I Platonici della Persia medievale e la musica dei salotti parigini della Belle époque. Le epifanie degli angeli e la resurrezione della memoria nella Ricerca del tempo perduto. Che hanno a che fare gli uni con altri contesti così disparati? Fili sottili, invisibili e spesso inverificabili nella datità della storia possono legare visioni e scritture distanti nel tempo e nello spazio. Fili che legano, all’insegna dell’analogia, forme radicali di esperienza in cui la grigia e apparentemente compatta superficie del mondo, attutita e resa uniforme dal regime coartante della routine, improvvisamente sfolgora nella bellezza di un oltre in cui si intravede il volto di una verità sempre inseguita con nostalgia. Ed è alla ricerca paziente di questi fili da intessere e ritessere in consapevoli e rinnovate trame che Rella si è volto indagando, a più riprese, la tensione tra il manifesto e il non manifesto, tra l’uno e il molteplice, nel darsi di una concordia discors, nella cifra di una complessità che contiene ogni cosa e insieme lascia che ogni cosa sia, nella vertigine di oscillazione costante tra la compiutezza di un’immagine e la dispersione dei suoi frammenti. “Strano logos il suo. Ibrido, mutevole, orfico direi. Ma forse cellule orfiche sono assopite dentro il cervello dell’occidente” recita il prologo del viaggio cui il suo libro L’enigma della bellezza invita il lettore, riprendendo ed estendendo sentieri tracciati nell’antologia Bellezza e verità di poco precedente. Nella pratica dell’“ibrido”, nell’attraversamento della selva – attraverso cui l’attenzione tenta di sorprendere e destare l’assopita cellula “orfica” di una sapienza possibile dell’uno e delle differenze – Rella perviene, come a una stazione cruciale, nel punto di incrocio accennato tra la teosofia d’Oriente e l’opera di Proust che rimano, con sorpresa, l’una con l’altra.
Traducendo e commentando alcuni quaderni e alcune note che precedono la stesura definitiva della Ricerca, Rella isola il nucleo di un pensiero attorno a cui tutta l’impresa ruota, misurandosi con il sole nero della morte. Il darsi di una pura “gioia”, il prodursi di un “sentimento inebriante della vita al di fuori del tempo” è rivelazione di un “essere” che riposa “nel profondo di noi” e si nutre “soltanto dell’essenza delle cose”. Annota Proust nel Quaderno 58:
Mi è capitata questa gioia irresistibile, è sorto in me un essere che un istante prima non esisteva, che voleva vivere […], che si sentiva immortale […]. Questo essere, che si nutre e si inebria solo dell’essenza profonda, universale, delle cose, langue mentre godiamo e osserviamo il presente, in cui si accostiamo alla realtà attraverso la mediazione dell’utilità pratica o la disponiamo arbitrariamente secondo idee preconcette (Rella 1990, 170).
Quest’“essere” è uno “straniero” che, talora, ci visita e si impone a noi, schiudendo la percezione di una vita che è la nostra, ma che è, al contempo, altra dalla vita che continuamente crediamo. Vi sono accidenti e soglie propizie in cui tale spiraglio si apre. Come al momento del risveglio mattutino, in quell’istante in cui gli occhi sono aperti, ma si è ancora dentro il sonno. Una dimensione liminare su cui la scrittura proustiana ripetutamente si sofferma. Commenta Rella:
È il momento in cui la pluralità delle cose, delle forme, delle esperienze vissute si muove intorno a noi prima di essere semplificata, ridotta e uniformata dalla forma dell’abitudine. È il momento in cui la potenza delle immagini dà all’intelletto che si sveglia una forza, un’acutezza sconosciute. È il momento in cui ha luogo un’esperienza immaginale e insieme noetica (Rella 1990, 23).
L’immagine che affiora, che si presenta, è ciò in cui altro si rende presente, altro in cui il pensiero è chiamato a immergersi e a scontrarsi per ricondursi a sé stesso. Scrive Proust sempre nel Quaderno 58:
Mi rendevo conto che era sempre sotto qualche immagine che la realtà da scoprire mi si presentava […] fissando gli occhi sull’immagine, chiedendomi cosa era dietro di lei, cercando di ricordarmi di quel pensiero che non conoscevo […]. Ho avvertito toccando con il pensiero quell’immagine che è nel mio cervello che sotto di essa vi è qualcosa […]. Spingo nuovamente il mio pensiero dentro il cervello come una sonda, cerco il punto esatto dell’immagine dove ho sentito qualcosa […] fino al punto in cui il mio pensiero si scontra a qualcosa che lo ferma (Rella 1990, 186-187).
Immagini come “geroglifici per l’intelligenza”, come “creature addormentate”, come luoghi ove, in istanti di “resurrezione”, appare al pensiero la realtà stessa della vita come un “arresto”. Immagini, ancora, la cui lettura sembra non potersi imbrigliare in una regola cosciente o in un metodo ripetibile, ma ha bisogno di accadere nell’imprevedibilità di un’intuizione che lampeggia. Incidenti casuali che si producono nel quotidiano o l’ascolto assorto di una musica aprono all’improvviso una breccia in cui l’immagine e la realtà che essa riveste si danno in uno. Così avviene nell’ascolto del brano di Vinteuil che sembra, d’un tratto, fiammeggiare di “gioiose luminosità scarlatte” in cui l’unità del tutto si frastaglia nella meraviglia del molteplice. Così scrive Proust in una delle note relative al Tempo ritrovato:
Quella musica creava davanti a me, traeva dal silenzio della notte, in un rosseggiare aurorale, le forme di un mondo incognito […] quel mondo nuovo era immateriale, quella forma singolare che esso proiettava davanti a me in una luce imporporata era la forma di una gioia differente dalle altre gioie come la gioia misteriosa e carica d’ombra che potrebbe emanare dalla buona novella annunciata dall’Angelo del mattino (citato e tradotto in Rella 1990, 198).
Un angelo vermiglio alleggiava anche nell’Aurelia di Nerval, inducendo il protagonista a partire per l’Oriente dopo mistiche rivelazioni. E Proust ne aveva, con ogni probabilità, memoria. Ma, nei materiali della Ricerca, la sua presenza si costella di ulteriori implicazioni. L’altro essere che si cela in noi, la resurrezione della verità perduta nella potenza dell’immagine, lo schiudersi di un’altra dimensione in lampi rosseggianti, il rapporto tra l’unità e la molteplicità, l’evidenza di un’esistenza altrimenti reale di quanto si dà nella pura immaterialità di una visione interiore. Tutto ciò – come Rella mette in evidenza in Bellezza e verità e, di nuovo, in L’enigma della bellezza – richiama alla mente la gnosi di quel mundus imaginalis che il platonismo arabo e persiano avevano esplorato e di cui le ricerche di Corbin hanno ridisegnato la geografia in tempi a noi più prossimi. Un mondo in cui le forme sensibili si smaterializzano e gli intelligibili, per converso, assumono figura e dimensione. Un mondo intermedio che, per così dire, simboleggia tanto con ciò che sta in basso quanto con ciò che sta in alto, costituendone la necessaria e altrimenti impossibile connessione. È la dimensione dell’immagine “vera” che riconduce ogni cosa dell’universo materiale alla cifra della propria verità spirituale. È la Terra celeste, il paese dell’Anima. È il regno degli Angeli, mediatori tra i piani, personificazioni dell’invisibile e insieme rivelazione del visibile stesso. È il piano in cui l’unità della trascendenza si frantuma e moltiplica in forme, ma è allo stesso tempo il luogo in cui è possibile infine incontrare, nella figura stessa dell’Angelo, il volto nascosto di ogni realtà terrena riportata alla propria unità essenziale. È infine il dominio di una corporeità incorporea in cui la pluralità del mondo è restituita alla sua purezza e insieme salvata in figure e presenze che non rispondono alla reificante domanda “Che cos’è?”, bensì a quella che chiede “Chi è?”. Espressione di questa tradizione è il racconto visionario di Sohravardi, in cui il colore intravisto da Proust è simbolo di una soglia e, allo stesso tempo, modo di conoscenza. Nel deserto, un prigioniero sfuggito al carcere e ai propri guardiani s’imbatté in un essere il cui volto e la cui capigliatura avevano un singolare colorito rossastro. Sembrava un ragazzo, ma, in verità, era l’arcangelo Gabriele, antico quanto la creazione stessa, il più anziano e il maggiore della discendenza di Dio. L’uomo era stupito. Se era così vecchio, come mai la sua capigliatura non era bianca? Paziente, l’angelo gliene spiegò la ragione:
Quando una cosa bianca […], la cui bianchezza è della natura della luce, viene a essere mescolata con il buio, appare il rosseggiare [...]. Il crepuscolo e l’alba sono uno spazio di mezzo: un lato verso il giorno, che è la bianchezza, e un lato verso la notte, che è nerezza, di qui la porpora del crepuscolo del mattino e della sera (Rella 1991, 69).
Crepuscolo e alba sono una soglia, uno spazio di mezzo, lo spazio dell’Angelo che non si stanca di indicare ai viandanti la patria che essi hanno dimenticato. Così sintetizza Rella in Bellezza e verità:
Sono stupefacenti le analogie fra l’angelo scarlatto del Septuor di Vinteuil di Proust e l’Arcangelo imporporato di Sohravardi: il colore rosso come colore della mescolanza, dello spazio di mezzo, del sapere che lega cielo e terra, le molte forme e i molti frammenti in cui noi abbiamo esperienza del mondo; il fatto che questa conoscenza del mondo […] come mescolanza di buio e di luce, si dà come cognitio matutina, che introduce al pellegrinaggio della terra straniera, alla ricerca della patria obliata, viaggio che ci-desitua da ogni abitudine nel cuore stesso dell’atopia, là dove, però scopriamo le meraviglie del mondo (Rella 1990, 22).
Al di là di Proust e dell’angeologia persiana, la pratica di de-situarsi, di perseguire la radicalità dell’atopia, di giungere a quel limen in cui visibile e invisibile si rovesciano l’uno sull’altro, di esperire l’oltranza della bellezza e di costituire una visione che si generi nell’intermedio della mescolanza costituisce forse uno dei fili rossi dell’avventura intellettuale di Rella e uno dei suoi più preziosi lasciti. Il tratto “orfico” del suo pensiero, se è orfico lo specchio di Dioniso ove, nella superficie dell’immagine, si riflettono i frammenti del mondo e il volto del dio.
Scritti di Franco Rella citati nel contributo
- Rella 1990
F. Rella (a cura di), C. Baudelaire, Bellezza e verità, Milano 1990. - Rella 1991
F. Rella, L’enigma della bellezza, Milano 1991.
English abstract
The article highlights Rella’s original critical contribution to the understanding Proust. The relationship with beauty and truth that the author of the Recherche investigates in his work reaches a formulation that resembles the Persian theory of mundus imaginalis.
keywords | Franco Rella; Marcel Proust; Concept of Angel; Mundus imaginalis.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: D. Susanetti, Il risveglio dell’angelo, “La Rivista di Engramma” n. 209, febbraio 2024, pp. 99-103 | PDF