A proposito della mostra patavina "Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento" (e della rivoluzione nella comunicazione del sapere, dai portatiles al web)
Paolo Mastandrea
English abstract
Ciò che nella mostra padovana sul Bembo colpisce anzitutto un visitatore comune è il numero, la ricchezza, l’assortimento degli oggetti offerti nei commisurati spazi di esposizione – il palazzo del Monte di Pietà, reso più ospitale anche grazie ad allestimenti architettonici di ragionevole eleganza.
Lungo l’itinerario, insieme geografico e diacronico (dalla Venezia di fine Quattrocento, al culmine della sua potenza, alla Roma di Paolo III Farnese, passando per le piccole capitali del Rinascimento italiano: Ferrara, Mantova, Urbino), non c’è tempo di riprender fiato: incessanti si susseguono agli occhi del visitatore piccole tele e grandi arazzi dei maggiori artisti, sculture antiche e strumenti musicali, gemme preziose ed oggetti di ogni tipo; compreso uno sbalorditivo reliquiario pagano (di moderna fattura novecentesca) ove si ostenta la chioma di Lucrezia Borgia, amatissima dal futuro cardinale, quasi novella Berenice. La ciocca bionda sta da quattro secoli conservata alla pinacoteca Ambrosiana, e fu persino vittima di “furto amoroso” da parte di Byron.
In aggiunta ai meriti dei curatori della mostra – Guido Beltramini, Davide Gasparotto, Aldolfo Tura – subito evidenti, occorre lodare la (gratuita) “guida vocale” cui anche i visitatori di norma indisciplinati, insofferenti di generalità didascaliche o altri fervorini, si arrendono entro pochi passi, prendendo coscienza della utilità indispensabile di quell’ascolto: e ciò in considerazione della eterogeneità degli argomenti (storico)-artistici, -letterari, -antiquari, -religiosi ecc. da affrontare.
La signorile franchezza che caratterizza il tono di Guido Beltramini, addolcita dalla rassicurante ma non indifferente bonomia impressa alla voce dall’inflessione veneta, racconta un arco di tempo – la vita adulta di Pietro Bembo – che corrisponde ai decenni del primo e del pieno Rinascimento; una storia mista di grandezza e decadenza, di successi gloriosi e sconfitte umilianti: e verrebbero da ripetere le parole che nel capitolo LXIX di Decline and Fall dedicava Gibbon alle vicende di Roma tardomedievale: “ne contempliamo i destini, prima con ammirazione, quindi con pietà, sempre con sollecitudine”. Ma questo riguarda naturalmente l’Italia intera, cui proprio il Bembo – assieme al contemporaneo però meno longevo Machiavelli – offriva le basi teoriche ad una composizione linguistica e politica destinata a realizzarsi almeno tre secoli dopo: accidentalmente, precariamente, fra mille ostacoli mai del tutto rimossi.
Il catalogo, nel mentre descrive lo sfondo evenemenziale e scandisce gli eventi principali allora toccati alla parte dell’Europa che continuava ad esserne l’incontrastata guida in campo artistico e culturale, allude volentieri a palesi analogie col declino dei tempi attuali, nella tensione drammatica di una realtà angusta con cui confliggeva (allora più di oggi, giova dire) il prestigio internazionale riconosciuto ai nostri letterati e artisti, scienziati, uomini d’ingegno e di cultura. Resta inespressa, ma latente, l’indignazione per una verità che tutti i responsabili dicono di conoscere: l’Italia detiene un patrimonio prezioso che ne costituisce il principale titolo di eccellenza fra le nazioni e gli stati; ma le scelte di chi governa, in piena sintonia coi sentimenti della maggioranza che vota, perdono poche occasioni per mostrare ogni mancanza di rispetto verso il passato, cioè verso l’unica forma di “conservazione” di cui si avverta il bisogno.
A distanza di pochi giorni da una visita alla mostra di Padova, si festeggiava a Venezia il 25° anno di vita di una rivista di filologia classica, intitolata Lexis – Poetica, retorica e comunicazione nella tradizione classica; la locandina precisava appunto la fondazione nel 1988, anche per il fatto che questa data coincide casualmente con la nascita di mia figlia, il pensiero si spingeva allora a riflettere come il quarto di secolo appena trascorso avesse prodotto mutamenti straordinari, inattesi, repentini; adattavo alla circostanza un gioco che si applica alla durata in vita di personaggi storici o letterari, e cercavo nel passato quali archi di tempo corrispondenti potessero vantare tale numero di novità addensate nei cinque lustri. Andando a ritroso, sovrapassando la spensierata Belle époque, lo sguardo si fermava all’arco 1788-1813; spontaneamente e quasi necessariamente. Si scontino pure le eventuali oltranze dei pregiudizi ideologici, nessuno vorrà negare che l’attuale fase di riassetto degli equilibri politici del pianeta, con gli scombussolamenti cui ogni giorno è dato assistere, può ben paragonarsi a quanto avvenne tra l’ultima convocazione degli Stati Generali di Francia e le sconfitte militari di Napoleone; se poi uno guarda a Venezia, basti dire che nel 1788 a Palazzo Ducale abitava Paolo Renier, un vegliardo nato nel 1710, laddove all’altezza del 1813 godeva di nuove prospettive su Piazza San Marco un vicerè d’Italia, Eugenio di Beauharnais, che era salito al potere ad appena ventiquattro anni – ma non senza meriti personali. Nel frattempo, letterati come Ugo Foscolo, Vincenzo Cuoco e altre avanguardie politico-culturali spingevano gli esponenti più consapevoli di una neonata 'opinione pubblica' nazionale a muovere i primi passi del processo unitario.
Risalendo più indietro nella storia, qualcosa di altrettanto notevole avvenne solo fra il 1488 e il 1513: a livello globale, in virtù soprattutto delle grandi scoperte geografiche; per l’Italia, col ritorno indesiderato (ma allora non abbastanza, o non da tutti) degli eserciti stranieri; per la città che ospitava il convegno, anche in misura speciale, perché entro quel lasso di tempo, in conseguenza della sconfitta alla Ghiara d’Adda (1509), la Repubblica patì una tale catastrofe da iniziare un declino ineluttabile, e comunque vide dissolversi ogni speranza di espansione ulteriore. A parziale compenso, il sodalizio tra la raffinata cultura di Pietro Bembo e l’operosità sovrumana di Aldo Manuzio portava a una svolta nell’arte della stampa e della tipografia, introdotta solo pochi decenni prima da Johann Gutenberg. I grandi incunabula fatti a immagine dei codici dell’età di mezzo, gremiti di pesanti annotazioni sui margini e insomma destinati ad élites professorali e professionali, lasciavano spazio a volumetti in 8° – i portatiles – dal corsivo modellato sulle calligrafie predilette dagli Umanisti italici, capaci di offrire ai lettori una Divina Commedia, come un De rerum natura, di eleganza e grazia pari alla praticità. La collana dei tascabili Enchiridia, apertasi nel 1501 con testi quali le Cose volgari del Petrarca o le Terze rime di Dante innalzati dalla aristocratica sicurezza del Bembo ai livelli di Virgilio, Orazio ed Omero, diffondeva nel mondo libri privi di commento altrui ma ricchi di spazio per annotazioni personali, agevolati da interpunzione amichevole, rivolti senza ambasce al gratuito piacere di un pubblico adulto e disincantato. Nulla sarebbe stato più come prima.
Solo chi oggi naviga intorno alla quarantina, dunque era già grande al volgere del millennio, può capire come, fra le altre trasformazioni spettacolari ed improvvisi eventi collaterali, gli sia toccato di vivere una tappa cruciale lungo il corso della civiltà in Occidente; per le forme di trasmissione e circolazione delle idee, il testo digitalizzato costituisce una vera e propria svolta; la terza, se contiamo a partire dall’invenzione stessa della scrittura: dopo cioè il passaggio da rotolo a codice nella tarda antichità, e a secoli di distanza l’introduzione dei libri a stampa in luogo dei manoscritti. Si tratta di un’avventura emozionante, coinvolgente, tutta positiva – pure nell’ansia dei tempi (sul tema si veda in Engramma la sezione Internet e Umanesimo). Staremo a vedere se ci attende il buio di secoli di ferro, o la luce di una nuova età moderna. Come sempre, molto dipende da noi.
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Review of the exhibition “Pietro Bembo e l'invenzione del Rinascimento“, held in Padua (Palazzo del Monte di Pietà) from February to May 2013.
keywords | Exhibition; Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento. Da Bellini a Tiziano da Mantegna a Raffaello; Padua; Palazzo del Monte di Pietà.
Per citare questo articolo / To cite this article: P. Mastandrea, A proposito della mostra patavina “Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento”, “La Rivista di Engramma” n. 106, maggio 2013, pp. 100-102 | PDF