Lo “stravedamento” di Marco Polo
Un’avventura iconografica tra storia, mito e fiction
Maria Bergamo, Alessandra Pedersoli*
English abstract
Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo.
Italo Calvino, Le città invisibili
Basta che sia vero, e noi lo mettiamo – aveva detto Baudolino –
l’importante è non raccontare favole.
Umberto Eco, Baudolino
Non è possibile – nel trattare del rapporto tra immaginario e reale della vicenda di Marco Polo e del suo celebre libro Il Milione o Devisement dou monde – non iniziare dall’incipit di un altro famoso libro in cui è lo stesso mercante veneziano a raccontare di città e paesaggi tanto razionali quanto metafisici (Calvino 1972). Né è possibile dimenticare come nel romanzo di Baudolino – personificazione della capacità di sconfinamento tra piani di realtà e fantasia del pensiero medievale (Eco 2000) – sia il protagonista a dettare nientemeno che la lettera del Prete Gianni alla sua sgangherata compagnia sotto l’effetto di hashish, dando origine a una delle più mitiche utopie del Medioevo. Ciò che unisce Marco Polo e Baudolino – così come sono rivisitati nei due romanzi – è la capacità di narrazione, e di una narrazione fantastica. In altre parole, solo nel racconto più iperbolico e onirico, nel succedersi frenetico di dettagli tanto mirabolanti quanto improbabili, è possibile evocare, intravedere, rappresentare la verità. Quella verità più vera del vero, che supera l’occhio e fa volare la mente: è l’illusione ottica dello “stravedamento”, come si dice in dialetto veneziano.
L’ambiguità tra il testo poliano, così rigoroso e documentaristico, e la sua eccezionale fortuna esotica e onirica, è una delle sue caratteristiche più affascinanti e singolari, come la sua vicenda iconografica, che risiede nella natura stessa del testo:
Il Devisement si presenta di per sè come un ibrido, costruito sulla collaborazione di più codici rappresentativi e caratterizzato da un’identità testuale instabile, capace di disorientare il destinatario per l’incrocio di più schemi di lettura necessari all’interpretazione di contenuti originali e inattesi. Nella sua illustrazione si è dato quindi come necessario un riorientamento della lettura del testo e delle sue strutture comunicative primarie (i contenuti e registri espositivi tipici del racconto di viaggio, del manuale di mercatura o del trattato geografico) verso la forma nuova e di originale fattura – anche se convenzionale – di un’imago mundi illustrata (Ciccuto 2024, 254).
Il lungo processo della fortuna di Marco Polo e della sue avventure, nei secoli, è dipeso da mille variabili: la diffusione delle diverse copie dello scritto, la sua illustrazione da parte dei miniatori e delle loro botteghe, e ovviamente gli intenti delle singole committenze da cui derivava la realizzazione dei singoli esemplari (come orientamento nella vastissima bibliografia si fa qui riferimento all’ultimo – prezioso – lavoro di Eugenio Burgio, Samuela Simion e l’unità di ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, confluito nel volume Simion, Burgio 2024; nonchè Gaunt 2009; Ciccutto 1990). Ma è facile avvicinare il Devisement, soprattutto la sezione delle merveilles o mirabilia orientalis, ad altri testi di grande circolazione e fortuna nel Medioevo, come il Romanzo di Alessandro, che hanno costituito una sorta di repertorio iconografico e “iconotestuale” (Avril, Gousset 1999) nel processo di “illustrazione immaginaria dell’Oriente medievale” (basti citare i lavori pioneristici di Wittkower 1942 o 1957, Baltrusaitis 1955; e, più di recente Centanni 2009, Bergamo 2022). Contini parlava di una “straordinaria energia extra-testuale” fatta di infinite possibilità di immaginazione e invenzione: la natura instabile ed eteroclita del testo gli ha conferito un potenziale fantastico capace di innescare un movimento rielaborativo incessante (Contini 1976, 218).
Le immagini che illustrano il Devisement dou monde, le edizioni che raccolgono le gesta del protagonista, le mappe in cui egli compare nel Catai, sono ampiamente studiate e si potrebbero classificare in diversi filoni più o meno attenti alla storia o al mito (Montesano 2024; Simion, Burgio 2015), ma ciò che colpisce è che questa costante oscillazione tra reale e immaginario sia ancora oggi presente e persistente: nei numerosi eventi recentemente svoltisi per la celebrazione dei 700 anni della morte di Marco Polo (di cui si veda la esaustiva rassegna di Laura Tomasi in questo stesso numero di Engramma) si è potuto assistere a icontri di raffinata filologia sulle differenti versioni del Milione come a carnevalesche cineserie. La tradizione vive ancora in tutta la sua potenza energetica e culturale, e continua a trasformare Marco Polo in film, videogiochi, cartoni animati.
Sul tema, approfondiremo dunque qualche esempio contemporaneo di oscillazione tra reale e immaginario nella fortuna iconografica di Marco Polo, analizzando e ponendo in evidenza alcuni meccanismi della tradizione che proseguono con la sua avventura iconografica. Perchè non è solo Marco che cercava gli unicorni, ma siamo anche noi, oggi, a ‘cercare unicorni’ attraverso il suo mito.
Unicorni e Kung fu
Com’è noto, tra rinoceronti e unicorni Umberto Eco sviluppa le sue teorie sull’immagine (Eco 1975; Eco 1993) rifacendosi al celebre passo del Milione in cui i mercanti veneziani, a Sumatra, incontrano per la prima volta un animale strordinario:
Egli hanno leonfanti assai salvatichi, e unicorni che non sono guari minori che leonfanti. E’ sono di pelo di bufali, e piedi come leonfanti. Nel mezzo della fronte hanno un corno nero e grosso: e dicovi che non fanno male con quel corno, ma con la lingua, chè l’hanno ispinosa tutta quanta di spine molto grandi. Lo capo hanno come di cinghiaro, la testa porta tuttavia inchinata verso la terra; e istà molto volentieri tra li buoi: ella è bestia molto laida a vedere. Non è, come si dice di qua, ch’ella si lasci prendere dalla pulcella, ma è il contradio (Marco Polo, Il Milione, CXLIII, Della piccola Isola di Iava).
Lo scarto tra ciò che Marco Polo vede realmente e quello che non vede è chiaramente leggibile: è un unicorno, ma non come “quelli nostri, che si lasciano prendere solo dalle fanciulle”. L’elegante animale immaginario dei bestiari cortesi poggiato nel grembo delle vergini diventa un filtro dismorfico per quello orribile, presente ma sconosciuto: il portato culturale innato – “Libri Base” li chiama Eco – trasforma la visione di un dato irreale, e lo rende reale, accessibile. La falsa identificazione è quindi un procedimento di addomesticamento, riduzione di un’alterità sconosciuta e incomprensibile. Marco Polo e i suoi cercavano davvero gli unicorni, perchè degli unicorni sapevano già. Non importa se il cavallo meraviglioso esista o no, e se i Cinesi rappresentassero rinoceronti già da millenni ( e in Occidente anche la loro immagine avrà una curiosa fortuna iconografica dal XV secolo, ma è un’altra storia: cfr. Pincelli 2013).
Wittkower, nei suoi pioneristici saggi, aveva esaminato alcuni gruppi di codici miniati (in particolare il cosidetto Livre de Marviellies BnF, ms. Fr. 2810, del XIV secolo, che raccoglie resoconti di viaggi fantastici e reali), notando come le illustrazioni differissero dai testi, in particolare nel caso di quello di Marco Polo (Wittkower 1942 e 1957). Immagini delle straordinarie bestie d’Oriente, e le città degli strani popoli che lo abitavano, accompagnano sulle pagine dei libri i resoconti delle lunghe miglia percorse dal mercante veneziano, ma senza correlazione tra testo e illustrazioni: questo schema si protrae in moltissimi esemplari, tanto che avviene un rovesciamento, e Marco Polo viene accusato di menzogna. Ma non solo lui: i viaggiatori che nel Duecento e Trecento si trovavano a percorrere la sconosciuta Asia avevano alle spalle una lunga e molteplice tradizione, fatta di racconti odeporici fantastici e reali, di informazioni date per incontrovertibili, di trattati geografici, di testi letterari narrativi e trattatistici (Chiesa 2024), e spesso chi scriveva resoconti dei propri viaggi in Oriente si trovava a dare giustificazioni più o meno razionali del fatto di non aver incontrato l’Eden, o i “mostri ai confini del mondo” testimoniati da Plinio al Presbiter Iohannes, passando per Isidoro e Agostino (Montesano 2024).
Così accadeva anche nella parallela disciplina geografica, dove il confine tra reale e immaginario della cartografia antica, nonché il suo rapporto con la conoscenza e la scoperta del mondo, la scienza astronomica e la rappresentazione spaziale, è uno dei più importanti capitoli della storia e cultura umane. Interessante è quanto afferma Angelo Cattaneo sul sistema di pensiero dei cartografi premoderni:
Il tentativo di rintracciare sulle mappe dettagli e informazioni relativi al mondo “reale” rimane a prima vista frustrato. La maggior parte dei disegni sono risultato non di un’osservazione diretta ma dell’immaginazione. Un’analisi più accorta però porta ad individuare una forma di attenzione al “reale” che non è il risultato di un’osservazione autoptica ma di attenzione “realistica” al racconto delle fonti: il cartografo cerca di raffigurre fedelmente quanto legge e apprende, esprimendosi in una sorta di “realismo congetturale” (Cattaneo 2024, 240).
Ma, nel considerare il migrare dei simboli (citando ancora Wittkower), nel contemporaneo si ritrova ancora questo stesso sistema di visione contaminata dal desiderio, dal filtro della nostra cultura. Come per i lettori dei Livres de Marveilles non potevano mancare incontri e scontri con i popoli mostruosi, così nell’ultima serie dedicata a Marco Polo prodotta da Netflix in onda dal 2014 al 2017 (v. scheda IMDb), il giovane veneziano viene istruito al Kung fu per seguire in epiche battaglie il Gran Khan. Per uno spettatore medio odierno – complici gli algoritmi sullo share – in una serie ambientate in Oriente non possono certo mancare acrobazie a colpi di arti marziali.
I sistemi che ci permettono oggi di accertare alcuni fenomeni, come anche di pensare e osservare, sono profondamente dissimili da quelli in uso nel Medioevo: la specie homo sapiens, però, non è cambiata. Come il pubblico di 700 anni fa, idee e pensieri contemporanei risultano modellati secondo schemi di pensiero, per noi usuali, determinati dalla tradizione, istruzione, dal patrimonio culturale e da qualsiasi altro tipo di convinzione. Proprio allo stesso modo dei medievali siamo capaci di capire o intendiamo percepire e osservare soltanto ciò su cui possediamo già determinate nozioni e in cui grossomodo crediamo già (Wittkower 1942).
È quindi affascinante tentare di declinare la complessità di lettura che si è cercato di introdurre in queste poche parole alla cultura popolare dei mass-media, dove – sempre oscillando tra mito e storia – la figura di Marco Polo è oggetto di molti adattamenti e reinterpretazioni, tradizione e tradimenti (Minervini, Minervini 2024; Buongiorno 1997; Kinoshita 2017; Causa 2024).
Ricostruzioni filologico-pop
Tra le opere che si distaccano per il loro approccio filologico nella rievocazione dell’esploratore veneziano spicca lo sceneggiato Rai Marco Polo del 1982, diretto da Giuliano Montaldo. Questa trasposizione per il piccolo schermo, coprodotta da Italia, Stati Uniti, Francia e Regno Unito, ha visto Kenneth Marshall nel ruolo di Marco Polo. Le scene sono state curate da Luciano Ricceri, Paolo Biagetti e Franco Velchi, mentre i costumi sono stati realizzati da Enrico Sabbatini. Sviluppata in otto episodi, la serie narra le avventure di Marco Polo e il suo lungo viaggio verso la Cina insieme a suo padre e suo zio, rispettando fedelmente alcuni passaggi del racconto del Milione (v. scheda IMDb; Marco Polo Immagini 1982; Montaldo, Labella 1980). La serie ha inoltre rappresentato un’importante esperienza di collaborazione tra il mondo televisivo occidentale e quello cinese: il progetto è stato possibile a seguito del riavvicinamento diplomatico tra Italia e Cina dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Anche se la parte più rilevante della narrazione è dedicata al viaggio di Marco Polo attraverso le vaste steppe dell’Impero Mongolo, fino a Khanbaliq, l’antica capitale del Khanato, dove il protagonista diventa ospite del Gran Khan, grande attenzione è riservata a Venezia. Per quanto riguarda le scene ambientate nella città lagunare, la produzione ha insistito nel ricreare una rappresentazione storicamente accurata della città. L’epoca della postproduzione digitale era ben lontana, e, non essendo possibile girare direttamente in Piazza San Marco a causa della presenza di elementi architettonici troppo moderni, come la Biblioteca Marciana e la Loggia Sansoviniana, si è deciso di ricostruire interamente la piazza nel piccolo borgo di Malamocco, situato sull’isola del Lido di Venezia. Il luogo aveva conservato intatte alcune caratteristiche edilizie che potevano ritrovarsi anche nel XIII secolo, ma soprattutto consentiva una visione aperta sulla laguna con un’isola con campanile davanti: Poveglia, al posto di San Giorgio; era l’ambientazione ideale per ricostruire una Venezia medievale filologicamente più corretta. Le straordinarie, sontuose, strutture sceniche hanno quindi ricreato la basilica di San Marco nell’aspetto romanico, come si presentava all’inizio del Trecento, senza le cupole plumbee e le guglie del gotico fiorito. Anche il Palazzo Ducale è stato reinterpretato nella sua forma originaria di castello fortificato, con un rio davanti. In particolare, si può notare nelle sequenze del montaggio cinematografico che l’ingresso meridionale della basilica di San Marco, la “Porta da Mar” era aperta, e non presenta ancora i pilastri acritani né le statue dei Tetrarchi, Non è nemmeno visibile l’aggetto della Porta della Carta (opera che sarà realizzata solo due secoli dopo per opera di Bartolomeo Bon). Questi dettagli evidenziano la ricercata fedeltà filologica dell’ambientazione, elevando la qualità dello sceneggiato anche da un punto di vista visuale. Nel progetto era coinvolta l’intera città, e come racconta lo stesso Giuliano Montaldo in un’intervista (v. intervista a Montaldo), c’era la fila di curiosi che arrivavano a Malamocco per vedere il set, e sui giornali si leggeva dell’incredibile visione di una San Marco antica sperduta nella laguna.
La seduzione del riconoscimento
Nelle trasposizioni cinematografiche sulla figura di Marco Polo, la Venezia del tempo è stata sempre oggetto di rappresentazioni che evocano un immaginario ricco di suggestioni orientali, carico però dell’influenza estetica della pittura rinascimentale, che, pur in modo anacronistico, contribuiva a richiamare il fascino esotico e misterioso di luoghi lontani. Un esempio significativo è il film del 1965 La fabuleuse aventure de Marco Polo, noto in Italia anche con il titolo Lo scacchiere di Dio, in cui una Venezia ‘orientale’ emerge come una presenza così pervasiva da estendersi, come vedremo, anche ad altre città visitate dai mercanti nel loro viaggio. Il film, una coproduzione tra Afghanistan, Egitto, Francia, Italia e Jugoslavia, è diretto da Denys de La Patellière e Noël Howard, con Horst Buchholz nel ruolo di Marco Polo e Anthony Quinn in quello dell’imperatore Kubilai Khan. Le scene sono curate da Jacques Saulnier e i costumi sono disegnati da Jacques Fonteray. La distribuzione in Italia è stata affidata alla Titanus, una casa di produzione celebre per aver diffuso negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento il genere peplum. L’opera, benché poco conosciuta, ha un legame significativo con la cinematografia storica di quegli anni: il progetto del film aveva preso l’avvio già nel 1962, inizialmente prevedendo Alain Delon come protagonista e Christian-Jaque come regista, ma le riprese furono interrotte (v. scheda IMDb). Gli esterni sono stati girati in diversi paesi, tra cui Egitto, Jugoslavia, Francia e Afghanistan. In particolare in una delle sequenze del montaggio, allusive di luoghi che rimandano a un’ambientazione leggendaria e misteriosa, si può riconoscere un Buddha di Bamiyan, una delle sculture ora perdute per la distruzione operata dai Talebani nel 2001.
La trama del film si concentra inizialmente su un giovane Marco Polo che, nel 1271, attende il ritorno del padre Niccolò e dello zio Matteo, assenti sette anni da Venezia. Nonostante il sequestro delle loro mercanzie da parte dei creditori bizantini, i due viaggiatori riescono a portare un messaggio di Kubilai Khan per Papa Gregorio X, nel quale è promesso il suo aiuto per la riconquista del Santo Sepolcro, a condizione però che vengano inviati cento predicatori cristiani per evangelizzare i suoi sudditi. Il papa, conosciuto Marco Polo, decide di mandare solo il giovane veneziano anziché un numeroso gruppo di missionari. Per questo due delle scene iniziali del film si svolgono a Roma, dove i Polo incontrano il Papa nella sua residenza.
In una stanza elegantemente decorata con marmi alle pareti, che si apre su uno scorcio prospettico dominato dalla presenza di numerose comparse, alcune delle quali abbigliate con costumi sgargianti, si riconoscono le visioni prospettiche tipiche delle opere di Vittore Carpaccio nelle Storie di Sant’Orsola. In particolare, le scene richiamano due dipinti del ciclo veneziano: Il Commiato degli Ambasciatori e L’Arrivo degli Ambasciatori Inglesi alla Corte del Re di Bretagna, entrambi datati intorno al 1495 e conservati presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia. La seduzione del riconoscimento, delle pareti marmoree del Commiato e della visione prospettica dell’Arrivo degli ambasciatori, appare suggestiva più che seduttiva se si considera il grande clamore che ebbe la mostra dedicata al maestro veneziano pochi anni prima del film, nel 1963, curata da Pietro Zampetti alle Gallerie dell’Accademia.
Un altro elemento anacronisticamente affascinante presente nel film è la rappresentazione di Papa Gregorio X che prega ai piedi di un altare su cui campeggia una riproduzione della Madonna col Bambino di Simone Martini, una tempera su tavola proveniente dal polittico della Pieve di San Giovanni Battista di Lucignano d’Arbia, datata intorno al 1321 e oggi conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena. La scelta di includere quest’opera, sebbene cronologicamente incoerente rispetto agli eventi narrati (l’opera fu realizzata circa cinquant’anni dopo gli eventi del film) e nemmeno appropriata nell’originale natura materica dell’immagine sacra – probabilmente proveniente da un polittico smembrato – suggerisce un forte interesse degli scenografi per il maestro senese, la cui figura conobbe un rinnovato interesse negli studi del secondo Dopoguerra. La scelta della Madonna di Simone Martini, in particolare, appare evocativa della vicinanza dell’artista alla corte papale, sottolineando l’attenzione indiscreta degli scenografi del film nel selezionare citazioni colte tratte dall’immaginario dell’arte senese del Trecento.
Caccia all’errore!
La possibilità di identificare errori e anacronismi nelle ricostruzioni cinematografiche della Venezia di Marco Polo emerge invece con particolare evidenza nelle scene iniziali della serie Netflix Marco Polo, prodotta negli Stati Uniti dal 2014 al 2016. Ideata da John Fusco, con Lorenzo Richelmy nel ruolo del protagonista, la serie vanta la direzione artistica di Lilly Kilvert e i costumi di Tim Yip e Jo Korer (v. scheda IMDb).
Nella rappresentazione della Venezia medievale, le ricostruzioni architettoniche sono state largamente modificate tramite l’uso della computer grafic, con l’inserimento di alcune pittoresche galee nel canale della Giudecca e la rimozione di significativi edifici, tra cui la basilica di San Giorgio Maggiore, opera di Andrea Palladio edificata a partire dalla seconda metà del XVI secolo. Tuttavia, nonostante la scure della postproduzione digitale, agli addetti alle ricostruzioni sceniche sono sfuggiti alcuni dettagli cronologicamente rilevanti. Resta ben evidente nello skyline la cupola e il pronao la basilica del Redentore, progettata dallo stesso Andrea Palladio nel 1577 e completata nel 1592. Un altro particolare cronologicamente incoerente è la presenza in vari fotogrammi della grande scultura che campeggia oggi sulla sommità della Punta della Dogana in bacino San Marco: la sfera in bronzo dorato, sorretta da due Atlanti, sulla quale ruota – mossa dal vento – la personificazione di Occasio, opera scultorea di Bernardo Falconi realizzata nel Seicento. L’immagine di Fortuna, che cambia costantemente direzione, posta in così grande evidenza nel porto venenziano, era la divinità allegorica a cui si votavano i mercanti e naviganti che entravano o uscivano dalla laguna. Certo è un errore grossolano, ma ci piacerebbe pensare a un’allusione – consapevolmente o meno – all’impresa di Marco Polo.
Anacronismi e Venezie improbabili
Le rappresentazioni di una Venezia improbabile o anacronistica sono quasi inevitabili nella produzione cinematografica e nei cartoni animati che trattano le avventure di Marco Polo, perchè affidate, ancora una volta, più all’immaginario che alla reatà. Un esempio si trova nel film The Incredible Adventures of Marco Polo on His Journeys to the Ends of the Earth del 1998, una coproduzione americana e ucraina diretta da George Erschbamer, con Donald Diamont nel ruolo di Marco Polo. Le scene sono state realizzate sotto la direzione artistica di Konstantin Zagorsky, mentre i costumi sono curati da Anya Kusnetsova (v. scheda IMDb). È evidente come molte delle riprese siano state eseguite in set di posa artificiali: nelle sequenze iniziali del montaggio, ad esempio, compaiono gondole adornate con improbabili sedie borchiate e una reinvenzione fantasiosa del tradizionale ferro da gondola, mentre gli interni, vagamente ispirati a un immaginario nordafricano, aggiungono una – non necessaria – allure esotica.
In un cartone animato degli anni Settanta, ormai raro e difficile da reperire, Marco Polo, l’uomo che visitò il favoloso Oriente (episodio della serie Grandi personaggi), Venezia è rappresentata in modo alquanto fantasiosa: la città appare come un porto protetto dai monti, mentre la nave su cui si imbarcano i Polo è ormeggiata lungo un molo di pietra che si apre tra gli scogli (l’unico video già presente su youtube oggi non è più disponibile, la scheda parziale è consultabile qui).
Una produzione più recente è il Marco Polo del 2017, un’animazione italiana prodotta da Lastrengo & Testa, diretta da Francesco Testa e distribuita dalla RAI (v. serie completa su RaiPlay), che amplifica ulteriormente l’aura fiabesca associata al nome del viaggiatore veneziano, fortemente influenzata dalla consueta suggestione orientaleggiante. La città è percepita attraverso un filtro onirico, con piazze, colonne, palazzi e l’inconfondibile basilica che sfumano in un’atmosfera che sembra più un sogno moresco che una ricostruzione storica attenta. Ma anche qui si riscontrano interessanti cortocircuiti anacronistici: nel tono fiabesco dominante si riconoscono riferimenti a opere d’arte bene precise, se pure cronologicamente inesatte. Nelle sequenze iniziali la rappresentazione della città dall’alto ammicca ai più famosi isolari o vedute di Venezia dall’alto, come quella di Benedetto Bordone del 1528, mentre gli abitanti della città si muovono tra campielli, calli e canali e edifici della fine del XVI secolo, come ad esempio il ponte di Rialto, indossando abiti decisamente moderni, il che aggiunge un ulteriore strato di dissonanza temporale.
Da Oriente a Occidente e viceversa
Nelle sue diverse rappresentazioni all’interno della cultura popolare, Marco Polo emerge come figura-simbolo di avventura e scoperta di mondi lontani e affascinanti, un tema che attraversa tanto le produzioni cinematografiche destinate agli adulti quanto i cartoni animati per bambini. Tra le serie animate più interessanti sotto questo aspetto si ricorda Le avventure di Marco Polo (アニメーション紀行 マルコ・ポーロの冒険, Animation kikō Marco Polo no boken), un anime giapponese prodotto nel 1979-1980 da Madhouse in collaborazione con la NHK, con la direzione artistica di Setsuko Ishizu. Questo anime, articolato in 43 episodi, si ispira a molte descrizioni del Milione ma si incentra sul protagonista dipinto come un giovane esploratore, intelligente e desideroso di avventura, che attraversa culture e mondi sconosciuti in un vero e proprio viaggio di formazione (v. scheda AnimeClick).
In Italia, la serie fu trasmessa per la prima volta nel 1982 su alcune emittenti locali, ottenendo un discreto successo (purtroppo oggi non risulta più reperibile in rete). La rappresentazione della Venezia del XIII secolo, che appare nelle prime sequenze, si distacca dagli immaginari finora descritti, offrendo una visione decisamente spoglia, stilizzata e priva di riferimenti architettonici rilevanti, come il Palazzo Ducale o la Basilica di San Marco. I canali, inoltre, sono raffigurati più come strade che come vie d’acqua, accentuando il carattere di fantasia, poco congruente rispetto allo specifico della città. Ciò che rappresenta una vera e propria innovazione nella serie, un unicum molto divertente, è l’accostamento del cartone animato ‘in stile’ a scene documentaristiche in filmato in cui si vede una Venezia contemporanea agli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso. L’intento dell’anime infatti, era dichiaratamente documentaristico e didattico, con l’obiettivo di far conoscere i luoghi reali attraverso il racconto biografico di Marco. Che una produzione giapponese raccolga informazioni sull’antico, mitico, viaggio da Venezia all’Oriente, e le proponga in un pastiche di immagini per un determinato pubblico rende l’operazione in qualche modo concettualmente vicina alla realizzazione dei codici medievali, e pertanto estremamente affascinante.
E ancor più affascinante nella serie è la scelta stilistica nelle sigle (sia iniziale, sia finale), dove, accanto ai disegni animati del giovane Marco Polo a cavallo e nel corso del suo itonerario, sono inserite immagini di opere d’arte e architetture reali, ancora in chiave documentaristica, capolavori provenienti da civiltà e culture lontane, ben oltre quanto è descritto nel Milione. Questi inserti visivi, modificati in una grafica quasi psichedelica tipica di quegli anni, esibiscono scene evocative ma anche citazioni esplicite all’arte e all’architettura dell’Estremo Oriente: teste di ariete mesopotamiche, il lamassù, minareti e moschee; nonché paesaggi esotici provenienti da Afghanistan, Cambogia, Bali e India, tra cui il tempio Sarangapani. Altri riferimenti iconografici rimandano al teatro kathakali e ai templi thailandesi, completando un mosaico visivo che amplia la portata della narrazione, e inserendo Marco Polo in un contesto più ampio di exemplum educativo ricco di suggestioni lontane per i bambini degli anni Ottanta. Questa fusione di animazione e documentario non solo arricchisce l’immaginario del giovane pubblico, ma contribuisce anche a un’interpretazione simbolica del viaggio di Marco Polo come un attraversamento di culture diverse, dove l’incontro con l’altro diventa parte essenziale del percorso di crescita e formazione del protagonista.
La capacità di guardare oltre quindi non appartiene alla categoria della falsificazione, contro cui si sentono spesso deprecazioni in quest’epoca in cui – per l’inflazione della conoscenza e delle immagini mediatiche – la barriera vero/falso è sempre più labile. È una categoria che non assimila alla “iperrealtà” né tantomeno ai concetti di “Neo-truth/Soft truth/Faux truth/Truth lite” degli studiosi di media (da Baudrillard 1981 a Keyes 2004), ma risiede piuttosto nel potere dell’immagine, che non si trova mai, come sosteneva Régis Debray, in un originario o primario, grado zero – cioè elementarmente ‘bruto’ – ma è sempre contaminata dall’immaginazione, dalla cultura, dalla memoria:
Il n’y a pas de perception sans imagination. Il n’y a pas de degré zéro du regard (donc l’image n’est pas brute). Il n’y a pas d’état documentaire pur sur lequel viendrait se greffer, après coup, une lecture symbolisante. Tout document visuel est immédiatement fiction (Debray 1992, 64).
È invece, come si dice a Venezia, uno “stravedamento”, che non è altro che l’esito dell’energia dell’immagine e del potere della visione – mentale, fisica, insieme.
* Questo contributo è stato elaborato a partire dal testo dalla relazione Il Medioevo di Marco Polo. Storia, mito, fiction presentato al convegno internazionale “Medievalismi autunnali. Il Medioevo nella Popular Culture” (Bologna, 11-13 novembre 2021) a cura del Centro Internazionale di Studi Umanistici “Umberto Eco” e dell’Università Alma Mater studiorum di Bologna.
Bibliografia
Videografia
- Documentario: Allora in onda: Marco Polo, 2020, RAITV
- Intervista: Sceneggiato Marco Polo: Intervista a Giuliano Montaldo
Serie, film, cartoni citati
- La fabuleuse aventure de Marco Polo (Lo scacchiere di Dio), 1965
- Marco Polo, sceneggiato, Giuliano Montaldo, RAI, 1982-1983
- Marco Polo, serie tv, Netflix, 2014-2017
- Grandi Personaggi, Marco Polo. L’uomo che visitò il favoloso Oriente (1970?)
- Marco Polo, serie animata, Lastrengo e Testa (ITA 2017)
- Le avventure di Marco Polo (アニメーション紀行 マルコ・ポーロの冒険, Animation kikō Marco Polo no boken), 1979-80
Riferimenti bibliografici
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English abstract
The relationship between the imaginary and the real in the story of Marco Polo and his famous book Il Milione is complex, blending rational and metaphysical elements. This ambiguity is echoed in other literary works, such as Calvino’s Invisible Cities and Eco’s Baudolino, where the protagonists navigate between reality and fantasy. In these works, the fantastical narrative style, filled with exaggerated and improbable details, becomes a means to access a deeper truth. Polo’s Devisement dou monde is similarly marked by an unstable identity, a hybrid of travelogue, mercantile manual, and geographical treatise. This textual instability has fueled its enduring fascination, as seen in the continued reinterpretation of Polo’s adventures through illustrations, maps, and cultural adaptations. The oscillation between the real and imaginary is a constant feature of his iconographic fortune, as evidenced by recent celebrations of Polo’s legacy. This paper explores contemporary examples of this dynamic, highlighting how the myth of Marco Polo persists in modern media.
keywords | imaginary; Marco Polo; Eco; medieval tv fiction.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: M. Bergamo, A. Pedersoli, Lo “stravedamento” di Marco Polo. Un’avventura iconografica tra storia, mito e fiction, “La Rivista di Engramma” n. 219, novembre 2024.