di morire – mescolare l’adesso con quello che è stato, a ciò ‘che un tempo ti stupì. La morte straniera ha sovrastato la sua propria morte, ne ha preso il posto. Non c’è più la sua o la mia o la propria morte, c’è solo la morte” (Rella 2023, 14). La poesia di Rilke, cui questo passo si riferisce, è l’ultima annotazione sull’ultimo diario del poeta, a Valmont, probabilmente databile a metà dicembre 1926, che riporto qui come testimonianza, con parole non sue, degli ultimi tempi di malattia di Franco:
Komm du, du letzter, den ich anerkenne,
heilloser Schmerz im leiblichen Geweb:
wie ich im Geiste brannte, sieh, ich brenne
in dir; das Holz hat lange widerstrebt
der Flamme, die du loderst, zuzustimmen,
nun aber nähr’ich dich und brenn in dir.
Mein hiesig Mildsein wird in deinem Grimmen ein Grimm der Hölle nicht von hier.
Ganz rein, ganz planlos frei von Zukunft stieg ich auf des Leidens wirren Scheiterhaufen,
so sicher nirgend Künftiges zu kaufen
um dieses Herz, darin der Vorrat schwieg.
Bin ich es noch, der da unkenntlich brennt? Erinnerungen reiss ich nicht herein.
O Leben, Leben: Draussensein.
Und ich in Lohe. Niemand, der mich kennt.
[Verzicht. Das ist nicht so wie Krankheit war
einst in der Kindheit. Aufschub. Vorwand um grösser zu werden. Alles rief und raunte.
Misch nicht in dieses was dich früh erstaunte]
Vieni tu, tu ultimo, che riconosco,
dolore senza tregua nella trama del corpo:
come arsi nello spirito, vedi, io ardo
in te; il legno ha a lungo resistito
a consentire alla fiamma che tu fai divampare,
ora però io ti nutro e ardo in te.
La mia terrena mitezza diventa nella tua furia
una furia d’inferno non di qui.
Del tutto puro, del tutto senza piani di futuro
sono salito sul confuso rogo del dolore,
sicuro che non c’è luogo in cui acquistare avvenire a questo cuore in cui ogni provvista tacque.
Sono ancora io, colui che irriconoscibile arde? Ricordi non ne trascino dentro.
Oh vita, vita: esser là fuori.
E io nel rogo. Nessuno che mi conosca.
[Rinuncia. Non è come la malattia al tempo dell’infanzia. Rinvio. Pretesto per diventare grande. Tutto chiamava e sussurrava. Non mescolare in questo ciò che un tempo ti stupì]
(traduzione di chi scrive)
Questo libro conclusivo contiene anche una confessione, relativa alle difficoltà degli ultimi tempi: “è un periodo della mia vita in cui faccio fatica a tenere viva l’attenzione sulle pagine di un libro, come avessi una sorta di rigurgito dovuto alla quantità spropositata delle mie letture del passato. Invece scrivo, e lo scrivere diventa sempre più l’oggetto di ciò che scrivo. Mi chiedo se non sia simile ad un atto autistico. Se non sia di fatto un atto autistico” (Rella 2023, 95). Un’altra, più ovvia, confessione si trova a p. 133: il Minotauro dall’anima mostruosa, solo, assolutamente solo, “c’est moi”. “Questa è la tua stanza. Qui vivi in esilio. Völlig fremder, totalmente straniero, come K. nel Castello” (Rella 2023, 23); qui comincia l’identificazione di Rella con i grandi mostri solitari della scrittura: “Anche Proust in una stanza, isolato dentro il suo libro e dentro le migliaia di lettere con le quali, come Rilke, teneva in vita i suoi rapporti con quelle persone che voleva vicine e al tempo stesso fisicamente lontane da sé. Anche questo è scrittura, anche questo è letteratura. “La sola vita vissuta pienamente è la letteratura”, ha scritto. Ma letteratura è anche privazione, è per esempio abitare come Proust in un luogo astratto in cui scrivere e poi scrivere ancora: usque ad finem” (Rella 2023, 23).
La scrittura, dunque, fino alla fine. Narrare storie è una necessità umana ineludibile, inaggirabile, primaria; forse è ciò che tiene in vita la specie, in ultima analisi, l’illusione estrema di una progettualità sensata. La radicalità di questa visione emerge in un libro di Franco a me caro: Scritture estreme. Proust e Kafka (2005), che si snoda seguendo altrettanto radicali considerazioni kafkiane: “Scrivere è l’assalto all’ultimo limite terreno”; “Da un certo punto non c’è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere” (Kafka, Aforismi di Zürau, citato in Rella 2005, 21); “Strana, misteriosa, forse pericolosa, forse redentrice consolazione dello scrivere: uscire dalla schiera degli uccisori, osservare i fatti” (Kafka, Diari, 22. 1.1922, citato in Rella 2005, 95). Poiché, scrive Rella, “Scrivere è malattia. Il tempo della scrittura è il tempo della malattia e della claustrazione. Lo spazio si restringe ai confini della camera foderata di sughero in cui Proust scriveva la Recherche, alle mura incombenti della cantina che, come scrive Kafka a Felice, è il solo luogo vero della scrittura” (Kafka, Diari, 14-15.1.1913, 26-27). “La scrittura è malattia perché, a un certo punto, si è persino felici quando il suo luogo si stringe fino ad essere uno spazio “non più largo dei piedi che lo coprono” (Kafka, Aforismi di Zürau, 27). La stanza in cui si scrive è essa stessa una macchina punitiva, una macchina sacrificale come il terrificante dispositivo di Nella colonia penale”. “Proust nel Cahier 57 scrive che “i libri sono figli della solitudine e del silenzio”. Nel Tempo ritrovato ribadisce: “figli dell’oscurità e del silenzio”. Proust e Kafka scrivevano di notte, nell’ombra della loro cella o della loro cantina. Scrivevano nell’oscuro e nella solitudine perché osceni e terribili erano i demoni che essi dovevano animare, a costo della loro stessa vita” (Rella 2005, 27). La scrittura è una colpa e una vergogna, una gioia chiusa e vergognosa da tana o da cantina, un atto disperatamente sterile, fatto non per rimuovere la realtà, ma per ri-produrla nella scrittura. D’altronde, “Bisognerebbe, credo, leggere soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non si scaglia come un pugno sul nostro cranio, a che serve leggerlo? Abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia, che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev’essere la scure per il mare gelato dentro di noi” (lettera del 17 gennaio 1904 di Kafka a O. Pollak, 97).
La scrittura e la morte. Morte è proprio ciò che, retrospettivamente, costruisce il nostro progetto di vita, che rende la vita un progetto, specialmente per colui che scrive, e che dunque è assai insicuro che la sua vita abbia veramente senso. Kafka cerca di poter morire (ed è impossibile) nell’opera che scrive; scrivere è un’occupazione spaventosa perché è qualcosa che attiva una follia, “una follia sommessa e strisciante” (lettera a Max Brod, 108, citata in Rella 2005, 108); scrivere è fissare gli occhi nelle tenebre finché questi diventano “occhi macchiati di terra” (Quaderni in ottavo, citato in Rella 2005, 108); scrivere “significa denudarsi di fronte a fantasmi che attendono ciò con avidità” (lettera a Milena, marzo 1922, 109). Vi è continuità tra scrittura e sacrificio: Kafka scrive a Felice che “la solitudine per scrivere è un obbligo superiore, non è un vantaggio o un piacere […], ma un dovere e un dolore”; e Rella aggiunge: “Flaubert dichiara che il suo romanzo è un’opera mortale, che egli non uscirà vivo da quest’opera, e che dunque scrivere è di fatto andare verso la morte, verso la propria morte” (Rella 2005, 30-31). Fino al paradosso assoluto: “L’arte è verità e per la verità è necessario vivere, sacrificando tutto, anche la vita stessa” (32). Rella nota, con riferimento a Proust, che forse bisogna contenere in sé la prossimità della morte, per avere la lucidità della sofferenza autentica: “Scrivere è dunque aver avvertito e attraversato il travaglio della morte per giungere alle sofferenze autentiche della scrittura. Quando l’opera sembra aver preso corpo e figura, la morte non è più soltanto prossima, è in noi” (34). “Il romanzo, nel Tempo ritrovato, è sorto davanti ai suoi occhi insieme all’idea della morte, ‘che si installò in me come fa un amore’”; prosieguo della citazione proustiana: “Il suo pensiero aderiva allo strato più profondo del mio cervello, così profondamente che non potevo occuparmi di una cosa senza che questa attraversasse in primo luogo l’idea della morte”. E poiché, come confessa Kafka a Felice, “Io sono fatto di letteratura, non sono e non posso essere altro” (lettera del 14.8.1913, citata in Rella 2005, 36), la sua malattia, la tubercolosi, è quell’arma “la cui estrema necessità rimane fin tanto che sono vivo”; perciò lo spazio che sta tra la vita e la morte diventa lo spazio della malattia e della scrittura (Rella 2005, 37) – e forse della scrittura come malattia.
Infine, una scena su cui Franco è tornato più volte: la morte di Bergotte, figura centrale per Proust, “una delle pagine più belle ed emblematiche della Recherche” (71), in cui il personaggio muore meditando su un piccolo lembo di muro giallo de La veduta di Delft di Vermeer e sulle patate poco cotte mangiate a colazione: “scivolò dal divano a terra, dove accorsero visitatori e guardiani. Era morto”. Chiosa Rella: “‘Morto per sempre?’, si chiede il Narratore, ipotizzando una sopravvivenza dell’anima. Comunque almeno una sopravvivenza nei libri che si dispongono nelle vetrine, ‘vegliando come angeli con le ali dispiegate e sembravano, per colui che non era più, il simbolo della resurrezione’” (Rella 2005, 72). Da qualche parte si nasconde sempre la speranza, in ogni autore, che qualcosa rimanga, che qualcosa re-susciti, o non sia mai stato raggiunto dalla morte, se non in vita: ed è questo l’auspicio massimo che si può formulare come augurio postumo a uno scrittore come Franco Rella: la sopravvivenza nei libri.
I tempi e i temi degli esordi sono sempre determinanti. Ad esempio, ne Il silenzio e le parole (1981), Franco Rella elevò subito un’accorata, magari ingenua protesta contro il ‘negativo’, contro il silenzio viennese, contro il diktat della proposizione 7 del Tractatus wittgensteiniano. Le parole, bisogna dirle, fintanto che ci sono; e di ciò di cui non si può tacere, si deve parlare. “Il pensiero nel tempo della crisi” è il sottotitolo del libro, quella crisi che si è aperta allora per mai più chiudersi. È il tempo del Moderno (il calco di Rella è su die Moderne, sottinteso Zeit), che non è l’età moderna dal 1500 in poi, bensì la grande esplosione del Novecento; che è inquietudine, insicurezza, perdita di centro e coordinate, Unheimlichkeit, in cui “Ciò che infine ci custodisce / è il nostro essere senza protezione” (così Rilke). Come uscire dalla crisi, quindi, con quali parole, senza darla vinta al silenzio, all’ineffabile, al ‘negativo’? Ne Il silenzio e le parole il presupposto è la Krisis della razionalità classica. Emergono nuove istanze: il corpo, la pluralità, l’alterità, la contraddizione e, come voce di tutte, l’arte. Il dominio della razionalità classica si risolve infine in oscillazione e incertezza; secondo Rella, lo stesso superuomo nietzschiano è il soggetto di questo superamento (Rella 1981, 52). L’arte rappresenta, in questo quadro, la possibile lingua di una nuova ragione; già Freud era dovuto ricorrere “alla lingua figurata dell’arte e della letteratura per superare i limiti del linguaggio scientifico-filosofico” (Rella 1981, 52). Aveva infatti scoperto che il soggetto era pieno di contraddizioni; da una parte, dunque, si stagliava la totalità, la grande unità classica, che però adesso diventava segno di stasi e di morte, e dall’altra l’abisso delle contraddizioni nel soggetto e nel mondo, che parevano inesprimibili. Freud effettua un’analisi del disagio della civiltà e del soggetto diviso in essa, eludendo in qualche modo il grande fascino del pensiero negativo, e mirando piuttosto a creare una logica del conflitto (Rella 1981, 58). Il sapere analitico è senz’altro fuori dalla metafisica, poiché questa immensa macchina è oramai distrutta; anche l’idea di progresso, che ha dominato tutta la razionalità scientifica a partire dal XVII secolo, e che nel XIX secolo costituiva l’unico modo di pensare il tempo a tutti i livelli della vita e dell’agire umani, deve prendere atto della fine del tempo lineare progressivo (Rella 1981, 94; i nomi sono quelli di Nietzsche, Freud, Benjamin). Per Franco Rella, dunque, al di là del silenzio viennese (Weininger, Wittgenstein, Lord Chandos...), si apre lo spazio per un diverso linguaggio, per le parole nel tempo della precarietà (Vergänglichkeit) e della crisi. “Di ciò si deve parlare: le parole per rappresentare questa realtà conflittuale devono essere costruite”: solo così si può superare il Trauerspiel del pensiero negativo (Rella 1981, 63), che rappresenta solamente il rovescio della ragione classica. Adesso si avverte il bisogno di nuove formazioni di senso, che costruiscano il sapere della caducità, nella consapevolezza che tutte le nostre costruzioni sono parziali, che lasciano sempre un resto, non dicono mai tutto, non afferrano mai l’essenza: “Il resto è proprio ciò che mette in gioco le nostre certezze. L’incompletezza è la struttura stessa del sapere critico” (Rella 1981, 64). Il compito diventa perciò quello di ricomporre “come in un mosaico i frammenti del passato e del presente, i frammenti che la crisi ci ha messo di fronte spezzando i grandi nomi della lingua della verità” (Rella 1981, 64).
I grandi Nomi della Verità giacciono spezzati: la morte di Dio in Nietzsche – scrive Rella – è anche la morte dell’Io, del soggetto del sapere classico, inteso come principio ordinatore del mondo; si apre lo spazio della precarietà, “il tempo della caducità e del precipitare delle cose nell’abisso della crisi, della mancanza di fondamenti” (Rella 1981, 67). Parallelo corre il cosiddetto ‘crollo dei fondamenti’ nella scienza: è un tempo di tensioni insopportabili, nota Rella; e questo conflitto penetra all’interno della scrittura stessa, che si fa terreno di frammenti, spazio aforistico incomponibile, già in Nietzsche (Rella 1981, 67). Proprio Nietzsche aveva infatti già abbandonato il linguaggio inadeguato, aveva lasciato il sentiero della filosofia per imboccare la via traversa della rappresentazione artistica, fino al delirio (Rella 1981, 68); analogamente agisce la logica dell’inconscio in Freud, in cui l’Unheimlich, lo spaesamento, rappresenta anche il ritorno del rimosso. Da una parte, perciò, l’arte e il suo linguaggio figurale, dall’altra la razionalità tecnico-scientifica e anche filosofica: e laddove questa alternativa si presenta, si noti, Rella prende sempre partito per la prima. È infatti non nella filosofia tradizionale, quanto piuttosto nella scrittura letteraria di Kafka e Proust che Rella trova la pluralità delle storie che permettono di dire le cose in un linguaggio all’altezza del tempo. Attraversata dunque l’area del pensiero negativo, nel Silenzio e le parole Rella arriva a intravedere la costruzione di un nuovo modello di razionalità critica in Freud e Benjamin e attraverso la scrittura letteraria (Rella 1981, 194): questo il suo tentativo per uscire dalla crisi, sebbene l’incertezza non sia mai, in fin dei conti, davvero decidibile (è Freud che lo afferma, in Al di là del principio di piacere, 201).
Un’argomentazione simile, con esiti del tutto coerenti (poiché il pensiero del nostro autore rimane coerente nel tempo), la troviamo anche in uno dei testi più esplicitamente filosofici di Rella, Pensare per figure, in cui fin dall’avvertenza si avanza l’“ipotesi di una estetica che comprendesse le forme, le figure, le immagini attraverso cui diamo senso al mondo e al nostro essere nel mondo” (Rella [1999] 2004, VII). Anche qui sono decisivi gli inizi freudiani, l’ethos razionale di questa gigantesca figura, che tenta di parlare l’irrazionale con onestà e lucidità razionali; questo atteggiamento è assai simile a quello che Franco stesso conservò per tutta la vita. Già a partire da La critica freudiana (1977), Rella sottolineava il “tentativo di Freud di costruire un sapere del soggetto rompendo con gli statuti delle scienze classiche e legittimando un sapere per figure, che si avvaleva di una lingua di immagini (Bildersprache), del mito e della narrazione” (Rella [1999] 2004, VII). Questo linguaggio figurale (letterario e artistico) è l’unico che riesca a esprimere adeguatamente la crisi del soggetto nel moderno, ad esempio, ancora, in Kafka. Gli inizi di questo dualismo tra sapere filosofico-teoretico e sapere estetico vengono ricostruiti nel breve testo di Rella La battaglia della verità (1986), poi confluito in Pensare per figure, in cui l’autore individua un “momento in cui il sapere per figure sembrava essere stato sconfitto dal sapere filosofico: la storia di quella che definirei la ‘contesa di verità’ di Platone contro la tragedia e la sofistica” (Rella [1999] 2004, VII).
Finzione narrativa, verosimiglianza, maschera, da una parte, e dall’altra la pretesa di dire e far valere la “verità” da parte del pensiero filosofico-teoretico: insomma, la poesia tragica versus la filosofia platonica: questa l’alternativa che viene a delinearsi nel testo. Scrive Rella, citando Zambrano, che “‘Pensiero e poesia […] si fronteggiano molto gravemente lungo tutta la nostra cultura’. La lotta è antica, e Platone stesso, per il quale questa si risolve nel trionfo del logos del pensiero filosofico, nelle Leggi la diceva già antichissima. Eppure poesia e filosofia nascono da un identico stupore verso il mondo […]. Ma la filosofia ha un moto attraverso il quale si strappa da questo stupore: la sua forza genera la violenza con cui si stacca dallo stupore estatico di fronte alle cose; la violenza che la libera dalle cose stesse consegnandola all’idea” (Rella [1999] 2004, 7). Platone combatte contro i poeti questa battaglia, da cui nasce la filosofia. Ora, si chiede Rella, è possibile però “pensare per trame”, attraverso miti? “Certo, anche le grandi opere filosofiche hanno una trama: sono grandi narrazioni. Così come le grandi opere letterarie sono cariche di pensiero, che potremmo definire filosofico. Ma le due strategie rimangono sostanzialmente divise” (Rella [1999] 2004, 10). Rella sottolinea come il fronte in cui si è impegnato in tutta la sua attività di saggista e di scrittore è stato quello di indagare sulle trame del sapere, su come esse si aggrovigliano e si dipanano fino a disegnare mappe sconosciute. “Lo studio appassionato di Freud mi ha condotto alla scoperta che lì, nel cuore di un tentativo che si voleva all’inizio dettato dall’epistemologia materialistica dell’Ottocento, si denunciava la carenza di ogni linguaggio scientifico o filosofico, e si proponeva una Bildersprache, un linguaggio di figure, che si organizzava in un vero e proprio racconto analitico, che non portava alla certezza, ma che addirittura fondava un sapere dell’incertezza” (Rella [1999] 2004, 10). Così, nei suoi libri successivi, decise di esplorare la “tensione, il conflitto tra sapere filosofico e letterario, ma cercavo di studiare un sapere di figure, di forme, in grado di cogliere e rendere visibili in una esperienza conoscitiva le lacerazioni e le contraddizioni insanabili del mondo” (Rella [1999] 2004, 11). Da un lato, quindi, l’irrisolvibile contesa di sapienza tra filosofia e letteratura, dall’altro il pensiero della narrazione.
In questo quadro, “Freud ha ‘costruito’ l’analisi proprio nello spazio della crisi del sistema rappresentativo filosofico e scientifico” (Rella [1999] 2004, 14), Freud per il quale la sola interpretazione sicura è appunto l’incompletezza; “in questa rottura dell’unità del mondo, del sapere e del soggetto (anche del soggetto della conoscenza), non è possibile, diceva Nietzsche, aggrapparsi ai fatti, ma è possibile solo interpretare”, cioè introdurre senso (Sinn hineinlegen, come scrive Nietzsche, citato da Rella [1999] 2004, 15). Il linguaggio analitico freudiano è infatti un linguaggio costruito che comprende in sé le contraddizioni senza risolverle in una falsa unità e senza espellerle fuori di sé (Rella [1999] 2004, 17); è un linguaggio materiale e corporeo, körperhaft, come quello della teoria dell’isteria. Il soggetto diviso e attraversato dalla forza pulsionale è corporeità e complessità, e parla il linguaggio dell’Unsicherheit, dell’incertezza; per descriverlo è necessaria una Bildersprache, un linguaggio figurale di tipo letterario: grazie alla quale la struttura del testo analitico finirà per mettere radicalmente in questione sia la verità letteraria sia la certezza scientifica (Rella [1999] 2004, 18). Non a caso le storie dei casi clinici freudiani si leggono come novelle e sono prive dell’impronta rigorosa della scientificità. Il linguaggio figurale “è proprio l’intreccio metaforico della Bildersprache che, decostruendo il linguaggio piano, flächenhaft, della scienza, ci permette di cogliere da più punti di vista i diversi dialetti dell’inconscio che rinviano alla pluralità, alla complessità, al groviglio körperhaft del soggetto” (Rella [1999] 2004, 19); questo linguaggio è già anticipato dalla trascrizione del lavoro onirico e del linguaggio significante dell’inconscio, e dalla Phantasiebearbeitung, cioè da quel lavoro di rielaborazione fantastica il cui “investimento metaforico e narrativo del linguaggio descrittivo [è] irriducibile a un sapere comprensivo, ovvero a una dimensione meramente filosofica” (Rella [1999] 2004, 23). Sottolineo: irriducibile alla dimensione filosofica – allo stesso modo, scrive Rella, le visioni della fisica contemporanea sulla materia e sulle forze sono poco meno dubbie delle corrispondenti vedute della teoria psicanalitica. Tutto ciò costituisce il rovescio della scienza dei fondamenti, andando piuttosto nella direzione di una costruzione interminabile il cui grado di incertezza o indeterminazione, come abbiamo già rilevato, non è mai davvero decidibile.
La progettata lingua di figure deve perciò, in prima istanza, misurarsi “in modo inquietante con la narrazione, la poesia, e i linguaggi critici che hanno attraversato narrazione e poesia”, non per riportarle all’interno di psicologia o filosofia, bensì “per scoprire in esse ciò che appunto dalla filosofia era stato rimosso e per così dire messo allo scarto: il corpo, le passioni, l’orrore, la morte. In una parola, il mistero dell’essere umano e delle contraddizioni non negoziabili che lo costituiscono” (Rella [1999] 2004, 55). Il sapere tragico è anche un sapere del corpo, ed è importante valutare quale sia la ragione del corpo, di ciò che è stato rimosso e sorpassato dal potere della razionalità classica: “il corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa l’io” (da Così parlò Zarathustra, I, Dei dispregiatori del corpo). Qui ritorna ovviamente Nietzsche, con la sua equazione provocatoria tra fisiologia, estetica e filosofia in quanto “fraintendimento del corpo” (Prefazione alla Gaia scienza), o, per meglio dire, con la sua concezione delle filosofie, specialmente metafisiche, come sintomi di determinati corpi. Franco Rella, che affermava spesso di non aver mai avvertito, neppure per un giorno, il silenzio del corpo, valorizza questo tema fondamentale anche grazie al suo essere simbolo tangibile della Vergänglichkeit, della caducità (Rilke, Freud), che sperimentiamo giorno dopo giorno innanzitutto tramite l’elemento corporeo. Il corpo permettere di conoscere attraverso il pathos, come ha scritto Eschilo nell’Agamennone: “Il sapere del pathos: il sapere dell’esperienza intraducibile in un concetto, ma figurabile in una narrazione” (Rella [1999] 2004, 55). Evidenzio questo passo: il sapere del corpo, fondato sul suo pathos, sul suo ‘patire’, sulla sua passione, è quello di un’esperienza che non si può tradurre immediatamente in un concetto filosofico, bensì solamente esprimere in modo figurale tramite una narrazione (o tramite un’immagine, nell’arte visiva; Rella privilegia sempre le metafore riferite alla lingua letteraria). Anche per questa ragione la psicoanalisi non è mai stata una scienza, però è sempre stata un sapere, un sophón.
Si domanda Rella in questo testo: “Ma quando ha preso avvio nel corpo della filosofia e della scienza la rimozione del corpo, delle passioni, di tutto ciò che determina la maggior parte delle nostre scelte e che pur tuttavia è destituito di ogni responsabilità conoscitiva? L’atto inaugurale di questo immane processo di rimozione, o meglio di questo processo sacrificale, inizia con Platone, con il Fedone, là dove il corpo è letteralmente messo a morte perché non possa turbare la conoscenza della verità, che deve essere una, certa e immutabile, come uno dev’essere il linguaggio che la parla. L’opera di Platone non investe soltanto il pathos – il corpo, le passioni e le contraddizioni che solcano la vita umana –, ma anche il linguaggio che di questo pathos aveva fatto un sapere. Attraverso Repubblica, Simposio e Fedro assistiamo a una vera e propria battaglia della verità che vede di fronte Platone e la sua filosofia da una parte, e dall’altra la poesia e soprattutto la poesia tragica” (Rella [1999] 2004, 56). La contesa è chiara: da una parte, poesia e sofistica, i díssoi lógoi, che ci rimandano a un sapere tragico, alle trame che si sono sviluppate nell’elaborazione orale del mito, a un’esperienza conoscitiva del dissidio e dell’impermanenza; dall’altra, e contro di esse, il sapere filosofico, ovvero il sapere delle tecniche, della scrittura, della scienza. La medesima alternativa Rella la individua tramite il discorso doxastós e apatelós nel poema di Parmenide; questo non è un discorso falso (pseudés), bensì un discorso del sensibile, dell’apparente; vi sono quindi due vie, due accessi nel poema parmenideo: c’è la verità noetica, ma al di qua di essa c’è la via fenomenica e sensibile, che può essere percorsa attraverso l’inganno proprio della poesia e dei miti. Secondo Rella, Platone sceglie la via della verità, cercando di annientare questo cosmo ingannevole, il kosmón apatelón di Gorgia (Rella [1999] 2004, 58-59) fondato sulla finzione (apáte), sulla “giusta finzione” del pensiero tragico (di “finzione vera” parlerà in seguito Vico, trattato nel capitolo successivo: un discorso già confinato nell’ambiguo dominio dell’estetico, nel quale la “logica poetica” vichiana è via d’accesso alla verità). Il soggetto delle passioni si esprime attraverso il logos apatelós della poesia, tramite la finzione poetica, nella quale “non c’è nulla che possa fondare in termini assoluti la verità del discorso” (Rella [1999] 2004, 61). Si può pensare, dunque, in maniera del tutto differente, anche in termini di storie.
Platone, invece (per come è visto da Rella in questo testo), parla spesso di un inganno indotto dal corpo, dai sensi, nella conoscenza: il sensibile è un universo ingannevole, che non ha rilievo conoscitivo. Se il visibile e sensibile traggono in inganno, non così l’invisibile e l’intelligibile: “Il soggetto della conoscenza è dunque un soggetto senza corpo e senza passioni” (Rella [1999] 2004, 65); è, secondo Rella, l’anticipazione del gesto di Cartesio, del soggetto puro del pensiero. Al contrario, il sapere tragico ingloba in sé un dissidio costitutivo, il suo logos è percorso dal dissidio; mentre in Platone il mito rende visibile quanto il logos non può dire, ma solo se legittimato dal logos stesso (nei suoi miti filosofici, allegorici) e, nel rimarcare l’“antica inimicizia” tra filosofia e poesia (Repubblica X), Platone non potrà mai perdonare al poeta il fatto che il poeta mente. Questa menzogna – cioè questa finzione: la finzione estetica – è tuttavia preziosa, sembra volerci dire Rella, proprio per dire la verità, una verità che non sia separata dalla sua ombra. Non è un caso che gli autori ‘filosofici’ di Franco Rella siano tutti grandi scrittori: Kafka, Proust, Baudelaire, Rilke, Leopardi, Valéry, Mann, Flaubert, Beckett… – e anche i filosofi propriamente detti, certo, ma solamente se sono allo stesso tempo anch’essi grandi scrittori: Freud, Nietzsche, Benjamin, Bataille: altrimenti Rella ignora la storia della filosofia e si schiera sempre dalla parte della poesia, dell’arte. Perché? Perché solo l’arte riesce a esprimere, con tutte le sue ambiguità, la totalità del mondo e dell’umano.
Che cosa rimane, dunque? (Sì, sarebbe meglio non pensarci). Rimangono i libri innumerevoli, cioè il solo unico interminabile libro di Franco Rella. Rimane un pensiero aperto, senza confini, in cui si intrecciano parole e immagini senza alcuna forma definita e definitiva. Rimane, forse, in un remoto cassetto che prima o poi verrà spalancato, il nostro capolavoro inedito incompiuto, Il paté degli Iddii pestilenziali, una farsa esilarante e spietata sul mondo intellettuale, accademico, culturale, il cui titolo cita un verso de Il sogno del prigioniero di Eugenio Montale (La bufera, 1956):
Albe e notti qui variano per pochi segni.
[…]
La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo
anzi che terminare nel pâté
destinato agli Iddii pestilenziali.
[…]
“Tardo di mente, piagato” è il verso immediatamente successivo della poesia; così si sentiva Franco nella sua tarda età, assimilandosi a quella figura un po’ ebete che è il personaggio centrale, senza volto, del quadro di Georges Seurat Une baignade à Asnières (1884, oggi alla National Gallery di Londra), un’immagine da lui simbolicamente usata in più contesti – dal suo sito al suo profilo whatsapp – come alter ego o avatar: al centro vi è un giovane assorto, isolato, forse meditativo; o più probabilmente è solo uno che ha sentito passare su di sé, in maniera inesorabile, il vento dell’ala dell’imbecillità (per usare una frase di Baudelaire cara a Franco).
Nelle nostre ultime telefonate, ci ripetevamo come un mantra incoraggiante, inconfutabile: bisogna continuare, e io continuerò. È un’imperfetta citazione del finale de L’innominabile di Samuel Beckett (1949) che di nuovo, in extremis, torna sul passaggio dal silenzio alle parole, alle storie, alla pena e alla colpa di scrivere: “Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna continuare, e allora continuo, bisogna dire delle parole, fintanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi trovino, fino a quando non mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno già detto, forse mi hanno portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non lo saprò mai, dentro il silenzio non si sa, il faut continuer, je ne peux pas continuer, je vais continuer, you must go on, I can’t go on, I’ll go on, bisogna continuare, non posso continuare, e io continuerò”.
Scritti di Franco Rella citati nel contributo
- Rella 1981
F. Rella, Il silenzio e le parole, Milano 1981. - Rella [1999] 2004
F. Rella, Pensare per figure [1999], nuova edizione ampliata, Roma 2004. - Rella 2005
F. Rella, Scritture estreme. Proust e Kafka, Milano 2005. - Rella 2023
F. Rella, La solitudine del Minotauro, Torino 2023. - Rella, Mati inedito
F. Rella, S. Mati, Il paté degli Iddii pestilenziali.
English abstract
The contribution explores Franco Rella’s role as an exceptionally insightful reader of the relationship between literature and philosophy, both of which he submits to close exegetic readings. In particular, the article starts from Rella’s last volume, La solitudine del Minotauro (2023), focusing on the links between writing and death, and examines subsequently the long-lasting contrast between philosophy and art in Rella's Pensare per figure (1999).
keywords | Franco Rella; Writing and Death; Marcel Proust; Franz Kafka.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: S. Mati, “Uno scrittore, scrive”: FR, Grande Lettore, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 57-68 | PDF