"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

217 | ottobre 2024

97888948401

Segni

Attraversamenti tra recenti esposizioni di Tacita Dean, Meredith Monk, Anthony McCall e Adrian Paci (Bologna, London, Trieste 2024)

Filippo Perfetti

English abstract

I. Bologna, come in via Fondazza

1 | Tacita Dean, Still Life (still), 16mm, loop, 2009.
2 | Tacita Dean, Still Life, 16mm, loop, 2009. Tacita Dean, Still Life, 16mm, 2009, installazione presso spazio PIETRO a Palazzo Tanari, Bologna, 1-4 febbraio 2024.

Ancora oggi, negli spazi stretti e raccolti di quello che fu il suo appartamento bolognese in via Fondazza 36, le pareti con le mensole e gli scaffali del mobilio sono colme di cose al pari e peggio di un negozio di anticaglie da poco. Da tutto questo poco nascono le opere di Giorgio Morandi. Morandi, per realizzare le sue composizioni di vasi, boccette, bicchieri, bottiglie, piccole porcellane e vetri colorati traccia sotto di essi una mappa. È così data la composizione degli oggetti per la posa, e per tenerne traccia, segnata su fogli di carta: i contorni, grandi curve, alcune a chiudersi in cerchio, altre a rimanere spezzate e a secarsi con una seconda e un’altra ancora. Un groviglio di grafite su carte, alcune lettere a dare una ellittica topografia. Tacita Dean riprende con una macchina da presa 16mm questi fogli e li rovescia, per tramite della proiezione, sul piano verticale. Sulla parete, un piccolo quadro, delle dimensioni simili a molti di quelli di Morandi, stende un fascio di luce impregnato della pellicola della Dean. Still Life (2009) è il titolo, si tratta di uno dei numerosi esercizi che Dean compie sugli artisti da lei più ammirati. Lo stile è austero: un primo piano – ché il termine dettaglio non rende la misura – e una ripresa fissa. Un montaggio sintetizzato nella semplice successione dei piani delle riprese attorno all’oggetto. Uno schema compositivo tipico per Dean: qui in successione fogli di Morandi; altrove, per altri film, brani dagli affreschi di Giotto o dallo scarabocchio di un frate (Buon Fresco, 2014; The Friar’s Doodle, 2010). Non c’è alcuna aggiunta, c’è solo la ripetizione frutto di una forma di attenzione e una dedizione descrittiva priva di aggettivazione che riesce a compiersi nella forma cinematografica. Dean prende la maniera compositiva della natura morta e, come fatto per il piano, la rivolta secondo la sua arte. Dean quasi ricalca Morandi ma in negativo: attraverso uno svuotamento di quello che è l’essenza della natura morta, un quadro pieno di oggetti, che stanno, che rimangono – still –, ecco che invece Dean riprende la mancanza di questi oggetti segnandone una sopravvivenza in assenza – life. Le forme dei diversi oggetti ne permettono il ritorno alla mente, sono sufficienti a loro stesse, e soppiantano lo studiato, schematico e ordinato pieno di Morandi attraverso un sottile, quanto un tratto, vuoto ingarbugliato. Le linee, i segni di Morandi che stavano per le bottiglie e i bicchieri ne assumono il ruolo – non più solo la posizione, come gli stand-in prima che arrivino gli attori. A doppiare i tratti, per una semplice storia materiale, è la pellicola del film: i graffi, i segni della celluloide sulla parete sembrano non trovare distanza da quelli di Morandi. Una sovrascrittura lecita.

II. Ancora Bologna, via della Braina

3 | Meredith Monk, Bloodline Shrine, installazione video su 5 canali, 2018.

4 | Quaderno di scuola al Pio Istituto delle Sordomute Povere, Bologna.

Pio Istituto delle Sordomute Povere: qui il luogo è come una natura morta, i vasi, i soprammobili, gli oggetti restano fissati al loro presente. Chi oggi li visita è come un fantasma: attraversa le camere, i corridoi, ma non sembra lasciarvi traccia alcuna, tutto pare dover rimanere com’è. Passato un corridoio, dentro a una stanza buia, nella sua estremità, cinque monitor video accesi dell’installazione Bloodline Shrine di Meredith Monk. L’opera è una ripresa dalla sua performance del 2018 Cellular Songs. Lì e qui un tentativo di ridare una voce a chi non la ha, o meglio darne parola, che una voce è sempre possibile. Bloodline Shrine in qualche modo si lega al suo film realizzato con Bob Rosen, Ellis Island (1981): anche allora un luogo di cura, abbandonato, che come ogni luogo di cura contiene una dimensione coercitiva. L’isola d’approdo per chi voleva arrivare a New York. Anche qui come allora i soli, gli abbandonati presi in carico, i costretti al margine. Luoghi una volta abitati da queste persone ora spogli, di cui solo le suppellettili e gli arredamenti sono a dare memoria di quello che fu. Luoghi vuoti che riprendono il loro significato nella visita compiuta oggi. Oggi come allora, eppure non più la cura per la sordomuta o l’immigrato ma il minimo percepire di ciò che è valso quel luogo e ciò che valeva quella dimensione di cura umana. Ma se in Ellis Island la visita al tempo presente, il tempo attuale, è data all’interno del film, attraverso le scene a colori, per Bloodline Shrine questa non è necessaria. Può venire a perdersi quella parte in quanto è supplita in maniera tangibile dalla dimensione installativa in loco. Il fatto che l’opera video abiti quel palazzo, sia all’interno di una delle stanze, il dormitorio, fa compiere quella parte di pellegrinaggio virtuale di Ellis Island in prima persona allo spettatore che arriva al video al termine del percorso lungo le scale, tra le aule, i corridoi rivestiti di un passato impassibile al volgere degli anni.

Si può ascoltare, nel buio attorno ai letti, il suono ritmato di Monk e cantanti, la vocalizzazione avulsa dalla dimensione logocentrica, in una permanenza della dimensione fatica data dal primo piano dei volti e delle bocche che s’appellano senza parole allo spettatore. C’è il susseguirsi di volti, organi percettivi come il naso e l’orecchio e l’occhio, o la bocca a dire in una afasia precisa, tonda e indefettibile. Si ripete ancora uno dei grandi meriti di Monk, da sempre e in anticipo su molti, quasi tutti: il saper legare materiali visivi differenti tra loro (in questo caso riprese di volti, fotografia, immagini biomediche) grazie al ritmato del canto, della musica che insiste e cuce le diverse immagini in un unico coro visivo. Le parti del video legate e una genealogia a inserire il passato nel presente, i volti dei cantanti sono infatti preceduti e seguiti dai volti dei loro avi. E per quel canto a cappella ritmato e percussivo che tiene lo spettatore al video, la genealogia passa anche a lui, trovando nella stanza un luogo comune per tutti. Tornando indietro si ripercorre il disadorno corridoio, con le finestre dal vetro sottile, le tende quasi impalpabili, i crocefissi a ogni susseguirsi di parete tra le finestre. Si torna nell’aula di lezione. Qui, sul banco della classe, è un quaderno aperto: brevi segni a ripetere l’esercizio della lezione, compiti svolti dalle alunne e consegnati allo sguardo del docente.

III. Londra

5 | Anthony McCall mentre realizza Cone of Variable Volume con una macchina per l’animazione Bell and Howell, la stessa usata per Ligh Describing a Cone (foto di George Griffin), 1974.

6 | Anthony McCall, Light Describing a Cone, 16mm e fumo, 1973, Anthony McCall. Solid Light, Tate Modern, London, 27 giugno 2024- 27 aprile 2025.

Una centrale elettrica dismessa e riadattata per usi espositivi. Le turbine che dovevano illuminare la città hanno lasciato spazio a grandi installazioni di arte contemporanea. Nei volumi accanto, sono la permanente e le esposizioni temporanee. Tra queste è ora quella dedicata a Anthony McCall, una selezione di alcuni dei suoi lavori più significativi. Molti dei suoi film sono fatti di solo luce bianca proiettata e impressa contro una superficie in funzione di schermo. Dalle prime opere negli Settanta, ancora pensate per una singola proiezione in sala, negli anni i film hanno sempre più preso la via dell’installazione, un percorso guidato tanto dalle caratteristiche delle opere che dipeso da una direzione seguita dal cinema sperimentale – e di quello espanso in particolare – che sempre più sovente cade all’interno degli spazi deputati all’arte contemporanea. La seconda opera che si incontra è la prima a cui si pensa al nome di McCall, Light Describing a Cone (1973). A introdurla, ancor più che a anticiparla, sono alcuni bozzetti nei suoi quaderni in cui segna la partitura – un termine che è stato notato come più adeguato per dire del tentativo di oggettivare il progetto per questi tipi di film – dei movimenti che la luce dovrà poi compiere nel film. Nella sala accanto arriva il buio, la proiezione di Landscape for Fire (1972), il quale è già un primo solco per il successivo: una performance in un campo, laddove i fuochi, i fumi bianchi e lo spegnersi e accendersi dei bracieri tracciano tra l’erba linee e geometrie. Di una sola geometria è il cono di luce in Light Describing a Cone: il cerchio, la base del cono, impiega trenta minuti per formarsi sullo schermo. Per completare il solido, le sue pareti, occorre quanto negli anni Settanta era materia presente a ogni proiezione: il fumo delle sigarette, oggi sostituito da quello delle apposite macchine. L’opacità dell’ambiente data dal fumo permette il tracciarsi nell’aria del cono; la lampada che dal proiettore emana la luce è il secondo fuoco che è specchio in cui si riflette il vuoto del cerchio. Indubbiamente affascinante l’aria densa bagnata dalla luce, il vorticare del fumo come luminose onde o nuvole bianche, che poi diviene una linea di ghiaccio netta e profonda alla parete – una bellezza smussata nelle opere più recenti giocate sugli stessi elementi, le quali appaiono derivative delle prima o delle variazioni sul tema. Esiste una versione digitale di questo film, ma non si tratta di una digitalizzazione della versione originale. È un altro film, realizzato appositamente in digitale nel 2010, dove attraverso un software McCall traccia nell’immagine sullo schermo l’evoluzione della chiusura del cerchio. Il primo è quello in mostra, ed è stato realizzato attraverso un procedimento di animazione dell’immagine: il tratto bianco è disegnato a guazzo e la macchina da presa perpendicolare al disegno lo riprende. Sul tavolo di ripresa si forma idealmente quel cono che poi in proiezione sarà tangibile. Non solo visibile, questa proiezione aerea (come prima, in altro senso, era la ripresa) diviene una scultura di luce che cerca di trovare risoluzione nella figura sullo schermo. Tuttavia, non è possibile esimersi dalla tentazione, peraltro condizionata dalla stessa installazione, di toccare il raggio bianco, interrompendolo e facendolo proseguire sulla propria pelle. Una linea di luce scrive sul tuo corpo, i bambini sono quelli che ne approfittano di più. Altri prendono posto nello spazio del cerchio, in una replica – anche questa voluta dalla installazione di McCall – della figura vitruviana accecata dalla lampada. Altri ancora siedono a terra accanto al proiettore, attendono la chiusura del cerchio, il compimento del cono. Immancabile comanda l’imperfezione, il cerchio nella versione del 1973 non è destinato a chiudersi, il tratto di McCall asseconda l’idea del progetto fino a un certo punto. Un punto poco più in alto da dove era partito – nella nuova versione, quella digitale, il cerchio si sarebbe invece chiuso, una cura eccessiva per una idea già compiuta al di là del segno.

IV. Trieste

7 | Adrian Paci, Compito, 2023, penna su carta, 2023, Compito, Galleria Trieste Contemporanea, Trieste, 9 dicembre 2023- 13 febbraio 2024.

8 | Adrian Paci, Compito, incisione su tempera su foglia d’oro su tavola, 2023, Compito, Galleria Trieste Contemporanea, Trieste, 9 dicembre 2023- 13 febbraio 2024.

Un ampio tavolo a vetrina contiene pagine di agende strappate e segnate. Se si guarda nuovamente, le pagine sono solo fogli, e le tipiche intestazioni da agenda con all’angolo superiore la data e il giorno sono state messe dalla stessa mano che ha riempito di scritte il resto della pagina. Ma scritte è un termine che crea imbarazzo, potrebbe portare fuori strada: le pagine non sono veramente scritte, come l’intestazione è in realtà solo dei brevi tratti, a mo’ di cancellatura, che la segna nel consueto posto e secondo la consueta impaginazione. Ma ancor più sbagliato sarebbe dire che questi segni, di diversi colori, tutti a penna o a matita, alcuni più ampi e circonvoluti, altri raccolti e brevi, sono degli scarabocchi. È invece corretto proprio il termine scrittura. Si tratta di fogli che l’artista Adrian Paci ha riempito copiando le pagine di agende scritte compulsivamente da un ragazzo, Maurizio, ospite di una comunità di Sant’Egidio. Ha ripreso queste pagine incomprensibili ma cariche di una forza e di una pregnanza enunciativa insieme a un fascino visivo affatto accattivante. Contengono infatti una tensione al dire, quasi vocativa, di difficile elusione, e sono qui riprese come da un amanuense che riscrive un codice per tramandarlo nel tempo e diffonderlo. Non c’è lettura, questa è inaccessibile, ma allo stesso tempo si comprende l’espressività di queste pagine scritte.

Roland Barthes, nel suo Variazioni sulla scrittura, evidenzia come il segno artistico, il disegno, e quello della scrittura abbiano una sola matrice; di come la dimensione comunicativa dello scrivere sia accidentale. E indica qual è il segno peculiare di uno e dell’altra: “All’origine congiunta della scrittura e dell’arte è intervenuto il ritmo, il tracciato regolare, la nuda puntuazione di incisioni in-significanti e ripetute: i segni, vuoti, erano dei ritmi, non delle forme. L’astratto è all’origine del grafismo, la scrittura all’origine dell’arte” (Barthes [1994] 1999, 67). È infatti proprio grazie a un ritmato delle pagine di Maurizio che Paci riconosce il loro carattere: “Non si trattava di semplici scarabocchi; una sorta di ritmo e un senso di ordine si univano all’enigma di questi elementi impossibili da decifrare” (Paci 2023, 26). Assodato che si tratta di una scrittura, seppur priva di lettere, rimane la sua impossibilità di lettura. Forse per questo che dalla sola copiatura Paci poi tenta la traduzione attraverso altre tecniche. Affida le pagine ad alcuni compositori affinché tentino di tradurle in partiture e quindi in musica; fa realizzare a sua madre dei piccoli arazzi in cui sono cuciti quei grafismi. Tuttavia, la traduzione migliore è forse quella tentata dallo stesso Paci che riprende le pagine delle agende in forma di icona. Realizza piccole tavole di legno, dittici legati a libro, con il fondo oro. Nella pura luce, con un solco che svela il livello sottostante, sono riportate le pagine di Maurizio. È qui, nel rosso scavato nell’oro, che è ribadita la loro propria natura di scrittura asemantica. Difatti, un’icona per essere tale ha bisogno di un elemento conclusivo e ineludibile: la scrittura del nome dell’icona. Non sappiamo il nome dell’icona, non sappiamo leggere quei segni che potrebbero appartenere a una impossibile scrittura dello slavonico o del greco, ma sappiamo che è scrittura. Sempre Barthes: “Ci sono dei linguisti che s’attengono con aggressività alla solo dimensione comunicativa del linguaggio: il linguaggio serve appunto a comunicare. Stesso pregiudizio alligna presso gli archeologi, e gli storici della scrittura: la scrittura, ecco, serve a trasmettere. Eppure costoro sono costretti ad ammettere che, con assoluta certezza, la scrittura è sovente (o sempre?) servita a nascondere ciò che le era affidato” (Barthes [1994] 1999, 10). “Scrivo perché questo è il mio compito” dice Maurizio, e l’essere illeggibile, il nascondere piuttosto che lo svelare, è forse il significato che Maurizio dà alla sua pratica di cui Paci con Compito – così è intitolata la serie – ha voluto prendersi cura: “Mi dissero che molti dei suoi diari erano stati gettati via da persone a lui vicine perché privi di significato” (Paci 2023, 27). Caduta la parola, scomparso l’oggetto, resta comunque il segno tracciato – basta quello a dare una sopravvivenza al tutto, anche al senso.

Nota

Still Life di Tacita Dean è stato recentemente proposto a Bologna allo spazio Pietro di Palazzo Tanari, in occasione di Art City, tra l’1 e il 4 febbraio 2024. Nella stessa occasione, al Pio Istituto delle Sordomute Povere, è stato presentato, a cura di Caterina Molteni, Bloodline Shrine di Meredith Monk. Anthony McCall. Solid Light, per la cura di Gregor Muir e Andrew de Brún è stata inaugurata il 27 giugno del 2024 e terminerà il 27 aprile del 2025 alla Tate Modern di Londra. Compito di Adrian Paci, in collaborazione con Kolë Laca, Lodi Luka e Admir Shkurtaj è stato esposto per la curatela di Giuliana Carbi Jesurum dal 9 dicembre 2023 al 13 febbraio 2024 a Trieste Contemporanea, Trieste.

Riferimenti bibliografici
  • Barthes [1994] 1999
    R. Barthes, Variazioni sulla scrittura. Il piacere del testo [Variations sur l’écriture, Paris 1994], a c. di C. Ossola, Torino 1999.
  • Camporesi 2023
    E. Camporesi, Projeter e(s)t restaurer, “1895. Revue d’histoire du cinéma” n. 10 (inverno 2023), 108-119.
  • Dean 2018
    T. Dean, Selected Writing. Complete Works&Filmography, London 2018.
  • McCall 2015
    Anthony McCall. Solid Light Works, a c. di B. Della Casa, Milano 2015.
  • Paci 2023
    A. Paci, Compito, Trieste 2023.
English abstract

This article explores recent exhibitions by Tacita Dean, Meredith Monk, Anthony McCall and Adrian Paci, focusing on their approaches to composition and artistic representation. It analyses Dean's reinterpretation of Giorgio Morandi's still life through film projection in a recent exhibition in Bologna. Then, it analyses Monk's work Bloodline Shrine, a vocal performance installation, and McCall's light installations - in particular Light Describing a Cone, now exhibited in London - that create immersive sculptural experiences. Finally, Paci's work Compito, exhibited in Trieste, focusing on asemantic writing, highlights the power of non-verbal expression. Through the different practices of these artists, the article reflects on the persistence of traces, the care of memory and the meaning of absence in contemporary art.

keywords | Tacita Dean; Meredith Monk; Anthony McCall; Adrian Paci; traces.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Perfetti, Segni. Attraversamenti tra recenti esposizioni di Tacita Dean, Meredith Monk, Anthony McCall e Adrian Paci, “La Rivista di Engramma” n. 217, ottobre 2024.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.217.0017