“Aby Warburg era un vulcano”
Max Adolph Warburg, conferenza per il centenario della nascita di Aby Warburg (1966)
a cura di Davide Stimilli
English abstract | Original English Version
Introduzione
Questa versione differisce lievemente da quella da me pubblicata venti anni fa nel numero monografico di “aut aut” da me curato, con il titolo Per il centenario della nascita di Aby Warburg (“aut aut” 321-322, maggio-agosto 2004, Aby Warburg, La dialettica dell’immagine, 173-183), e riproduce nella sua interezza il manoscritto qui pubblicato per la prima volta nell’originale inglese. Pubblico di seguito, con poche modifiche, la nota pubblicata allora ad accompagnare il testo, che non ha perso la sua attualità: si tratta di un inedito, ma si dovrebbe dire inaudito, assoluto, perché Max Adolph Warburg (1902-1974) rinunciò, all’ultimo momento, a presentare la conferenza. Del testo esistono una versione dattiloscritta, parziale, conservata nel WIA con la segnatura WIA III.1.7.2.3., e una versione manoscritta integrale, gentilmente messa a disposizione del curatore dalla figlia di Max Adolph, Maria Christina Warburg, sulla quale si basa il testo qui edito per la prima volta nell’originale inglese. Max Adolph è una personalità che è stata finora completamente rimossa dagli studi warburghiani, anche se, come egli stesso osserva, Aby lo aveva a lungo considerato come suo successore naturale a direttore della Biblioteca, e lo aveva in tal senso preparato, sottomettendolo fin dall’inizio alla disciplina di quegli studi classici ai quali egli era invece arrivato solo con ritardo. Max Adolph conseguì il dottorato in filologia classica presso l’Università di Berlino nel 1927 con una dissertazione completata sotto la direzione di Werner Jaeger e da questi pubblicata nelle sue “Neue Philologische Untersuchungen”, con il titolo Zwei Fragen zum “Kratylos” (Berlin 1929), che rimane uno dei testi fondamentali per l’interpretazione di quel dialogo platonico e dell’etimologia greca. Questa fu però l’unica opera pubblicata da Max Adolph, che oppose una strenua resistenza al progetto paterno e preferì dedicarsi alla pittura e quindi, a seguito dell’avvento del nazismo e all’emigrazione in Olanda, prima, e poi in Inghilterra, all’insegnamento. Si pubblica questo testo come contributo alla storia, ancora da scrivere, dell’Istituto Warburg.
Per il centenario della nascita di Aby Warburg (1966)
Max Adolph Warburg, a cura di Davide Stimilli
L’idea di aggiungere un postscriptum informale alla conferenza del professor Gombrich mi è venuta piuttosto tardi. Per farlo, ho dovuto vincere un’ostinata esitazione – non solo quella che molti oratori affettano per cortesia, ma, vi assicuro, un’ostinazione molto reale. Saprete, o vi renderete ben presto conto, che non sono uno studioso, come molti di voi, ma sono stato un outsider in questo istituto per più di trent’anni, mantenendomi in contatto con esso solo per rifornirmi periodicamente quando lo richiedeva il mio poco pretenzioso lavoro principale: l’insegnamento di adolescenti. Qualsiasi pretesa di mettermi sul piedistallo per questa particolare occasione sembrerebbe futile e ridicola. Per favore scontate nome e relazione di parentela: ciò che conta in questo luogo è la Wahlverwandtschaft – l’affinità elettiva che ha portato qui la maggior parte di voi a continuare il lavoro di mio padre: gli insiders siete voi.
Sono stato richiamato in questo luogo non da inclinazione e qualifica, ma da un singolo triste evento: la morte di Gertrud Bing.
Ci è voluto molto tempo per riuscire a convincermi che se ne era andata. Il riflesso: “Devo dire o chiedere questo alla Bing” non è morto con lei e talvolta mi sorprende anche ora mentre, sentendomi un intruso, sto lavorando alla sua scrivania e nella sua atmosfera, studiando le lettere e i diari di mio padre da cui spero di pubblicare, nel loro tedesco originale, una selezione abbastanza breve. Dopo essermi consultato con mia sorella Frede Prag, ho deciso di adottare questa forma documentaria 1) perché, diversamente da una biografia vera e propria, è possibile che un compito del genere venga terminato in un futuro prossimo, e 2) perché il miglior testimone su Aby Warburg è Aby Warburg. Così i mattoni dovrebbero essere i suoi, mio solo il cemento. Se mi riuscisse di finire questo libro, lo chiamerei “Aby Warburg als Mitmensch und Mitbürger”, cioè approssimativamente: “La relazione di Aby Warburg con il mondo a lui contemporaneo”. Mentre la sua vita nel e con il passato sopravvive negli scritti suoi e dei suoi discepoli e, più tangibilmente e vigorosamente, in questo istituto, forse rischiamo di dimenticare quanto intensamente egli partecipò alla vita del suo tempo. Per documentare questo aspetto, non è tanto necessario uno studioso, quanto qualcuno che lo abbia conosciuto abbastanza bene. Oso dire che io l’ho conosciuto. Non sono così certo che esser suo figlio mi sia d’aiuto piuttosto che d’ostacolo. Quel che è certo: coloro che hanno conosciuto Warburg di persona stanno morendo. Di qui il piano di una pubblicazione che, tuttavia, non avrebbe potuto essere pronta per il 1966; tutto ciò che ho da offrire è questa conferenza, come una prima rata. Sono molto grato per la vostra presenza: la responsabilità per la parola stampata mi riempie d’orrore; le parole dette evaporano; le peggiori tra loro, si spera, verranno presto dimenticate.
Questo è abbastanza chiocciare su di un uovo non ancora deposto. Fortunatamente due uova sono state deposte, entrambe silenziosamente, nel rumoroso 1944: una di queste emerse (penso che non sia un segreto) dopo la morte di Gertrud Bing dai cassetti del professor Gombrich, avendo aspettato lì quietamente in freddo deposito per vent’anni: una storia complessiva dello sviluppo come studioso di Warburg che tutti, eccetto l’autore, considererebbero pronta per la stampa (druckreif); nella quale la sua ben nota autorità scientifica si combina con il dono, estremamente raro, dell’empatia, Einfühlungsgabe. L’esistenza e il carattere di questo dattiloscritto mi sono di gran sollievo: ciò che non potrei fare è stato fatto – grazie a Dio! Questo si applica anche alla conferenza della scorsa settimana del professor Gombrich, e mi permette di limitarmi a un contributo supplementare (“Keine Taten, nur Zutaten”).
Ora, nello stesso anno 1944, anche stavolta senza chiasso, un altro uovo è stato deposto – per esser poi smarrito e dimenticato: uno schizzo biografico di Saxl, in inglese, che arriva fino all’inizio della prima guerra mondiale (che istituto criptico!). Non sono sicuro che Saxl vorrebbe che pubblicassimo il suo lavoro eccellente ma ancora incompiuto. “Cui bono?” sarebbe la sua domanda in tali casi, accompagnata dalla sua tipica alzata di spalle. “Cui bono? Nobis!” è la mia risposta e dunque stasera leggerò, anche senza la sua benedizione, alcuni passi dal suo dattiloscritto.
“Das Wort zum Bild bringen” – portare la parola (cioè la parola contemporanea) all’immagine – era uno degli slogan di mio padre. Stasera sembrerebbe giusto seguire il percorso inverso: permettetemi di apportare qualche sostegno visuale a questa conferenza, cominciando da questo ritratto di mio padre fatto da mia madre [Fig. 1] che ho, per questa occasione, rimosso dal suo angolo piuttosto oscuro nella sala di lettura. Penso che sia una grande opera, non solo per ragioni sentimentali ma da qualsiasi punto di vista; e grande non solo perché il modello fu grande – lo era anche l’artista mentre la fece. Come modello, Aby Warburg era stato insopportabilmente impaziente (sarebbe stato più paziente, diceva, se lei avesse tentato una statua equestre à la Renaissance). Nel frattempo morì, così che Mary Warburg dovette finire il suo lavoro con l’aiuto di foto prese sul letto di morte. Alcune di esse mostrano le sue impronte digitali in argilla grigia. “Ihr kleiner schmutziger Finger”, il suo piccolo dito sporco, con cui fece anche molti deliziosi piccoli pastelli, era proverbiale nella famiglia. Questo piccolo dito sporco era guidato dal cuore più puro che io abbia mai conosciuto.
Qui vedete moglie e marito insieme [Fig. 2], con l’iscrizione di mio padre “Die hundertjährigen Eltern”, i genitori centenari, scattata in piena prima guerra mondiale, in occasione del cinquantesimo compleanno di mia madre – erano entrambi nati nel 1866; così è una buona pietra miliare, esattamente a metà strada tra il 1866 e il 1966. Inoltre, è molto caratteristica di entrambi i nostri genitori e della loro relazione unica, anche se ben lontana dall’essere semplice: l’uomo che ci sta di fronte in una posa quasi aggressiva, tinta di una mescolanza di ironia e malinconia; la donna che si tiene modestamente sullo sfondo, con un’espressione di devozione e timida diffidenza. Molti anni prima, la mia sorella maggiore, Marietta, una pensosa osservatrice già a sei anni, descrisse questo contrasto alla madre con le parole: “Sembra che papà stia per dire ‘Und damit basta! (basta così!)’; e sembra che tu voglia dire: ‘Ich weiss nicht so recht (non sono così sicura)’”.
Qui vedete una delle migliori foto mai scattate di Aby Warburg [Fig. 3], probabilmente del 1926, quando lo accompagnai nel suo viaggio in Svezia, che fu essenzialmente un pellegrinaggio al Claudius Civilis di Rembrandt – in apparenza uno stravagante capriccio. In realtà, si tratta della metà sinistra della foto – vi posso risparmiare l’altra metà, occupata da me stesso – eccetto che avrebbe potuto mostrarvi che mio padre era perfino più piccolo di me. A quel tempo aveva ancora la speranza che, un giorno, sarei diventato il suo successore come direttore di questa Biblioteca – un pensiero naturale per un padre, ma certamente inappropriato per il compito in questione. Infatti, il mio unico merito nei confronti di questo istituto è che non sono diventato il suo direttore: tremo a pensare alla confusione che avrei creato!
I dieci anni tra il primo ritratto e l’ultimo hanno, come vedete, lasciato il segno: non solo il segno dell’invecchiamento – un processo che non ci matura automaticamente – ma del destino, della trasformazione. L’elemento trasformatore è stato un purgatorio (per non dire un inferno). Molti di voi sanno che passò sei di quei dieci anni in ospedali psichiatrici – che erano molto inferiori a quelli di oggi; così che dopo poté pretendere di avere, essenzialmente, curato sé stesso – usava dire che, come Münchhausen in quel grande racconto classico, si era tirato fuori dalla palude prendendosi per il codino.
Questo è Warburg come pochi di quelli presenti lo ricorderanno – e come mia madre lo vide quando cominciò il suo ritratto. È la foto [Fig. 4] che tengo sempre sulla mia scrivania (o piuttosto: sulla scrivania di Gertrud Bing, che ancora considero un prestito). Devo averlo di fronte come gli sono di fronte io, inevitabilmente, così che posso consultarlo in qualunque momento come una specie di oracolo – e, in realtà, il volto è un po’ enigmatico, come dovrebbe essere un oracolo. Contiene, potenzialmente, l’accenno di vari stati d’animo: sembra stanco, ma resiliente e vigile; rassegnato e tuttavia esigente, perfino provocante; severamente critico, quasi beffardo, ma non impreparato a un improvviso sorriso. Passare l’esame di questi occhi è un esame severo. Mi dicono, fievolmente, ma percettibilmente, che cosa pubblicare e scrivere, e ancor più distintamente, che cosa non pubblicare e non scrivere. Per questa occasione, credo di avere nel complesso il loro consenso.
Su una domanda la sua risposta sembrava negativa: se il miglior contributo per stasera sarebbe stata una scelta di traduzioni di quei commoventi necrologi del 1929? Delle pregevoli memorie di Heise? Dell’eccellente discorso di Gertrud Bing ad Amburgo, nel 1958, in occasione della restituzione del suo busto di bronzo alla Kunsthalle di Amburgo? No, sembrava che non mi avrebbe permesso di sbrigarmi così facilmente – tutti quei contributi sono disponibili e scritti in tedesco molto leggibile, e se gli studenti inglesi volessero davvero – bene: il resto, il resto non dico – ognuno, ognuno lo sa. Alla mia domanda se dovevo essere molto solenne stasera per essere pari all’occasione, la sua risposta fu: “Nein, nicht nötig – lass Dich ruhig auf Deine Vorderbeine nieder!” (questo è un dictum autentico: quando qualcuno voleva fare sforzi soprannaturali per stare al passo col suo livello di conversazione, era tentato di dire: “Per favore, mettiti pure a quattro zampe!”).
Visto che l’italiano, la lingua favorita di mio padre, alla maggior parte di voi viene più facile che il tedesco, permettetemi di citare, come parafrasi dello stato d’animo prevalente in quei necrologi, la poesia di Giovanni Pascoli, La quercia caduta:
Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: “or vedo: era pur grande!”
Pendono qua e là dalla corona
i nidietti della primavera.
Dice la gente: “or vedo, era pur buona!”
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
Ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto… d’una capinera,
che cerca il nido che non troverà.
Ci sono molte questioni contemporanee su cui vorrei sapere l’opinione di mio padre. Una delle prime questioni, ovviamente, sarebbe conoscere la sua opinione sul destino e lo sviluppo della sua Biblioteca dopo la sua morte. Sono sicuro che sarebbe lievemente sorpreso, profondamente compiaciuto e immensamente grato; e che vorrebbe che io ringraziassi coloro che hanno reso possibile l’adattamento e la climatizzazione dell’istituto a Londra – inclusi coloro che non sono più con noi – spero che i nostri ringraziamentie li raggiungeranno, in qualche modo, al loro ignoto recapito.
Il fruttuoso trapianto di questo giardino piuttosto esotico è davvero poco meno di un miracolo. A parte la magia di Saxl, ci vollero molti capaci pollici verdi inglesi per far sì che tutte queste piante straniere mettessero radice – e la maggior parte del tempo durante una furiosa tempesta mentre gli inglesi, a quanto ricordo, avevano ben altro da fare che salvare una Biblioteca che veniva dal continente. In questo contesto, la dedizione di Saxl e di Gertrud Bing al vero e proprio giardinaggio al numero 162 di East Dulwich Road, descritta con tenero divertimento dal professor Gordon, diventa simbolica.
Per questo successo, tutti e quattro gli elementi dovettero cooperare, non solo la terra. Tutti avevano bisogno della protezione (la benedizione) di Mercurio. Tutte le parole che iniziano con “trans” o “inter” appartengono a questo dominio: trasporto, trasferimento, transazione, trapianto. Questo ci conduce all’acqua, al mare. Il mare può essere un elemento che separa o unisce. Tra le terre che costeggiano il mare del Nord, la seconda funzione sembra prevalere. Per via del commercio, del trasporto, del temperamento, e perfino della lingua, Amburgo è stata per molti anni più strettamente collegata all’Olanda e all’Inghilterra che al recentemente creato nuovo impero tedesco, specialmente all’epoca dei miei nonni e genitori. Anglofilia è chiaramente riflessa nei nomi dei nostri genitori, Aby e Mary.
Che cosa dire dell’aria? Nelle terre del mare del Nord è quasi identica all’acqua – tutte condividono, quasi ogni giorno, lo sguardo interrogativo rivolto alle nubi, scettico o speranzoso a seconda del temperamento. A questo riguardo, l’ottimismo di mia madre era disarmante, insorpassato e non sempre sostenuto dai fatti: “Es klärt sich auf” sta schiarendo – era il suo incrollabile motto. Per l’influenza di tutti questi elementi sulle razze umane la miglior guida è ancora l’antico libro greco περὶ ἀέρων, ὑδάτων, τόπων – “Arie acque luoghi”. In ogni caso, è più solidamente fondato delle teorie della razza hitleriane.
Ma un fatto non sembra spiegabile neppure sulla base della teoria greca: due dei nostri giardinieri addetti al trapianto sono stati e sono austriaci. Qui sarà forse opportuno ricordare il carattere interrazziale e interlinguistico di quel mostro politico estinto, tra tutti il più improbabile e amabile: l’impero austro-ungarico. Come avrebbe potuto reggersi insieme così a lungo senza la protezione di Mercurio?
Per dirla astrologicamente, Saxl mi ha sempre colpito come eminentemente mercuriale: nella lega piuttosto complicata del suo temperamento il mercurio, l’argento vivo sembrava predominare. Di qui la sua fulminea combinazione di velocità e azione che condusse al trasferimento della Biblioteca. Di qui l’epiteto con cui lo chiamava mio padre: “Saxl à vapeur”. E quindi la prima figura ad attrarre l’attenzione del giovane Saxl fu il disegno di una statua arcaica di Mercurio nella collezione di Ciriaco di Ancona. Vedi la brillante commemorazione di Saxl da parte di Gertrud Bing: “Questa figura arcaica di Mercurio ritorna sempre di nuovo in Saxl e fu all’origine del suo interesse per l’astrologia”.
Le funzioni di Mercurio o, meglio, Hermes sono molteplici e versatili: tra i cosiddetti inni omerici i miei favoriti sono quelli a Demetra e a Hermes. Hermes, come un vero precoce infante divino, scivola via dalla culla nella grotta dove nacque e si impossessa, con una serie di trucchi ingegnosi, delle vacche del suo fratellastro Apollo; rapidamente scivola di nuovo nella sua culla, appena in tempo per aspettare, col pollice in bocca, irradiando innocenza infantile, l’arrivo dell’inquisitorio Apollo. Il modo in cui Saxl portò via da Amburgo la Biblioteca, proprio sotto il naso dei nazisti, non fu meno ingegnoso e probabilmente avvenne sotto la protezione del suo patrono planetario.
Hermaion è una scoperta fortunata, come fu Londra per Saxl in cerca di una nuova dimora per i libri. E il più importante di tutti i doni del dio: Hermeneia – traduzione, interpretazione, adattamento dello strano organismo alla mentalità britannica. O Hermes – quanti dei nostri problemi sono, prosaicamente affrontati, puramente linguistici! Che cos’è viaggiare, la nostra ricerca in questo istituto poliglotta, la pace mondiale, la “comprensione tra i popoli”, senza la comprensione delle lingue? Pura ciarlataneria! Credete a un uomo anziano, giovani amici! Imparate presto le vostre lingue! Alla mia età il cervello non le apprende più! Perdonatemi: “O Freunde, nicht diese Töne!”. Spero che questa lunga digressione su Saxl e Mercurio sarà accettata come un voto di ringraziamento in nome di mio padre. Uno dei nostri più giovani studiosi sta facendo ricerca su una misteriosa figura di cabalista dal nome Franciscus Mercurius v. Helmond. Con pari diritto si potrebbe chiamare Saxl Fredericus Mercurius Saxolinus – “Saxolino” era uno degli affettuosi soprannomi con cui mio padre lo chiamava.
Ora veniamo all’ultimo elemento, che avrebbe dovuto essere il primo: il fuoco. Quando Saxl trapiantò la Biblioteca, badò bene di lasciare attaccate alle radici grosse zolle del suolo originario – che era vulcanico. E questo, signore e signori, è il fatto principale da tenere a mente: Aby Warburg era un vulcano. I vulcani possono essere condizionati, ma mai completamente spiegati dall’ambiente – dagli strati geologici circostanti, che devono rompere per salirne alla cima, per liberare la loro forza esplosiva e attingere la loro forma, altezza, e maestà preordinata. Ogni vulcano è un perturbante (unheimlicher) straniero rispetto alle sue vicinanze immediate, per quanto la lava possa contenere pezzi e frammenti del loro strato di superficie. I più prossimi sono di rado i più affini in spirito. Spuntando direttamente dal cuore incandescente della terra, i suoi congeniali fratelli possono essere lontani nello spazio e nel tempo, inconfondibili per forma, uniti da correnti sotterranee di fuoco invisibile ai nostri occhi. Sono una fraternità interrazziale e interspaziale; i loro nomi sono poliglotti: Zarathustra, Amos, Geremia, Isaia, Eraclito, Savonarola, Martin Lutero, George Fox, Karl Marx (sì, perfino Marx), Friedrich Nietzsche. Spero che mi scuserete se uso le parole “vulcano” e “profeta” come sinonimi. Potrebbe spiegarsi la prevalenza di nomi ebraici (naturalmente molti altri potrebbero venirne aggiunti) con l’ipotesi che Israele, propenso alla più rigida stratificazione, necessitava e ricevette una quantità in eccesso di profeti vulcanici?
Gertrud Bing, nel suo discorso di Amburgo, aveva ragione; permettetemi di citarla:
Es ist kein Zweifel, dass seiner Person etwas von einem alttestamentarischen Propheten anhaftete. Alle, die je die Fülle und Beredsamkeit seines Zorns an sich erfahren haben, müssen das empfunden haben – “Non vi è dubbio che la sua persona aveva qualcosa del profeta biblico. Tutti coloro che hanno mai sperimentato su di sé la pienezza e l’eloquenza della sua ira devono averlo avvertito”.
Si potrebbe applicare a lui il termine vasariano di “terribilità”, ma si dovrebbe estenderlo dalla sfumatura divertente dell’enfant terrible su (o giù?) fino al terrore che Michelangelo sperimentò ed espresse nel suo Giudizio Universale.
Dal vulcano A.W. siamo ora stati distaccati da tempo e spazio – e anglicità – perché il distacco è una qualità specificamente britannica. Con il detachment abbiamo guadagnato molto, ma forse anche perso qualcosa.
Per prima cosa: il guadagno. Conoscerete l’aforisma di Warburg, carico di Selbsterkenntnis (conoscenza di sé): “Ich bin wie gemacht für eine schöne Erinnerung”: “sono come tagliato per un bel ricordo”. Era a conoscenza della terribilità della sua inquietante presenza e che del tempo sarebbe dovuto passare per vederlo in prospettiva. Ma la distanza nello spazio acuisce il nostro distacco. Per citare un aperçu meno noto: usava dire che in ogni galleria si dovrebbe impiegare qualcuno che passi attraverso tutte le stanze e gridi una sola parola: “Zurücktreten!”: “Indietro!”, proprio come su un marciapiede di stazione all’arrivo del treno. (La contraddizione con la sua frase più nota: “der liebe Gott steckt im Detail”, è solo apparente: prima di focalizzarsi sui dettagli, si deve avere acquisito un’immagine del tutto). Orbene, quest’isola è tagliata (o è tagliata fuori) per stare indietro: da qui, la forma maestosa del vulcano può essere ammirata nel contesto del paesaggio circostante – così come i pellegrini di Hokusai potevano ammirare il Fujiyama avvicinandosi da lontano. Questo doppio detachment ha permesso a Gombrich, proprio perché non aveva conosciuto Warburg di persona, di rivisitare e rivalutare l’opera dell’uomo Warburg sullo sfondo del milieu a lui contemporaneo e nel contesto della ricerca a lui posteriore.
Qualcosa come questo (mi dispiace che non posso offrirvi diapositive a colori) è una delle frequenti vedute da vicino di Warburg. Noi, i suoi figli, vivevamo troppo vicino al cratere per poter sempre visualizzare il maestoso profilo della montagna; ma abbastanza vicino per sentire la terra tremare sotto i nostri piedi; per gettare uno sguardo occasionale nel cratere bollente; abbastanza vicino per aver paura o esser nervosi, e quando i nervi cedevano, ancor peggio: un po’ insensibili. E questo affiorare dei nostri nervi a fior di pelle ci meritava amari epiteti dalle sue labbra, quando apparentemente non riuscivamo ad apprezzare il suo ritorno dall’inferno della sua malattia; il miracolo di vivere con un revenant non dai morti ma dalla follia. Non penso, tuttavia, che questo fuoco fu sprecato con noi: ci diede luce, illuminazione, a volte accecante, a volte gloriosamente risplendente; e per questa luce le cicatrici di qualche scottatura furono il prezzo adeguato da pagare. Come direbbero gli olandesi: “Dat moet je daarvoor over hebben” [1].
Questa diapositiva mostra una sezione trasversale degli strati a fianco di un vulcano giapponese (non il Fujiyama stavolta; con i colori dell’illustrazione da cui è tratta, farebbe un’impressione ancora più forte): mentre si sforza di far breccia attraverso gli strati di pietra solidi e stolidi che lo ostacolano, il vulcano non può fare a meno di spingerli, sforzarli e piegarli in forme serpentine. È un miracolo che, di solito, non si spezzino del tutto (talvolta, naturalmente, accade). Gli strati orizzontali in cima mostrano una stratificazione normale, dopo che il vulcano è divenuto estinto (o dormiente – non si sa mai). Hanno un’apparenza un po’ meno eccitante, ma ispirano molta più sicurezza [2].
“Symbol tut wohl”, il simbolo fa bene, era un warburgismo, una variazione su uno slogan pubblicitario allora onnipresente “Carmol tut wohl” (penso che si trattasse di una medicina che prometteva di curare quasi tutto). Permettetemi, alla luce di questo slogan, di espandere la mia digressione simbolica per qualche altro momento: sapete che i vulcani non sono solo distruttivi ma spesso – a tempo debito – anche fruttuosi. L’immediato impatto di un’eruzione vulcanica sulla vegetazione più vicina è, naturalmente, non favorevole; ma col tempo può essere estremamente fertilizzante. Molti anni fa, mentre dipingevo sulle pendici dell’Etna (se pure a rispettosa distanza) fui colpito da un nome sulla mappa, di un villaggio a metà strada su per la montagna, chiamato Linguaglossa; che significa, espresso pleonasticamente in greco e latino: lingua. Non vedete la poderosa lingua di lava incandescente che scorre giù per il declivio, lasciando agli abitanti appena il tempo di fuggire verso la valle? Appena la rimbombante glossolalia del cratere si interrompe, gli abitanti, stoicamente e fiduciosamente, ritornano ai ruderi del loro vecchio paese, aspettando pazientemente che la lava si disintegri e fertilizzi i loro vigneti temporaneamente bruciati. Qualche pezzo di lava disintegrata, attaccato alle radici della Biblioteca, trasferita da Saxl e da Gertrud Bing, si combinò in maniera sommamente propizia con buon humus indigeno inglese, e ha già provato la sua fruttuosità per più di trent’anni – possa la benedizione di questa mescolanza durare a lungo!
Ora l’ultimo aperçu simbolico: non è strano che il vulcanismo, la forza più dinamica, pericolosa, inquietante in geologia, finisca per consolidarsi nella forma di montagne di gran lunga più regolare? Coni di precisione quasi stereometrica? La maggior parte del lavoro in corso in questo edificio (incluso il mio) non è fatto dal fuoco, ma è fatto dall’acqua, da un processo di stratificazione. Perché no? Non vi è nulla di male con l’acqua. L’ordine lucido di questa Biblioteca, i cinque strati dei nostri piani, gli ordinati tricolori che contrassegnano i dorsi dei libri – tutto sembra riflettere un processo di nitida stratificazione. A prima vista, non lasciano intravedere il fuoco che li ha creati. Ma tutti coloro che sono penetrati più a fondo in questo cosmo, in questo lucidus ordo, non possono fare a meno di avvertire qualcosa dei tremori che hanno condotto alla sua creazione da un caos incandescente. E per questo lavoro era necessario un paradosso: che il vulcano dovesse essere, allo stesso tempo, un sismografo – o, per passare dal fuoco terreno a quello celeste, che dovesse essere allo stesso tempo fulmine e parafulmine. Gli studi di Warburg sulle danze magiche degli indiani americani, sul serpente come simbolo del fulmine, sono, come il professor Gombrich ci ha ricordato, il suo solo studio pubblicato in inglese (nel “Warburg Journal” del 1939 vol. 2 no. 4). Un numero limitato di estratti è ancora disponibile – ho letto lo studio di nuovo, ricordando […] di mio padre ai suoi figli: “Ihr seid mir lange nicht neugierig genug!”: “per me non siete neanche lontanamente abbastanza curiosi”. Aveva ragione, come al solito o spesso, ma allora: la nostra curiosità era talvolta diretta in altre direzioni.
C’erano casi in cui avremmo potuto restituirgli il rimprovero: tentai invano di fargli leggere Hölderlin, per ovvie ragioni: 1) creò in versi (e prosa?) di incomparabile bellezza e purezza, a partire da un’esperienza profondamente intima, un olimpo di sua creazione; e 2) dopo l’ultima fase di questa creazione estatica, il suo fuoco si spense; gli sopravvisse, fisicamente, per quasi quarant’anni, mentre le ceneri gloriose di questo fuoco a volte si ravvivavano con un lieve bagliore.
Il poema frammentario [3] che leggerò risale alla sua ultima fase estatica, ma termina con un triste postscriptum aggiunto dalle ceneri. Non è facile da comprendere, e per questo ho distribuito copie stampate che potrete leggere a casa. Il suo tema è – per metterlo nei termini più prosaici possibili – la missione del poeta come parafulmine, come intercettatore del fuoco celeste:
Denn sind nur reinen Herzens,
Wie Kinder, wir, sind schuldlos unsere Hände,
Des Vaters Stral, der reine versengt es nicht
Und tieferschüttert, eines Gottes Leiden
Mitleidend, bleibt das ewige Herz doch fest.
“Aber das ewige Herz blieb nicht fest”, il cuore eterno non rimase saldo, si spezzò sotto il suo messaggio, fu bruciato dal fulmine intercettato. Così egli aggiunse più tardi queste tristi parole [4]:
Doch weh mir! wenn er nahet — doch weh mir! wenn von —
Und sag ich gleich — Ich sei genaht die Himmlischen zu schauen,
Sie selbst sie werfen mich tief unter die Lebenden
Den falschen Priester ins Dunkel, dass ich
Das warnende Lied den Gelehrigen singe.
Né rimase saldo il cuore di Aby Warburg; fu bruciato dal suo messaggio vulcanico. Durante la sua malattia, interpretò la sua sofferenza come una vendetta dei sinistri demoni che aveva tentato di esorcizzare. Diversamente da Hölderlin, per un miracolo (quale a ragione lo considerava) guarì: “Das Herz festigte sich wieder”.
La terribile eruzione vulcanica aveva rilasciato il […] del fuoco sotterraneo, e per pochi anni ancora la terra si rilassò e calmò sotto i suoi piedi, un pianeta da calpestare di nuovo in sicurezza e libertà – durante il suo anno italiano, perfino con una serena felicità, che aveva sperimentato prima solo in rari momenti.
Coloro tra noi che hanno conosciuto Gertrud Bing si pongono e si pongono a vicenda, tristemente, sempre di nuovo la domanda: perché questa determinata […] persona non riuscì a scrivere la biografia di Aby Warburg? Perché Saxl, dopo un […] fu incapace di finire il suo […]?
A parte le […] dei temperamenti personali, i più tra noi pensano che per chiunque abbia sottostato all’incantesimo personale di Warburg per lungo tempo il distacco dello storico è impossibile; così è per me. È per questa ragione, con il […] consiglio di mia sorella, che mi sono deciso per una pubblicazione di carattere principalmente documentario. Spero che mi auguriate fortuna. Ne ho bisogno.
La spiegazione […] del Prof. Gombrich è la benedizione del distacco ma – lasciatemi ripetere – combinato con un senso di empatia insolito, basato (dovremmo aggiungere) su una tradizione orale estremamente vivida tramandata da Saxl e Bing, e alcuni altri […].
Che cosa dire di coloro che restano tra voi, la maggioranza di questa comunità di studiosi? Quel che ho da offrire non sono, per favore credetemi, […] ma riflessioni molto esitanti: va bene, penserete, e allora? Quali conseguenze logiche o pratiche dobbiamo trarre dalle sofferenze di questo indemoniato, vulcanico fondatore?
Per quel che riguarda il fuoco vulcanico, basterà una semplice meditazione cosmologica: talvolta penso che le grandi scoperte scientifiche a partire da Copernico siano conosciute in astratto ma psicologicamente incomprensibili. A dispetto di Copernico, Keplero, Galilei e Giordano Bruno, il nosto “Weltbild”, la nostra immagine mentale del mondo, è ancora così geocentrica e, specialmente, antropocentrica come lo era prima. Anche dopo aver gettato uno sguardo profondo e vertiginoso su nel cielo, non possiamo fare altro che ritornare al nostro minuto pianeta, piagato da quella strana infezione della pelle che si chiama vita, ivi inclusa per alcune centinaia di migliaia di anno una creatura che cammina su due gambe e pensa che può pensare. Che dire del vulcanismo? Della consapevolezza acquisita che il terreno su cui camminiamo è solo una epidermide piuttosto sottile di un nucleo di fuoco incandescente? Ebbene, le eruzioni vulcaniche (altrove, naturalmente) ci ricordano temporaneamente di questo fatto, che sarà presto dimenticato dalla nostra immaginativa (o piuttosto non immaginativa) memoria.
Che cosa dire dei patimenti vulcanici di Aby Warburg – i suoi e quelli inevitabilmente inflitti ai suoi prossimi? In due casi avrebbe sofferto invano: 1) se tutti noi dovessimo soffrire di nuovo lo stesso tormento, e 2) se lo dimenticassimo del tutto. Nel mezzo sta l’empatia del Prof. Gombrich; con quel dono possiamo sentire che ha sofferto per noi.
Non desidero né sono scientificamente preparato a fare commenti sulla malattia mentale di mio padre. Quello che è chiaro è che la sua radice era un timore patofobico della malattia – che è una malattia di per sé, che forse nutre malattie cosiddette “reali”, cioè fisiche. Ma qui è uno dei paradossi della sua natura: quest’uomo fisicamente pieno di paure era mentalmente l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto. Aveva in altissimo grado quella qualità che a Bismarck faceva tremendamente difetto nei suoi tedeschi: Zivilcourage. Se ci fossero stati più tedeschi come questo molto consapevole ebreo tedesco, ci sarebbero stati risparmiati gli orrori del nazismo e la nostra seconda guerra. Per porre ancora più enfasi su questo punto, vi offro, in aggiunta alla poesia di Hölderlin, copie della Preghiera di Zoroastro di H. v. Kleist.
Ciò che vi avrei mostrato, se mi fossi mantenuto fedele al mio proposito dichiarato, è un’altra caratteristica di Warburg: il suo fedele amico e alleato Franz Boll scrisse un meraviglioso piccolo saggio sulla Vita contemplativa. Warburg non era un uomo esclusivamente contemplativo. Per quanto pensare fosse il suo mestiere, la vita activa [5] aveva un ruolo importante nella sua esistenza. In lui entrambi gli aspetti della vita erano inseparabili. La tensione di questa polarità era la sua maledizione e, molto di più, la sua benedizione – e la nostra, se possiamo imparare da lui. Possiamo – e dovremmo? A partire dal fallimento della missione di Platone in Sicilia, il re-filosofo o il filosofo-re non è più apparso. Ora ne abbiamo bisogno più che mai. Dovremmo tutti ritirarci dalla politica perché non è il nostro mestiere? O, se siamo inadatti all’azione, non dovremmo almeno a volte recitare la preghiera: “Tauet, Himmel, den Gerechten – Wolken, regnet ihn herab!”?
Ed ecco un’ultima polarità: Warburg combinò una visione universale cosmica con la sua ricerca di Dio nel dettaglio. Nel dettaglio, oggi, il nostro Dio non può lamentarsi di venir negletto. Ma chi è ancora capace della grande visione dell’Uno e Tutto – ἓν καὶ πᾶν? Permettetemi di concludere con una confessione e un avvertimento, basati sulla mia esperienza personale. Stranamente, quando avevo sedici anni, il terribile crollo improvviso di mio padre e della patria provocò in me come un lampo precisamente questa visione, ἓν καὶ πᾶν; questo lampo fu incendiato dal fuoco di Eraclito di Efeso, per quanto la mia mente immatura poteva allora afferrarlo. Questa visione è da allora svanita, anche se mai completamente. Ma mi ha distolto dal dedicarmi alla ricerca continua in un unico campo. Qualunque sia la direzione: certo non conduce al successo su questa terra. Con l’epilogo di Goethe al Werther, vorrei dire: “Sei ein Mann und folge mir nicht nach!” – Dov’è la sintesi? Il suo luogo, se mai, può essere, e spesso è, in questo istituto: ci permette di vedere Dio nel dettaglio, ciascuno nel suo proprio settore; quando ci capita di essere introdotti nei settori dei nostri vicini possiamo, almeno a intervalli, vedere il contorno dell’enorme cerchio a cui essi tutti appartengono.
Permettetemi di concludere con una frase che, molti anni fa, ho trovato in Plotino: agli occhi del mistico der Denkraum, lo spazio del pensiero, che l’illuminista laboriosamente espande, si riduce di nuovo a nulla:
Οὺ γὰρ μακρὰν οὐδὲ πόρρω οὐδενὸς οὐδέν
Poiché nulla è distante o remoto da nient’altro.
Notes
1. Traduzione italiana approssimativa: È quel che hai da fare.
2. Il dattiloscritto finisce qui.
3. Si tratta di Wie wenn am Feiertage, che Max Adolph legge nella versione fissata da Norbert von Hellingrath nella sua edizione, come è possibile stabilire sulla base del verso da lui modificato. Nel manoscritto manca tuttavia per intero il testo di Hölderlin, che Max Adolph aveva evidentemente intenzione di distribuire al pubblico, così come nel caso di Pascoli e Kleist. Ricopio solo i vv. 61-65 da F. Hölderlin, Sämtliche Werke, a cura di N. von Hellingrath, Berlin 1923, vol. 4, 153, di cui offro di seguito una traduzione, anch’essa nei termini più prosaici possibili: “Poiché siamo puri di cuore, / Come fanciulli, noi, sono innocenti le nostre mani, / Il fulmine del padre, il puro, non brucia / E scosso nel profondo, di un dio la passione / Compatendo, rimane però saldo il cuore eterno”.
4. Anche qui vi è una lacuna nel manoscritto, che riempio con una delle varianti registrate da Hellingrath nel suo apparato (335): “Ma ahimè! quando egli si avvicina — ahimè! quando da — / E dico subito — Sono incline a guardare i celesti, / Son loro stessi a gettarmi giù tra i viventi / Il falso sacerdote nell’oscurità, così ch’io / Il canto che ammonisce a chi apprende canti”.
5. Sulla facciata corrispondente: “politica”.
English abstract
Davide Stimilli presents the first English edition of the lecture given by Max Adolph Warburg on the occasion of the centenary of his father’s birth in 1966. The text has so far only appeared in Stimilli’s Italian translation entitled Per il centenario della nascita di Aby Warburg in the monographic issue of the magazine “aut aut” (“aut aut” 321-322, maggio-agosto 2004, Aby Warburg, La dialettica dell'immagine, 173-183), but is still unpublished in the original language. This text, written and never read to an audience, paints a portrait of Aby Warburg’s explosive intellect and influence, which Max Adolph poetically associates with disruptive volcanic activity. This issue of Engramma includes both the original English and an updated Italian translation.
keywords | Max Adolph Warburg; Aby Warburg; Mary Hertz; Gertrud Bing; Fritz Saxl; Ernst Gombrich.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: D. Stimilli (a cura di), “Aby Warburg era un vulcano”
Max Adolph Warburg, conferenza per il centenario della nascita di Aby Warburg (1966), “La Rivista di Engramma” n. 211, aprile 2024, pp. 109-121 | PDF