"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

218 | novembre 2024

97888948401

“Pinga gli aviti eroi l’alma pittrice”

Riferimenti storico-artistici nella produzione poetica goldoniana

Elisa Forest

English abstract

Per quanto verosimilmente intrisa di un sottile sarcasmo e una velata umiltà, l’espressione con la quale Carlo Goldoni sceglie di presentare agli associati dell’edizione Pasquali la propria produzione poetica – “barzellette in verso, dette abusivamente poesie” (come riporta Giuseppe Ortolani nel volume dedicato alla Poesia, XIII, dell’Opera omnia di Carlo Goldoni, da qui, XIII) – sintetizza in modo schietto il pensiero del commediografo, senza lasciar spazio a particolari congetture. Nel corso della sua carriera, ancor prima di dedicarsi stabilmente al teatro, Goldoni si è ritrovato in più occasioni a comporre in versi per esercizio personale ma, soprattutto, su commissione; tuttavia, egli è sempre stato ben consapevole dei propri limiti come poeta, al punto da non esimersi da vere e proprie lamentele, esplicitate negli stessi componimenti. Come opportunatamente osservato da Franco Vazzoler – uno dei pochi studiosi ad affrontare la figura di Goldoni in veste di poeta – il suo stato di eterno dilettante non gli ha impedito di spaziare nella vastità di generi in voga nel suo secolo; nel corso della sua carriera, il poeta amatoriale aveva avuto modo di comporre in occasione di matrimoni, lauree e voti ecclesiastici, ma anche per raccontare episodi legati alla sua nuova quotidianità francese (Vazzoler 2013, 47). La variegata destinazione dei suoi lavori – la pubblicazione non era sempre il fine ultimo – aveva implicato una diversa diffusione del materiale, in parte circolato manoscritto oppure incluso in collane non strettamente legate alla celebrazione di Goldoni. Seppur precaria, tale condizione non doveva aver arrecato particolari rancori nel nostro, dal momento che non aveva mai espresso un chiaro ed esplicito desiderio di dare alle stampe i propri lavori. Se il volume dei Componimenti diversi è riuscito a vedere la luce sotto l’egida di Pasquali, il merito risiede in una promessa fatta agli stessi associati, i quali hanno ricevuto quel “dono assai miserabile” (Ortolani 1935-1956, XIII, 3) nel 1764.

1 | Bottega di Pietro Longhi,Rappresentazione di comici durante il Carnevale in Piazza San Marco, Venezia, Casa Goldoni (dettaglio).

Oltre a costituire una testimonianza della poliedricità della penna goldoniana, la produzione poetica documenta una chiara attenzione del nostro nei confronti dell’arte figurativa e della vita artistica del suo tempo, un interesse d’altronde già emerso nell’epistolario e nei testi teatrali. Forse in un modo più puntuale rispetto a quanto riscontrabile nelle lettere, i versi si rivelano fondamentali per comprendere le sue considerazioni in relazione alla ritrattistica e, in generale, alla pittura. Spogliandosi momentaneamente delle vesti di commediografo, il poeta non può esimersi dal trattare quell’arte che, in più occasioni, ricorda come sorella della propria. Tale relazione viene evidenziata, in particolar modo, nei versi de Le tre sorelle, scritti in occasione dell’unione matrimoniale che legò la figlia di Andrea Querini, Pisana, ad Agostino Garzoni nel 1761 (Ortolani 1935-56, XIII, 1032-1033). Nel componimento, oltremodo pomposo nei suoi continui riferimenti mitologici, Goldoni immagina un ipotetico viaggio sul Monte Parnaso, dimora delle nove Muse. Pare logico intravedere, in questo espediente mitico, le riflessioni condotte solo tre anni prima quando, nel tentativo di risollevare la propria situazione, il commediografo si era dimostrato intenzionato a presentare al suo pubblico una rosa di nove commedie, differenti tanto per il tema quanto per il metro utilizzato. Il progetto artistico delle ‘Nove Muse’, svalutato al punto dal pubblico da convincere il suo autore ad interrompere l’impresa, se portato a compimento, avrebbe così permesso di condensare “l’intera tradizione lirica italiana e il ventaglio relativo degli stili possibili” (Pieri 2019, 143).

Entrando nel tempio, il nostro nota immediatamente la presenza di altre fanciulle, ma l’intervento di Clio – un autentico sfogo sugli abusi della poesia – preclude al viaggiatore ogni tentativo di riconoscimento. Per dissuadere Goldoni a non seguire le orme dei suoi predecessori, la Musa lo invita a rivolgersi alle tre donne che le stanno accanto, rivelandone quindi l’identità. In egual misura, ciascuna con i propri mezzi, la Poesia, la Musica e la Pittura si offrono di celebrare gli sposi:

Pinga gli aviti eroi l’alma pittrice,
E dei viventi Poesia favelle;
Musica, ch’è dei cuor soave incanto,
D’Imeneo narri e di Cupido il vanto.
(Goldoni Le tre sorelle, 125-128)

Una volta rimasto solo con le tre sorelle, Goldoni invita una di loro a proferire parola, promettendo di non commentare in alcun modo le loro presentazioni; l’incapacità delle fanciulle di decretare la figlia primogenita – la prima, quindi, ad inaugurare la conversazione – innesta involontariamente un educato dibattito:

Move il labbro Pittura, e in dolce suono
Par che sen dolga Poesia repente,
Suore, dicendo, prima nata io sono,
Nel seno infusa del primier parente.
Musica sorge a domandar perdono
Alle suore gentili umilemente,
Dicendo: Pria di voi sott’altro velo
Fui tra le sfere e i cardini del Cielo.
(Goldoni Le tre sorelle, 145-152)

Dal momento che la discussione non pare giungere a esito alcuno, Goldoni rompe il proprio voto di silenzio, ponendo fine alla disputa. La primogenitura spetta, a suo giudizio, alla Pittura, vincitrice finale della gara e, pertanto, destinataria dei versi. È proprio lei, infatti, a riprendere il discorso, inaugurando così le lodi degli illustri famigliari degli sposi con la celebrazione del cardinale Angelo Maria Querini:

Musica e Poesia, malgrado al dritto
Di natura e del tempo, il loco han cesso
Alla colta Pittura; e a lo mio scritto
Dona ella prima lo favor promesso.
Ampia tela dispiega, e ‘l grande, invitto
Eroe mi mostra del roman consesso,
Il porporato ANGIOL MARIA QUIRINI,
Caro ai Veneti un tempo ed ai Latini.
Questi, dicea, prima d’ognun ti mostro
Della sposa fra gli avi illustri e chiari,
Questi che fu l’onor del secol nostro,
Che non ebbe in talento e in virtù pari.
Liberal d’oro, e di purgato inchiostro,
Per la fé, per la greggia e per gli altari
Vendicator delle dottrine offese,
De’ dotti amico, e protettor cortese.
Vedi gl’innumerabili volumi,
Ampio tesoro di sua man versato;
Riti, leggi, consigli, arti e costumi
Tratta, modera e illustra il porporato.
A Brescia volgi, colà pinta, i lumi,
Mira il gran tempio dal Quirini alzato:
La Maddalena, che il bel quadro onora,
Dei fedeli ‘n Berlin per lui si adora.
(Goldoni Le tre sorelle, 161-184)

Attraverso le parole di Pittura, Goldoni ricorda l’onorato servizio prestato dal religioso, menzionando in particolare i tentativi di riappacificamento con il protestantesimo tedesco (Bendiscioli 1982, 28) e, soprattutto, la ripresa del cantiere del Duomo Nuovo di Brescia. Nominato vescovo della città nel 1727 (Noack 1991, 28), Querini si era infatti subito prodigato a sostenere economicamente la costruzione dell’edificio e l’orgoglio nei confronti dell’impresa era stato tale da spingerlo a commissionare un ritratto commemorativo a Bernardino Bono. Nel Ritratto di Angelo Maria Querini, a figura intera, che indica i lavori di erezione del Duomo Nuovo, il porporato viene infatti immortalato nell’atto di indicare quanto avviene alle sue spalle, nella navata della chiesa, dove una squadra di operai dipinti “in punta di pennello” (Anelli 1982, 28) sta freneticamente conducendo i lavori di costruzione. La menzione a Berlino, invece, potrebbe alludere all’erezione della Cattedrale di Sant’Edvige, fortemente incoraggiata da Querini nella speranza di poter così convertire al cattolicesimo Federico II e, quindi, il popolo prussiano (Pudlis 2015, 85). L’attenzione di Goldoni si sposta, dunque, sul Senatore Piero Garzoni, bisavolo dello sposo e storiografo ufficiale della Serenissima (Ortolani 1935-1956, XIII, 1033, n.5), il quale, nella sua opera in due volumi Istoria della Repubblica della Venezia (1705-1716), era riuscito a condensare gli eventi occorsi tra il 1682 e il 1714:

D’un PIER GARZONI il venerando aspetto
La diva ostenta, e ne dipinge i vanti.
Mira, dice, l’eroe, le glorie eletto
Della patria a illustrar fra tanti e tanti,
Onde sorpassa ogni scrittor laudato
Col dir sincero e con lo stil purgato.
(Goldoni Le tre sorelle, 187-192)

Ritenendo di aver concluso i propri omaggi agli antenati degli sposi, la Pittura passa dunque la parola alla Poesia, affinché possa decantare le lodi dei loro illustri parenti ancora in vita; al nostro raccomanda di ascoltare e di trascrivere le parole pronunciate dalla sorella minore. Munito del “purissimo ‘inchiostro d’Elicona” (Goldoni Le tre sorelle, 228), Goldoni ricorda le gesta dei tre figli del Procuratore Giovanni – fratello, costui, del cardinale Angelo Maria –, i senatori Polo, Girolamo e Andrea Querini; di quest’ultimo ricorda, inoltre, la moglie Elena Mocenigo (Ortolani 1935-1956, XIII, 1033, n.10). Il commediografo non fa in tempo, però, a celebrare i parenti dello sposo, perché Musica attende impaziente il suo turno; ed è la terza sorella, per l’appunto, a riprendere gli omaggi della famiglia Garzoni.

Gli omaggi agli artisti veneziani contemporanei

Confermandosi un attento osservatore del suo tempo, Carlo Goldoni non è rimasto insensibile innanzi agli sviluppi pittorici del panorama veneziano, ma al contrario ha contribuito a portarli alla luce, celebrando gli artisti anche nella produzione poetica. Tra i pittori della sua contemporaneità, Goldoni non può esimersi dal riservare una menzione d’onore a Pietro Longhi, beneamato artista ma soprattutto suo caro amico, con il quale ha condiviso da sempre un’intensa passione per l’autentica rappresentazione della vita quotidiana [Fig. 1]. Tale comune interesse è sfociato in un accostamento continuo dei due artisti, ciascuno maestro nel proprio campo; se a Ferdinando Galanti, con il suo volume del 1882, non spetta il primato, in ogni caso la sua resta, quantomeno, una testimonianza lampante di quello che, nel corso dei secoli, assume quasi il tono di un cliché letterario:

Immortali quadretti di genere sulla vita popolare veneziana ci ha lasciato […] il nostro poeta nelle sue commedie in dialetto; e immortali quadretti, pieni di civetteria il Longhi, uno dei maestri della pittura di genere (Galanti 1882, 376).

Sebbene consolidato al punto da risultare quasi abusato – solo André Chastel, nel suo saggio sul Settecento veneziano, si è discostato sostituendo momentaneamente Molière a Goldoni (Chastel 1960, 225) – tale paragone non risulta affatto infondate. È difficile, infatti, non rivedere negli interni rappresentati da Longhi nei suoi ‘quadretti’ quegli ambienti rievocati da Goldoni nelle commedie (Ajello 2001, 190) e così brillantemente immortalati nei rami - opera, questa, di Pietro Antonio Novelli - a corredo delle edizioni Pasquali e Zatta. Proprio come nelle opere longhiane, anche nelle incisioni viene rappresentata “la vita quotidiana, colta nei suoi momenti più banali, quelli in cui non sembra succedere nulla [...]. Vita quotidiana dunque nella sua dimensione domestica, e anche nella sua dimensione mondana” (Molinari 1993, XXXI).

Nonostante l’indubbia vicinanza, Ernesto Masi aveva specificato una differenza sostanziale nella resa che i due maestri avevano dato – ciascuno a modo suo – della loro contemporaneità. A suo giudizio, se il commediografo era riuscito a portare in scena la società veneziana nella sua varia stratificazione sociale, arrivando quindi a eleggere come protagonisti tanto i patrizi quanto i popolani, la sua controparte aveva rappresentato questi ultimi solo “in attitudine di servilità verso i patrizi, in attitudine di mercanti e di bottegai, o in quella più frequente di pubblico” (Masi 1887, 610). Non solo, agli albori del ventesimo secolo c’è stato chi, come Roberto Gavagnin, aveva osato collocare l’innovazione portata dai due maestri nelle rispettive arti su due piani differenti, riconoscendo “pel primo di essere stato […] il rigeneratore del teatro italiano, e pel secondo il perfezionatore della pittura” (Gavagnin 1909, 8-9). Anche Philip L. Sohm, nel suo celebre saggio Pietro Longhi and Carlo Goldoni: Relations between Painting and Theater, ha avuto da ridire sulla resa della società contemporanea oggetto d’interesse di entrambi, arrivando a sostenere che lo sguardo di Goldoni è stato molto più preciso e obiettivo rispetto a quello della controparte (Sohm 1982, 258). Tale affermazione potrebbe essere facilmente smentita; l’estremo realismo che caratterizza l’operato di entrambi ha comportato, infatti, una sentita immedesimazione del pubblico. Come riportato anche da Sohm (Sohm 1982, 263-264), lo stesso Goldoni, nella prefazione della celebre commedia La bottega del caffè presente nel primo tomo dell’edizione degli eredi di Bernardo Paperini nel 175), aveva infatti riportato:

Questa Commedia ha caratteri tanto universali, che in ogni luogo ove fu ella rappresentata, credevasi fatta sul conio degli originali riconosciuti. Il Maldicente fra gli altri trovò il suo prototipo da per tutto, e mi convenne soffrir talora, benché innocente, la taccia d’averlo maliziosamente copiato. (Goldoni La bottega del caffè, 74)

Di Longhi, invece, Pietro Guarienti ricordava, nell’edizione da lui curata dell’Abecedario pittorico di Pellegrino Antonio Orlandi del 1753, la capacità di rappresentare “conversazioni, giochi, ridotti, maschere, parlatori, con tal colorito ed evidenza, che a prima vista risconosconsi le persone ed i luoghi rappresentati” (Guarienti, Orlandi 1753, 427) [Figg. 2-3]. Pietro Gradenigo, in una nota del 3 settembre 1760 presente nei suoi Notatori, lo aveva invece ricordato come un “Pittore per attitudini naturale, e parlanti caricature” (Livan 1942, 62). Alla luce delle riconosciute difficoltà di emergere come pittore di storia, il più giovane dei Longhi, Alessandro, aveva sottolineato nel suo Compendio scritto tra il 1762-1763 la scelta del padre di “dipinger in certe piccole misure civili trattenimenti, cioè conversazioni, riduzzioni, con ischerzi d’amori, di gelosie: i quali, tratti esattamente dal naturale, fecero colpo” (Longhi Compendio, 31) e aveva menzionato, inoltre, i quadretti raffiguranti figure con indosso una maschera, “così al vero espresse nei loro naturali andamenti che sono conosciute anco sotto la maschera”. Ad ogni modo, nonostante la premessa iniziale, Sohm ha voluto focalizzare la sua attenzione su Longhi, ipotizzando fosse stato quest’ultimo ad aver ispirato il commediografo e non l'opposto (Sohm 1962, 258).

2 | Pietro Antonio Novelli, Intestazione con vignettae Illustrazione di una scena de ‘La donna di maneggio’dell’edizione Pasquali delle Commedie di Carlo Goldoni,1761, Venezia, Museo Correr.
3 | Pietro Longhi, Il Ridotto, 1750, Venezia, Museo del Settecento di Ca’Rezzonico.

Non è possibile decretare con certezza il momento in cui Goldoni ha conosciuto Pietro Longhi, ma è verosimile pensare che i due avessero avuto modo di entrare a contatto grazie alle comuni dipendenze nei confronti di Giovanni Grimani. Evocata con costanza tanto dagli storici dell’arte quanto dagli studiosi di ambito prettamente teatrale, la poesia Del sig. dottor Carlo Goldoni fra gli arcadi Polisseno Fegejo al signor Pietro Longhi veneziano celebre pittore è da sempre ritenuta il manifesto del rapporto tra i due maestri e, per quanto concerne l’argomento trattato, si può ritenere l’espressione più limpida dell’interesse artistico goldoniano. I versi, qui riportati per intero, sono comparsi per la prima volta in una raccolta composta in occasione delle nozze di Giovanni Grimani e Caterina Contarini, svoltesi nel 1750.

Longhi, tu che la mia Musa sorella
Chiami del tuo pennel che cerca il vero,
Ecco per la tua man, pel mio pensiero,
Argomento sublime, idea novella.
Ritrar tu puoi vergine illustre e bella,
Di dolce viso e portamento altero:
Pinger puoi di Giovanni il ciglio arciero,
Che il dardo scocca alle gentil donzella.
Io canterò di lui le glorie e il nome,
Di lei la fè, non ordinario vanto;
E divise saran fra noi le some.
Tu coi vivi colori, ed io col canto:
Io le grazie dirò, tu l’aure chiome:
E del suo amor godran gli Sposi intanto.
(Goldoni A Pietro Longhi, 1-14)

La chiave per decrittare il significato del sonetto – per quanto concerne la metrica, è evidente l’utilizzo di rime incrociate nelle quartine e incatenate nelle terzine (Vazzoler 2013, 54) – si colloca nei primi due versi. Lo stretto legame tra la propria arte – si riferisce, in questo caso, alla poesia – e la pittura venne ribadito nel già menzionato componimento Le tre sorelle, redatto per il senatore Querini, pertanto tale accostamento non dovrebbe risultare del tutto incoerente. Il secondo verso, invece, lascia intendere una comprensione, da parte del nostro, dell’indirizzo intrapreso da Longhi nella seconda parte della sua carriera. Non sentendosi pienamente attratto dai soggetti sacri – repertorio prediletto dal pittore veronese Antonio Balestra, al quale doveva la prima formazione –, Longhi aveva accolto il consiglio del maestro e aveva quindi abbandonato la laguna a favore di Bologna, luogo natio e sede operativa di Giuseppe Maria Crespi, detto lo Spagnolo. Presso il suo studio, il pittore veneziano era entrato a contatto con “un genere più consono alle sue attitudini, quel genere che egli doveva immortalare facendolo suo” (Ravà 1923, 3) dipingendo quindi quelle scene tratte dalla vita quotidiana che hanno finito per renderlo celebre (Petitti 1988, 728) e, soprattutto, il beniamino dell’alta società della laguna (Del Negro 1993, 225). Adriano Mariuz, nel contributo Pietro Longhi: ‘un’originale maniera…’, ha messo in dubbio l’apprendistato di Longhi presso la scuola dello Spagnolo, ipotizzandolo un tentativo, messo in atto dal veneziano, di “nobilitare il suo curricolo di studi” (Mariuz 1993, 34); è indubbia, tuttavia, per lo meno una consapevolezza del genere pittorico praticato dal bolognese.

Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni studiosi, desiderosi di innalzare in qualche modo la figura del commediografo, quest’ultimo non ha mai sentito il bisogno di privare l’amico pittore dei giusti meriti; a suo giudizio, anche se in modalità differenti, ambedue le arti potevano in ugual misura contribuire alla celebrazione degli sposi, guadagnando un’equa ricompensa morale. Ciascuno con la propria arte, i due maestri erano così riusciti a intentare una simile riforma, dimostrandosi “in ugual modo contrari sia ad un generico manierismo che alle bizzarrie irreali” (Moschini 1956, 52). Come opportunatamente riassunto da Filippo Pedrocco:

Il racconto della vita quotidiana è alla base della riforma teatrale proposta da Carlo Goldoni e dunque è questo il nesso che lega tra loro questi due personaggi: la comune volontà di narrare, ciascuno con i mezzi espressivi che gli erano più consoni, il vero, la realtà. Non più le maschere della commedia dell’arte per il Goldoni, quindi, non più gli eroi della storia e della mitologia per il Longhi; per entrambi solo la narrazione realistica dei fatti (Pedrocco 1993, 24).

È importante notare che il titolo della poesia longhiana ha costituito, altresì, la prima occasione pubblica in cui il commediografo aveva avuto modo di menzionare la propria adesione all’Accademia dell’Arcadia – in particolare, alla colonia Alfea – con la quale era entrato in contatto nel corso del soggiorno pisano svoltosi tra il 1744 e il 1748 (Cicali 2019, 52). In base a quanto riportato nei Mémoires, dal carattere decisamente aneddotico, il primo approccio con l’Accademia era stato del tutto dettato da una fortunata casualità. Annoiato dalla vita solitaria – “la Cathédrale très-riche en marbres et peintures, le clocher singulier qui penche extrêmement en dehors, et paroît droit en dedans” (Goldoni Mémoires, I, 220) ben presto avevano cessato di suscitare in lui del fascino – Goldoni aveva raccontato di essersi imbattuto nella corte interna di un palazzo, movimentata da un andirivieni di persone. Una volta chiarito il motivo di tale confusione – un uomo alla porta gli aveva spiegato che in quella sede si riunivano, per l’appunto, i membri della colonia Alfea – e ottenuto il permesso di accedere al palazzo, al nostro era bastato presentare un sonetto giovanile, leggermente ritoccato sul momento, per essere accolto alle riunioni (Goldoni Mémoires, I, 221). Dopo diverse sere di assenza, delle quali viene rimproverato, era stato proprio il Vicecustode della colonia, Ranieri Bernardino Fabri (o Fabbri) – cancelliere dell’Ordine di Santo Stefano, notaio e poeta dilettante (Morelli Timpanaro 2005, 170) –, a conferirgli il diploma che attestava la sua appartenenza all’Accademia. Solo allora, per riprendere le parole di Goldoni, “Tous alors me saluerent, en chorus, sous le nom de Polisseno Fegeio, et m’embrasserent en qualité de leur Compasteur et de leur Confrere” (Goldoni Mémoires, I, 224). Tale successo, come si avrà modo di vedere, ha fornito al nostro nuove occasioni di poetare e di mettere alla prova, così, un’arte a cui non osò mai sentirsi del tutto vicino.

All’acuto sguardo di Goldoni non è potuto sfuggire, naturalmente, il talento dell’allora giovanissimo figlio di Pietro, Alessandro Longhi, celebrato negli endecasillabi Del ritratto di un piovano esposto in occasione d’ingresso. Come giustamente riassunto nel titolo, i versi ricordano la pubblica esposizione del ritratto di don Francesco Scudieri, di recente nominato parroco della chiesa veneziana dell’Angelo Raffaele (Ortolani 1935-1956, XIII, 409). La menzione all’opera di Alessandro Longhi giunge, come comprensibile, solo a seguito dell’elogio nei confronti di Scudieri:

Oh come al vivo la venerabile
Soave immagine del vostro volto
Dipinse in tela pennel laudabile!
Se al quadro nobile l’occhio ho rivolto
Veggo il ritratto somigliantissimo,
E quasi a sciogliere le voci ascolto
(Goldoni Del ritratto di un piovano, 43-48)

4 | Alessandro Longhi, Ritratto di Carlo Goldoni, olio su tela, 1750 ca, Venezia, Casa di Carlo Goldoni.

Coerentemente con quanto lamentato nell’epistolario, Goldoni si sente quasi in dovere di ribadire come, al momento della realizzazione di un ritratto, per un artista fosse inderogabile rispettare il criterio della somiglianza nei confronti della persona effigiata. A quanto risulta dai versi, l’opera longhiana è riuscita a onorare tale richiesta:

Opra è cotesta del valentissimo
Prudente giovane del LONGHI figlio,
Non men del padre singolarissimo.
In età pien di consiglio
De’ più provetti sorpassa i termini;
E invidia miralo con torvo ciglio.
Per commendarlo non trovo i termini:
Cotanto è celebre nella bell’arte:
Non trovo elogio, che mi determini.
Se in lui considero a parte a parte
Le tinte vivide, il bel disegno,
Le grazie facili nel quadro sparte;
In lui ritrovasi ferace ingegno,
Atto a fermare nel cielo adriatico
Dell’arte nobile l’antico regno.
Nel somigliare cotanto è pratico,
Che le sue opere chi attento mira
Gli originali ravvisa estatico.
A farsi celebre soltanto aspira,
Fugge i romori del tristo secolo
Modestia insolita dal volto spira.
Io che i costumi del Mondo specolo
Veggendolo umile fra tanto gloria
Senza ragione non mi transecolo
Nemico acerrimo di vana boria
Le grandi laudi non vuol ricevere
Per far più semplice la sua memoria.
Ma quel diletto, che ha nel dipingere
La mano seguita dell’uom valente
E a miglior opre lo vedi accinge.
In dì brevissimi rapidamente
Tanti ritratti da lui si esposero,
Che resta attonita la dotta gente.
Così le stelle di lui disposero,
Pittor lo vollero, pittore è nato,
Ed i suoi studi vi corrisposero.
Il saggio ed ottimo Nogari ornato
Fu il precettore del giovin tenero,
E il suo discepolo lo ha pareggiato
(Goldoni Del ritratto di un piovano, 50-86).

Nel conferire al più giovane dei Longhi un’origine quasi mitica – furono le stelle, addirittura, a volerlo pittore – si potrebbe quasi affermare che, con la presente poesia, Goldoni è riuscito a rendere maggiormente la stima nei confronti dell’operato di un artista. Nonostante ciò, egli non manca di riconoscere il ruolo guida di Giuseppe Nogari, il secondo grande maestro di Alessandro dopo il padre e co-fondatore dell’Accademia di Belle Arti, la cui costituzione si dovette all’anno precedente il componimento (Pallucchini 1994, 578). Tale era il rispetto nei confronti di Alessandro da mutare opinione rispetto a quanto espresso nella lettera del 30 ottobre 1764 destinata al marchese Francesco Albergati Capacelli, nella quale aveva lamentato come neppure Longhi fosse stato in grado di tradurre fedelmente il suo viso in pittura (Ortolani 1935-1956, XIII, 578) [Fig.4]. A differenza dei tentativi attuati dagli altri artisti menzionati – tra essi spiccano, per certo, Giambattista Piazzetta e Lorenzo Tiepolo – il ritratto longhiano, da identificarsi nell’opera conservata nella sua casa d’infanzia (Delorenzi 2011, 17), è riuscito nell’apparentemente impossibile impresa di immortalare con verosimiglianza l’effigie del commediografo:

Oh caro LONGHI, se anch’io vi venero,
Se con voi spiegomi con dell’amore,
Dall’onestate mia non degenero.
Voi dipingendomi con quel valore
Con cui solete far le vostre opere
Alla mia immagine si rese onore.
Or se la mano da voi si adopere
Per il degnissimo nuovo pievano
Deh permettete, ch’io vi coopere.
E che alla cetera ponendo mano
L’originale lodando in cantici
Anche il ritratto non lodi in vano.
Ma già nel tempio col fiato i mantici
Destan nell’organo l’allegro suono,
E i ceri allumano i piromantici.
Entro col popol divoto, e prono,
U’ dal pievano gl’inni si cantano,
E intanto gli uomini, che di fuor sono
Del bel ritratto l’opra decantano
(Goldoni Del ritratto di un piovano, 88-106).

La stima nei confronti di Longhi padre viene altresì rinnovata in un altrettanto celebre componimento poetico, Il Burchiello. Stanze veneziane, (Ortolani 1935-1956, XIII, 316) redatto in occasione delle nozze tra Alvise Priuli e Lucrezia Manin nel 1756 e poi dato alle stampe, una volta revisionato, da Giambattista Pasquali (Vazzoler 2013, 56). Com’è noto, la poesia si sofferma in modo particolare sulla celebrazione delle liete villeggiature a Bagnoli presso la tenuta di Lodovico Widmann. La menzione del pittore, in realtà, è stata un pretesto per celebrare un secondo maestro meno conosciuto ma, a giudizio del nostro, non meno abile nel rappresentare in modo autentico la società contemporanea. Non è difficile credere che, nelle opere di Andrea Pastò, Goldoni sia riuscito a scorgere una visione del mondo vicina alla propria (Sohm 1982, 259). La menzione giunge solo dopo un esauriente resoconto del tragitto percorso dal burchiello – l’imbarcazione che, per l’appunto, dà il titolo alla poesia – lungo il fiume Brenta, sicuramente reso più piacevole al lettore per la vivida descrizione delle personalità dei passeggeri (Vazzoler 2013, 56):

Recita qualche volta anca Andreetta,
Che ha depento el scenario allegro e bello:
Zovene che de tutto se deletta,
Che gh’an han, che gh’ha voggia, e gh’ha cervello.
E va protesto che da lu s’aspetta
Cosse che farà onor al so penello
Sul far de Pietro Longhi, e al parer mio
Andreetta Pastò ghe corre drio.
Anche lu el cerca verità e natura,
Le so figure le xe là parlanti;
E co se tratta de caricatura,
I so quadri xe vivi; e somiglianti.
Del disegno se vede la bravura,
col colorito no se va più avanti,
E più prove ghe xe de quel che digo,
In casa VIDIMANA e MOCENIGO
(Goldoni Il Burchiello, 337-252).

Allo stato attuale degli studi, poche sono le notizie sul pittore accostato a Pietro Longhi; quelle disponibili, in linea con quanto riassunto da Goldoni nel sopracitato componimento, sono strettamente legate a uno dei suoi soggiorni a Bagnoli, nel padovano, presso la villa di Ludovico Widmann.

5 | Andrea Pastò, Ricevimento in villa Widmann a Bagnoli, olio su tela, Collezione Francesco Baglioni, 1755 ca., Bergamo, Accademia Carrara.
6 | Andrea Pastò, Ritratto di gruppo della compagnia del teatro di Bagnoli nel salone di villa Widmann, 1777ca., collezione privata.

Di origine dalmata, Alessandro Andrea Pastò aveva cominciato ad esercitare l’arte pittorica proprio durante l’ingaggio presso il nobile, al quale risulta legato quantomeno dal 1745 (Magani 1989, 81). A giudicare da quanto è stato possibile ricondurre al suo catalogo, composto perlopiù da scene di genere, il contesto di villeggiatura dev’essere stato un’importante fonte d’ispirazione per il novello artista. Prima ancora di entrare in contatto con l’arte di Pietro Longhi, è verosimile pensare siano state le statue del giardino della villa di mano di Antonio Bonazza a suscitare in lui un interesse nei confronti delle rappresentazioni di vita popolare. Delle più di trenta opere realizzate da Bonazza con ogni probabilità tra il 1740 e il 1742 (De Vincenti 2015, 101), Pastò dev’essere rimasto particolarmente colpito dalle sedici sculture disposte a coppie lungo il viale principale, tra le quali spiccavano – tra uomini e donne orientali – figure imbellettate di filatrici, suonatori, contadini e fattucchiere corteggiate da vecchi innamorati (Semenzato 1957, 52). Discostandosi dall’opinione comune, volta a ricondurre la commissione delle sculture a Lodovico, Monica De Vincenti, nel suo intervento Antonio Bonazza e l’ingresso della ‘scultura di costume’ nel giardino della villa veneta, ha invece voluto ipotizzare un diretto coinvolgimento del padre, Giovanni IV Widmann (De Vincenti 2015, 100). Ad ogni modo, tale programma iconografico – fortemente debitore dei soggetti ripresi da alcuni intermezzi teatrali veneziani (De Vincenti 2015, 106) – è stato reinterpretato dal pittore in una delle stanze del primo piano, in due affreschi parietali “dal sapore decisamente campagnolo, nonostante i costumi di alcuni personaggi” (Furlan 1978, 128). Essi raffigurano da un lato un Ballo campestre, dove una compagnia di amici si lascia andare alla frenesia della musica, e dall’altro un Idillio a tavola, dove una coppia di fidanzati amoreggia tra le felicità e la noia di chi non può più godere della gioventù (Magani 2010, 89-91). Nel loro complesso, i personaggi sono molto simili alle donne e agli uomini di Bonazza, tanto per l’abbigliamento quanto per gli atteggiamenti. Nel suo Burchiello, tuttavia, Goldoni non ha fatto riferimento agli affreschi in questione, bensì allo scenario dipinto da Pastò per il piccolo teatro della villa, piacevole sollazzo voluto dal Conte per sé e i suoi ospiti in perfetta linea con l’atmosfera della villeggiatura. Il pittore non si era limitato a realizzare la scenografia, ma si era ritrovato persino a calcare le scene, prendendo parte a una delle tante rappresentazioni teatrali fortemente volute dal proprietario. Nel suo teatro, collocato al piano superiore della villa (Mancini, Muraro, Povoledo 1988, 202), Widmann accoglieva chiunque fosse in possesso di un invito consegnato dagli stessi attori, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza e senza alcuna pretesa remunerativa (Mancini, Muraro, Povoledo 1988, 29). Ospite in più occasioni – sicuramente nel 1754, nel 1755 e nel 1757 (Semenzato 1957, 52) –, Goldoni ricorda nei Mémoires quest’attività incoraggiata e organizzata da Widmann:

Ce Seigneur riche et généreux amenoit toujours avec lui une société nombreuse et choisie; on y jouoit la Comedié; il y jouoit lui même; et tout sérieux qu’il étoit, il n’y avoit pas d’Arlequin plus gai, plus leste que lui (Goldoni Mémoires, I, 359).

È stato proprio questo contesto a permettere ad Adriano Mariuz di ricondurre ad Andrea Pastò – dopo un’iniziale attribuzione a Pietro Longhi – il dipinto a olio dal titolo Ricevimento in villa Widmann a Bagnoli conservato all’Accademia Carrara [Fig. 5] (Mariuz 1956, 198). Non solo, nel quadro, rappresentante un cospicuo gruppo di personaggi dalle condizioni sociali più variegate, lo studioso ha voluto rivedere lo stesso Goldoni nell’uomo imparruccato posto esattamente al centro, tra le due donne dai vaporosi abiti chiari. D’altronde, egli non solo aveva fornito i canovacci per gli attori dilettanti, ma aveva persino finito per prendere parte alle loro rappresentazioni teatrali, cedendo alle richieste della compagnia; una concessione, com’egli ebbe ben modo di sottolineare, di cui si subito si era pentito per le prese in giro che ne seguirono (Goldoni Mémoires, I, 359). Nonostante gli spiacevoli commenti, il commediografo non si era risparmiato dal lusingare il gruppo di nobili attori, arrivando persino ad affermare – tanto nel Burchiello quanto nella dedica a Widmann anteposta a La Bottega del caffè – come la loro bravura superasse quella di chi svolgeva il mestiere di professione (Vescovo, Miggiani 1994, 12-13). Sebbene nel dipinto di Bergamo manchi l’atmosfera satirica che aleggiava negli affreschi, ad accomunare le opere presentate è la volontà di indirizzare l’occhio dello spettatore sui visi dei personaggi; obiettivo, questo, raggiunto dal pittore grazie al leggero aumento delle dimensioni delle teste (Mariuz 1976, 198). Un puntuale riscontro dei piacevoli sollazzi teatrali messi in atto dai villeggianti di Bagnoli è stato individuato da Annalia Delneri in un quadro da lei stessa attribuito, per la “definizione fisionomica dei personaggi e le caratteristiche stilistiche” (Delneri 2008, 175), alla mano di Pastò. L’impressione che si ha osservando il dipinto, rinominato Ritratto di gruppo della compagnia del teatro di Bagnoli nel salone di villa Widmann, è di aver quasi interrotto la frenesia tipica delle prove di una recita [Fig. 6]. Raccolta nel luminoso salone della villa, un’eterogenea compagnia di attori sta seguendo, infatti, le direttive dell’uomo sulla sinistra. Tra le mani, l’uomo stringe un copione, lo stesso tenuto in grembo dalla donna che gli sta di fronte, da identificarsi in Quintilia Widmann; alle sue spalle, con l’indice rivolto verso l’improvvisato regista, siede lo stesso Goldoni. Estraneo alla rappresentazione è, invece, Lodovico Widmann, intento a giocare a carte al tavolino collocato sul lato destro del quadro (Delneri 2008, 178).

7 | Andrea Pastò, Allegoria nuziale per Orsetta Giovannelli Bonfadini, affresco, ante 1761, Palazzo Bonfadini Vivante, Venezia.

8 | Andrea Pastò, Allegoria nuziale per Pietro Bonfadini, affresco, ante 1761, Palazzo Bonfadini Vivante, Venezia.

Finora è stato possibile accertare solamente l’interesse di Pastò di rappresentare – non senza una buona dose di ironia – i momenti di fuga dei suoi contemporanei, fatti di feste, divertimento e corteggiamenti (Magani 1989, 81). In realtà, ed è Goldoni stesso a rivelarlo nel componimento poetico redatto in occasione delle nozze tra Pietro Bonfadini e Orsetta Giovanelli del 1761: In occasione de’ felicissimi sponsali fra Sua Eccellenza il signor Pietro Bonfadini e Sua Eccellenza la signora co. Orsetta Giovanelli. Capitolo a Sua Eccellenza il signor Giovanni Bonfadini senatore prestantiss. e fratello dello sposo, il pittore aveva avuto modo di dar prova di sé anche come pittore di immagini allegoriche. Rivolgendosi al fratello dello sposo, Giovanni Bonfadini – dedicatario de Il vecchio bizzarro e anch’egli attore dilettante della compagnia di Bagnoli (Ortolani 1935-1956, XIII, 1037) – il commediografo aveva chiesto la possibilità di visitare il palazzo di famiglia a San Geremia, dov’era stato allestito l’appartamento per la sposa. Ciò che lo aveva colpito dell’edificio, e che aveva quindi decantato nella poesia, erano proprio le opere del talentuoso pittore conosciuto in villeggiatura:

Piacquemi fuor di modo l’argomento
Da ANDREA PASTÒ per adornar la volta,
Pinto con arte e magistral talento.
Vidi Fecondità nel mezzo accolta
Da Salute, Concordia ed Allegrezza,
E Gioventude in lieti panni avvolta;
E alla mia testa, a meditare avvezza
Sulle immagini vere e naturali,
Parve un tal pensamento una bellezza.
Qual simbolo miglior per gli sponsali
Oltre fecondità trovar si puote,
Frutto delle dolcezze coniugali?
Valoroso PASTÒ, di cui son note
Le bell’opre dipinte in tela e in muro,
Or somma laude la tua man riscuote,
Poiché col tuo pennel franco e securo
Non mostri sol l’abilità pittrice,
Ma un ben sapresti presagir futuro.
O amabile gentil sposa felice,
Alzate gli occhi della stanza al letto.
Mirate degli eroi la produttrice;
E badate il pittor maliziosetto
Come fa che la dea l’impegno tolga
D’esser il nume tutelar del letto
(Goldoni Felicissimi sponsali Bonfadini Giovanelli, 55-78).

L’opera a cui il nostro fa riferimento è stata predisposta da Pastò, come accennato, per uno dei due soffitti delle camere contigue che componevano l’appartamento di Orsetta Giovanelli, situato al secondo piano del palazzo [Fig. 7] (De Feo 1995, 71). In un cielo tinto dei colori pastello – non è un caso che l’affresco sia stato avvicinato all’ambiente tiepolesco – le allegorie si adagiano su soffici nuvole, accompagnate da giocosi amorini o dai loro attributi di competenza. Nel descrivere l’opera, suddivisibile metaforicamente in tre zone parallele e contornata da stucchi dipinti, Goldoni si rivela piuttosto fedele nel rispettare l’ordine dato dalla disposizione dei personaggi. Partendo dall’apice, quattro angioletti – quasi in combutta tra loro – sorreggono il drappo rosato sul quale giace, poco più in sotto, la Fecondità, alla quale un puttino dona una corona di fiori. Procedendo in direzione della zona centrale, spicca una coppia di allegorie, sedute in posizione speculare. Sulla sinistra, avvolta in una veste rosa e celeste che le lascia scoperto il seno, Salute stringe in mano il suo caduceo, mentre con la mano libera richiama il gallo alla sua destra; dall’altra parte, invece, Allegrezza solleva la sua coppa dorata in un brindisi. In ultimo, nella zona inferiore, dal cumulo di rocce su cui siede, Giovinezza osserva le allegorie soprastanti, ignorando completamente la Concordia, rappresentata da una coppia amoreggiante, custode del cuore che simboleggia la loro unione e, per estensione, quella degli sposi (De Feo 1995, 72).

Roberto De Feo, nel contributo presente nel volume Palazzo Bonfadini-Vivante, ha ricondotto a Pastò, per attinenza stilistica, anche il soffitto della stanza adiacente [Fig. 8], di cui però Goldoni non proferisce parola in poesia. L’affresco ovale rappresenta un numero più contenuto di allegorie e una carenza a livello qualitativo per quanto concerne la resa. A spiccare sono certamente le due allegorie alate sulla sommità, rispettivamente Virtù – il giovane sulla sinistra, con il sole raggiante appuntato all’altezza dello sterno – e il Matrimonio, mentre più in basso, leggermente in penombra, compare il Merito con in mano un corno dorato identico a quello retto dalla prima allegoria (De Feo 1995, 73). La presenza dei simboli del casato Bonfadini – un libro, l’elmo, la spada e lo scudo – retti, assieme un medaglione, da un puttino, permettono di ipotizzare che la camera fosse quella dello sposo. Un’ultima traccia certa dell’operato del pittore è visibile, infine, nelle Poesie edite e inedite de Lodovico D. Pastò venezian scrite nel so natural dialeto, una raccolta di componimenti poetici redatta nel 1806 dal figlio di Andrea, Lodovico Pastò. Cresciuto sotto l’egida dei Widmann – da piccolo era stato tenuto a battesimo proprio da Lodovico Widmann, del quale porta il nome –, una volta conseguita la laurea nel 1767, il più giovane Pastò si era trasferito a Bagnoli, seguendo le orme del padre (Menegazzo 1982, 13). Nel volumetto, Lodovico ha voluto omaggiare l’arte paterna anteponendo al ditirambo El vin friularo de Bagnoli una vignetta da lui firmata, raffigurante Bacco bambino seduto su una damigiana, colto nell’atto di brindare con una coppa di vino. Accanto a lui, un puttino visto di schiena alza una brocca contenente, con ogni probabilità, la stessa bevanda (Pastò 1806, 7). Allo stato corrente degli studi, non esistono altre opere attribuibili con certezza alla mano di Pastò, specie in relazione a Longhi padre; resta pertanto aperta la questione abbozzata da Rodolfo Pallucchini, il quale parve aver letto il suo nome inciso in un albero di un “paesaggio dolciastro d’intonazione zuccarelliana” (Pallucchini 1960, 191) presente in una collezione privata. Ad ogni modo, in base alle notizie riportate da Giuseppe Ortolani 1935-1956, la carriera di pittore giunse a breve tempo a conclusione, a favore della gestione degli affari del Widmann (Ortolani 1935-1956, XIII, 1038, n.7).

Se è stato quantomeno possibile tentare di ricostruire la figura di Andrea Pastò, riconducendola a un numero esiguo di opere, dell’attività di Francesco Calapo resta poco altro oltre ai versi goldoniani e una fugace annotazione dello stesso, nella quale l’uomo viene ricordato come “Pittore conosciuto in Venezia, e bastantemente abile per tai lavori” (Ortolani 1935-1956, XIII, 623, n.a). Il nome del pittore è stato menzionato un’unica volta nella produzione del nostro, in una lunga poesia volta a celebrare la monacazione – la settima in famiglia e la quinta versificata da Goldoni – di Lucia Milesi che, abbandonato il nome datole alla nascita, aveva scelto di chiamarsi Cecilia: Per Suor M.a Cecilia Milesi che deposto il nome di Lucia veste l’abito di s. Domenico nel nobile esemplarissimo Monistero del Corpus Domini (Ortolani 1935-1956, XIII, 1027). Dopo alcune digressioni di carattere personale, dove tra l’altro non manca di sottolineare la scarsa volontà di scrivere il componimento, il poeta mette in atto un vero gioco d’immaginazione. Cogliendo l’occasione data dal trasferimento che egli stesso stava vivendo in quel momento, Goldoni finge di guidare il pittore nell’abbellimento delle mura della nuova dimora, redigendo un vero e proprio programma iconografico a sfondo religioso. Solo così può far confluire, in un unico testo, le proprie preoccupazioni relative ai lavori di sistemazione della casa e la commissione di Milesi:

Vedo el pitor che el portego desegna,
Digo: El desegno ve lo vôi dar mi.
Un’idea ve darò, che sarà degna
De la bravura del vostro penelo,
E sior CALAPO d’eseguir d’impegna.
Digo, tireve in qua, caro fradelo;
Su sto teler de la mazor fazzada
Qualcossa certo s’ha da far de belo
(Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 53-60).

Per la facciata principale, egli suggerisce di rappresentare proprio la novizia come “un’anzoleta, / Despogiada dei abiti mondani, / Che se vede a vestir da munegheta” e, nel caso in cui fosse avanzato dello spazio, consiglia di raffigurare “là in quel canton qualcun de queli / Che ghe dispase vederla in quei pani” (Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 79-84). Evidentemente memore delle rappresentazioni allegoriche viste a Palazzo Bonfadini, Goldoni prescrive al pittore di rappresentare i tre voti dell’ordine domenicano scelto dalla Milesi – carità, povertà e obbedienza – con i rispettivi attributi, dimostrando non solo una buona conoscenza iconografica, ma anche un notevole senso critico che lo porta a suggerire delle correzioni da apportare al bisogno:

La prima [Carità] coronè de cinamomo,
Con un crièlo in man d’acqua giazada,
E Amor soto ai so pi depresso e domo.
So che la Povertà vien figurada
In t’una dona che somegia a un mostro,
Lacera, meza nua, desfigurada.
Sto desegno no serve al caso nostro:
Umile se depenze, e penitente,
La volontaria povertà del chiostro.
L’Obedienza se fa comunemente
Con un cargo sul colo, e al Ciel rivolta,
E se ghe mete un cagnoleto arente
(Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 91-102).

Goldoni prosegue dunque con i suoi consigli, passando alle pareti successive. Per la prima pensa a “una puta in orazion racolta. // E bute zoso, in aria de despeto, / El Demonio, la carne e el mondo indegno / Che tentarla voria, ma senza efeto” (Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 105-108), per ribadire le virtù della monaca. Per la seconda camera, invece, prepara una vera e propria apoteosi delle sorelle Milesi, ciascuna vestita degli abiti dei rispettivi ordini religiosi. Snocciolato in un copioso numero di versi, il programma goldoniano – tanto preciso quanto contorto da decifrare – predispone sette scale, una per ciascuna sorella, unite dal comune obiettivo di raggiungere la Gloria celeste. Ad attenderle sulla sommità, i santi più vicini alla congregazione religiosa di appartenenza: sant’Elia, santa Teresa e la Madonna per le cinque Carmelitane scalze, san Benedetto per la sorella votata all’ordine benedettino di Torcello e infine san Domenico per suor Cecilia, vestita per il Corpus Domini e munita di rosario. In ginocchio ai loro piedi, stretti alle tonache delle monache, i genitori e i fratelli maschi, in lacrime per la scelta compiuta. Infine, per la controfacciata suggerisce di rappresentare proprio il portale del convento, dove immagina la novizia colta nell’atto di accedere metaforicamente “Senza voltarse indrio, contenta e lieta / Per l’acquisto d’un ben che la bramava” (Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 143-144). Lasciando intendere una sorta di desiderio dello stesso Francesco Calapo di ricevere ulteriori direttive, i consigli pittorici del poeta si estendono anche agli ambienti adiacenti; al pittore, apparentemente, viene concesso un margine di scelta per quanto concerne la disposizione del programma iconografico. L’impressione che si riceve scorrendo i versi, poi confermata, è di leggere il resoconto di una conversazione tra il poeta e il pittore svoltasi durante uno studio dal vivo della casa. Per la propria camera, Goldoni pensa da un lato alla classica raffigurazione del crocifisso e dall’altro alla Madonna del Rosario, accompagnata da Cristo bambino, da san Domenico e da tutti i santi che professarono la sua regola; verosimilmente a incorniciare l’affresco, gli stemmi papali e il decalogo, oltre alle raffigurazioni allegoriche della Fede, la Speranza e l’Amore Divino. Per il soffitto, invece, pensa a una schiera angelica, nel cui centro spiccano una santa – è probabile pensare a Teresa – e la Trinità, vincitrici sulla figura demoniaca; in basso, una monaca inginocchiata in atto di preghiera ai piedi di Cristo. L’attenzione di Goldoni si sposta dunque in direzione della sala da pranzo, optando per un’iconografia coerente e adatta alla funzione: un tavolo abbastanza grande da ospitare un numero cospicuo di consorelle – felici e fragorose, dal momento che la badessa ha concesso loro di interrompere il silenzio – alcune sedute e altre intente a servire il pasto. Tra di loro, a Calapo viene richiesto di porre particolare attenzione alla novizia. In seguito, il poeta passa agli ambienti adiacenti alla cucina stessa, dove un gruppo indaffarato di monache – c’è “Chi sbate i vovi, chi tamisa o impasta, / Chi porta un cesto, e chi parecchia un drappo” – sta preparando i buzolai, dolci della tradizione veneta, tra critiche e assaggi nascosti:

Fe una golosa che sgrafigna e tasta;
Una che diga: In verità i xe boni;
Un’altra schizzignosa, che contrasta.
Una che vaga disponendo i doni,
L’altra sui cest fazza i boletini,
E sul più grando che ghe sia: GOLDONI
(Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 199-204).

Tutti gli utensili necessari alle monache per preparare i dolci, così come gli armadi per riporli una volta terminato il processo, si trovano dipinti alle pareti. Prima di congedarsi, Goldoni non manca di completare il suo programma iconografico suggerendo una soluzione per la terrazza. Con quell’ironia che lo caratterizza, il nostro consiglia al pittore di rappresentare una monaca nell’atto di rubare qualche pesca da un albero, subito ripresa dalla consorella che, spiandola dalla finestra della propria cella, l’ha colta sul fatto. Oltre alle viti e agli alberi da frutto, non poteva mancare un pergolato di fiori “intreciai con grazia e bizaria” (Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi, 255), dai più tradizionali – come viole e tulipani – ai più esotici. Prevedendo la necessità di studiare dal vero tali piante, Goldoni suggerisce a Francesco Calapo di rivolgersi a Giovanni Barich, tintore della parrocchia di san Giovanni alla Bragora (Cicogna 1842, 608) e suo compare. Il nostro commissiona quindi la decorazione del proprio studio, per il quale pensa a un pollaio con galli, galline e pulcini. A Marco Milesi, padre di Cecilia e committente della poesia, il poeta non nasconde l’iniziale proposito di estendere il programma iconografico ai piani superiori, fino all’altana dell’edificio, poi brutalmente interrotto dai rimproveri di un insegnante che necessitava degli spazi per praticare il mestiere. Pur essendogli stata negata la possibilità, la creatività di Goldoni non gli impedisce di custodire i disegni al riparo nella sua memoria.

In tempi relativamente recenti, Federico Montecuccoli degli Erri, nella sua preziosa opera di raccolta degli estimi settecenteschi, ha portato alla luce dei dati affatto irrilevanti per arricchire l’indagine relativa al pittore. Rendendo noti i cambiamenti di residenza, entrambi gravitanti attorno all’area individuata dalla parrocchia di Santa Maria Formosa, e l’affitto dovuto, lo studioso ha permesso così di comprendere la situazione patrimoniale dell’artista (Montecuccoli degli Erri 1998, 86). Il 24 aprile 1740 risultavano vivere, in una casa sita in calle del Sanzonio, “Francesco Calapo lavorante pittor, con una sorella vedova con cinque fanciulli”, ai quali è stato chiesto l’esborso di 35 ducati; una cifra, a giudizio di Montecuccoli degli Erri, indicativa di una disponibilità economica decisamente modesta (Montecuccoli degli Erri 1998, 69).

La pittura e la ritrattistica tra menzioni e critiche

All’interno della produzione poetica goldoniana, i richiami al panorama artistico contemporaneo non sono riscontrabili solo nell’esplicita menzione ad un dato pittore. Disseminati nei versi d’occasione – si tratta, anche in questo caso, perlopiù di poesie redatte per nozze o per celebrare l’abbandono della vita laica di alcune donne veneziane – i riferimenti, in modo particolare, alla ritrattistica, consentono di confermare l’attenzione del nostro nei confronti del ruolo della pittura. Nei componimenti, i ritratti non sono dei semplici oggetti ma degli strumenti in grado di suscitare un ampio ventaglio di emozioni, dalla nostalgia nei confronti del passato lasciato alle spalle alla pura meraviglia. Non si tratta, tuttavia, di pedanti riferimenti accademici; come ci si può aspettare dalla sua personalità comica, i testi goldoniani restano comunque carichi della sua solita ironia, privata in ogni caso di ogni intento ridicolizzante. I ritratti, inoltre, fungono anche da intermediari per ribadire la noia causata dalla stesura di tali componimenti, a suo parere sempre uguali e dotati di scarsa inventiva. Significativo, in tal senso, è il Capitolo in lingua veneziana. In occasione delle nozze fra sua Eccellenza il Signor Carlo Zini, e la Nobil Donna Signora Dolfina Donado, redatto, perlappunto, per celebrare le nozze del bergamasco Carlo Zini, di recente nobiltà, e Dolfina Donado (Ortolani 1935-1956, XIII, 443). È facile immaginare che, se Goldoni si è ritrovato a comporre per quest’occasione, la causa risieda nel legame di parentela relativo alla madre della sposa, Maria, sorella di quel Francesco Vendramin che all’epoca della pubblicazione della poesia – uscita per la prima volta nel 1757 – possedeva il Teatro San Luca (Ortolani 1935-1956, XIII, 1001). Rancoroso nei confronti di Cupido per tutte le disavventure amorose subite in gioventù e consapevole di non potersi liberare della fastidiosa presenza del dio, Goldoni riassume l’ennesima seccatura, incaricandolo quindi di scrivere una nuova poesia:

L’altro zorno el vien via con un ritratto;
El me lo mette là senza parlar.
Mi lo vardo e m’incanto co fa un matto.
Quel furbazzo se mette a sgnignazzar,
E el me dise: Coss’è? cossa credeu?
Che ve voggia per questo innamorar?
Donca (ghe digo mi) cossa voleu?
Co sta roba vegnì? Responde Amor:
Quel che voggio da vu no lo saveu?
Presto; tolè la penna, e feve onor
(Goldoni Capitolo in lingua veneziana, 34-43).

Pur non essendosi mai potuto veramente esimere dal redigere componimenti d’occasione, Goldoni è quantomeno riuscito a prendersi delle libertà. Nel caso delle poesie destinate a celebrare delle monacazioni, in totale armonia con lo spirito del secolo di appartenenza [Fig. 9], e quasi in contrasto con l’argomento, il poeta affronta la stesura dei suoi versi mantenendo una certa distanza dalla religione (Quazzolo 2016, 1).

9 | Bottega di Pietro Longhi, Il parlatorio delle monache, Venezia, Museo del Settecento di Ca’Rezzonico (dettaglio).

Per quanto concerne l’argomento trattato nel presente paragrafo, di notevole interesse è la seconda poesia scritta per Marina, una delle tre figlie femmine di Giovanni Falier, senatore della Repubblica dal 1755 (Ortolani 1935-1956, XIII, 1001) e protettore del commediografo da tempo immemore. Se nel primo componimento (Goldoni, Vestizione dell’abito monacale, in Ortolani 1935-1956, XIII, 412-426) aveva raccontato con minuzia di dettagli tutta la vestizione di Marina, nel secondo ne descrive la cerimonia che siglava la fine del periodo di noviziato. Ad accomunare le rime è la tipologia scelta per narrare i due momenti importanti della nuova vita della giovane Falier, ovvero “una serie d’ottave, a guisa di poemetto” (Ortolani 1935-1956, XIII, 998) per agevolare la comprensione in particolar modo del pubblico femminile, destinatario ultimo dei versi. Marina è stata, in realtà, la seconda figlia del senatore a prendere la strada della monacazione; era stata preceduta, infatti, dalla sorella Chiara, alla quale il nostro aveva dedicato dei sonetti in lingua veneziana dal carattere spiccatamente ironico. L’apice era stato raggiunto, tuttavia, nella poesia A Sua Eccellenza il signor Giovanni Falier. Epistola in versi martelliani, dove l’avviamento alla fede di Chiara era stato trattato da Goldoni come una sorta di estremo sacrificio del senatore, paragonato addirittura ad Abele.

Saggio Signor, che al Cielo offri la figlia eletta,
Quanto più vaga e adorna, tanto più al Ciel diletta,
Non di Cain seguendo il pessimo costume,
Di trar dal folto gregge i peggior frutti al nume,
Ma d’Abele innocente, che offria divoto all’ara
Il torel più vezzoso, l’agnella a lui più cara.
(Goldoni, A Giovanni Falier, 1-6)

Andando a descrivere i diversi momenti che scandiscono il rito di Marina – composto da un susseguirsi di inni latini, da Goldoni trasposti in lingua italiana e riprodotti in prosa –, la poesia I riti e le cerimonie nella monacale professione. Stanze in occasione che la nobil donna Marina Falier professa la regola di Sant’Agostino nel venerando monastero di Santa Marta riprende di fatto la precedente dedicata alla vestizione, donando all’evento “il tono di un’azione sacra teatrale” (Quazzolo 2016, 5). Il poeta rende noto che, una volta prestato giuramento, alla monaca viene ordinato di osservare un breve periodo di isolamento dedicato alla riflessione personale implicante, quindi, un rigoroso voto di silenzio. Immedesimandosi nella donna, il nostro tiene a specificare che in alcun modo la clausura avrebbe comportato un pentimento nei confronti della strada intrapresa e tantomeno un sentimento di nostalgia per gli agi della vita passata. In ogni caso, il ricordo della casa d’infanzia dà modo al commediografo di menzionare la presenza dei ritratti dell’illustre casato (Ortolani 1935-1956, XIII, 440):

Degli avi miei le immagini dipinte
Mirai più volte, e le lor glorie intesi.
E le lor glorie superate e vinte
Del padre mio felicemente appresi
(Goldoni I riti e le cerimonie, 385-388).

È verosimile pensare che, nella quartina riprodotta, Goldoni si stesse riferendo a delle opere presenti a Palazzo Falier a San Vidal sul Canal Grande, di proprietà della famiglia fino al secolo scorso (Zorzi 1989, 188). Lo stato attuale degli studi non permette, tuttavia, una limpida ricostruzione di questa presunta galleria di ritratti; gli unici esempi noti sicuramente relativi a qualche membro della famiglia Falier, infatti, sono databili a decadi successive la poesia in esame.

Il periodo francese

Seppure, a questo punto della sua vita, residente già in pianta stabile su suolo francese, Goldoni non riserva – con estrema conformità rispetto a quanto espresso nelle missive in relazione ai propri ritratti – parole di stima nei confronti dei locali. Il commediografo ha modo di esprimere il proprio dissenso nel componimento Per la professione dell’Illustrissima N. Gaudio. Al signor Marco Astori del 1766. Ortolani ha reso noto che, per celebrare il percorso di vita intrapreso da Gerolama Gaudio nel 1763, erano state composte ben due raccolte poetiche alle quali il nostro, però, non aveva preso parte. I suoi versi sono comparsi per la prima volta solo l’anno successivo, in una raccolta predisposta da Marco Astori, uno “schiccheratore di versi” (Ortolani 1935-1956, XIII, 1056) bergamasco. A giudicare dai primissimi versi della poesia, in cui il nostro si scusa per non aver rispettato l’impegno preso con Astori, dev’essere stata probabilmente la mancata puntualità di Goldoni a rinviare l’uscita della raccolta; non sarebbe spiegabile, altrimenti, il lasso di tempo intercorso tra la monacazione della donna e la pubblicazione dei componimenti. Non essendo riuscito a comporre per celebrare la vestizione, il commediografo si trova dunque a scrivere per la conferma dei voti. Per giustificare il proprio ritardo, il nostro imputa la colpa alle differenti tradizioni osservate dai poeti francesi i quali, affatto abituati a comporre per chi si consacra alla vita religiosa, si prendono gioco del costume veneziano:

Dicono che per tali sagrifizi
Inutilmente spargesi l’inchiostro;
Che s’ella è mossa dai celesti auspizi,
D’uopo non ha di suoni né di canti,
Ma d’orazioni e di divini uffizi
(Goldoni Al signor Marco Astori, 86-90).

Ai fini del presente discorso, è interessante notare come sia stata utilizzata la vicinanza, già ribadita, tra la poesia e la pittura per screditare questa spiacevole abitudine francese:

Detestano, condannano quei pianti
Che fingono i poeti delle madri,
Dei padri, dei parenti e degli amanti;
Condannano, detestano quei quadri
Che si fanno del mondo all’innocente
Con colori sì vivi e sì leggiadri;
Onde la vergin che non sa niente,
Sente quel che ha perduto e che ha lasciato,
E qualche volta di lasciar si pente
(Goldoni Al signor Marco Astori, 91-99).

10 | Pierre Denis Martin, Veduta del Gran Canal di Versailles, 1713, olio su tela, Musée National du Château de Versailles, Versailles.
11 | François Girardon, Thomas Regnaudin, Apollon servi par les nymphes, gruppo scultoreo, 1666-1674, Musée National du Château de Versailles, Versailles.

Una nuova occasione per osannare le virtù della patria abbandonata – e per introdurre, inoltre, l’arte in poesia – è fornita dal matrimonio tra Marin Zorzi e Contarina Barbarigo celebrato nel 1765, proprio l’anno in cui Goldoni si era trasferito a Versailles (Ortolani 1935-1956, XIII, 1059). La poesia, intitolata La piccola Venezia. Ottave per le felicissime nozze dell’Eccellenze loro, Zorzi e Barbarigo, è andata poi a confluire nella raccolta di ottave predisposta dal conte Gasparo Gozzi, data alle stampe lo stesso anno. Come emerge dal titolo, il commediografo dà la possibilità al suo pubblico di entrare in contatto con il lussuoso universo imbastito dal Re Sole e, in particolare, con la spettacolarità dei suoi giardini, ricchi di fontane e bacini d’acqua [Fig.10]. Nel concepire il parco della reggia, André Le Nôtre aveva predisposto la presenza del Grand Canal, uno specchio d’acqua imponente predisposto per bonificare il terreno e, allo stesso tempo, per alimentare le fontane. In realtà, Luigi XIV non aveva atteso il completamento del cantiere – il progetto era stato inaugurato nel 1668 per essere ultimato, ufficialmente, quattro anni dopo (Standen 1963, 148-149) – per ricreare il contesto voluto. Terminata la prima fase dei lavori, che aveva interessato il biennio 1668-1669, il sovrano aveva acquistato una vera e propria flotta per il sollazzo proprio e della corte, alla quale si era andato ad aggiungere il dono di una gondola veneziana, inviata direttamente dal Doge (Santini 2007, 176). Ai timoni, il Re Sole aveva preteso un autentico equipaggio, in un primo momento di nazionalità francese, al quale si era poi andato ad aggiungere – si dovette attendere, tuttavia, la decade successiva – un gruppo di dieci gondolieri veneziani. Per ospitare l’ingente personale, con annessi nuclei famigliari, si era pensato di costruire la Petite Venise, il piccolo quartiere residenziale a loro uso esclusivo a cui Goldoni si ispira per scrivere la propria poesia (Santini 2007,177). Come emerge dai versi, un secolo dopo i primi insediamenti veneziani, la situazione nella Petite Venise si presenta al commediografo differente rispetto al glorioso passato, con un numero di abitanti nettamente ridotto. Fin da subito, la poesia assume i toni di una vivace conversazione – in veneziano, naturalmente – tra un interlocutore innominato e il commediografo, ricca di nostalgia per la patria abbandonata da entrambi, ma anche di sottili critiche. L’uomo, infatti, non manca di sottolineare nel suo monologo iniziale come le produzioni teatrali dell’anno in corso non fossero solo state deludenti (Ortolani 1935-1956, XIII, 1060, n.3), ma che l’abbiano anche dissuaso dal rispettare le commissioni dei compaesani, interessati a poesie per nozze o monacazioni. Il componimento, pertanto, si prepone come una prova, da parte del nostro, della fedeltà riposta nella propria patria, della quale non è affatto dimentico. La sensibilità di Goldoni nei confronti della bellezza del paesaggio verdeggiante della Reggia emerge in un’ottava che, verosimilmente, riproduce con esattezza il tragitto da lui stesso percorso per raggiungere il Grand Canal e, quindi, il borghetto veneziano

Dal Palazzo Real s’esce e discende
Sul vasto pian d’amplissima terrazza,
E la vista se perde, e se distende
Drio d’un canal che de la Reggia è in fazza:
Là dolcemente el passeggiar se rende
Per le dopie scale e verdegiante piazza,
Tra statue, tra fontane, e viali, e fiore,
De natura e de l’arte ampli tesori.
(Goldoni La piccola Venezia, 153-160)

Il nostro aveva avuto modo di tornare nuovamente a discorrere sulla bellezza del giardino nei successivi Mémoires, al momento di narrare il matrimonio tra il Conte di Provenza e Maria Giuseppina Luigia di Savoia, futuri sovrani del regno:

Le Parc de Versailles est délicieux par lui-même [...]. Son étendue est immense, ses compartimens variés, on y voit de tous le côtés une profusion de marbres précieux, des statues originales des célebres Artistes modernes, et des copies très-exactes d’après les antiques les plus estimés; on y rencontre par-tout des allés peignées et decorées, qui cachent des recoins rustiques et ombragés; on y voit des bassins richement ornés, des parterres agréablement dessinés, des fontaines superbes et des jets dìeau d’une élévation surprenante (Goldoni Mémoires, I, 514-515).

Dopo una breve parentesi sull’aranciera, Goldoni si sofferma a parlare degli ambienti del giardino a lui più cari, i dodici boschetti – nota persino la sostituzione del labirinto con un giardino inglese – dei quali addirittura ammette di possedere la chiave d’accesso per fruirne a piacimento:

On trouve dans ces bosquets des chefs-dœuvre en sculpture, en architecture; les deux bosquets les plus remarcables sont les Bains d’Apollon et la Colonnade. On voit dans le premier en groupe de sept figures de marbre blanc, unique par sa grandeur et par sa perfection; et on admire dans l’autre un péristyle de forme circulaire, composé de trente-deux colonnes de différens marbres choisis (Goldoni Mémoires, I, 515).

Come deducibile dal passo qui riportato, a giudizio del nostro i boschetti più significativi erano quello dei bagni d’Apollo e della Colonnata. Del primo, Goldoni ricorda in modo particolare il gruppo scultoreo rappresentante il dio Apollo attorniato da sei ninfe, realizzato da François Girardon e Thomas Regnaudin tra il 1667 e il 1675 (Maral 2012, 109) [Fig.11]. Sorprendentemente, invece, tace sullo straordinario gruppo scultoreo raffigurante il Ratto di Proserpina, inaugurato da François Girardon nel 1675 e portato a termine vent’anni dopo, collocato al centro del secondo boschetto menzionato, contornato da un peristilio “con i pilastri in marmo di Languedoc, le colonne in marmo violaceo e turchino, gli archi in marmo di Carrara” (Fara 2017, 52).

Riprendendo le fila della poesia, una volta superato il portone d’ingresso, il nostro può immergersi nella Venezia in miniatura e fare conoscenza con l’unico gondoliere rimasto, un tale Mazzagati, e sua moglie, ai quali spiega le ragioni del proprio soggiorno in Francia. Una volta creato un certo clima di confidenza e di fiducia reciproca, il marinaio ammette al commediografo la difficoltà della sua condizione di eterno straniero, al quale si nega peraltro la possibilità di parlare l’italiano e tantomeno il veneziano. A lui, oramai, i francesi si rivolgono chiamandolo Monsù, ma ben presto rivendica la propria appartenenza alla patria d’origine, mostrando al nostro i ritratti di due suoi famigliari rimasti a Venezia, subito descritti da Goldoni:

Vedo in do quadri d’ottimo penelo
Fasse, barete rosse e codegugni.
El me mostra el più vecchio, e el dise: –Quelo
Xe stà a Venezia el fulmine dei pugni;
Certo, a San Barnabà, fin da puteo
El maccava, el spaccava e teste e grugni;
Gh’è el ritrato compagno a casa nostra;
Né i fa un piovan, che nol se veda in mostra.
(Goldoni La piccola Venezia, 289-296)

Degna conclusione di questa parentesi poetica sul soggiorno francese, La galleria di Versaglies si rivela, allo stesso tempo, la sintesi estrema della sensibilità artistica di Goldoni. La poesia è stata composta nel 1769 in occasione di un altro matrimonio, quello tra Niccolò Michiel ed Elisabetta Gradenigo, figlia acquisita dell’ambasciatore Andrea Gradenigo – colui al quale il nostro si rivolge all’interno del componimento – a seguito delle nozze con Maddaluzza Contarini (Ortolani 1935-1956, XIII, 924, 1062). Il riferimento è, naturalmente, alla Galleria degli Specchi, che, con le sue diciassette arcate specchiate, desta meraviglia nei visitatori ora come allora [Fig.12]:

Ad ogni ampio balcon, dall’altra parte
Contrapposto è uno specchio, che rasente
La terra al basso, e il cornicion di sopra,
Fa che in mille prospetti il bel si scopra
(Goldoni La galleria di Versaglies, 61-63).

Ad un certo punto, Goldoni narra come un imbellettato giovanotto francese, particolarmente benvoluto dall’universo femminile, aveva interrotto la sua contemplazione rivolgendogli la parola per chiedergli i motivi della recente felicità dell’ambasciatore. La risposta – il recente matrimonio della figlia con Michiel – gli aveva dato così occasione di celebrare Gradenigo e tutte le glorie delle famiglie alle quali gli sposi erano imparentati. Nelle varie ottave che compongono la poesia, il commediografo ha modo di colloquiare con diversi personaggi – un Cavaliere dell’Ordine di San Luigi, un Duca e una dama – informando anche loro del lieto evento e ravvivando le lodi dell’ambasciatore. Solo una volta riuscito a liberarsi da qualunque conversazione – ad un certo punto, l’attenzione di tutti viene richiamata dall’arrivo del Re, che li fa allontanare nella cappella adiacente – Goldoni riesce a entrare nel merito della decorazione pittorica della galleria, in particolare della sua volta ad opera di Charles Le Brun:

In nove quadri di grandezza estrema,
E in diciotto minor, di man del Bruno,
Del secol dell’eroe diviso è il tema,
Ed i fatti dipinti ad uno ad uno.
Là combatte, là vince, al dïadema
Là Minerva obbedisce e là Nettuno,
Là i rei punisce, là il perdon concede,
Là gl’invalidi suoi premia e provede.
(Goldoni La galleria di Versaglies, 265-272).

12 | Charles Le Brun, Progetto per la volta della Galleria degli Specchi, 1679-84, inchiostro e acquerello su carta, Paris, Louvre, Département des Arts graphiques, Inv. 27667, in deposito al Musée National du Château de Versailles, Versailles.

Il destino di Charles Le Brun – figlio d’arte e particolarmente precoce nel palesare il proprio talento – si era intrecciato con lo sfarzoso universo di Versailles solo nel 1672, a poco più di cinquant’anni d’età, dopo decadi di committenze di alto livello. Formatosi in Francia sotto l’egida di François Perrier e di Simon Vouet, una volta terminato l’apprendistato il pittore si era perfezionato prima a Fontainebleau, copiando dal vivo i capolavori di proprietà della famiglia reale e, successivamente, a Roma, dove si era lasciato stupire dalle volte di Pietro da Cortona (Temperini 1999, 351). Il titolo di Peintre Ordinaire du Roi aveva inaugurato un felicissimo susseguirsi di committenze per la famiglia reale, guidate dal sovrintendente Nicolas Fouquet, che nel 1658 lo aveva voluto a capo della progettazione di tutti gli apparati decorativi di Vaux-le-Vicomte. Dopo una breve – ma significativa, dal momento che si era occupato dell’appartamento del sovrano e della Petite Galerie – parentesi al Louvre, nel 1672 il maestro si era dunque trasferito a Versailles per decorare alcuni ambienti della Reggia, ennesimi tasselli che avrebbero contribuito alla celebrazione del regno di Luigi XIV. Per motivazioni estranee al volere del pittore, i primi interventi non si erano rivelati particolarmente fortunati. Fino al 1676, l’attenzione dell’artista era stata completamente assorbita dalla progettazione delle strutture architettoniche e degli impianti decorativi della cappella, ma questa venne distrutta e, a seguito della morte di Jean-Baptiste Colbert, non più ricostruita. Un esito altrettanto infelice era spettato allo scalone degli Ambasciatori che, seppur portato a compimento tra il 1674 e il 1678, venne demolito dopo la morte di Luigi il Grande, durante il dominio del figlio (Temperini 1999, 355). Il progetto che più aveva suscitato ammirazione all’epoca era stato, comprensibilmente, quello della Galleria degli Specchi, inaugurato subito dopo la conclusione dei lavori per lo scalone e portato a termine in tutte le sue fasi nel 1784 (Thullier 1964, 100). Anche la decorazione della Galleria degli Specchi – e, in particolar modo, della sua volta – si era inserita in quel meccanismo politico volto alla celebrazione dell’immagine di Luigi XIV, rappresentato dal pittore come “l’eroe perfetto, a metà strada fra storia e modernità, acclamato dal popolo e vincitore delle genti” (Gallo 2006, 4) e, allo stesso tempo, un Dio in gloria, conferendo quasi alla galleria il tono di un luogo sacro (Gareau 1992, 44). Sul soffitto della Galleria, come opportunatamente osservato da Goldoni, Le Brun aveva dispiegato in nove tele di considerevoli dimensioni e in diciotto più contenute i maggiori successi politici del regno del Re, dal 1661 al 1678 (Marchesano 2010, 15). Menzionando la presenza di Minerva, è probabile che Goldoni facesse particolare riferimento alla tela centrale, rappresentante proprio l’allegoria del potere centralizzato nelle mani del sovrano.

I sonetti ritratto

L’interesse nei confronti del ritratto in versi non è stata una novità tutta settecentesca; a partire dai sonetti di Francesco Petrarca, nei quali i ritratti erano essenzialmente idealizzati, la tradizione poetica italiana non aveva mai smesso davvero di immortalare con le parole i tratti di un individuo (Dillon Wanke 2004, 33). Il punto più alto di tale interesse si era raggiunto probabilmente nel 1620, con la pubblicazione de La Galeria del Cavalier Marino, distinta in Pitture e Sculture (Marino 1620). Fingendosi guida di un immaginario museo, Giovan Battista Marino non era riuscito a esimersi dal mostrare al suo lettore la pinacoteca del presunto collezionista dove, tra quadri a tema storico e mitologico, spiccavano ritratti e autoritratti, dal Cavaliere raccontati in versi (Dillon Wanke 2004, 36). Nel corso della seconda metà del Settecento si era poi consolidata, grazie al Saggio sopra la pittura di Francesco Algarotti del 1762 (Algarotti 1763), la necessità – da parte, in un primo momento, dei pittori – di uno studio puntuale dell’anatomia per massimizzare una resa realistica del corpo umano (Kuhn 2020, 167). Tale consapevolezza era stata sottilmente colta negli ambienti intellettuali veneziani, i cui esponenti ben presto si erano resi conto della possibilità offerta dalla poesia di raggiungere, con altri mezzi, il medesimo risultato. Fra i primi a lasciarsi stuzzicare da questa ‘nuova’ fonte di divertimento era stato proprio Gasparo Gozzi il quale, fingendo di assecondare le richieste di un pubblico immaginario, aveva condito il suo Osservatore veneto del 1761 di quasi venti sonetti-ritratto (Kuhn 2020, 167). Nel periodico, Gozzi aveva notato come le abitazioni dei suoi contemporanei fossero ricche di opere [Fig.13] e non era riuscito a esimersi dal menzionare Pietro Longhi e, in particolare, la sua capacità di ritrarre “quel che vede con gli occhi suoi propri” (Gozzi 1761, 28). Riconoscendo di non avere qualità artistiche, il conte si era dedicato pertanto a dei ritratti letterari, dove ad essere effigiati non erano degli individui specifici, ma tipi umani, in modo tale che chiunque potesse riconoscersi nei difetti caratteriali presentati (Kuhn 2020, 172). Confermandosi uomo del suo tempo, anche Carlo Goldoni aveva accolto con delle riserve il gioco che tanto divertiva i suoi colleghi. La sua posizione in merito è ben esplicitata nella poesia – l’ennesima composta in occasione di una monacazione – Per la solenne professione di Sua Eccellenza la sig. Maria Angela Eletta Memo nel nobiliss. Monistero della Celestia in Venezia. Nel ricordare come, nel secolo precedente, i poeti si fossero serviti degli spunti forniti dallo stesso nominativo per tessere le lodi della donna – per assonanza, essi avrebbero associato Maria al mare o Lucia alle luci – o un tratto fisionomico per gli uomini – per il suo naso prominente, un gentiluomo era stato paragonato a san Carlo Borromeo – il nostro aveva messo in dubbio l’efficacia di tali allusioni, quantomeno nel Settecento:

Ma questi che si chiamano ritratti
(Quando il nome si levi, e la famiglia),
Non si può indovinar perché sien fatti.
Cercano di destar la maraviglia
Con pennellate valorose i vati;
Ma il ritratto a che val, se non somiglia?
(Goldoni Per la solenne professione, 22-27).

È bene premettere, prima di proseguire con l’esposizione, che tali sonetti non sono stati inclusi in alcun tomo dei Componimenti diversi; una scelta comprensibile da parte dell’autore, trattandosi di versi composti per la sola occasione data dalla trama di un’opera teatrale. Il merito di averli considerati come veri e propri esercizi poetici spetta ancora una volta a Giuseppe Ortolani, che li ha inseriti nel tredicesimo volume – dedicato, per l’appunto, esclusivamente alla produzione poetica – della sua magistrale opera di raccolta. Il primo sonetto incluso è tratto, infatti, da Il frappatore del 1745, la commedia confezionata da Goldoni per il noto Pantalone Cesare d’Arbes (Alberti 2004, 86) che racconta le vicende di Tonin Bellagrazia. Le doti poetiche dell’ingenuo protagonista, un giovanotto veneziano circuito dal ruffiano Ottavio, vengono chiamate in causa nel tentativo di sedurre Rosaura, la sua promessa sposa. Dopo aver dimostrato di saper recitare, cantare e ballare, Tonin ammette – con grande sorpresa della donna – di saper perfino scrivere poesie:

ROS. Caspita! Poeta ancora?
TON. Vorla che ghe diga un sonetto?
ROS. Lo sentirò volentieri.
TON. Un ritratto in t’un sonetto. Pittor e poeta
(Goldoni Il frappatore II,12 ).

Una volta introdotta la particolarità del sonetto – avendo realizzato un ritratto in versi, Tonin reclama a sé il duplice titolo di poeta e pittore – sorge in Rosaura, comprensibilmente, la necessità di conoscere l’identità della donna raffigurata; non si tratta, però, di un’altra pretendente, ma della nonna di Tonin, di cui Rosaura richiama i tratti giovanili.

Occhi belli, più bei della bellezza;
Fronte, del Dio d’amor spaziosa piazza;
Naso, maschio real della fortezza;
Bocca, più dolce assae de una smeggiazza;
Petto, più bianco d’ogni altra bianchezza;
Ondeselle d’un mar che xe in bonazza;
Vita dretta e zentil, come una frezza;
Fianchi, pan de botirro, o sia fugazza;
Man, puina zentil, che alletta e piase;
Penin, fatto col torno, o col scarpelo;
Gamba, d’un bel zardin colonna e base:
Quel che vedo, ben mio, xe tutto belo.
Son pittor, son poeta, e me dispiase
Che de più no so far col mio penelo
(Goldoni Sonetto ritratto in Il frappatore, II,12, 1-14)

Nonostante una premessa non poi così lusinghiera, il sonetto-ritratto finisce per piacere alla promessa sposa, forse più di quelli recitati a memoria da Tonin subito dopo, riconducibili alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Al momento di annotare la poesia, Ortolani non ha osato ricondurre con sicurezza i versi a Teodora Raffi, moglie dell’impresario Girolamo Medebach e nota per impersonare proprio il ruolo di Rosaura, arrivando a retrodatare la stesura della poesia agli anni di gioventù di Goldoni (Ortolani 1935-1956, XIII, 965). Tale indecisione è stata scongiurata in sede di studio del secondo sonetto-ritratto riprodotto nel tredicesimo volume, redatto da Goldoni, in origine, per Il poeta fanatico (1750). Per scusarsi dell’impertinenza della moglie Corallina, Tonin Bellagrazia si ritrova a improvvisare un sonetto piaciuto al punto alla donna effigiata – Beatrice, la proprietaria di casa – da instillare in lei non solo una tolleranza nei confronti dell’arte poetica, finora ripudiata, ma anche un leggero affetto nei confronti del rimatore. È stata una precisa indicazione postillata dal commediografo nel testo dell’edizione Paperini a permettere a Ortolani di rivedere nei versi la fisionomia di Caterina Landi (Ortolani 1935-1956, XIII, 965-966), attrice nota proprio per il ruolo di Beatrice:

Morbido e folto crin, fra il biondo e il nero,
Spaziosa fronte, e bianco viso e pieno,
Occhio celeste, or torbido or sereno;
Angusto labbro, rigoroso, austero.
Tenera e breve man, degna d’impero,
Candido, bipartito, amabil seno,
D’ogni proporzion corpo ripieno,
Aria sprezzante, e portamento altero.
Questa è di voi visibile bellezza,
Ma di gloria maggior degna vi rende
La velata beltà, che più si apprezza:
Spirto, che tutto vede e tutto intende,
Arte, che tutto brama e tutto sprezza,
Cuore, che manda fiamme e non s’accende
(Goldoni Sonetto ritratto in Il poeta fanatico, II,12, 1-14).

Sfruttando appieno la possibilità concessa dall’intreccio – il punto focale è la fondazione di una società letteraria chiaramente ispirata all’Accademia dell’Arcadia, ma non altrettanto longeva – il commediografo ha distribuito diversi componimenti all’interno della commedia, ma quello oggetto di analisi è l’unico ascrivibile alla categoria dei sonetti-ritratto. Di fatto, Goldoni ha caratterizzato ciascun personaggio – salvo Beatrice, tutti versificano – con una forma poetica differente, dimostrando al contempo un’ottima conoscenza dell’arte, quantomeno a livello teorico. Nonostante le premesse e a prescindere dalle reali intenzioni del commediografo, con le sue associazioni ha finito inevitabilmente per stilare una sorta di gerarchia tra le varie espressioni poetiche. Se a Ottavio – principe dell’Accademia fittizia nonché protagonista della commedia – spettano le poesie eroiche e a Rosaura, la figlia, sonetti amorosi di ispirazione petrarchesca, a Corallina e Arlecchino toccano gli apologhi o i madrigali, mentre a Brighella la poesia maccheronica. Eppure, fra tutti i confratelli e le consorelle della novella Accademia a sua disposizione, è proprio a Ottavio che Goldoni sarcasticamente affida l’Arte del verso italiano di Tommaso Stigliani (Stigliani 1658), un manuale secentesco consultato ampiamente dai poeti amatoriali anche nel secolo successivo (Librandi 2008, 204).

13 | Giambattista Tiepolo, Il carro di Apollo e le Grazie, dettagio dall’Allegoria nuziale, 1757, afffresco, Venezia, Ca’Rezzonico Museo del Settecento.

Sebbene incomprensibilmente esclusi dal tomo dedicato da Ortolani alla produzione poetica, i sonetti-ritratto sono comparsi nell’opera goldoniana in altri tre momenti, di seguito riproposti in base alla data di stesura della commedia di riferimento. L’occasione di verseggiare è infatti di nuovo fornita al commediografo dal personaggio di Leandro, il “poeta ridicolo” presente unicamente nel secondo atto de Il contrattempo (1753). Pur non ricoprendo, di fatto, un ruolo negativo nell’intreccio – la vicenda ruota attorno agli equivoci causati dalla loquacità di Ottavio, il protagonista –, agli occhi del lettore-spettatore Leandro risulta fastidioso e, non ultimo, egoista. L’interesse nei confronti delle sofferenze di Florindo, amante negato del permesso di sposare Rosaura, la donna di cui è invaghito, risulta fin da subito effimero; l’unica preoccupazione del poeta è di estorcere all’amico un giudizio positivo sull’ennesimo sonetto redatto. L’ostinazione di Leandro arriva al punto da proporre al povero Florindo – dichiaratamente troppo annebbiato per assolvere alla richiesta del rimatore – una lettura ad alta voce, in modo tale non far compiere allo sfortunato amante il minimo sforzo. Con non poca fatica, Florindo prova infine a confidare il proprio malessere, ma la poesia nuovamente rende vani i suoi tentativi:

FLOR. […] Voi conoscete il signor Pantalone de’ Bisognosi.
LEAN. Sì, è uno de’ miei mecenati.
FLOR. Sappiate che egli ha una figlia.
LEAN. Lo so, le ho fatto il suo ritratto.
FLOR. Il suo ritratto? Come?
LEAN. In quattordici versi
(Goldoni Il contrattempo, II, 12).

La soluzione proposta da Leandro per persuadere la giovane Rosaura consiste, con assoluta prevedibilità, nella composizione di un sonetto; davanti alla titubanza di Florindo, giunge in soccorso un vecchio componimento del poeta che già dal titolo – Amante tenero a bella donna ch’è di cuor duro – pare essere perfetto per l’occasione:

Donna, del vostro cor l’irato sdegno
Nel mio povero sen fa strage assai.
Dal momento primier, ch’io vi mirai,
Rimasi come un duro sasso, un legno.
Di pensieri amorosi io son sì pregno;
Che la testa, e il cervello io mi gonfiai;
E non ho speme di guarir giammai;
Se di dolce Triaca io non son degno.
Va l’Asia tutta, e va l’Europa in guerra.
Ed io sol resterò misero amante,
Co gli occhi al Cielo, e con i piedi in terra.
Oh nemica di fè macchina errante!
Ecco amor, che v’innalza e che vi afferra.
Globo voi siete, ed è Cupido Atlante.
(Goldoni Amante tenero a bella donna ch’è di cuor duro in Il contrattempo, II, 12).

Del tutto incapace di nascondere il disagio provato nell’ascoltare i versi, Florindo si trova a declinare con cortesia il suggerimento di Leandro che, per riscattarsi, con uno stratagemma sottopone la poesia all’inconsapevole Ottavio. Il rancore suscitato dall’ennesimo rifiuto è tale da indurre non solo alla violenza, ma anche a smuovere un desiderio di vendetta:

OTT. Che bestia! Oh che ignorantaccio! Si può far peggio? (legge piano)
LEAN. Signor mio…
OTT. Avete sentito questo sonetto?
LEAN. Sì, l’ho sentito.
OTT. Si è mai intesa una simile bestialità?
LEAN. Eppure…
OTT. Basta dire che sia di quel somaraccio di Leandro Zucconi.
LEAN. (Or ora gli metto le mani addosso). (da sé)
(Goldoni Il contrattempo, II, 13).

Da questa prima analisi si potrebbe concludere che, nell’esercizio della forma poetica in esame, Goldoni si è ritrovato a favorire il solo universo femminile, esaltando di conseguenza un punto di vista strettamente legato alla bellezza o, in generale, all’aspetto esteriore. In realtà, il pretesto di sperimentare un ritratto virile, di taglio quasi psicologico, gli viene fornito nel momento di redigere la dedica alla commedia Il raggiratore (1756), rivolta al senatore Daniele Renier. Il commediografo esordisce con una classica lusinga nei confronti dell’aristocratico, affermato protettore e corrispondente del nostro, ma ben presto tali intenti vengono abbandonati per introdurre la figura di sua nipote, Cornelia Barbaro Gritti, anch’ella aggregata all’Accademia dell’Arcadia con il nome di Aurisbe Tarsense. Se Goldoni ha avuto modo di poetare di nuovo, il merito era da ricondursi alla donna che lo aveva sfidato a comporre dei versi per l’entrata in monastero di Angela Maria Renier, figlia del senatore e cugina di Aurisbe. I versi a breve presentati erano entrati a far parte in un primo momento dei Componimenti poetici della Barbaro Gritti (1757), raccolti proprio per celebrare l’occasione, e solo in un secondo momento erano stati aggregati da Goldoni nei Componimenti diversi (1764) (Ortolani 1935-1956, VI, 1126). Nella dedica a Il raggiratore, tuttavia, non hanno trovato posto le otto quartine iniziali della “Canzone di Aurisbe” – esemplari, in tal senso, i primi due versi: “Sta volta ve gh’ho in trappola, / De qua no me scampè” – riguardanti proprio l’invito esteso dalla donna a partecipare al duello in versi. Goldoni, infatti, si è limitato a riportare unicamente le strofe relative alla celebrazione del proprio protettore:

La xe sta Santa Zovene
Fia de DANIEL RENIER.
Ah? doveressi intenderme,
Sé omo del mistier.
Savè chi el xe in Repubblica,
Savè quel che l’ha fatto.
Se no l’avessi in pratica,
Ve fazzo el so ritratto.
El gh’ha una mente lucida,
Un intelletto pronto,
Che tutto rende facile,
Che presto arriva al ponto.
El sa le cosse serie
Trattar con precision;
E po grazioso e lepido
El xe in conversazion.
Amigo sincerissimo,
De cuor e de bon fondo,
Che cerca, che desidera
Far ben a tutto el Mondo.
Temperamento fervido,
Che parla e che par bon,
Che va talvolta in collera,
Ma mai senza rason.
A comandar giustissimo,
Prontissimo al dover,
In casa soa filosofo,
E sempre cavalier.
Fato el ritratto in piccolo,
Più a sguazzo che a pastela,
A vu ve lasso el merito
De insoazar la tela
(Goldoni Canzone di Aurisbe nella dedica de Il raggiratore, 4-5).

Dal canto suo, il commediografo non aveva mancato di rispondere a tale invito, arrivando a celebrare il suo storico committente con la Risposta ad Aurisbe Tarsense di Polisseno Fegejo. Sebbene depurato di quella sottile critica sociale – il noviziato della cugina fu un felice pretesto per ricordare al pubblico l’eterna subordinazione delle donne – caratterizzante i versi della poetessa, il componimento di Goldoni si pone perfettamente in linea con la poesia che aveva dato inizio alla sfida. Al momento di riportare le proprie rime nella dedica, egli manca di inserire le strofe non strettamente attinenti all’esaltazione della figura del senatore, in assoluta coerenza con l’operazione svolta per la poesia precedente. Pertanto, dopo aver omaggiato la propria sfidante, il commediografo si premura di “insoazar la tela”, proprio come richiesto:

M’ha consolà moltissimo,
Vero cussì, e ben fatto,
D’un Cavalier che venero
El nobile ritratto.
Ma se m’avè dà el carico
D’averlo a insoazar,
So le mie forze, e dubito
L’immagine guastar.
Pur della tela al margine
Farò un breve contorno,
Una soaza semplice
Mettendoghe d’intorno.

El Cavalier magnanimo
Protegge i Letterati,
Col spirito, coll’animo
Col cuor dei Mecenati.
Né amante delle lettere
L’è sol per complimento.
Ma el stima le bell’opere
Per genio e per talento.
Delle virtù dell’anima
Conoscitor perfetto,
Co la costanza el supera
Ogni più vivo affetto.
Onde del cuor medesimo
Staccandose una parte,
A Dio, che la desidera,
La dona e la comparte
(Goldoni Risposta di Aurisbe in Il raggiratore, 5).

Così come per la poesia di Aurisbe, allo stesso modo – per non distogliere l’attenzione del lettore dall’obiettivo primo della dedica – Goldoni evita di riportare, come sottolineato, anche le quartine successive, relative strettamente alla monaca.

In ultimo, scritta per la compagnia di Zola Pedrosa guidata del marchese Francesco Albergati Capacelli, La donna bizzarra (1758) è il felice pretesto usato da Goldoni per esercitare nuovamente l’arte poetica, tanto per la sua impostazione – la commedia è stata scritta in versi martelliani – quanto per la stessa caratterizzazione di uno dei personaggi. Tra i pretendenti di Ermelinda, la contessa vedova protagonista dell’opera, spicca infatti don Fabio, un uomo non più nel fiore degli anni che ha attirato l’attenzione della donna proprio per le sue qualità intellettuali. Dopo ben tre giorni di mancati corteggiamenti, il poeta ha la necessità di riscattarsi presentando alla potenziale futura sposa dei nuovi versi. Tale richiesta da parte della dama suscita sensazioni diverse nel capannello di persone riunito attorno a lei, dal lieve imbarazzo della baronessa Amalia – l’amica della contessa ammette senza remore di non intendersene di poesia – al fastidio del capitano Gismondo. Don Fabio, tuttavia, è pronto a soddisfare i desideri della vedova:

FAB. Dirò, se permettete, una canzon che ho fatto:
Sarà di bella donna un semplice ritratto.
Nice è il nome poetico, che usar si suol da noi.
Ma il ritratto di Nice l’originale ha in voi. (alla Contessa)
CON. In me? (pavoneggiandosi un poco)
FAB. Sì, mia signora.
CON. Don Fabio, i vostri carmi
Non gettate sì male. Troppo volete alzarmi.
Sentite, Baronessa? fa il mio ritratto in rima.
La bontà di don Fabio ha per me della stima.
Con rossore i suoi versi udire io mi apparecchio;
Capitan, vi consiglio di chiudervi l’orecchio.
CAP. Anzi il vostro ritratto ho di sentir desio;
Oh, se fossi poeta, lo vorrei far anch’io.
Ma no, se fossi tale, quale il mio cuor mi brama,
Ritrar la bella effigie vorrei di questa dama
(Goldoni La donna bizzarra, II, 5).

Solo a questo punto, certo di avere l’attenzione – e forse una punta di invidia, a giudicare dal desiderio espresso dal capitano – della compagnia, don Fabio si sente legittimato a proseguire con la declamazione della sua composizione poetica.

FAB. Dirò per obbedirvi. Priegovi a compatire.
Colle tue piume, Amore,
Forma gentil pennello;
Tu, veritier pittore.
Fingi di Nice il bello,
E la perpetua tela
Sia degli amanti il cor
(Goldoni La donna bizzarra, II, 5).

Malgrado le premesse iniziali, rafforzate dalle aspettative della contessa, la poesia ostacola non poco la possibilità di ascrivere il componimento nella categoria in esame, non solo per la sua struttura ma anche per lo stesso argomento. È pur vero che, sin dall’inizio, la poesia non viene presentata agli astanti come sonetto, bensì come canzone, la cui strofa è composta da soli sei versi, quattro a rima alternata e i restanti sciolti. Tale metrica viene riproposta anche dopo la breve interruzione per dar spazio alle critiche della baronessa e del capitano.

Scegli la rosa e il giglio
Per colorire il volto;
Puoi, per formare il ciglio,
L’oro stemprar disciolto;
E il candido alabastro
Per colorire il sen
(Goldoni La donna bizzarra, II, 5).

Pur volendo sorvolare su tale questione, allontanandosi notevolmente dagli esempi visti in precedenza, la poesia assume i tratti di un’invocazione diretta a un pittore; servendosi di un pennello realizzato idealmente con il piumaggio di Cupido, è l’innominato ritrattista – e non, quindi, don Fabio – l’uomo preposto ad immortalare i tratti della donna. L’evocativa immagine del dio dell’amore direttamente coinvolto nella realizzazione di un ritratto non è nuova nella produzione poetica goldoniana; il suo precedente – non databile con certezza, ma ascrivibile per Ortolani tra i primi esperimenti poetici di Goldoni, precedenti quindi al 1748 – è un componimento di cui non si conosce altro che il titolo, La bella brunetta.

Amor, un giorno che ritrar volea
Ne’ miracoli suoi forma sincera,
Studiò compor effigie propria e vera,
Che spiegasse quel bel ch’egli intendea.
Ei che, astuto garzon, amar solea,
L’oscura notte a’ suoi piacer foriera,
Scolpì corpo gentile, e poscia nera
Colorì con piacer la bella idea.
Di foco egli si pasce, e a lei di foco
Nel sen gli pinse il cor, onde colei
Si vedeva nel volto arder non poco.
Gli pinse i stral negli occhi, e ne’ capei
Pinsegli i lacci, ov’ei si prende gioco;
Bruna la pinse, e ne fe’ un dono a’ Dei
(Goldoni La bella brunetta, 1-14).

Se nella breve poesia recitata nel contesto della commedia Cupido svolge solo un ruolo marginale nella realizzazione del ritratto, ne La bella brunetta è egli stesso l’artefice materiale dell’opera. Guidato dal desiderio di mostrare alle altre divinità la propria visione del bello, per una volta il dio dell’amore si spoglia del ruolo di semplice amante e, in una notte buia, si serve del pennello – con il quale scolpisce, non solo dipinge – per dare vita alla personificazione della bellezza. È bene sottolineare come questo nuovo indirizzo preso dalla poesia aveva invaghito anche la generazione successiva a Gasparo Gozzi e Carlo Goldoni, arrivando ad avere successo anche nei primi decenni dell’Ottocento. Esemplari, in tal senso, sono le varie edizioni – la forma finale giunse solamente nel 1826, dieci anni prima della scomparsa della sua autrice – dei Ritratti di Isabella Teotochi Albrizzi (Kuhn 2020, 170-171). A differenza dei sonetti gozziani, la poetessa aveva ritratto gli uomini che frequentavano il suo salotto (Dalton 2006, 85). Differente, invece, è stato il percorso intrapreso da Ugo Foscolo che, su modello del Sublime specchio di veraci detti di Vittorio Alfieri, aveva preferito ritrarre in versi la propria effigie, immortalata nel sonetto-(auto)ritratto Solcata ho fronte, occhi incavati intenti (1801) (Donati 2013, 145).

Bibliografia

Testi goldoniani

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    C. Goldoni, Il raggiratore, 1757, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.VI, Milano 1935-1956
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    C. Goldoni, Del sig. dottor Carlo Goldoni fra gli arcadi Polisseno Fegejo al signor Pietro Longhi veneziano celebre pittore, 1750, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 187-188.
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  • Goldoni Felicissimi sponsali Bonfadini Giovanelli
    C. Goldoni, In occasione de’ felicissimi sponsali fra Sua Eccellenza il signor Pietro Bonfadini e Sua Eccellenza la signora co. Orsetta Giovanelli. Capitolo a Sua Eccellenza il signor Giovanni Bonfadini senatore prestantiss. e fratello dello sposo, 1761, in G. Ortolani, Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 703-710.
  • Goldoni Per Suor M.a Cecilia Milesi
    C. Goldoni, Per Suor M.a Cecilia Milesi che deposto il nome di Lucia veste l’abito di s. Domenico nel nobile esemplarissimo Monistero del Corpus Domini, 1760, in G. Ortolani, Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 621-633.
  • Goldoni, Vestizione dell’abito monacale
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  • Goldoni I riti e le cerimonie
    C. Goldoni, I riti e le cerimonie nella monacale professione. Stanze in occasione che la nobil donna Marina Falier professa la regola di Sant’Agostino nel venerando monastero di Santa Marta, 1758, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 429-441.
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    C. Goldoni, Per la professione dell’Illustrissima N. Gaudio. Al signor Marco Astori, 1766, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 877-882.
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    C. Goldoni, La piccola Venezia. Ottave per le felicissime nozze dell’Eccellenze loro, Zorzi e Barbarigo, 1765, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 898-912.
  • Goldoni La galleria di Versaglies
    C. Goldoni, La galleria di Versaglies. Ottave, 1769, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 922-936.
  • Goldoni Per la solenne professione
    C. Goldoni, Per la solenne professione di Sua Eccellenza la sig. Maria Angela Eletta Memo nel nobiliss. Monistero della Celestia in Venezia, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.XIII, Milano 1935-1956, 751-754.
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    C. Goldoni, Sonetto ritratto in Il frappatore, 1745, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.III, Milano 1935-1956.
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    C. Goldoni, Sonetto ritratto in Il poeta fanatico, 1750, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.III, Milano 1935-1956.
  • Goldoni Amante tenero a bella donna ch’è di cuor duro in Il contrattempo
    C. Goldoni, Amante tenero a bella donna ch’è di cuor duro in Il contrattempo, 1753, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.IV, Milano 1935-1956.
  • Goldoni Canzone di Aurisbe nella dedica de Il raggiratore
    C. Goldoni, Canzone di Aurisbe nella dedica de Il raggiratore, 1757, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.VI, Milano 1935-1956.
  • Goldoni Risposta di Aurisbe in Il raggiratore
    C. Goldoni, Risposta di Aurisbe in Il raggiratore, 1757, in G. Ortolani (a cura di), Tutte le opere di Carlo Goldoni, vol.VI, Milano 1935-1956.
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    A. Zorzi, I palazzi veneziani, Udine 1989.
English abstract

Given the importance of his theatrical reform, Carlo Goldoni has mostly been studied in relation to his career as a playwright. Something scholars tend to ignore is that, even before dedicating his whole career to theatre, he composed several poems celebrating monastic ordinations, graduations and weddings. One of the most interesting, and perhaps unexpected, facts is that within the verses we can find references to art in general. The purpose of this article is to analyse this minor production in relation to the art historical references it presents. Not only Goldoni celebrated contemporary artists - the most famous cases being those of Pietro Longhi and Andrea Pastò - but he also mentioned and criticised some portraits. This article demonstrates how Goldoni was widely aware of the role of art and portraiture in everyday life and its close relationship with poetry and theatre.

keywords | Goldoni; Longhi; Pastò; poesie di Goldoni; Settecento.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Forest, “Pinga gli aviti eroi l’alma pittrice”. Riferimenti storico-artistici nella produzione poetica goldoniana, “La Rivista di Engramma” n. 218, novembre 2024.