"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

222 | marzo 2025

97888948401

Piracy Shield, diritto d’autore e monopoli intellettuali: il caso italiano

Barbara Pasa

English abstract

Blueskin, the Pirate, da: H. Pyle, M.D.V. Johnson (eds.), Howard Pyle’s Book of Pirates: Fiction, Fact & Fancy Concerning the Buccaneers & Marooners of the Spanish Main, New York/London 1921, 154.

Premessa

Durante i seminari organizzati presso la sede della rivista Engramma siamo stati invitati a rileggere un’opera fondamentale di Carl Schmitt, Il Nomos della Terra (Der Nomos der Erde, 1950) e a riflettere sul pensiero schmittiano come chiave di lettura del fenomeno contemporaneo della pirateria digitale. L’accostamento tra gli “schiumatori del mare” e gli “internauti pirati” che oggi navigano il world wide web può apparire più formale che sostanziale, generando nel lettore una certa sorpresa. Di fatto questa digressione prende forma anche in relazione a un altro lavoro di Schmitt, Il concetto di pirateria (Der Begriff der Piraterie, 1938) scritto in occasione della nota Conferenza diplomatica di Nyon del 1937, che stabilì l’illegittimità degli attacchi contro il traffico mercantile, qualificandoli come veri e propri “atti di pirateria” (cfr § 2). Essa suscitò diverse reazioni critiche, tra cui spiccava anche l’articolo del giurista costituzionalista Schmitt. Quali sono, dunque, le esperienze di pirateria che hanno un significato politico e culturale, e conseguenze sul piano giuridico nell’attualità? L’internauta pirata di oggi corrisponde alla classica figura dello sradicato avventuriero, violento e predatore, che usa saccheggiare in maniera indiscriminata tanto gli amici quanto i nemici, come nei tempi antichi (cfr § 3)? Perché parlare di pirateria in relazione al materiale protetto dal diritto d’autore? Julian Assange è un pirata informatico di fama mondiale? UbuWeb, fondato da Kenneth Goldsmith, paladino del plagio, è un archivio pirata di arte d’avanguardia? Sci-Hub, il noto archivio scientifico online gratuito che rende disponibili articoli indipendentemente dal loro regime di copyright, ha liberato la conoscenza scientifica? E ancora, condividere la conoscenza, a partire dalla rimozione di ogni restrizione o chiusura posta da università e istituzioni pubbliche all’accesso agli articoli scientifici, è un imperativo morale e giuridico, come sostiene il Manifesto della Guerrilla Open Access di Aaron Swartz? In uno dei primi post del suo blog, il 4 febbraio del 2002 (Arrgh, pirates), Aaron Swartz aveva contestato proprio l’uso del termine pirate in ambito digitale:

Mi sono spesso lamentato, con le persone, per l’uso che fanno del termine “piratare” per intendere “condividere”. Quando la gente si lamenta dei film “piratati”, intende davvero insinuare che condividere i film con qualcuno sia l’equivalente morale di attaccare una nave? Tuttavia, man mano che il termine si diffonde, non posso fare a meno di chiedermi se la connotazione negativa si esaurirà: lo vediamo persino presente nel dizionario come “Fare uso o riprodurre (un’opera altrui) senza autorizzazione”: Ehi Johnny, ho una copia pirata di Shakespeare per te! Proprio l’altro giorno la mia insegnante di matematica ha detto di aver “piratato” dal libro di testo alcuni degli esempi che stava scrivendo alla lavagna.

Il “teorema di Cohen” della giurista Julie Cohen della Georgetown University, secondo cui ogni persona avrebbe il diritto di violare un sistema chiuso (diritto di hacking) qualora ciò fosse necessario per tutelare i propri diritti sanciti per legge in materia di libere utilizzazioni delle opere dell’ingegno, teneva vivo il dibattito su questioni come l’hacking, il download e la condivisione gratuita, soprattutto per le delicate implicazioni giuridiche. L’hacking in altre parole può essere etico e costruttivo, non solo dannoso, e non sempre ha a che vedere con il furto o altri reati: sebbene in alcuni casi sia legato al fenomeno delle truffe informatiche, può rappresentare una forma di denuncia delle vulnerabilità di un sistema o di critica rispetto a regimi di tutela che creano monopoli intellettuali. Negli anni della massima espansione dell’economia digitale e della crescita dei profitti degli editori, anche in ambito scientifico, il celebre saggio di Lawrence Lessig, The Code is Law (1999) con intento provocatorio, aveva stilato una lista di strategie che avrebbero portato a una regolamentazione illiberale e liberticida della società digitale. Tra i suggerimenti ironici rivolti al decisore politico e al legislatore, vi era quello di eliminare il movimento open source, poiché la presenza di hacker e sostenitori della cultura open avrebbe reso più complessa l’imposizione di un controllo normativo sul cyberspazio. Al contrario, un modello basato esclusivamente sulla chiusura – tipico del software proprietario – avrebbe consentito un controllo più capillare sia sulle applicazioni, sia sull’architettura tecnologica. Lessig era peraltro consapevole del fatto che, ben più dannose degli strumenti legislativi erano, e sono, le Big Tech Companies, le quali attraverso il controllo delle infrastrutture (data center, cavi sottomarini, quelle dell’intelligenza artificiale), hanno il monopolio dell’informazione e della conoscenza. Già allora invitava chi si occupava della difesa dei diritti e delle libertà in Internet ad analizzare sia l’azione del West Coast Code, il codice informatico che è sviluppato nella Silicon Valley in California, sia l’azione dell’East Coast Code, ossia l’insieme dei provvedimenti legislativi sul digitale voluti dal Congresso (Ziccardi 2022).

A seguito della Raccomandazione della Commissione Europea che invitava ad adottare nuove regole per contrastare la riproduzione non autorizzata di eventi sportivi, con la Legge 93/2023, il nostro ordinamento ha preso posizione sulla pirateria digitale creando la piattaforma Piracy Shield (cfr § 4). In prima battuta, si potrebbe affermare che la necessità di reprimere la pirateria ha prodotto un paradigma normativo arricchito da metafore piratesche come quella dello scudo antipirateria (Piracy Shield), il quale sta trovando interessanti applicazioni presso le nostre Corti. Tuttavia, non sempre la metafora del pirata è utile per comprendere cosa sta accadendo nel mondo digitale del world wide web (semmai solo in uno specchio di mare rappresentato dal deep o dal dark web). Nel 1664 la Corona inglese aveva assegnato a Henry Morgan, uno dei corsari che terrorizzarono i mari, una “lettera di corsa” ovvero una sorta di lasciapassare che consentiva loro di attaccare liberamente tutte le navi e di destinare gran parte dei bottini ai sovrani stessi (attività definite dagli storici “guerre di corsa”). Chi sono i corsari contemporanei? Quali sono i limiti della regolazione del mare magnum del web? Prima di rispondere, riprenderemo per sommi capi alcuni passaggi del pensiero di Schmitt su cui siamo stati invitati a riflettere nei nostri incontri.

Mari e Terre, Pirati e Stati

L’ordinamento eurocentrico del mondo, sorto nel secolo XVI,
risulta così diviso in due diversi ordinamenti globali: della terra e del mare.
Carl Schmitt, Il nomos della terra

L’opera di Schmitt – come è noto, al centro di un originale ritorno legato al tema del mare, interpretandolo in chiave psicoanalitica come un ritorno della madre, de la mère/à la mer (Sombart 1991) – ripercorre alcune vicende storiche e giuridiche della modernità: la lotta per il controllo degli oceani e la conquista di nuovi spazi coloniali, la nascita dello jus publicum europaeum e la sua parabola discendente. Dalla graduale disgregazione di questa Raumordnung secondo Schmitt scaturiva un nuovo “ordinamento spaziale”, che esprimeva un archetipo bellico e imponeva l’adozione di un lessico politico-giuridico specifico per qualificare i conflitti e descrivere la comunità internazionale dopo l’esperienza delle due grandi guerre. 

La scaturigine di queste sue convinzioni fu la Conferenza diplomatica di Nyon nel 1937, sotto l’egida delle potenze anglo-francesi e in assenza di Italia e Germania, che portò a esiti di rilievo, sebbene contraddittori. I partecipanti stabilirono l’illegittimità degli attacchi contro il traffico mercantile, qualificandoli come veri e propri atti di pirateria e legittimando, di conseguenza, la reazione armata delle unità navali degli Stati aderenti all’Accordo (The Nyon Arrangements 1938, 198-208; Goldie 1937, 495-498; Ronzitti 1988, 483-502; Dinstein 1989, 225-248).

L’Accordo di Nyon si collocava in un contesto di evoluzione del diritto bellico marittimo, contribuendo al dibattito sulla regolamentazione della pirateria nel diritto internazionale. Tuttavia, la Conferenza suscitò reazioni critiche, tra cui spiccava anche l’articolo di Schmitt Der Begriff der Piraterie, pubblicato sulla rivista “Völkerbund und Völkerrecht” e subito tradotto in italiano. Già giurista del nazionalsocialismo, e successivamente marginalizzato per dinamiche interne alla NSDAP, egli contestò l’approccio adottato a Nyon (Schmitt [1937] [1938] [1994] 2007). L’interpretazione schmittiana della pirateria come concetto giuridico e politico ha continuato a essere oggetto di riflessione anche nella dottrina contemporanea (Ruschi 2009, 1215-1276).

Secondo le parole di Schmitt, il pirata è una creatura del mare, che ne incarna l’essenza anarchica e imprevedibile; la sua azione si esaurisce nella razzia e nel saccheggio, espressioni di un’esistenza votata alla predazione e al disordine (Schmitt 1942, 42-46). Il predone del mare si configura come una figura non politica, da cui deriva che un’umanità il cui unico nemico fosse im-politico o a-politico sarebbe anch’essa priva di una dimensione politica. Vi era, dunque, una perfetta simmetria tra l’u-topia del mare – inteso come non-luogo sottratto alla sovranità statale – e l’inimicizia incommensurabile che qualificava il pirata. Tuttavia, l’Accordo di Nyon aveva infranto questa equivalenza, trasformando il pirata in un vero e proprio emblema della “questione internazionale”, radicato in uno spazio che non era privo di statualità politica. Tradizionalmente, gli spazi marittimi sottratti al dominio statale costituivano il topos per eccellenza del pirata, il quale non poteva essere ricondotto a un’identità statale o a un’appartenenza politica. La pirateria, infatti, si caratterizzava come attività puramente predatoria e, pertanto, assolutamente im-politica, e il mare costituiva uno spazio de-statualizzato. Così, la repressione della pirateria doveva anch’essa essere intesa in termini non politici: non si configurava come un atto di guerra, bensì come un’azione di giustizia penale o una misura di polizia marittima internazionale, a seconda delle diverse interpretazioni dottrinali. Questo principio consentiva di distinguere il pirata dal partigiano: mentre le azioni dei partiti rivoluzionari, pur non riconosciuti come belligeranti dallo Stato avversario, possedevano una connotazione politica, la pirateria rimaneva un’attività priva di tale dimensione. Questa concezione si inseriva nel più ampio processo di monopolizzazione della forza da parte dello Stato: attribuire al princeps il compito di contrastare la pirateria significava, infatti, conferirgli il potere di determinare chi dovesse essere considerato pirata. In un’epoca dominata dalla “tecnica scatenata e dallo Stato totale”, era ancora concepibile l’esistenza di uno spazio extrastatuale come quello delineato? O non si trattava forse di un’ipotesi irrealistica, soprattutto nel Mediterraneo, divenuto teatro di competizione tra vecchi e nuovi imperialismi? In questa prospettiva, evocare lo spettro della pirateria, come fece la Conferenza di Nyon, costituiva un clamoroso fraintendimento. Un’ambiguità che si protrae sino ai giorni nostri, in cui il rapporto tra spazio, diritto e tecnica continua a rappresentare un filtro concettuale molto importante.

Pirati di allora, Argonauti di oggi

Il diritto si configurava, dunque, come ordine e misura delle terre, mentre i mari rappresentavano un non-luogo di radicale anomia, un dis-ordine in opposizione all’armonia costitutiva della justissima tellus. Il riconoscimento di questa tensione primigenia giocava sulla valenza negativa che, secondo Schmitt, caratterizzava la figura del pirata e la sua appartenenza a un’antropologia altra, emblema di un’esistenza ai margini dell’ordine costituito (Ruschi 2009, 1255). Seguendo questa linea argomentativa, la dicotomia tra terra e mare si traduceva nel contrasto tra cives, pienamente inseriti nel consorzio umano, e pirati (Schmitt [1937] 1938), che si collocavano appunto al di fuori di tale consorzio, communis hostis omnium (per riprendere De Martino 1958).

Questi pirati, tuttavia, non appartengono alla modernità. La pirateria si riferisce a un’epoca anteriore a quella in cui i grandi imperi europei si sono contesi il dominio degli oceani, come è stato messo in luce da vari studiosi. Nell’antichità, la pirateria aveva come obiettivo non solo le altri navi, ma anche gli insediamenti costieri: clamoroso fu il sacco di Ostia, che spinse il Senato ad attribuire a Pompeo poteri del tutto eccezionali per debellare una volta per tutte la pirateria (De Souza 1999, 161-167); essa non era circoscritta a una specifica regione del Mediterraneo, né appannaggio esclusivo di un unico gruppo etnico (Etoli, Cretesi, Cilici, Fenici, Illiri, Tirreni, Mauri e, in epoche successive, Eruli, Vandali e Visigoti…) portando alla formazione di diversi potentati, fino alla costituzione di entità politiche che si radicavano in aree marginali, lontane dalle grandi vie di comunicazione, come l’Illiria, l’Etolia e la Cilicia (Lévêque 2000). Nel tardo Medioevo la pirateria era praticata dagli emarginati, schiavi fuggiaschi, disertori, mercenari privi di paga e di padrone, pescatori ridotti alla miseria e mercanti disposti a oltrepassare i limiti della legalità. I genovesi, i castigliani e i veneziani alternavano il proprio ruolo di commercianti, pirati e contrabbandieri, a seconda delle circostanze e delle convenienze del momento (Papagno 2006, 212-213; Agius, Netton 1997, 283-301).

Il principio della libertà del mare “sanciva qualcosa di molto semplice: che il mare costituisce una zona libera, di libera preda” (“piratae omnium mortalium hostes sunt comune”), un’idea destinata a grande fortuna (Gentili, De Iure Belli libri tres, Hanoviae 1612, I, 4, in Schmitt [1950] 1991, 21ss), ma già nella prima Modernità questa definizione sembrava decisamente svuotarsi di significato: la libertà dei mari era prima di tutto un’opzione giuridica e una scelta strategica. 

I giuristi del Seicento si confrontarono nella celebre “guerra libresca dei cent’anni” per sostenere, da un lato, la libertà dei mari o, dall’altro, la loro territorialità (Nys 1984, 262) – celebre il trattato di Grotius, Mare Liberum, in difesa dell’extraterritorialità dei mari fondata sul concetto di “diritto naturale” che aveva in realtà lo scopo pratico di proteggere i corsari olandesi nelle loro scorribande nello Stretto di Malacca, e quello di John Selden, Mare Clausum, in cui si sosteneva la sovranità inglese sulla fascia di mare attorno alle coste britanniche; sempre nel XVII secolo, una legge inglese sanzionava i pirati, coloro che a titolo personale compivano rapine e ogni crimine, a partire dagli omicidi, in mare aperto e nei porti, fiumi e insenature. Ma l’alterità del pirata, tradizionalmente collocato al di fuori del consorzio umano, tendeva a sfumare sui tavoli della politique politicienne

La repressione del crimen pirateriae e delle imprese predatorie dell’hostis humani generis diventava strumento di eccezione nelle mani del principe (Ruschi 2009), a tutela della societas humani generis. Così, il pirata diventava l’archetipo del nemico dell’umanità; l’intera “sinistra genìa”, comprendente filibustieri, contrabbandieri, bucanieri e, più in generale, tutti coloro che avevano scelto una maritime Existenz, veniva ricondotta a tale stigmatizzazione. Una volta dichiarato pirata, l’individuo era posto hors-la-loi e hors-l’humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi spietati sino all’estrema disumanità (Zolo 2008, XXII). Il pirata, un’immagine costruita a tavolino attraverso una retorica funzionale alla legittimazione di conflitti e degli interventi politici, era la minaccia da estirpare per riaffermare un ordine politico e giuridico stabile (Grewe 2000, 304-312; Da Pozzo 1965, 557-580).

Dunque, cosa ha a che fare tutto ciò con il copyright/diritto d’autore? Cosa c’entra la pirateria? Il copyright e il diritto d’autore (due nozioni contigue non perfettamente sovrapponibili, anche in ragione delle diverse tradizioni giuridiche di Common Law e Civil Law cui si riferiscono) si sono affermati durante il Settecento nella loro configurazione attuale a partire dallo Statuto di Anna, come particolari “esclusive” che accordavano il diritto di copia agli stampatori e, solo indirettamente e successivamente, come meccanismo di tutela degli autori dei contenuti (Izzo 2010). L’evoluzione del concetto di copia e la sua rilevanza giuridica traggono origine da una lunga tradizione filosofica e giuridica che in queste brevi riflessioni non è possibile ripercorrere. Il diritto romano non prevedeva regole sul diritto d’autore (le fonti giuridiche menzionano solo l’ipotesi di scrivere su carta altrui: si rinvia a Bartocci 2009). Tuttavia, già a partire dalle fonti letterarie di Cicerone e Marziale è possibile rintracciare nel richiamo al plagiarius la relazione che ancor’oggi lega l’autore alla sua opera come indice di “paternità letteraria”. Va peraltro ricordato che copiare non è sempre stato illegale. La copiatura ha rappresentato una pratica essenziale per la sopravvivenza dei testi antichi, che dipendeva dal lavoro degli scribi (la sorte della Divina Commedia ne fu segnata e pare che Dante non se ne sia lamentato). Copiare era sinonimo di ricchezza – cui allude evidentemente il termine cornucopia: lat. tardo cornucopia, class. cornu copiae “corno dell’abbondanza, simbolo della fertilità”. Nel periodo medievale la pratica della trascrizione manoscritta a opera di amanuensi negli scriptoria monastici era strumento di salvaguardia e diffusione culturale. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili e la successiva diffusione di opere letterarie sacre e profane (emblematico il caso di Cervantes e le preoccupazioni in Don Chisciotte), si svilupparono le prime lettere patenti concesse dai sovrani – sia in Francia agli imprimeur, come in Inghilterra con i poteri concessi alla Stationers’ Company – agli stampatori, attestanti il loro diritto di riproduzione e, solo successivamente, le esclusive si estesero agli autori offrendo una certa tutela dei contenuti creativi, per un periodo limitato. A partire dal noto Statuto di Anna del 1710, considerato il primo atto legislativo moderno sul copyright – che attribuiva agli autori un diritto esclusivo di sfruttamento economico delle proprie opere dell’ingegno creativo per un tempo pari a 14 anni, rinnovabile una sola volta, e al termine del quale l’oggetto della tutela entrava nel pubblico dominio – gli Stati moderni assumevano il controllo sui libri e sui loro contenuti, esercitando anche poteri censori attraverso gli stessi stampatori.

I successivi interventi che hanno riguardato la disciplina del diritto d’autore a livello internazionale, a partire dalla Convenzione internazionale di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche (1886), fino ai più recenti accordi dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale e agli Accordi TRIPs dell’Organizzazione Mondiale del Commercio cui hanno aderito, a geometria variabile, numerosi Stati, non hanno fatto altro che ricercare un equilibrio affinché questo nuovo mercato potesse prosperare bilanciando la protezione degli interessi dei titolari dei diritti d’autore (e dei diritti connessi) con l’interesse collettivo all’accesso alla conoscenza e alla cultura. Così da un lato, si è assecondata l’esigenza di proteggere le opere frutto del nostro ingegno creativo, garantendone lo sfruttamento economico e, in alcuni ordinamenti, anche i diritti morali, quale incentivo alla creazione di nuove opere (art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e Convenzione di Berna) mentre, dall’altro, si promuovono la cultura, la ricerca e la circolazione della conoscenza (ad esempio, in Italia si veda l’art. 9 della Costituzione, che promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica), un “bene comune” fruibile dalla collettività. Una prospettiva, quest’ultima, che a sua volta ha radici lontane – tra gli scritti di Seneca, le Epistulae Morales ad Lucilium (62-65 d.C.), pur essendo di secoli antecedenti all’affermazione giuridica dei diritti d’autore, anticipano talune istanze contemporanee in materia di accesso libero e condiviso alla conoscenza.

L’approccio italiano si colloca nel quadro appena descritto – Legge 633/1941 e successive modifiche, recante “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”, che ha recepito la normativa europea, a partire dalla Direttiva 2001/29/CE sul diritto d’autore nella società dell’informazione sino alla Direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale.

Esso si fonda sul riconoscimento di un monopolio temporaneo all’autore, di durata piuttosto lunga (70 anni post mortem), con possibilità di sfruttamento economico esclusivo dell’opera e il riconoscimento dei diritti morali: di paternità dell’opera, di integrità, di pentimento e di inedito; la stessa legge poi precisa anche le prerogative dei titolari dei diritti connessi (ad esempio, sulla fotografia “semplice”), e prevede eccezioni e limitazioni a tutela di diritti e libertà fondamentali, tra cui l’istruzione, la ricerca scientifica e la valorizzazione del patrimonio culturale (Pasa 2024).

L’idea di copyleft che si impone in un contesto similmente regolato, quello statunitense a seguito del Digital Millennium Copyright Act (DMCA 1998), si pone come strumento di bilanciamento degli interessi assicurando la protezione giuridica dell’autore, ma vincolandolo anche al mantenimento della libertà di fruizione e modifica dell’opera, in ottemperanza a specifiche clausole contrattuali contenute nelle licenze d’utilizzo (Raymond 2001; Aliprandi 2005). In pratica, il copyleft rappresenta una strategia giuridica che, usando gli stessi meccanismi del diritto d’autore, impone che ogni versione modificata o derivata di un’opera protetta da una licenza copyleft – ad esempio in ambito software, la GNU General Public License, sviluppata da Richard Stallman (1985) e dalla Free Software Foundation – resti soggetta alle medesime condizioni di libertà di utilizzo, riproduzione, modificazione e redistribuzione. Si tratta, dunque, di un’operazione di rovesciamento del copyright tradizionale dentro uno spettro flessibile di “some rights reserved”, oggi diffusa grazie alle licenze Creative Commons, che offrono diverse combinazioni di clausole (attribuzione, non commerciale, condivisione allo stesso modo, ecc.). 

A questo punto entra in gioco la pirateria. Con questo termine si designano, nel linguaggio corrente, le azioni illegali di condivisione di opere protette da diritti d’autore senza autorizzazione, ad esempio tramite software P2P, reti Torrent, come fu nel caso di Napster (1999), e BitTorrent (2001), fino ai più recenti fenomeni di streaming illecito di contenuti protetti da diritto d’autore, per quanto riguarda gli eventi sportivi e, in particolare, le partite di calcio. Infatti, le tecnologie emergenti hanno reso possibile la trasmissione di concerti dal vivo attraverso piattaforme come Facebook, o l’ascolto di brani musicali in streaming mediante playlist condivise all’interno di gruppi d’ascolto privati; inoltre pratiche analoghe si registrano nei Metaversi, anche in concomitanza con la trasmissione degli eventi a pagamento. 

Generalmente tali attività sfuggono al controllo e alle sanzioni imposte dalle autorità nazionali, pur integrando condotte che violano le previsioni contenute nei Codici Penali e nelle leggi speciali in materia di diritto d’autore – in Italia gli artt. 171 e ss. della Legge n. 633/1941 disciplinano le ipotesi di duplicazione e diffusione abusiva, prevedendo sanzioni che vanno dalle pene pecuniarie a quelle detentive. Le pratiche di file sharing non autorizzate possono dunque tradursi in violazioni dei diritti di sfruttamento economico e comportare responsabilità di natura penale poichè gli organizzatori di trasmissioni su siti ‘pirata’ ottengono un duplice vantaggio economico: da un lato, un ritorno diretto dalla vendita di spazi pubblicitari sulle relative pagine web, dall’altro, un guadagno indiretto grazie all’instradamento del traffico online e alla raccolta di dati di navigazione degli utenti. In questo modo, arrecano un danno agli operatori economici che diffondono gli stessi contenuti a pagamento essendo gli utenti sono attratti dalla gratuità ça va sans dire

Esistono, come si diceva sopra, movimenti di pensiero, sviluppi giurisprudenziali e soluzioni contrattuali che mirano a bilanciare queste dinamiche, svolgendo altresì una funzione deflattiva, come ad esempio le licenze open source e quelle Creative Commons, che rappresentano tentativi di mediazione tra sistemi di tutela proprietari, ibridi e aperti. Ma la ricerca di un punto di equilibrio che preservi i diritti esclusivi e, al contempo, favorisca l’accesso aperto alla conoscenza è tutt’altro che agevole. Le sfide poste dal mondo digitale richiedono pertanto un costante adeguamento normativo e interpretativo, volto a garantire sia il mercato delle opere protette, sia il rispetto delle libertà fondamentali sancite a livello costituzionale e internazionale (Baldwin, Woodard 2009), dalla libertà di pensiero e di espressione, al “diritto alla cultura”, di recente enucleazione.

In questo contesto complesso, il ricorso a strumenti sanzionatori ex post, come l’irrogazione di sanzioni pecuniarie, sembra comunque insufficiente a garantire una tutela effettiva del diritto d’autore, mancando di tempestività e rendendo pertanto necessario l’impiego di misure preventive. A tal fine, l’8 agosto 2023 è entrata in vigore in Italia la Legge n. 93/2023, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della diffusione illecita di contenuti tutelati dal diritto d’autore mediante le reti di comunicazione elettronica”. La legge ha lo scopo di rafforzare la tutela del diritto d’autore online anche mediante l’attribuzione di nuovi poteri all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM).

Il Piracy Shield italiano

Ai sensi della citata Legge n. 93/2023, l’AGCOM può emanare un provvedimento cautelare di blocco in tempo reale che impone agli operatori dei servizi del mercato digitale, ai sensi del quadro giuridico europeo – inclusi gli operatori che abilitano l’accesso alla rete – di disabilitare l’accesso a contenuti diffusi illecitamente attraverso il blocco dei nomi di dominio e dell’instradamento del traffico di rete verso indirizzi IP riconducibili ad attività illecite. Tale misura viene notificata immediatamente agli operatori, ai gestori di motori di ricerca e ai prestatori di servizi della società dell’informazione coinvolti nell’accesso e fruizione del sito o del servizio illegale (Franceschelli 2023, 232-244). Di fatto la procedura si articola in questo modo: quando il titolare di un diritto, ad esempio Dazn o la Lega Calcio, individua un sito che trasmette contenuti senza la necessaria autorizzazione, segnala l’indirizzo IP o il Fully Qualified Domain Name (FQDN) incriminato attraverso un’apposita interfaccia sul sito dell’AGCOM, corredando la segnalazione con prove documentali atte a dimostrare la violazione subita. A seguito della segnalazione, entro un termine massimo di 30 minuti, i 309 operatori di servizi Internet che aderiscono alla piattaforma chiamata Piracy Shield hanno l’obbligo di rendere il sito inaccessibile, sostituendolo con una schermata che ne notifica la sospensione. Eventuali ricorsi vengono successivamente esaminati dall’AGCOM, che si occupa di valutare le segnalazioni presentate da coloro che ritengano di essere stati oggetto di un provvedimento ingiustificato. La lotta italiana contro la pirateria digitale ha segnato un nuovo e significativo traguardo con l’ordinanza del 19 dicembre 2024, emanata dal Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di impresa. Il Collegio ha accolto integralmente il reclamo presentato dalla Lega Nazionale Professionisti Serie A (LNPA) nei confronti di Cloudflare Inc. Nel procedimento sono intervenute ad adiuvandum Dazn Ltd, Sky Italia s.r.l. e la Lega Nazionale Professionisti Serie B. Il provvedimento emesso nei confronti di Cloudflare impone una serie di misure restrittive volte a contrastare la pirateria digitale e a tutelare i diritti d’autore. Tra le misure di maggior rilievo rientra l’obbligo di impedire la risoluzione DNS per i domini associati ad attività illecite, al fine di precludere tecnicamente l’accesso degli utenti a tali siti.

Il Tribunale ha inoltre disposto il blocco del reindirizzamento del traffico verso indirizzi IP precedentemente segnalati dall’AGCOM tramite la piattaforma Piracy Shield, nonché la cessazione dell’erogazione di servizi essenziali – quali Content Delivery Network (CDN), DNS autoritativo e reverse proxy – che Cloudflare forniva, agevolando così la diffusione di contenuti protetti dal diritto d’autore in modo illecito. Infine, il provvedimento impone alla società Cloudflare l’obbligo di fornire dati e informazioni dettagliate sull’identità dei clienti che si avvalgono dei suoi servizi per la diffusione di contenuti illeciti. L’adempimento di tale disposizione consentirebbe di identificare i responsabili delle violazioni, rafforzando la cooperazione tra le autorità competenti, i fornitori di servizi e i titolari dei diritti. Il provvedimento del tribunale che riconosce il ruolo di Cloudflare quale intermediario e fornitore di servizi di accesso alla rete (access provider), i cui servizi sono stati utilizzati per agevolare attività illecite di pirateria, rappresenta un passaggio delicato nella strategia di contrasto alla pirateria digitale perché costituisce il primo provvedimento interpretativo della Legge 93/2023 e del funzionamento della piattaforma Piracy Shield. Dopo le ordinanze emesse nei confronti di Cloudflare (ordinanza dell’11 luglio 2022 e ordinanza del 19 dicembre 2024), il Tribunale di Milano ha sancito in modo inequivocabile che anche Google è tenuto a rispettare gli ordini di blocco dei siti pirata. La recente ordinanza contro Google dell’11 marzo 2025 è stata pronunciata nell’ambito di un procedimento avviato dalla Lega Serie A, la quale ha denunciato il mancato rispetto, da parte di Google, degli ordini di blocco dei siti pirata emanati dall’AGCOM. In particolare, il servizio DNS di Google continuava a consentire l’accesso a contenuti già inibiti dalla piattaforma Piracy Shield. Il Tribunale ha stabilito che Google, essendo soggetta alla disciplina del Regolamento europeo sui servizi digitali, può essere destinataria “di provvedimenti adottati in via d’urgenza al fine di contrastare attività illecite svolte dai destinatari dei servizi, laddove il servizio prestato contribuisca causalmente alla violazione del diritto altrui”.

Il Tribunale di Milano ha ritenuto le argomentazioni della Lega Serie A fondate tanto da emettere l’ordinanza senza procedere a un’audizione preliminare di Google, la quale avrà comunque l’opportunità di difendersi nelle prossime udienze. Tuttavia, il messaggio veicolato dalla decisione appare chiaro: nessun soggetto, neppure le grandi multinazionali statunitensi, possono considerarsi al di sopra della legge italiana. Alcuni profili critici sono già stati individuati e segnalati: un primo limite è relativo al fatto che queste misure cautelari sono almeno in parte aggirabili, poichè l’oscuramento dei siti interessati da parte di AGCOM sono efficaci soltanto per chi si connette dall’Italia e pertanto con una VPN gli IP in black-list sono comunque raggiungibili e visibili. Inoltre, questo strumento ha colpito anche siti che con attività illegali non c’entravano (cd falsi positivi), ma erano colpevoli di condividere (o ereditare) gli IP con chi trasmette i contenuti illegalmente. Tra le altre cose, nel marzo del 2024 un pezzo del software di Piracy Shield è stato pubblicato su Github, una piattaforma molto utilizzata dagli sviluppatori per condividere i codici software, rappresentando un problema di sicurezza per la piattaforma AGCOM e per i dati degli utenti (Agenda Digitale 2024). Un ulteriore profilo critico della Piracy Shield italiana riguarda l’idoneità di incidere su diritti e libertà fondamentali – tra cui la libertà di espressione, di manifestazione del pensiero e di iniziativa economica privata – le quali, sebbene garantite attraverso strumenti di controllo e repressione delle condotte illecite e anticoncorrenziali, con il Piracy Shield rischiano di subire limitazioni sproporzionate e talvolta ingiustificate. Questo rischio risulta particolarmente accentuato nei casi in cui l’attività di controllo e la moderazione dei contenuti siano affidate a soggetti privati che operano mediante strumenti automatizzati basati su sistemi algoritmici o di intelligenza artificiale – come avviene appunto nel caso della piattaforma Piracy Shield dell’AGCOM, il cui impiego ha talvolta determinato l’oscuramento automatico di contenuti ritenuti illeciti, ma che, di fatto si inserivano in circuiti di diffusione del tutto legittimi (Lorusso 2024, 205-229). L’esigenza di garantire un’efficace tutela del diritto d’autore, in altre parole, legittimerebbe l’adozione di procedure d’urgenza e l’impiego di strumenti tecnologici avanzati, inclusi algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale, per contrastare la diffusione illecita di contenuti sul web. Ma è davvero ciò che vogliamo? Il T.A.R. Lazio, con la sentenza n. 1223/2024, ha esaminato una vicenda originata dal giudizio volto all’annullamento delle delibere adottate dall’AGCOM, mediante le quali l’Autorità ha modificato il regolamento in materia di tutela del diritto d’autore in ambiente digitale.

Tali delibere prevedono la possibilità, nell’esercizio delle funzioni amministrative, di avvalersi di piattaforme che, attraverso l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale, consentano l’oscuramento automatico dei contenuti illeciti. Il T.A.R ha riconosciuto che l’esercizio dei poteri inibitori da parte dell’AGCOM si configura come compatibile con l’attuale assetto giurisdizionale sanzionatorio, sebbene il controllo sui diritti fondamentali venga, in tal modo, affidato anche a soggetti non pubblici che operano mediante strumenti automatizzati. La sentenza ha omesso però di considerare le garanzie procedimentali necessarie a regolamentare l’impiego di sistemi capaci di sostituire, anche solo parzialmente, il giudizio umano. Ciò ha sollevato interrogativi circa la compatibilità della ‘black box’ che governa la piattaforma Piracy Shield con i principi fondamentali del procedimento amministrativo (Lorusso 2024). In definitiva, il contesto digitale si configura come un sistema complesso, caratterizzato dall’interazione tra poteri pubblici e privati, spesso divergenti nei rispettivi obiettivi. I monopoli intellettuali dei colossi digitali privati e la diffusione di modelli contrattuali di auto-regolazione, attraverso i quali hanno consolidato la propria influenza economica e sociale, testimoniano le difficoltà che incontra il legislatore nazionale o/e l’amministrazione pubblica nel disciplinare fenomeni in continua trasformazione. Questa trasformazione non solo ha ridefinito i confini tra autorialità e accesso aperto (Caso 2023), pirati e legittimi fruitori, ma anche il rapporto tra autorità e libertà, così che i poteri dello Stato si trovano oggi affiancati (talvolta sostituiti) da soggetti privati nell’adempimento di funzioni pubbliche. L’adozione di meccanismi di co-regolazione tra settore pubblico e privato, in linea teorica, può contribuire a ridurre l’asimmetria informativa tra regolatori e regolati, favorendo un’azione più efficace nell’ambito della governance digitale. Tuttavia, sul piano applicativo, così come esistono strumenti di bilanciamento per limitare il potere pubblico, si rende necessario prevedere vincoli e garanzie anche nei confronti dei poteri privati, al fine di prevenire potenziali abusi. L’esperienza giuridica contemporanea dimostra infatti come i diritti e le libertà fondamentali, storicamente tutelati nel rapporto tra cittadino e autorità pubblica, siano sempre più spesso influenzati e, talvolta, compromessi dall’azione dei soggetti privati che operano nel web. Nel caso specifico, sebbene l’AGCOM sia formalmente legittimata all’esercizio di poteri inibitori per la tutela del diritto d’autore online, la delega delle funzioni di vigilanza agli operatori della rete rischia di determinare una disapplicazione dei principi fondamentali che regolano il rapporto tra libertà e autorità. Si delinea, dunque, uno scenario distopico nel quale, allo scopo di perseguire gli “internauti pirati” lo Stato delega funzioni pubbliche rilevanti, come i meccanismi di controllo, prevenzione ed enforcement, a (pochi) soggetti privati, con una conseguente erosione delle garanzie collettive. L’uso di questi nuovi strumenti nelle dovrà trovare opportuno bilanciamento nel principio di legalità sostanziale, come attesta il vivacissimo dibattito dottrinale in corso.

Riflessioni conclusive

Oggi, copiare, modificare e condividere contenuti in ambito audio-visivo è diventato semplicissimo e non sempre tracciabile. Un regime basato su controlli, prevenzione e sanzioni, caratterizzato dall’interazione tra poteri pubblici e privati, ha un’architettura globale complessa e richiede soprattutto la collaborazione degli Stati, non tanto provvedimenti a livello dei singoli ordinamenti. Le persone continueranno a hackerare o piratare, e a procurarsi contenuti seguendo percorsi alternativi (Fisher 2004) nonostante blocchi e scudi (DRM, region lock, tempi di uscita differenziati, piracy shields) fintanto che i prezzi dei contenuti (o l’assenza di alternative ufficiali nei Paesi con infrastrutture tecnologiche poco sviluppate, o con PIL pro capite basso, in cui la “pirateria” può fungere da “compensazione” delle disuguaglianze) non rendono l’alternativa di violare le regole meno appetibile. In alcuni casi si tratta di azioni illegali che violano il diritto d’autore o i diritti connessi, come scaricare o condividere contenuti protetti (musica, film, software, immagini, ebook) senza l’autorizzazione dei detentori dei diritti. In altri casi si tratta di forme di condivisione libera (e non necessariamente for profit), remix, parodie o usi trasformativi di opere protette da copyright che si muovono in un’area opaca di confine tra legalità e illegalità, senza alcun connotato “piratesco”. La questione principale riguarda il bilanciamento di interessi: quello degli utenti, che desiderano accedere a contenuti digitali a costi ragionevoli, e che a loro volta creano contenuti (User-Generated Content, UGC); gli interessi dell’industria creativa (cinema, musica, audio-visivo, editoria, software, videogiochi, ecc.), chi cioè desidera tutelare i propri investimenti e ottenere il giusto compenso per il proprio lavoro (GIPC 2019); gli interessi degli autori, artisti, sviluppatori, che non sempre coincidono con l’industria creativa appena menzionata, ma che possono essere soggetti indipendenti che vivono di (poche) royalties; gli interessi della collettività ad accedere alla conoscenza, alla cultura e all’innovazione, ma senza “distruggere” l’ecosistema produttivo. 

Si potrebbe ipotizzare una semplificazione del regime di eccezioni e limitazioni al diritto d’autore europeo, sino ad accogliere una variante molto aperta del fair use statunitense (Hughes 2012), in particolare, gli usi per fini commerciali, oltre che le tradizionali eccezioni di studio, di ricerca e di valorizzazione della cultura. Un più ampio sostegno ai modelli open come Creative Commons, GNU e altre licenze aperte e, contestualmente, l’uso di nuovi modelli di business, come i sistemi di pay-what-you-want (ad esempio, molti progetti su Bandcamp o itch.io) e di crowdfunding che fidelizzano gli utenti (che pagano volentieri quando sentono di sostenere l’artista) potrebbero contribuire una (almeno parziale) riforma del diritto d’autore. Garantire un accesso più ampio a contenuti culturali e creativi favorisce la crescita delle persone e l’innovazione attraverso la sperimentazione, che ha ricadute positive sulla varietà e sull’originalità dei contenuti, poiché l’industria creativa sarà indotta a rinnovarsi, offrendo prodotti e servizi migliori a prezzi più ragionevoli. Ciò non mette tuttavia al riparo da possibili esiti negativi in quanto molti artisti e piccoli produttori potrebbero non riuscire a sostenersi economicamente e, nel lungo termine, ciò porterebbe a una riduzione della qualità e della diversità dell’offerta culturale (Lanier 2013); inoltre le grandi piattaforme che possono permettersi licenze ampie e tutele legali costose potrebbero diventare ancora più forti, a discapito dei piccoli operatori. Se dunque norme troppo restrittive o troppo permissive possono risultare inapplicabili o finiscono per essere ignorate, norme ambigue vengono a creare un contesto di incertezza ancor più problematico.

Le incertezze sistemiche delineate in queste brevi riflessioni riguardano anche la concreta operatività della piattaforma Piracy Shield dell’AGCOM. Sebbene la dottrina riconosca il valore di un modello basato sulla co-regolazione pubblico/privato, diversi commentatori evidenziano i rischi insiti in un bilanciamento degli interessi in gioco che affidi funzioni tipicamente pubbliche a soggetti privati, senza un’adeguata definizione di limiti e garanzie. Il dibattito giuridico si è focalizzato sulla capacità di tali poteri di incidere su diritti e libertà costituzionalmente garantiti – quali la libertà di espressione e la libertà d’iniziativa economica – e sul loro rapporto con i principi e le normative stabilite dagli Stati e dalle organizzazioni internazionali nelle relazioni sociali ed economiche. Entro tale contesto, anche il quadro normativo europeo mostra criticità. Il pacchetto digitale – pur rappresentando un notevole tentativo del legislatore europeo di rispondere ai rischi di una regolazione esclusivamente privata – non sembra fornire una disciplina che tenga conto dei diversi interessi in gioco. In particolare, rimane irrisolta la questione del ruolo delle tecnologie rispetto ai potenziali conflitti con i diritti fondamentali, come nel caso del Piracy Shield dell’AGCOM, evidenziando la necessità di prestare maggior attenzione alle ipotesi in cui le piattaforme digitali assumono poteri di enforcement privi di adeguati contrappesi e garanzie.

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English abstract

Barbara Pasa investigates the contemporary phenomenon of digital piracy, starting with Carl Schmitt’s political theory. Drawing connections between maritime piracy and today’s digital pirates, the author explores how copyright law, institutional power, and technological control shape access to information. Examples such as Sci-Hub, UbuWeb, and the Guerilla Open Access Manifesto by Aaron Swartz highlight the tension between intellectual property regimes and the ethical imperative to share knowledge. The recent Italian legislation introducing the Piracy Shield system is critically examined as a case of how legal frameworks increasingly reflect monopolistic tendencies in the digital domain.

keywords | Privacy Shield; Copyright; Copyleft; Intellectual Property; Open Access.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Barbara Pasa, Piracy Shield, diritto d’autore e monopoli intellettuali: il caso italiano, “La Rivista di Engramma” n. 222, marzo 2025.