"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

215 | agosto 2024

97888948401

Herlitzka, Lucrezio, la morte

In memoriam

Damiano Acciarino

English abstract

Lo scorso 31 luglio, a Roma, scompariva Roberto Herlitzka. Chi scrive spera di offrire, con un estratto che nelle intenzioni prelude a un lavoro più ampio, un minimo tributo a uno straordinario poeta.

Céleste Boursier-Mougenot, clinamen v.2, 2012.

Herlitzka e Lucrezio

La natura di Lucrezio di Roberto Herlitzka, uscita a stampa nel 2019 con le cure di Raul Mordenti per i tipi della Nave di Teseo, è una tra le più belle e originali traduzioni poetiche in lingua italiana del grande cantore dell’epicureismo latino. Inedita fino all’ottantaduesimo anno d’età del suo autore, che dichiarava di avervi cominciato a lavorare durante il liceo classico, a partire, cioè, dagli anni ’50 del secolo scorso, raccoglie la versione italiana in forma poetica dei primi quattro libri del De rerum natura. Tangibili dalle pagine del dattiloscritto, donato, auspice Alberto Gianquinto, alla Biblioteca Universitaria di Tor Vergata, le durevoli cure che Herlitzka ha dedicato all’opera durante le pressappoco sei decadi di gestazione sono testimoniate dall’incessante limatura dei versi, evincibile anche dall’edizione diplomatica procurata proprio da Mordenti circa un decennio prima della pubblicazione in volume (Mordenti 2009a; 2009b; 2009c; 2009d; 2009e).

La storia del testo, nota nei suoi tratti salienti per via di alcune interviste rilasciate da Herlitzka in limine al risveglio d’interesse per questa sua traduzione, rispecchia a suo modo le scelte stilistiche compiute nell’allestimento dell’opera (Herlitzka 2019, 17-30). Composta in terzine dantesche, con una lingua all’apparenza arcaica – ma piuttosto pervasa di estro e freschezza pseudo-arcaizzante – rientra nel contesto di una cornice fittiva per cui sarebbe stata il frutto della sensazionale scoperta di un manoscritto di un Anonimo trecentesco, che aveva conosciuto Dante e la sua Commedia, e che dunque da Dante aveva assimilato i tratti maggiormente distintivi dello stile: il metro e la lingua.

Al di là della credibilità dell’invenzione – e pare che in alcuni casi questa storia sia stata anche presa per veridica – ciò che sorprende è il ritorno ciclico ma continuo dei legami tra Dante e Lucrezio, non fondati su consonanze culturali, ma su ideali affinità elettive derivanti dall’esito pressoché unico delle loro esperienze poetiche (Paratore 1960, 49 e 51). E questo non è un vezzo solo della critica moderna – come hanno già evidenziato gli studi di Ivano Dionigi e Alessandra Magnoni circa il volgarizzamento tardo ottocentesco del Vanzolini (Dionigi 2000, 365-380; Magnoni 2002, 13-46) – ma affonda le radici addirittura alle meditazioni del Varchi sulla costruzione di un canone poetico post-bembiano (Andreoni 2004, 179-231), donde Lucrezio era utilizzato come analogon per sostenere la riammissione di Dante a seguito della proscrizione delle Prose della volgar lingua

Nel contesto delle contemporanee riscritture lucreziane (Alfano 2011), quello che fa Herlitzka, tuttavia, è molto diverso e, a suo modo, molto più ardito di quanto fatto da ogni altra versione poetica, che, certo, poteva registrare per interpretare Lucrezio, frequenti o meno, memorie o immagini dantesche – ciò, a dire il vero, dovrebbe essere ripensato alla luce di una variabile mai veramente considerata, ossia l’influsso arcadico: da Alessandro Marchetti in avanti, primo traduttore italiano del De rerum natura uscito a stampa (riguardo l’intera dinamica culturale si vedano Prosperi 2004 e 2022, e nello specifico Saccenti 1992), l’Arcadia diventa vettore privilegiato mediante il quale ogni memoria letteraria, incluso Dante, poteva essere inferita.

Herlitzka ha reso possibile che tra due autori, cui la storia della tradizione ha imposto viaggiassero su rette parallele destinate a non incontrarsi mai, si verificasse un incontro impossibile. Rimando a futuri studi la mappatura sistematica della presunta presenza dantesca nell’opera di Herlitzka. Qui basti dire che l’autore si pone nei confronti del modello e dell’originale in maniera demiurgica: a dispetto di quanto sostenuto da Emilio Pasquini, che parla di una ‘dantificazione’ di Herlitzka (Pasquini 2020, 215) nonostante l’allestimento di un catalogo di ipotetiche voci dantesche che sembra provare quasi il contrario, di Dante permane più l’aura che la parola.

In un’intervista curata da Mauro Reali, Milo De Angelis, uno dei più recenti interpreti poetici di Lucrezio, ha dichiarato di aver instaurato un “rapporto dialettico” con due tra i suoi più noti antesignani, Luca Canali e Luciano Perelli – i cui lavori, verosimilmente, ne popolavano la scrivania durante la lunga attività di traduzione (Reali 2023; De Angelis 2005 e 2022; Bertoni 2020, 221-237). Tale rapporto è stato già delineato da Elena Coppo, almeno nel caso di Canali, in tutte le sue discrepanze (Coppo 2022), tralasciando però forse l’assunto che proprio una traduzione con cui si instaura una dialettica possa trasformarsi in un elemento attivo nella cifra poetica dell’autore, anche in negativo, in ragione cioè di scelte in esplicito contrasto con essa. Questo, forse, si potrebbe dire anche di Herlitzka, che invece affermava di esser guidato solo dall’ispirazione e dalla sorpresa alimentata dal contatto diretto col testo latino (Herlitzka 2019, 27). Tuttavia, bisogna pur concedere che anch’egli leggeva Lucrezio da un libro, probabilmente con testo italiano a fronte, e che il suo sguardo, sebbene di rado, possa pur avervi talvolta indulto. Se un libro c’era, doveva con tutta probabilità essere una delle varie edizioni de Il Poema della Natura, versione poetica di Lucrezio condotta da Pietro Parrella ([1936] 1941), peraltro in arditi esametri barbari – forse l’ultima vera traduzione poetica completa del Novecento italiano: nel dattiloscritto di Herlitzka, la numerazione dei versi latini, che accompagna in parentesi quadre e di cinquanta in cinquanta quella degli endecasillabi, coinciderebbe proprio con quella di Parrella (Mordenti 2009a). Ma, a un primo sguardo, si resta delusi: pochi labilissimi elementi suffragano un dialogo con questo testo, forse giusto l’ispirazione di farla in versi poetici.

Nel cortometraggio Cose naturali (2010), diretto da Germano Maccioni e interpretato dal medesimo Herlitzka, alcuni dei versi della sua traduzione di Lucrezio impreziosiscono la sceneggiatura che sovrappone le vicende di un vecchio ormai incompreso dalla famiglia, infatuato di una donna più giovane, e la cui morte è percepita come sempre più prossima, con quelle della biografia del poeta latino secondo la versione di San Girolamo (Citti 2017, 85). Al minuto 12:27-36, un dialogo tra l’amante del vecchio e il nipote esibisce le seguenti battute:

A. È un’opera, l’ha scritta tuo nonno Lucrezio […]
B. Mio nonno non si chiama Lucrezio.

E poco dopo, tra i minuti 14:57 e 15:34, il medico che prende in cura il vecchio, scorrendo le carte che gli vengono attribuite, ne riconosce la paternità lucreziana, distinguendola ancora distintamente da quella del suo autore, al punto da definirlo un impostore, un “contaballe”.

Se si volesse estrapolare questi due segmenti e metterli in relazione con quanto detto finora e con quanto si vedrà a breve dall’analisi circostanziata di alcuni passi, si potrebbe dire che Herlitzka non è Lucrezio, e l’opera che scrive non è il De rerum natura: una cosa è l’originale, una cosa la traduzione, secondo l’ormai acquisito postulato dell’inattuabilità della traduzione poetica. Herlitzka, piuttosto, tra Lucrezio e Dante, si approssima a entrambi, senza tuttavia assimilarsi a nessuno dei due fuochi di questa sua ellissi letteraria: pur presentandosi in apparenza come alter Lucretius e ‘altro Dante’, forse, proprio grazie al lavoro simultaneo sui due poeti, alla contaminazione della loro sensibilità in uno stile nuovo, quivi Herlitzka approda a un risultato senza precedenti, ‘altro da Lucrezio’ e ‘altro da Dante’.

La morte

Segue un saggio di commento di quattro sintetici passi di Lucrezio secondo la riscrittura di Herlitzka, tutti riferibili al III libro dell’opera, il libro sulla morte.

Lucr. III, 830-831
Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum,
quandoquidem natura animi mortalis habetur.

RH III, 1108-1110
Dunque perciò che dobbiam ritenere
che l’anima è mortal la morte a noi
è nulla e nulla ne può pertinere.

Forse uno dei passi più celebri del De rerum natura, quello della morte che per l’uomo non ha alcun tipo di rilievo, proprio in ragione del materialismo universale che investe indistintamente anche l’ambito psicologico. Il distico lucreziano trova una sintetica e naturale trasposizione nello svolgimento di un’intera terzina. A ben guardare la traduzione italiana rovescia la disposizione dei versi latini, anticipando la proposizione causale, che in Lucrezio arriva a corollario didascalico di una perentoria affermazione che conclude la lunga e pregressa digressione fisico-biologica. Invertendo l’ordine delle proposizioni, ma mantenendo invariato quello dell’avverbio igitur / ‘dunque’, Herlitzka crea un effetto di sospensione che ritarda la formulazione della sentenza ma ne rafforza lo slancio. Se l’ordo verborum sembra mutato in termini di posizione, dal punto di vista semantico si serba: il nos latino, collocato nel cuore del verso, al quarto piede con accento appena anteriore alla cesura, viene trasposto in luogo d’analogo rilievo, al centro della terzina, nel verso mediano, in clausola, e con la funzione di avviare la rinnovata serie di rime in -oi. Lo stesso vale per le figure etimologiche. Le due forme mors e mortalis, che in Lucrezio risultavano agli antipodi del distico, con intento dissimulatorio, in Herlitzka vengono ricongiunte esplicitandone l’espressivo poliptoto; che con la formula ‘[l’anima] mortal la morte [a noi]’, se non dal punto di vista grammaticale, di certo da quello fonico richiama il dettato del di poco successivo mortalem vitam mors immortalis ademit (Lucr. III, 869 = RH III, 1160-1161: “abbia già spento / morte immortale il vivere mortale”). Allo stesso modo, il sottile gioco etimologico condotto da Lucrezio con l’epanadiplosi nil / hilum (Ernout-Meillet 1951, 294-295), viene colto e ripristinato da Herlitzka non solo sul versante lessicale, ma anche su quello retorico mediante la sublime anadiplosi della voce ‘nulla’. Tale sottigliezza rispecchia una sensibilità nei confronti del testo dimenticata nelle moderne traduzioni – che optano sempre per una variazione (e.g., ‘nulla’ / ‘affatto’, Parrella e Canali; ‘nulla’ / ‘minimamente’, Milanese) – ma ben presente nelle antiche, a partire proprio dal Marchetti (1717, 164), che leggeva: “Nulla dunque è la morte e nulla all’uomo / appartenersi può, poiché mortale / è l’alma […]”. Un’ultima considerazione circa i verbi: Lucrezio usa pertinet e habetur che ben suppliscono alla necessità didascalica dei versi, quasi con giuridica perentorietà. Herlitzka, invece, pur operando un calco sul latino con ‘pertinere’, praticamente un hapax nella lingua poetica, escogita l’elegante soluzione, peraltro in rima ricca di carattere etimologico, ‘ritenere’.

  • * * *

Lucr. III, 830-831
Multo igitur mortem minus ad nos esse putandumst,
si minus esse potest quam quod nil esse videmus;
maior enim turba et disiectus materiai
consequitur leto nec quisquam expergitus exstat,
frigida quem semel est vitai pausa secuta.

RH III, 1108-1110
Credasi dunque che morte è di molto
meno per noi, se puote essere meno
di quel nulla che abbiamo dianzi al volto.
Mai come in morte la materia il pieno
di sue turbe disperde, né si alzò
ridesto alcuno che una volta il freno
già della vita gelido arrestò.

Dopo il lungo catalogo di casi per cui il passato, e dunque la morte, non possono avere effetto alcuno sull’uomo, come fosse, con una similitudine già socratica (Plat. Ap. 40c-d), un sonno senza sogni, segue questo gruppo di versi che ribadisce, con parole diverse, ma con lo stesso tono di massima ancestrale, quanto già stabilito nel precedente estratto, la cui continuità si fa patente anche dal ritorno di ad nos a centro del verso (continuità confermata dal mediano Lucr. III, 845: nil tamen est ad nos; cfr. Bailey [1947] 2001, 1135): una volta occorsa la morte, i legami con la vita e le sue sensibilità si esauriscono in maniera irriducibile; la morte è anzi anche meno rilevante del sonno, perché da essa non ci si risveglia. Lucrezio trama i suoi versi di due potenti allitterazioni in /m/, MUlto + MOrtem + MInus (v. 926), dove l’iterazione di minus al v. 927 prelude alla seconda MAior + MAteriai (v. 928), e di una in /ex/, EXpersitus + EXstat (v. 930). Herlitzka coglie perfettamente questo impasto fonico e lo riproduce in modo fedele secondo le possibilità del verso italiano: ‘MOrte’ + ‘MOlto’ + ‘Meno’ (v. 1237-1238), dove la voce ‘meno’ è a sua volta raddoppiata con un’epanadiplosi, che, nonostante la forma raffinata, interrompe quella continuità lucreziana ripresa poi, ma con un verso di scarto, dal quadruplo ritorno del fonema /m/ con tanto chiasmo vocalico: ‘MAi’ + ‘cOMe’ + ‘MOrte’ + ‘MAteria’ (v. 1240). Si noti come Herlitzka traduca il v. 928 di Lucrezio con estrema sapienza: il maior incipitario è reso con l’equivalente etimologico ‘mai’, in senso rafforzativo, salvando così anche l’omografia in attacco. La voce ‘morte’, da Herlitzka replicata al v. 1240, nell’originale è leto, quindi scelta non etimologica, e serve a esplicitare il significato del sintagma perifrastico disiectus materiai, ossia la decomposizione degli atomi conseguente al decesso. L’allitterazione in /ex/, inevitabilmente, cade; Herlitzka, tuttavia, non rinuncia a inserirne una sostituiva ‘DISperde’ + ‘riDESto’ (vv. 1241-1243), con procedimento non dissimile da quanto operato, tra gli altri, proprio da Parrella ([1936] 1941, 203), che usa ‘DISpersi’ + ‘riDESta’ (vv. 928-929), e di recente da De Angelis (2022, 219), che opta invece per ‘DISpersione’ + ‘DISordine’ (vv. 927-928). Il ‘freno della vita’, che Herlitzka usa per rendere vitai pausa, cogliendo felicemente l’idea del fermarsi radicata nell’etimo di pausa (Ernout-Meillet 1951, 490), è già volgare e letterario, e.g., in G.B. Marino, Rime lugubri I, 5: “Quella che resse di mia vita il freno”. La scelta della voce ‘freno’ è legata alla traduzione del lat. frigida con ‘gelida’, che avrebbe altrimenti estinto il nesso fonico /fr/.

* * *

Lucr. III, 946-949
Si tibi non annis corpus iam marcet et artus
confecti languent, eadem tamen omnia restant,
omnia si pergas vivendo vincere saecla,
atque etiam potius, si numquam sis moriturus.

RH III, 1265-1270
E s’anco il corpo non ti si sfacesse
per gli anni stanco nelle membra frali
le cose rimarrebbero le stesse
ancora che il tuo vivere futuro
nei secoli dei secoli vincesse
e ancor che mai non fosse morituro.

Con questi versi Lucrezio chiude un discorso pronunciato dall’ipostasi della Natura, a rimprovero di coloro che, nonostante le constatazioni sulla mortalità dell’anima e sull’inutilità della paura della morte, ancora non si rassegnano ad abbandonare l’attaccamento alla vita, manifestandolo in un eccesso di piaceri, compenetrato di altrettanta amarezza, nell’inesorabile meccanica del γλυκύπικρον. La Natura personificata chiosa il suo discorso con un adynaton: se anche il corpo non deperisse o, addirittura, la vita fosse eterna, le dinamiche di piacere/sofferenza non sarebbero interrotte, in quanto la natura stessa, limitata nelle sue facoltà dalle leggi della fisica e della biologia, finirebbe per replicare quelle dinamiche in eterno, non liberando l’uomo dalle derivanti angosce. L’azione del deperimento del corpo e delle membra, resa da Lucrezio con l’endiadi marcet e languet (vv. 946-947), è sintetizzata da Herlitzka con il verbo ‘sfare’, cioè, ‘disintegrarsi’ (GDLI XVIII, 842), che, nella forma al congiuntivo imperfetto qui a testo, torna in clausola con senso identico ne La Spagna, poema cavalleresco del XIV secolo (XXVIII, 33, 2: “che pareva che ‘l mondo se sfacesse”). Il modulato scivolamento dal tono eroico al lirico è conferito al v. 1266, che legge ‘per gli anni stanco nelle membra frali’, dalla certa reminiscenza di Marino, Adone XIV, 173, 5: “quand'ei, già stanco alfin, le membra frali”, dove peraltro le parole rima sono proprio in -uro, come qui (il ‘securo’ del Marino [Adone XIV, 173, 2] coincide perfettamente con RH III, 1272). Comunque, la desinenza in -uro è funzionale a rendere fedelmente la clausola lucreziana moriturus (v. 949), creando patenti legami con l’originale, pur dissimulati sotto le spoglie della tradizione della poesia italiana. L’iterazione di omnia combinato anche con saecla, consente a Herlitzka di inserire il facile, ma altisonante, ‘nei secoli dei secoli’, garantendo l’adesione allo schema retorico del latino, così come accade con la marcata e prossima allitterazione lucreziana VIVEndo + VINCEre (v. 948), nella versione di Herlitzka distribuita su due versi (1268-1269: ‘VIVEre’ + ‘VINCEsse’).

* * *

Lucr. III, 970-971
Sic alid ex alio numquam desistet oriri
vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu.

RH III, 1303-1305
Così sempre fia il moto generante
cosa da cosa e mai nessun sarà
di sua vita signore, sempre l’usante. 

L’ultimo passo qui preso in esame è un distico del De rerum natura, che funge da chiosa al discorso sul rinnovamento delle forme della materia, nel costante e inevitabile alternarsi di nascita e morte, nella ben nota formulazione che sembra prefigurare la legge della conservazione della massa di Lavoisier. I due versi di Lucrezio presi qui in esame sono piuttosto semplici in termini di dettato e di contenuto: al primo in cui si constata la dinamica incessante del ciclo della vita, fa eco il secondo con il monito per cui la vita non è di proprietà degli uomini, ma è data loro in uso temporaneo, recuperando la massima ampiamente acquisita nella cultura greca e latina. I versi lucreziani hanno la particolarità di applicare un ostentato linguaggio giuridico, con la giustapposizione di manicipium e usus – il Bailey ([1947] 2001, 1156) ne elenca tutti i rimandi – ma che tutto sommato non crea problemi nella traduzione. Altre versioni poetiche, a cui si aggiunge il segno di cesura per far giustizia al metro, mostrano bene questo stato di cose:

Parrella [1936] 1941, 205
L’una da l’altra cosa || ognora avrà vita con vece
tale: in proprio a nessuno || è data la vita, ma in uso.

De Angelis 2022, 221
Gli esseri viventi non cesseranno || mai di nascere gli uni dagli altri.
La vita è data in prestito a tutti || ma non è proprietà di nessuno.

Di fronte all’apparente semplicità, che è poi una semplicità dettata dalla sintesi, Herlitzka invece sente l’impulso di complicare, prezzo necessario al fine di rendere questa sintesi esplicita. Quell’incessante originarsi delle cose l’una dall’altra, espresso dal numquam desistet oriri, è occasione per un richiamo diretto al clinamen del libro II, che avvia il grande turbine della creazione. Il sintagma ‘moto generante’ aggiunge al passo una iunctura non riscontrabile nell’originale: se c’è un legame semantico tra orior e gigno, e dunque ‘generare’, il termine motus è invece desumibile solo da elementi contestuali già precedentemente acquisiti – per capirsi, il ‘moto etterno’ degli ‘atomi volitanti’ che divenne “di grandi cose etterno fonte” (cfr. RH II, 1448-1467). E sebbene ‘moto generante’ sia formula acquisita, dal Settecento in avanti, dalla prosa scientifica, il riuso di Herlitzka è di certo poligenetico, al punto da caricarsi di un significato originale che solo in relazione a Lucrezio avrebbe potuto svilupparsi. Al v. 1304, Herlitzka traspone l’attacco del primo emistichio lucreziano (v. 970), alid ex alio = ‘cosa da cosa’, e, mantenendo la figura etimologica, evita l’abbassamento di registro su una lingua non colta, rendendo invece efficacemente l’afflato materialistico di cui il passo è circonfuso. L’ultimo verso (1305) è quello che evidenzia la più spiccata creatività: se ‘signore’ addolcisce e nobilita l’atto della proprietà assoluta indicata dal concreto manicipium, ponendo l’accento più sulla solennità della procedura che sul possesso in sé per sé, ‘usante’, con cui Herlitzka rende usu, e che De Angelis con una felice simmetria traduce ‘a prestito’, invece insiste sulla carica attiva dell’etica che, soprattutto da coloro i quali erano avviati alla filosofia epicurea, doveva essere interpretata in ragione dei precetti illustrati della fisica.

Riferimenti bibliografici
English abstract

Roberto Herlitzka’s La natura di Lucrezio, published in 2019, is one of the most elegant and original poetic translations of Lucretius’ De rerum natura into Italian. Herlitzka, who began this monumental work in the early 1950s, devoted nearly six decades to honing his translation of the first four books of Lucretius’ epic. The text appears to be influenced by Dante, with its archaic language and terza rima structure. Herlitzka’s translation, however, goes beyond mere stylistic homage, subtly reshaping the legacies of both authors. While evoking Dante’s aura, the translation remains uniquely Herlitzka’s, demonstrating a deep sensitivity to the Latin text and intricate poetic craftsmanship. This intersection of Lucretius and Dante ultimately results in a work distinct from both, reflecting Herlitzka’s transformative approach to classical translation.

keywords | Roberto Herlitzka; Lucretius; Dante; Poetic Translation; Epicureanism.

Per citare questo articolo / To cite this article: D. Acciarino, Herlitzka, Lucrezio, la morte. In memoriam, “La Rivista di Engramma” n. 215, agosto 2024.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.215.0029