Contro il copyright
Pirateria, disobbedienza civile e creatività collettiva
Francesco D’Isa
English abstract
Francesco D’Isa, Winnie the Pirate, elaborazione digitale, 2025.
Introduzione
Quando ci si riferisce al diritto d’autore, la conversazione vira spesso su temi come la difesa della creazione, la tutela del ‘genio creativo’ e l’unicità di un’opera. Questo bagaglio retorico ha finito per consolidare l’idea che esista un legame quasi ontologico fra un autore e la sua opera: come se il copyright fosse una sorta di protesi naturale della personalità artistica. Uno sguardo più attento rivela invece che il diritto d’autore è un meccanismo essenzialmente economico, un dispositivo creato storicamente per risolvere (o tentare di risolvere) questioni di remunerazione e controllo della diffusione delle opere.
L’industria culturale funziona su equilibri delicatissimi: da un lato, autori, editori e distributori invocano spesso misure di protezione (in genere all’insegna di un’interpretazione sempre più estensiva del copyright). Dall’altro, emergono pratiche di ‘pirateria’ che mettono a nudo l’insostenibilità di un regime normativo costruito sul principio di ‘chiudi tutto, blocca tutto, allunga i termini di tutela finché puoi’. L’aspetto decisivo è che molte di queste pratiche non nascono per sottrarre ricchezze agli autori, ma come reazione – spesso una vera e propria disobbedienza civile (Longo 2023) – a un sistema sempre più monopolistico, dove i colossi mediatici condizionano le regole del gioco.
La storia di Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau è un esempio da manuale. Oggi parte della storia del cinema, all’epoca il film rischiò di sparire, vittima di una causa legale che imponeva la distruzione di tutte le pellicole, perché infrangevano i diritti d’autore del Dracula di Bram Stoker (1897). A salvarlo fu la circolazione clandestina: copie pirata che passavano di sala in sala e di paese in paese sfuggendo ai roghi di celluloide decretati dal tribunale. Se fosse stato rispettato il verdetto, oggi Nosferatu sarebbe uno di quei film perduti di cui ci restano giusto due righe nei manuali (Eisner 2012). Se fa parte della nostra storia è grazie alla pirateria.
Anche la storia editoriale di Dracula evidenzia un rapporto ambiguo tra il bisogno di remunerazione degli autori e un sistema che, a ben vedere, è diventato un vampiro più temibile del Conte stesso. A causa di alcune disattenzioni burocratiche infatti, Bram Stoker non riuscì a proteggere adeguatamente il romanzo negli Stati Uniti, perdendo così ogni controllo sui diritti sul territorio americano. Eppure, è stata proprio quella falla legale a favorire la diffusione capillare di Dracula e a garantirgli un successo planetario. Una contraddizione ironica, ma illuminante: l’assenza di restrizioni ha fatto prosperare il mito, mentre l’intervento del copyright – come nel caso di Nosferatu – rischiava di distruggerlo (Skal 1990).
Considerata l’origine folkloristica (e dunque collettiva) del mito del vampiro e la bizzarra storia editoriale di queste opere, emerge un punto essenziale: la creatività non è un dono che discende da un eremo solitario, ma l’esito di un intreccio di ispirazioni e rielaborazioni collettive che, se bloccate dall’ossessione proprietaria, non possono dispiegarsi. Non è un caso che Shakespeare – uno degli autori più celebrati di sempre – abbia saccheggiato a piene mani cronache, fiabe e testi precedenti, e che il suo genio stia anche nella capacità di rimescolare i contenuti, ridar loro forma e nuova vita. Se fosse vissuto oggi, probabilmente qualche discendente di Holinshed gli avrebbe già intentato una causa milionaria (e forse noi avremmo perso un pezzo di patrimonio letterario) (Bullough 1975).
La pirateria si pone allora come termometro di un problema strutturale: quando il diritto d’autore si fa eccessivamente rigido, le comunità creative (e fruitive) reagiscono aggirandolo o sfidandolo apertamente. La storia di Napster e degli infiniti epigoni, di Karagarga e delle sue condivisioni di pellicole d’essai, di Sci-Hub e dei suoi pacchetti di articoli accademici ‘liberati’, ci conferma che le persone non rinunciano a scambiarsi contenuti, specialmente se percepiscono l’accesso a questi ultimi come un diritto fondamentale, o se fiutano l’ingiustizia di un sistema in cui guadagnano i soliti monopoli, mentre chi produce effettivamente l’opera finisce spesso con le tasche vuote. Nei paragrafi che seguono esploreremo:
Come il diritto d’autore – dai suoi albori allo Statuto di Anna del 1710 fino alle odierne estensioni (il “Mickey Mouse Protection Act”, per citarne uno) – sia stato plasmato più che altro per proteggere interessi commerciali e accordi di potere, anziché per difendere il genio creativo. In che misura ogni opera d’ingegno sia, di fatto, un’opera collettiva, fondata su basi culturali condivise e debitrice di un continuo scambio di idee e tecniche. L’idea di diritto d’autore si palesa di conseguenza come un dispositivo economico e non ontologico, e come tale deve essere trattata. Come l’attuale approccio al diritto d’autore dimostri la sua inadeguatezza davanti all’avvento delle intelligenze artificiali generative. Perché la pirateria, lungi dall’essere solo un fenomeno illegale o “immorale”, spesso rappresenti una forma di disobbedienza civile che rivendica l’accesso alla conoscenza e sconfessa l’assunto secondo cui il controllo delle opere vada sempre a vantaggio di chi le ha create.
Nosferatu, Dracula, Shakespeare – l’intera storia dell’arte e della letteratura ci raccontano, in sostanza, che le barriere troppo alte innalzate dal copyright non proteggono davvero la cultura. Anzi, è grazie alle crepe di queste barriere, e a chi le naviga da pirata, che molti capolavori hanno continuato a vivere. Per questo è forse tempo di rivedere criticamente il nostro modo di intendere i diritti d’autore, facendo emergere la loro vera essenza – un meccanismo economico – e rimettendo al centro ciò che conta davvero: l’opera collettiva della creatività umana e la giusta remunerazione di chi vi contribuisce.
Dalle prime licenze reali allo Statuto di Anna
A metà del Quattrocento l’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1440) innescò una rivoluzione nella circolazione del sapere (Eisenstein 1979); i libri iniziarono a diffondersi con una velocità inedita, sfuggendo almeno in parte al controllo che la Chiesa – e non solo – esercitava sulle copie manoscritte. In questo nuovo scenario, Venezia ebbe un ruolo pionieristico. La città lagunare fu tra le prime a formalizzare meccanismi simili a privilegi tipografici (Heller 2013; Bastianello 2016): si concedeva, spesso dietro un pagamento, l’esclusiva a uno stampatore per un periodo di tempo determinato. Non si parlava ancora di diritto d’autore, bensì di un monopolio temporaneo a favore di chi deteneva le costose attrezzature tipografiche e si assumeva i rischi finanziari dell’impresa. Emblematico è che i ‘ribelli’ di quell’epoca fossero già indicati come ‘pirati’ – secondo alcune fonti, l’uso del termine risalirebbe addirittura al 1680, rivolto a chi sfuggiva ai registri ufficiali di librai e stampatori (Johns 2009, Longo 2023).
La storia dell’industria dei contenuti, dunque, coincide in buona parte con quella delle tattiche escogitate da editori, corporazioni e monarchie per tenere sotto controllo l’accesso ai testi e, parallelamente, con quella dei circuiti clandestini che aggiravano tali barriere (Johns 2009). Più si irrigidivano gli strumenti legali, più si moltiplicavano forme di diffusione al margine o apertamente illegali, un fenomeno che riecheggia quanto avvenuto secoli dopo con la condivisione digitale (file-sharing) via internet.
La vera svolta giuridica arriva all’inizio del Settecento, in Inghilterra, con lo Statuto di Anna (1710). Considerato il primo atto a dare forma compiuta al moderno copyright, esso riconosceva ai librai e stampatori (non direttamente agli autori) un diritto esclusivo di pubblicazione e vendita per un periodo definito (Feather 2006). A monte, vi era l’intento di limitare l’enorme potere della Stationers’ Company – una potente corporazione che, fino a quel momento, aveva detenuto una sorta di monopolio sulla stampa e, al contempo, fungeva da apparato di censura (Rose 1993).
Nonostante alcuni lo celebrino come il primo provvedimento a tutela degli autori, lo Statuto di Anna aveva un obiettivo più prosaico: impedire che i privilegi editoriali si cristallizzassero in monopoli perpetui (Deazley 2008). Si apriva così una finestra temporale entro cui l’autore poteva cedere (spesso per somme irrisorie) i propri diritti esclusivi a un editore, il quale poi gestiva produzione e distribuzione. In altre parole, si trattava di un atto di riequilibrio economico nel mercato della stampa: garantire un periodo di esclusiva, ma non eterno, e regolamentare quella che, di fatto, era un’industria nascente.
Nel frattempo, in Francia, la Rivoluzione (1791–1793) aveva prodotto leggi che, almeno sulla carta, trasferivano la “proprietà” delle opere dall’autorità monarchica agli autori (Briggs, Burke 2005). Tuttavia, anche in quel contesto, ben presto emerse un mercato di concessioni dove i maggiori beneficiari erano i nuovi impresari editoriali. Lo stesso Condorcet (1776/1988) – più ostile all’idea di diritto d’autore di Diderot – metteva in guardia dal rischio di una deriva proprietaria delle idee, a scapito dell’interesse collettivo. In sostanza, le norme di quel periodo cercavano di limitare l’assolutismo monarchico sulla stampa, ma finivano per avallare una forma di tutela più vicina alle logiche commerciali e alle nuove élite imprenditoriali.
L’autore diventa non-morto. Dall’ideale illuminista alle lobby contemporanee
Dopo la Rivoluzione francese, la prospettiva di strappare la proprietà delle opere al potere monarchico e di riconoscerla agli autori fu accolta – almeno sul piano teorico – come un gesto emancipatore (Darnton 1982). L’asse portante di questo sistema si consolidò ulteriormente con l’internazionalizzazione del copyright avviata dalla Convenzione di Berna (1886), che estendeva la protezione delle opere a livello sovranazionale e spingeva gli Stati aderenti verso una regolamentazione omogenea (Ricketson, Ginsburg 2006).
Nel corso del XX secolo, la durata della tutela si estese progressivamente, ufficialmente per garantire un adeguato ritorno economico agli autori (Landes, Posner 2003). Il problema, tuttavia, risiede in quella che potremmo definire un’incoerenza temporale: se agli inizi il copyright durava pochi anni per evitare monopoli, con l’ascesa delle grandi industrie culturali, cinematografiche e discografiche, quelle limitazioni vengono ritoccate e ampliate a più riprese (Boldrin, Levine 2008). Lo slogan è: “Proteggiamo la creatività, altrimenti gli autori non avranno stimoli a produrre opere di qualità!”. In realtà, nella maggior parte dei casi, i diritti appartengono ai colossi editoriali o alle major, mentre gli autori, specialmente se emergenti, finiscono per ricevere compensi minimi (Towse 2001).
Emblematica in tal senso è la vicenda del Sonny Bono Copyright Term Extension Act del 1998 (detto anche “Mickey Mouse Protection Act”), votato negli Stati Uniti proprio in prossimità della scadenza dei diritti sui primi cortometraggi di Topolino (Lessig 2001). In mancanza di questa espansione, personaggi come Mickey Mouse sarebbero entrati nel dominio pubblico, rendendoli liberamente utilizzabili e rielaborabili. Disney esercitò allora un fortissimo lobbying affinché il copyright fosse esteso, raggiungendo i 70 anni oltre la morte dell’autore. Questo passaggio rivela la schizofrenia di un sistema che, da un lato, celebra la libertà e la circolazione delle idee, mentre dall’altro vincola a oltranza l’uso di opere ormai ampiamente del passato.
Parallelamente, in Europa e altrove, la tutela post mortem auctoris ha seguito lo stesso trend, attestandosi sui 70 anni dopo la morte (o addirittura 90, in ordinamenti particolari). Viene spontaneo chiedersi: se l’obiettivo del copyright fosse genuinamente la diffusione della cultura, perché continuare a prolungare la durata ben oltre quel che servirebbe a una remunerazione ragionevole? È plausibile che, dietro la retorica di salvaguardare l’artista, operino in realtà interessi di mercato capaci di condizionare le politiche legislative (Litman 2006).
Il fenomeno è divenuto ancor più evidente nell’era digitale, con l’introduzione di DRM (Digital Rights Management), watermark, blocchi regionali e filtri automatici, fino alla criminalizzazione del semplice atto di condividere un contenuto protetto senza licenza (Yu 2011). Un esempio eclatante fu Napster (1999), piattaforma p2p che aveva anticipato la crescente domanda di musica in formato digitale, a costo basso o nullo (Gillespie 2007). L’industria discografica reagì considerandolo una minaccia esistenziale, portando a chiusure forzate e cause milionarie. Paradossalmente, Napster aveva messo in luce la volontà degli utenti di accedere a un vasto catalogo in modo pratico e immediato, un bisogno che poi altri servizi (iTunes, Spotify) avrebbero provato a soddisfare sotto forma di abbonamento, con ricavi per gli autori decisamente marginali (Towse 2001).
Da allora, le guerre dello streaming – con l’affollarsi di servizi come Netflix, Amazon Prime, Disney+ – hanno fatto esplodere nuovamente il dibattito: la pirateria è davvero una colpa degli utenti, o piuttosto una naturale reazione a un mercato che polverizza i contenuti su mille piattaforme a pagamento, innalzando nuovamente il muro di frammentazione e incrementando i costi complessivi? (Longo 2023). Nella sua ricerca sulle comunità pirata, Alessandro Y. Longo mostra come si tratti spesso di appassionati che desiderano conservare o recuperare opere introvabili, proprio come accadde con Nosferatu (1922).
Siamo così arrivati a un modello in cui l’allungamento della tutela e l’inasprimento delle leggi rivelano una natura sistemica: il copyright, concepito come incentivo, rischia di trasformarsi in un meccanismo di controllo quasi perpetuo (Boyle 2008). Se in origine i brevi termini di tutela servivano a evitare monopoli in ambito librario, ora si moltiplicano le proroghe che estendono la sfera di protezione ben oltre l’orizzonte di vita degli autori. Per molti, la pirateria è diventata la risposta più o meno esplicita a questo sbilanciamento di potere.
Natura collettiva della creazione
Quando si pensa all’opera creativa il nostro immaginario ritorna spesso all’idea romantica del genio, una figura quasi oltre-umana che crea opere meravigliose dal nulla. È un’idea di autorialità che viene principalmente dal romanticismo europeo, ma sembra essersi adattata molto bene al contesto individualista della contemporaneità occidentale (Didino 2024). Questa visione della creazione intellettuale e artistica è però estremamente limitata. Ogni artista, musicista o scrittore attinge infatti a un bagaglio di conoscenze, strumenti e ispirazioni ereditati dal contesto culturale, sociale e tecnologico in cui vive (Kuhn 1962, Ferguson 2010); l’opera dell’ingegno non nasce dalla volontà di una monade creatrice, ma da reti di concause che di cui l’autore è una parte necessaria ma non sufficiente.
Un esempio emblematico come dicevamo è quello di Shakespeare, la cui grandezza si radica anche nell’abilità di ‘rubare’ e rimescolare fonti diverse: dalle cronache e dai racconti folcloristici, alle novelle italiane (si pensi, ad esempio, alle Histoires tragiques di Belleforest per Amleto), fino alle influenze della tradizione drammaturgica elisabettiana. Come nota Rose (Rose 1993), il mito del bardo solitario è una costruzione retrospettiva: Shakespeare operava in un contesto di continui scambi e appropriazioni reciproche fra vari drammaturghi. Allo stesso modo, Mozart e molti altri compositori non esitarono a riprendere temi altrui o a riciclarne l’armonia (De Simone 2002), alimentando un dibattito che ancora oggi rende sfumato il confine tra ispirazione e plagio.
È nel XVIII secolo che l’autore iniziò a essere concepito come il creatore individuale di un’opera unica e irripetibile, idea che legittimava il diritto d’autore come proprietà naturale scaturita dal lavoro creativo (Bennet 2005). Tuttavia, questa visione idealizzata oscura il fatto che molte opere, anche classiche, sono frutto di adattamenti, reinterpretazioni e dialoghi con tradizioni pregresse (Rose 1993). Nel trattare le opere come proprietà esclusiva di un singolo autore, il copyright tende a ignorare queste dinamiche collaborative e si scontra con la realtà storica di una creatività alimentata da dinamiche comunitarie.
Prendiamo a titolo di esempio un artista celeberrimo come Pablo Picasso. La sua peculiare poetica non solo è fondata sul lavoro di predecessori e coevi, ma è stata nutrita da una serie di eventi, innovazioni e circostanze storiche e scientifiche che trascendono i confini strettamente artistici. Se per assurdo Picasso fosse nato nell’anno mille, è facile immaginare che sarebbe diventato comunque un artista, ma certo non avrebbe sviluppato il cubismo.
Osservando un quadro come Guernica (1937) non vedremo solo il frutto del talento del pittore, ma anche un complesso intreccio causale di un evento storico, dei mutamenti nella cultura visiva introdotti dalla fotografia e dal cinema, della sperimentazione pittorica dell’epoca, della ‘nuova scienza’, delle ferite prodotte dalle guerre, della scoperta dell’arte africana… quest’opera non è il frutto di una mente avulsa dal suo tempo, bensì l’esito di un gigantesco laboratorio culturale, a cui partecipavano – consapevolmente o meno – le rivoluzioni tecnologiche e scientifiche, i traumi bellici, le lotte politiche e i tentativi di rinnovare il linguaggio visivo (Richardson 1996).
Le forze in gioco attorno alla genesi di un’opera però non sono esclusivamente umane. A contribuire talvolta in modo determinante sono anche circostanze materiali, geografiche e ambientali, che poco hanno a che fare con la volontà umana. La reperibilità o il prezzo di certi pigmenti – come la polvere di lapislazzuli o alcuni colori ricavati da minerali vulcanici – ha influenzato in maniera sostanziale la gamma cromatica dei pittori del passato, così come i significati simbolici del colore (Ingold 2013). Perfino i fenomeni naturali come un’eruzione vulcanica o un clima particolare possono trasformarsi in co-autori di un dipinto; è il caso ad esempio di William Turner, la cui tavolozza fu probabilmente ispirata dagli inusuali tramonti dovuti alle polveri vulcaniche diffuse nell’atmosfera a seguito dell’esplosione del Monte Tambora, avvenuta nel 1815 in Indonesia (Bennett 2010). Da questa prospettiva, l’agency creativa non è prerogativa esclusiva degli artisti, ma coinvolge anche il mondo non umano: sono cause di un’opera anche sostanze chimiche, condizioni geologiche, strumenti tecnologici, eventi storici e biografici (Bennett 2010; Ingold 2013).
Se il diritto d’autore si avvale ancora della narrazione del genio individuale per rivendicare una tutela quasi ‘naturale’, la realtà storica e culturale mostra invece come l’arte, la scienza e le tecnologie siano un flusso continuo di interscambi. Un fluire che, imbrigliato da norme troppo rigide, rischia di strozzare lo sviluppo di nuovi linguaggi e forme di conoscenza (Lessig 2004). Autori come Kirby Ferguson (2010), con il suo progetto Everything is a Remix, hanno mostrato in modo molto accessibile come la storia della musica, del cinema e dell’arte moderna sia un susseguirsi di remix e rielaborazioni costanti: dal blues che confluisce nel rock, al campionamento hip-hop, fino al citazionismo della cultura pop contemporanea.
Anche la dimensione casuale ha spesso un ruolo nella creazione. In Venetian Blind, ad esempio, l’artista Michael Snow sfrutta volutamente il carattere aleatorio del mezzo fotografico, lasciando che la Polaroid introduca sfocature e sovraesposizioni che intervengono come variabili nel processo compositivo. Come sottolinea Perfetti, tale strategia non è una semplice rinuncia al controllo, ma un modo per attivare una relazione dinamica tra autore, dispositivo e immagine (Perfetti 2025): la macchia bianca in primo piano diventa un diaframma visivo, mentre il paesaggio urbano sullo sfondo (la Venezia monumentale) rimane a fuoco. Questa composizione esemplifica come la creazione artistica nasca spesso dall’intreccio fra intenzione umana, accidentalità e forze indipendenti dal soggetto.
Da una prospettiva giuridica, accogliere la natura collettiva delle opere dell’ingegno mette in crisi l’idea di un diritto d’autore ontologico, fondato su una proprietà ‘naturale’ dell’artista sull’opera. Come osservano Boldrin e Levine (Boldrin, Levine 2008) inoltre, i beni intellettuali sono caratterizzati da una non-esclusività di fatto: la condivisione di un’idea non sottrae nulla all’autore originario, semmai ne amplifica la portata. Diversamente dall’appropriazione di un bene materiale, il riuso (o la trasformazione) di un’idea ne accresce la ricchezza semantica. I confini tra lecito e illecito, in questo contesto, si rivelano culturali e storicamente mutevoli, più che rigidamente definiti da una norma naturale.
Il confine tra ispirazione e plagio
Sebbene la natura collettiva della creazione renda quasi inevitabile l’appropriazione di idee, stili e tecniche, resta aperto il problema di stabilire quando questa dinamica si configuri come un passaggio di testimone e quando, invece, sfoci in un plagio vero e proprio. La questione è tutt’altro che nuova: già nel XVIII secolo si dibatteva accanitamente su ciò che fosse fonte legittima e su ciò che fosse furto di versi o di temi musicali, e la storia dell’arte è ricca di esempi in cui i confini tra ispirazione e copia risultano tutt’altro che netti.
Oggi, l’ambiguità si è fatta ancor più palese per almeno due ragioni. Da un lato, la componente tecnologica ha reso più facile l’atto di replicare, ricombinare o manipolare materiali già esistenti. Dall’altro, la legislazione in materia di diritto d’autore ha ampliato la sua sfera di controllo, definendo – talvolta in modo restrittivo – cosa debba considerarsi derivato e quando un’opera risulti abbastanza trasformativa da rientrare nella categoria delle utilizzazioni lecite (fair use, parodia, ecc.) (Litman 2006; Caso 2020).
Le controversie più celebri degli ultimi decenni mostrano quanto sia fragile questa frontiera. Jeff Koons è stato più volte accusato di plagio per aver incorporato elementi altrui nelle sue sculture, dal caso String of Puppies (che riprendeva una fotografia pubblicata su un biglietto d’auguri) fino alla serie di ‘balloon dogs’ (Blanch v. Koons 2006). Shepard Fairey, autore dell’iconico manifesto Hope di Barack Obama, è stato denunciato dall’agenzia di stampa Associated Press, che rivendicava la paternità dell’immagine originale (Kennedy 2011). In ciascuna di queste vicende il discrimine tra plagio e ispirazione non è un dato oggettivo e misurabile, ma il risultato di sentenze che, caso per caso, stabiliscono se l’intervento dell’artista sia sufficientemente originale.
In ambito musicale, la questione è ancora più controversa. Il caso di Blurred Lines (2013) di Robin Thicke e Pharrell Williams, ritenuta troppo simile a Got to Give It Up (1977) di Marvin Gaye, ha aperto un dibattito sulla liceità delle somiglianze stilistiche e se il copyright debba proteggere anche l’atmosfera e il groove di un brano (Wu 2015), al netto della melodia. Se permettiamo alla legislazione di estendersi a campi sfumati come lo stile rischiamo però di ostacolare la fisiologica evoluzione dei generi che traggono spesso forza nel riadattare codici precedenti (Landes, Posner 2003). D’altra parte, il timore di cause legali può generare anche un effetto di ‘censura preventiva’ (chilling effect) in cui gli artisti finiscono per autolimitare il proprio lavoro, rinunciando a omaggi e rielaborazioni che potrebbero dare vita a opere originali.
Abbandonare l’idea di un diritto d’autore ontologico in favore di un criterio economico può sembrare innocuo, ma non è un gesto privo di conseguenze. Significa infatti rinunciare alla difesa dell’autorialità e dell’originalità in favore di un criterio esclusivamente pratico: massimizzare il compenso economico di chi lavora in ambito creativo e conoscitivo senza danneggiare la diffusione della cultura. Questo slittamento ci permetterà di affrontare alcuni dibattiti contemporanei con un’ottica diversa, come vedremo nel caso delle intelligenze artificiali generative.
Dataset per il training delle IA. Un copyright che avvantaggia solo i monopoli
Le recenti controversie sull’uso di dataset protetti per l’addestramento di sistemi di intelligenza artificiale sono un chiaro esempio di come il diritto d’autore finisca spesso per favorire gli attori economici più potenti. I LLM generativi – da Midjourney a ChatGPT – si basano su miliardi di immagini e/o testi, molti dei quali molto probabilmente coperti da copyright (i dataset sono spesso chiusi ed è impossibile controllare), dai quali apprendono pattern per plasmare output nuovi, mai identici agli originali, se non in rari casi limite (Carlini et alii 2021). Di fatto, il principio non è troppo dissimile dal percorso storico dell’arte, in cui ogni autore ha sempre “rubato” idee, stili e suggestioni dai predecessori e dai contemporanei (Deleuze 1981, Rose 1993). Eppure, ciò che da secoli viene considerato un lecito atto di ispirazione subisce una condanna quando a compierlo sono le IA.
Da un punto di vista squisitamente economico tuttavia, la questione è più sottile. Le big tech, che hanno la potenza finanziaria e le infrastrutture per gestire dataset di proporzioni immense, per evitare denunce dagli esiti incerti stringono accordi milionari con grandi detentori di diritti (ad esempio, colossi editoriali e gruppi media), remunerando così in modo significativo solo chi possiede cataloghi molto vasti di dati (Mallamaci 2024; GEDI 2024). Per il singolo artista o scrittore con cento immagini o una manciata di testi, contribuire a un dataset composto da miliardi di contenuti non comporta un ritorno apprezzabile; l’incidenza delle sue opere è così marginale che gli introiti da copyright, se dovuti, sarebbero irrisori. Le trattative di OpenAI con gruppi editoriali e la strategia di Meta e Adobe, orientate a “comprare in blocco” i diritti su enormi raccolte o a utilizzare quelle già di loro proprietà, dimostrano che il diritto d’autore, lungi dal proteggere il lavoro degli autori minori, tende piuttosto a consolidare accordi fra poteri forti (Landes, Posner 2003; Larivière, Haustein, Mongeon 2015).
Inoltre, l’inasprirsi delle tutele su questi dataset può aggravare gli squilibri nella diversità culturale a disposizione delle IA: se diventasse obbligatorio pagare per ogni minima porzione di opera protetta, i modelli di machine learning rischierebbero di attingere quasi esclusivamente dai grandi archivi, trascurando contributi indipendenti e diversificati (Levendowski 2018). Questo scenario aumenterebbe il rischio di bias e omologazione dei contenuti, limitando quella pluralità espressiva che nasce anche da opere di nicchia e fonti marginali (Levendowski 2018).
Per alcuni, la soluzione etica non risiede tanto nell’inasprire i divieti o nel pretendere micropagamenti su scale irrealistiche, quanto piuttosto nel garantire maggiore trasparenza e apertura dei modelli e del loro codice (D’Isa 2022). Rendere pubblico ciò che è stato costruito sulla base di un patrimonio comune – come i dati caricati in rete dagli utenti di tutto il mondo – appare una strategia più vicina alla matrice originaria di internet. Una proposta alternativa potrebbe essere di vincolare l’uso di materiale protetto a precise licenze open source, così da restituire il frutto dell’addestramento all’intera collettività, invece di concentrare potere e guadagni nelle mani di pochi monopolisti. In questo senso, puntare esclusivamente sul copyright per opporsi all’avanzata delle IA rischia di legittimare ulteriormente la privatizzazione di un bene comune: i dati. Come dimostrano i casi di accordi tra editori e big tech, se non si ridiscute il ruolo dei monopoli, il ricorso alle tutele tradizionali finisce per arricchire chi già detiene un vasto catalogo e marginalizzare ancor di più la miriade di autori indipendenti.
Un esempio concreto è DeepSeek, un LLM cinese che – pur essendo sviluppato in un contesto soggetto a restrizioni politiche – adotta una licenza aperta per la parte di codice, consentendo a sviluppatori e aziende di personalizzare il modello in modo relativamente economico (D’Isa 2025). Anziché puntare tutto sulla potenza di calcolo, i creatori di DeepSeek hanno scelto di ottimizzare il consumo energetico e di coltivare la sobrietà computazionale: una via che, sorprendentemente, ha permesso di avvicinare le performance di modelli ben più “muscolari” come GPT-4, riducendo i costi e ampliando le possibilità di impiego. Si tratta comunque di impegni economici e tecnologici non indifferenti, perché l’azienda a capo di questo LLM aveva comunque a disposizione migliaia di GPU H100 dedicate al calcolo di modelli di IA; produrre un LLM resta insomma un impegno significativo, ma il parallelo con altri motori è comunque notevole. Per quanto non privo di censure e bias – comunque aggirabili essendo un modello aperto – DeepSeek dimostra dunque come un approccio open source (o almeno open weight) possa diventare un’alternativa credibile anche commercialmente, incentivando l’innovazione scientifica e la sostenibilità.
Pirateria come disobbedienza civile
Nell’immaginario collettivo, il termine pirateria evoca figure di hacker esotici in agguato nel dark web. Tuttavia, diverse ricerche e testimonianze (Longo 2023; Lessig 2004) oltre che il percorso sinora delineato invitano a considerare la pirateria anche come una forma di disobbedienza civile: un atto di ribellione orientato a denunciare l’inadeguatezza di un sistema di controllo economico e normativo inadeguato e restrittivo.
A questo proposito è emblematico il fenomeno delle comunità online di file-sharing. Fin dai tempi di Napster (1999), passando per BitTorrent, Karagarga, eMule e altri, il senso di questi circuiti non è riducibile alla sola violazione del copyright per un vantaggio personale. Spesso gli utenti sono appassionati di cinema, musica, libri rari o fuori commercio, e si impegnano a conservare e diffondere opere che altrimenti rischierebbero di estinguersi (Longo 2023). In alcuni casi, come quello di Nosferatu o di altri film d’autore, è stata proprio la circolazione clandestina a salvare opere di grande valore storico e artistico.
Un ulteriore caso di pirateria come disobbedienza civile è quello di Sci-Hub, la piattaforma realizzata da Alexandra Elbakyan per fornire accesso gratuito agli articoli accademici soggetti a paywall (Bohannon 2016). Qui, il ‘furto’ permette a ricercatori e studenti – spesso esterni alle istituzioni o privi di abbonamenti – di consultare studi fondamentali per l’avanzamento della ricerca. Sebbene all’interno dell’università l’accesso alle riviste a pagamento sia relativamente garantito (a costo di esborsi sostanziosi sostenuti da biblioteche e fondi pubblici), da questo circuito sono di fatto esclusi tutti coloro che non appartengono a un ente di ricerca, alimentando una forma di disuguaglianza conoscitiva. Inoltre, anche quando un ateneo paga regolarmente l’accesso ai pacchetti editoriali, l’incidenza dei costi sui bilanci accademici è elevata e ricade immancabilmente sulla comunità.
Molte case editrici scientifiche e universitarie infatti adottano prezzi particolarmente alti, generando profitti grazie a un mercato sostanzialmente oligopolistico (Larivière, Haustein, Mongeon 2015). Nel caso di volumi cartacei ed e-book destinati alla ricerca, è frequente trovare prezzi esorbitanti (anche diverse centinaia di euro per singolo testo), che mettono in difficoltà biblioteche e lettori indipendenti. A ciò si aggiungono i costi elevati delle pubblicazioni in open access; molti editori applicano article processing charges (APC) che possono superare i 2.000 o i 3.000 euro per articolo (Solomon, Björk 2012). Ciò significa che, oltre al costo di abbonamenti e licenze, gli atenei devono pagare per permettere ai propri ricercatori di pubblicare in modalità aperta, in un circolo vizioso che aggrava ulteriormente la spesa per la diffusione del sapere.
Un dato a conferma di questa ipotesi è il sostegno che questa piattaforma riceve all’interno della stessa comunità scientifica. Un sondaggio pubblicato su “Science” (Bohannon 2016) ha rivelato che una fetta significativa di ricercatori e studenti considera l’uso di siti pirata per accedere agli articoli accademici non solo accettabile, ma addirittura necessario per poter svolgere il proprio lavoro. Il Guerrilla Open Access Manifesto, scritto dall’attivista Aaron Swartz nel 2008, è il testo che ha trasformato questa percezione in una rivendicazione politica. Per Swartz, il sapere non può essere una proprietà privata e chiunque abbia accesso a database protetti ha il dovere morale di condividerli con il mondo (Swartz 2008).
L’industria culturale da anni racconta la pirateria come una piaga che distrugge il mercato, mentre altri la vedono come un moltiplicatore di visibilità, una specie di volano che allarga il pubblico anziché restringerlo. Chi ha ragione? I dati disponibili non danno una risposta netta. Alcuni studi mostrano che la condivisione illegale ha eroso le vendite di CD e DVD, soprattutto dai primi anni Duemila, ma neppure l’apocalisse annunciata si è mai verificata. Anzi: nel settore musicale, ad esempio, la perdita sui supporti fisici si è spesso accompagnata a un aumento di interesse per concerti, merchandising e altri canali di guadagno (Oberholzer-Gee, Strumpf 2007). Anche il cinema presenta un quadro meno lineare di quanto le major vorrebbero far credere: se il file-sharing ha ridotto i profitti dell’home-video, alcuni studi mostrano che la pirateria ha contribuito al successo di film di nicchia, creando un effetto traino che ha portato più spettatori in sala (Smith & Telang 2012).
A uno sguardo più ampio, ricerche globali hanno evidenziato che i paesi con alti tassi di pirateria spesso coincidono con quelli in cui si consuma più cultura (Karaganis 2011). Non proprio l’effetto di una minaccia letale. Questo suggerisce che la pirateria, lungi dall’essere solo un problema, sia parte di un ecosistema culturale più complesso, in cui il consumo legale e quello ‘alternativo’ convivono e si alimentano a vicenda. Ma qui sta il punto: i dati sono frammentari, le variabili economiche e sociali difficili da isolare. Chi la condanna parla di danni incalcolabili, chi la difende la paragona alle biblioteche pubbliche, che allargano l’accesso senza distruggere il mercato. Probabilmente la verità sta nel mezzo: più che un problema o una soluzione, la pirateria è un sintomo. Se un crimine diventa strutturale ed estremamente diffuso dovrebbe essere automatico sospettare che indichi un problema sociale più ampio. Il punto, dunque, non è tanto se la pirateria sia giusta o sbagliata, ma se non sia piuttosto il segnale di un divario fra l’evoluzione tecnologico-culturale e una legislazione inadeguata. In tal senso, la pirateria digitale appare come la rivendicazione della promessa originaria del diritto d’autore: favorire la diffusione della cultura e non sigillarla dietro barriere sempre più alte.
Conclusione
La storia del copyright, dalla sua nascita con le prime licenze reali fino alle sue estensioni più recenti, rivela la duplice tensione fra l’interesse pubblico di diffondere cultura e conoscenza e la volontà di tutelare lo sfruttamento economico delle opere. Come abbiamo visto, i legislatori hanno ripetutamente risposto alle rivendicazioni di editori e grandi industrie culturali allungando i termini di protezione e ampliando la sfera di controllo sul riuso dei contenuti. Tale processo, per quanto concepito in origine per favorire la produzione creativa, ha finito per irrigidire l’accesso e la circolazione delle idee, generando situazioni che vanno più a vantaggio degli intermediari che degli autori.
In parallelo, proprio laddove il copyright si fa più estensivo e punitivo, si moltiplicano spazi di disobbedienza civile. Sia nei circuiti di file-sharing cinematografico sia nelle piattaforme che offrono libero accesso a testi accademici, la cosiddetta pirateria è un segnale di resistenza culturale contro un sistema percepito come iniquo o superato dall’evoluzione tecnologica. I casi di Nosferatu, Sci-Hub, Napster e altri esempi di circolazione clandestina raccontano una dinamica ricorrente: quando le barriere sono troppo alte, le comunità reagiscono aggirandole e producendo (o preservando) cultura, spesso in modo più efficace di quanto facciano le reti di distribuzione legali tradizionali.
Tutto ciò conferma che la creatività è di per sé un fatto collettivo, figlio di scambi continui, rielaborazioni e mutue influenze. Un regime di tutela troppo rigido può soffocare il potenziale creativo dell’arte e della scienza, chiudendo in recinti opere che dovrebbero invece circolare e trasformarsi, e può dimostrarsi concettualmente e praticamente inadatto a normare nuove tecnologie come le intelligenze artificiali. Riconoscere la natura essenzialmente economica del diritto d’autore significa abbandonare la rigidità con cui vengono difese queste norme, per considerare la possibilità di riforme che bilancino la necessità di remunerare chi crea e quella della condivisione del sapere. In quest’ottica, la pirateria è insieme un sintomo e un catalizzatore di cambiamento, che solleva questioni etiche, politiche e culturali sull’uso e sulla proprietà delle idee e delle opere dell’ingegno.
Tra le alternative possibili, che qua accenneremo soltanto, un tema tornato d’attualità ruota intorno alle licenze aperte, come le Creative Commons, concepite per offrire agli autori una gestione più elastica delle loro creazioni: decidere quali diritti trattenere, e quali invece mettere in comune. È una rivoluzione contro la gabbia di un copyright ‘taglia unica’, che permette a scrittori, musicisti, ricercatori e artisti di far circolare da subito le proprie opere, pur non rinunciando a un meritato riconoscimento (Lessig 2004).
Nel campo della ricerca scientifica, l’open access – con articoli subito disponibili a costo zero – è la risposta a un doppio problema: da un lato, scardinare i paywall che ingabbiano la conoscenza dietro un cartellino del prezzo; dall’altro, sfidare l’oligopolio dei grandi editori, i cui abbonamenti pesano sui bilanci degli atenei, costretti a pagare per fruire di lavori creati dai propri stessi docenti e studenti (Suber 2012).
A ciò si affianca la proposta, emersa più volte, di ridurre drasticamente la durata della tutela: magari limitandola a venti o trent’anni dopo la pubblicazione, o la morte dell’autore, così da impedire che opere essenziali per la nostra eredità culturale restino sepolte in un limbo di proprietà pressoché eterno. Qualcuno invoca persino una tassa culturale, una sorta di rimborso collettivo da distribuire a creatori e interpreti, svincolando l’accesso ai contenuti dal pagamento frammentario dei diritti. Tali proposte, talvolta definite cultural flat rate (Grassmuck 2009; Fisher 2004; Aigrain 2012), mirano a un modello di contribuzione forfettaria – ad esempio ancorandolo alla connessione internet o ai dispositivi di archiviazione – il cui ricavato sarebbe poi redistribuito agli autori in base a metriche di utilizzo (download, streaming, ecc.). In questo modo, l’accesso risulterebbe libero, mentre la remunerazione di chi crea non sarebbe più legata al singolo atto di consumo.
Non si propone, dunque, di eliminare il copyright senza offrire un’alternativa: si tratta, piuttosto, di riconoscerne la natura esclusivamente economica per renderlo un meccanismo più fluido, capace di assecondare il tessuto condiviso e cumulativo su cui si regge ogni atto creativo, invece di soffocare l’incessante scambio di idee che alimenta la vita culturale.
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English abstract
The paper investigates the historical, philosophical, and socio-economic underpinnings of copyright, positing it primarily as an economic mechanism rather than an ontological right. Through examples such as the clandestine rescue of Nosferatu, Napster’s file-sharing revolution, and Sci-Hub’s open-access platform, it illustrates how “piracy” can function as civil disobedience against an increasingly monopolistic and restrictive framework. Crucially, it highlights the inherently collective nature of creativity, showing that rigid notions of authorship and excessive copyright terms stifle the free flow of ideas while disproportionately benefiting large industry players. Debates over AI training on copyrighted datasets further expose this imbalance: if we decide to adopt copyright on the dataset used for training, the main profits accrue to those controlling massive catalogs. By juxtaposing historical legislation – from the Statute of Anne to the “Mickey Mouse Protection Act” – with modern controversies, the paper proposes a balanced copyright regime that fairly compensates creators while fostering robust cultural exchange.
keywords | Copyright; Piracy; Civil disobedience; Collective creativity; Intellectual property; File-sharing; AI training datasets.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Francesco D’Isa, Contro il copyright. Pirateria, disobbedienza civile e creatività collettiva, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.